8. La nera Cathead

Già da parecchi giorni Thomas si trovava a Cathead. Evita e Paul lo avevano lasciato: avrebbero lavorato per lui, avevano detto. Kingmaker gli inviò un messaggio, intimandogli di ritornare subito a Cosmopoli: era tempo, diceva, che Thomas cominciasse la sua campagna elettorale, o che almeno si lasciasse esibire al popolo.

Thomas gli rispose dicendo che, poiché era in lizza per il posto di medico, intendeva esaminare la natura del male, almeno superficialmente. Aveva già visitato la striscia di Cathead che confinava col Barrio, e alcuni tortuosi sobborghi. Ora, doveva continuare lo studio direttamente sul corpo gigantesco dell’infermo, sulla pazza malattia che stava corrodendo la meravigliosa e razionale Astrobia. Doveva trovare il bandolo della matassa lì, in quella mostruosa, desolante città.

Cathead era anche più grande di Cosmopoli. Aveva una popolazione di venti e più milioni di abitanti. E aveva raggiunto questa cifra in soli vent’anni. Era una manifestazione della miseria umana su scala talmente grande da essere unica nel suo genere. Vista panoramicamente dall’esterno, Cathead si trovava di fronte al Mar di Stoimenof: era collegata sia col Canale Principale, sia col Canale Intercittadino, aveva a sua volta cento canali navigabili, e si trovava al centro di tutte le linee di comunicazione dell’Astrobia civile come un ragno colossale. Aveva un potenziale industriale poderoso e rumoroso, e non faceva niente per nasconderlo, a differenza delle Città Dorate. Era una città rabbiosa, nata dalla povertà più abbietta, in cui tutti i generi di consumo erano prodotti a un costo molto superiore a quello delle Città Dorate.

Era una città chiassosa, al centro d’un immenso frastuono di traffici, ma non produceva niente che non fosse prodotto anche in qualche altra parte di Astrobia, niente che non fosse già presente in abbondanza altrove. Cathead trattava tutti i tipi di prodotti estratti dal mare, perché i mari di Astrobia erano dei vasti serbatoi chimici più ricchi di quelli terrestri. Ma anche le altre città trattavano i prodotti del mare, e senza i metodi ripugnanti usati a Cathead.

Le tecniche industriali impiegate a Cathead erano arcaiche, inumane ed estremamente costose, se si consideravano tra i costi le vite umane e gli anni impiegati. Ed era ironico pensare quanto gli stessi procedimenti fossero economici e puliti, nelle altre città. I primi stadi di alcuni dei procedimenti chimici usati in Cathead erano assolutamente mortali. In queste industrie la gente moriva come mosche, e anche se qualcuno fosse sopravvissuto, la sua vita sarebbe stata un continuo tormento. E nessuno aveva bisogno di Cathead.

Eppure, milioni di cittadini avevano lasciato la Città Dorate di Astrobia, avevano rifiutato ogni consiglio, avevano sfidato ogni minaccia, avevano scavalcato barriere (questo in anni più recenti) rischiando di essere uccisi, pur di abbandonare il piacere che veniva loro offerto nelle Città Dorate, rifugiarsi nella desolata Cathead, e lì soffrire e morire. E il mondo che si erano lasciati dietro le spalle era il più gradevole che mai uomini e macchine fossero stati capaci di edificare. Sembrava un ben misero affare. E questo appunto era l’enigma di Cathead e la malattia di Astrobia.

La gente si stabiliva a Cathead di sua spontanea volontà, e poteva rinunciarvi in qualsiasi momento. La gente che sputava il sangue nei lavori più terribili e nella miseria più nera avrebbe potuto diventare ricca quella sera stessa, se l’avesse desiderato. Ma era gente dura che aveva scelto la schiavitù, e altri seguivano continuamente il loro esempio. Uscivano con le loro barche per il raccolto marino, barche al cui confronto le vecchie chiatte per i rifiuti sembravano navi di lusso. Lavoravano venti ore al giorno, nell’implacabile fragore del mare, e in tre anni di questo lavoro moriva anche il più forte. Le Città Dorate avevano degli impianti automatici per i raccolti marini. I miserabili lavoratori di Cathead perdevano ben presto ogni capacità di coordinazione: balbettavano e inciampavano, ormai incapaci di parlare e di pensare logicamente. I minatori sputavano sangue a secchi e diventavano pazzi nel giro di diciotto mesi. Gli estrattori di ossipirite avevano il lavoro più terribile di tutti, e la loro morte era certa. E il fatto più curioso era l’assoluta mancanza di qualsiasi mercato per il prodotto: esso non aveva alcun uso, e il lavoro dei minatori non veniva pagato in alcun modo. Quegli uomini vendevano i propri figli, o li prendevano a prestito da altri per chiedere l’elemosina; si recavano a lavorare senza essere pagati, coscienti che ne sarebbero usciti storpiati o morti, o che la loro pelle si sarebbe tinta di blu e che sarebbero impazziti. Il prodotto si accumulava, inutile e velenoso, e i cadaveri, prodotto secondario della lavorazione, venivano ammucchiati lì accanto, raggiungendo quasi l’altezza dell’altro mucchio. Eppure, più di mezzo milione di uomini, donne e bambini lavoravano venti ore al giorno estraendo ossipirite, e scommettevano se sarebbe stata la fame o il veleno a ucciderli per primi.

Andando a vedere Cathead dall’interno, e nei suoi particolari, troviamo ad esempio il Castello del Topo. Era alto trentacinque piani e largo centocinquanta metri. Una volta era abitato da venticinquemila persone, ammucchiate l’una sull’altra. Ora c’erano forse ancora i resti di venticinquemila scheletri, e un miliardo di topi. Brulicavano sui muri esterni al punto che era impossibile ormai sapere quale fosse il vero colore di quell’edificio fatiscente. All’interno i topi formavano un tappeto vivente, spesso un metro, e ricoprivano ogni parete come una tappezzeria viva. Facevano delle sortite, fuori dal Castello del Topo, uccidendo e divorando migliaia di bambini, e perfino donne e uomini adulti, ricoprendoli di un manto divoratore e lasciando solo le ossa. Penetravano all’interno degli edifici di legno come un coltello nel burro. Divoravano il cemento come formaggio, indebolendo e facendo crollare interi edifici di muratura. Mangiavano vivi tremila abitanti di Cathead ogni giorno. C’erano più di cento enormi edifici completamente invasi dai topi, ma nessuno come il Castello del Topo.

E allora, perché mai così tanti corpi insepolti in Cathead? Perché tanta carne putrefatta che si gonfiava al calore del sole fin quasi a esplodere? Perché mai tanto fetore, al punto da abbattere al primo respiro tanta gente, anche gli sputasangue di Cathead, capaci di resistere a quasi tutto? Perché mai i topi non si occupavano dei cadaveri?

In verità, i topi lo facevano. I cadaveri rimasti, quelle poche centinaia che si vedevano passeggiando di primo mattino attraverso le viuzze di Cathead, erano i corpi troppo cattivi perfino per i topi. Ci sono veleni e veleni. C’è della carne morta talmente avvelenata che perfino i topi si rifiutano di toccarla.

C’erano i mercatini dei sadici, e qui i fanciulli venivano venduti. Lo stesso Diavolo era fuggito da uno di questi mercati, vomitando, qualche anno prima. C’erano i cacciatori di topi, i macellai di topi, e il mercato dei topi per i mangiatori di topi. L’unico modo di sconfiggere i topi era mangiarli. C’era il giorno della bandiera gialla (di solito il lunedì). Questo significava che la peste si era scatenata un’altra volta in Cathead. Normalmente, faceva le sue vittime e si estingueva in quattro giorni. Poi ricompariva un’altra volta, e la bandiera gialla sventolava di nuovo. La vaccinazione era gratis per tutti, ma pochi, a Cathead, l’accettavano.

C’era Betlehem, che all’inizio era stato un manicomio, per diventare poi una fattoria manicomio, ed era cresciuta al punto da diventare un quartiere manicomio, e ora si estendeva su più di un terzo di Cathead. Otto milioni di persone vivevano nel quartiere di Betlehem. Ciascuna di esse aveva un certo grado di pazzia, ma vivevano (e morivano) più o meno come tutti gli altri cittadini di Cathead.

— Copperhead — disse Thomas, mentre stavano camminando uno accanto all’altro. — Guarda quegli uomini laggiù, che stanno lavorando in quel cantiere. Un buon capomastro ai miei tempi avrebbe fatto molto meglio. Come mai?

— Quando fanno un lavoro disorganizzato soffrono di più. La massima sofferenza è una delle prerogative di Cathead.

— Walter, come mai i corpi vengono lasciati insepolti per le strade?

— Per ricordare che esiste la morte. Se segui il concetto fino in fondo, vedi che questo ti ricorda l’esistenza della vita.

— Copperhead, possibile che non ci sia nessuno sano di mente in tutta Cathead? Perché questa gente non ritorna alla vita dorata di Astrobia?

— Questa è la loro scelta.

— Ma si espande, si espande! Un numero sempre maggiore d’individui lascia ogni giorno il mondo della perfezione.

— Meglio vivere nella miseria che non vivere del tutto.

— Ma c’è la vita, la vita più meravigliosa che ci sia mai stata, nelle Città Dorate. Questi esseri che muoiono così miseramente possono riaverla in un’ora. Perché non lo fanno?. Maledizione, tu stai ridendo!

Thomas parlò ad alcuni degli uomini più influenti di Cathead: Battersea, Shanty. Chiese ad ambedue, un mucchio di volte, per quale ragione si trovassero in quel luogo. Lo guardarono arricciando il naso con disprezzo e risposero con parole enigmatiche, che Thomas non riuscì a capire. Gli voltarono le spalle e sputarono al suolo ogni volta che lui suggerì che gli sputasangue di Cathead dovevano ritornare nell’Astrobia civile.

— Sei pazzo! — gridò Battersea.

— Sei cieco! — gridò Shanty.

— Devo essere davvero pazzo, se ho pensato di potervi parlare! — imprecò Thomas. — Vorrei tanto potervi dire: «Crepate pure nella vostra miseria e accidenti a voi! » Ma si sta espandendo! Sta divorando l’intero pianeta. Giuro che non appena avrò assunto il potere farò radere al suolo ogni singolo mattone, ogni singola pietra di questa città, e distruggerò qualsiasi essere vi si trovi!

— Cieco — disse Shanty.

— Pazzo — disse Battersea.


Thomas si recò da Rimrock, l’ansel, l’unica mente di Cathead per la quale provava rispetto. Lo trovò (affaticato dopo tre giorni di lavoro subacqueo) mentre giocava a fan-tan, la tombola cinese (tutti gli ansel si facevano spellare vivi al fan-tan).

— Caro Thomas — lo salutò Rimrock, — ti sto presentando come il più grande eroe alla gente, agli ansel e a tutte le altre creature di Cathead. Ho dichiarato a tutti, come del resto anche Battersea, che tu sei, naturalmente in questo momento, il più grande sciocco in circolazione. Ma ho anche detto che alla fine della tua vita ci sarà un momento in cui non sarai sciocco. Ho fatto notare che molti individui non dispongono neppure di un singolo momento in cui non siano sciocchi. Contribuisco con ogni mezzo alla tua edificazione.

— Ti giudico meno pazzo degli altri uomini di Cathead, Rimrock — disse Thomas. — Dopo tutto, voi ansel non siete tenuti in molta considerazione nell’Astrobia civile. Voi non avete una vita dorata alla quale potreste ritornare.

— Ne sei sicuro, Thomas? Tu non sei mai vissuto nelle profondità dell’oceano, altrimenti non lo diresti. Anche l’oceano ha una sua perfezione, e io l’ho abbandonato volontariamente per avere qualcosa in cambio.

— Ma perché, Rimrock? Mi sembra che quella che hai lasciato sia una vita completamente libera. Perché scambiarla con la miseria e la schiavitù di Cathead?

— No, Thomas, la vita nelle profondità dell’oceano è molto simile alla vita sulla Dorata Astrobia, perfino troppo. Laggiù perdi l’identità. Sei un pesce del banco, e la tua identità si fonde in quella del banco. Non ho mai rimpianto di essere diventato un uomo, e non ho mai rimpianto di essere diventato un uomo di Cathead. Ma tu mi fai un torto pensando che non abbia rinunciato a nulla per venire qui. lo ho rinunciato a tanto quanto gli altri. Anche se naturalmente è un po’ vergognoso venire pescato e mangiato come un pesce, cosa che mi sarebbe potuta succedere rimanendo com’ero.

Thomas si allontanò disgustato da tutte quelle teste dure di Cathead. Avevano respinto la felicità loro offerta su un piatto d’argento, ogni giorno, e le avevano preferito la miseria e la desolazione. Stavano commettendo un suicidio senza ragione alcuna, o forse soltanto per un puntiglio infantile. E stavano inoltre avvelenando e distruggendo un intero pianeta con la loro follia. Dovevano essere sterminati, come quei topi che essi stessi si rifiutavano di sterminare. Thomas camminò a lungo, immerso in profondi pensieri. Soltanto a vedere quello che lo circondava si sentiva male. Era lui il dottore, e la malattia sembrava follemente appellarsi a lui perché la lasciasse prosperare, anche se questo significava la morte dell’ospite.

— Sarebbe insopportabile che in questi miserabili e in ciò che li accomuna ci fosse qualcosa di valido. Se così è — concluse, — allora è al di là della mia comprensione.

Una povera donna si avvicinò a Thomas e lo toccò, mentre stava camminando in un vicolo fangoso alla periferia di Cathead.

— Tu sarai re per nove giorni, e dopo morirai — bisbigliò la donna, e piangeva sommessamente.

— Non fare di me un Salvatore, strega — borbottò Thomas. — Non ho niente a che fare con tutte queste storie di grandi destini.


Così camminando, Thomas arrivò nei pressi di un piccolo castello medievale, piccolo a confronto dei giganteschi condominii di Cathead.

— Che cos’è quell’edificio laggiù — domandò a un uomo che tossiva. — È un palazzo di esposizione? Un hobby? La residenza di qualche vecchio pazzo? Ci vive qualcuno?

— Nessuno vive là dentro — rispose l’uomo che tossiva. — Là sta morendo il Metropolita di Astrobia.

— Era ora che quel vecchio incartapecorito si decidesse a morire — commentò Thomas.

Bussò alla porta del vecchio nido di cornacchie, ma non ebbe risposta, a parte, forse, un debole lamento e un rantolo, in qualche punto all’interno del castello. Thomas aprì la porta ed entrò. Attraversò la prima e la seconda stanza senza trovare nessuno. Infine arrivò in un’ultima stanza, dove si trovava un vecchio letto cadente sormontato da un baldacchino corroso e stinto.

Un uomo nero, molto vecchio e magro, giaceva sul letto. Si potevano contare tutte le sue ossa: era ridotto a uno scheletro. Un odore fetido lo circondava, e Thomas ne ricavò l’impressione che fosse morto.

Il vecchio uomo nero portava al dito l’anello del pescatore, quell’anello che è portato solo da una persona. Non c’era nessuno ad assisterlo. Questo era il Metropolita (l’ultimo, si diceva), il Papa di Astrobia.

— Sei morto, vero? — gli disse Thomas. — Bene, hai vissuto anche tu la tua vita. Un olandese di mia conoscenza ti avrebbe ritratto mentre giaci nel letto, anche se sembri uno scheletro. Sei sempre un uomo notevole, anche se è rimasto molto poco di te.

Ma il vecchio Metropolita non era morto. Con gli occhi ancora chiusi, cominciò una sorta di canto liturgico molto antico:

Deus, qui beatos martyres tuos Joannem et Thomam, verae fidei et Romanae Ecclesiae principatus propugnatores, inter Anglos suscitasti; eorum mentis ac precibus concede; ut ejusdem fidei professione, unum omnes in Christo efficiamur et simus.

— I tuoi occhi sono chiusi, ma la tua voce è chiara, e sembri riconoscermi — disse Thomas. — Immagino di essere io il Thomam, ma chi è Joannem?

— San John Fisher — spiegò il Metropolita. — Siete stati santificati lo stesso giorno.

— Ah, già, ha perduto la testa sul patibolo quattordici giorni prima che io perdessi la mia, mi dicono. Non ho mai sentito l’orazione della mia messa, prima di oggi.

— Ma, ragazzo mio, chi mai può sentirla, a parte quelli che sono dall’altra parte?

— Non hai seguaci? Non hai nessuno che ti assista?

— Sicuro che ho seguaci, Thomas. Ne ho ancora cinque o sei. Qualcuno di loro viene a darmi un’occhiata ogni tanto. Ho tutto quello di cui ho bisogno.

— Hai da mangiare e da bere?

— Sì, ma non ho uno stomaco che possa accettarli. Sono divorato dal di dentro. Là, nella credenza… versati un buon bicchiere di vino, e versane uno più piccolo per me.

— Riesci ad aprire gli occhi? — gli chiese Thomas, mentre versava il vino.

— Posso sforzare i muscoli, ma non serve. Sono cieco.

— Così, tutto finisce qui? Tu sei l’ultimo?

— No, non sono l’ultimo, Thomas. C’è la promessa. Noi dureremo finché non finirà il mondo.

— Ma tu morirai presto, vecchio.

— Molto presto, Thomas. Trenta ore prima della tua stessa morte.

— Mi ricordi le parole di uno dei miei sostenitori. Parole ora strane e inutili: «Ma noi non siamo il mondo. Noi siamo un mondo diverso, e a noi non è stata fatta alcuna promessa.» Tu che ne dici, caro Metropolita?

— Sciocchezze, sciocchezze — rispose il Metropolita. — Noi abbiamo la Promessa. Ci è stata fatta qui su Astrobia, non molto tempo fa, nella maniera più strana e fiammeggiante che tu possa immaginare. Sappi che Cristo è stato su Astrobia in forma umana in compagnia di sant’Arpionalo e d’altri. Sappi che la Promessa di fuoco è stata fatta, e la fiamma si sta già levando.

— Nei tuoi cinque o sei seguaci?

— In quelli che mi sono vicini, Thomas. Più di cento in tutta Astrobia. La fiamma ritornerà a divampare. Se hai fede, allora anche le pietre e le zolle di Astrobia ti canteranno la Promessa. E se vuoi considerarla tutta una leggenda, almeno impara a conoscere le leggende! Scoprirai che abbiamo più leggende qui su Astrobia che mai sulla Vecchia Terra.

— Dormi, vecchio, tutto è finito.

— Non è mai finito, Thomas, c’è sempre speranza. Tu sei la prova vivente di ciò che non puoi vedere. Tu, piccolo uomo dalla faccia volpina, sei divenuto un santo.

— Come fai a sapere che ho la faccia volpina, se sei cieco?

— Tu sei il cieco, non io. — E il vecchio scheletro scoppiò a ridere. Bevvero il buon vino a parlarono per un poco. Poi un giovane che tossiva entrò per prendersi cura del Metropolita. Era ancora sporco del lavoro.

— Buona giornata, Thomas — disse il giovane. — A volte il vecchio vaneggia e a volte no. Sii paziente con lui.

Thomas si alzò per andarsene.

— Volgi il Tuo sguardo a noi, Signore, e riportaci la vita! — lo benedisse il vecchio Metropolita, con voce piena di speranza.

— E possa il Tuo popolo gioire con Te — gli rispose ritualmente Thomas. Poi se ne andò.

— L’ultimo — disse Thomas tra sé, quando fu nuovamente in strada. — è così che finisce, dunque.

Gli addetti al raccolto marino stavano rientrando con la barca piena di pesce crucco, da tritare per farne farina. Non era un lavoro massacrante, considerato il livello medio di Cathead, ma era un giorno di peste e tre uomini erano morti. Il capitano della barca sfilò gli stivali dai loro piedi (gli stivali dei morti portavano fortuna, ce n’era un vero e proprio mercato) e fece poi rotolare i tre cadaveri in mezzo al pesce con noncuranza, seppellendoli nella massa.

L’acquirente si avvicinò alla barca e controllò la merce. Vide una gamba che sporgeva e indovinò la forma dei tre corpi.

— Pesali insieme al pesce, prendo anche quelli — disse, — ma dovrò darti uno stoimenof d’etain in meno per ogni corpo. Non sono ricchi di fosforo e di zolfo come i pesci, e sono duri da tritare.

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