6. Il pungiglione nella coda

Non c’era niente, sulla Terra, che potesse paragonarsi alle terre incolte di Astrobia, anche se certe giungle terrestri le ricordavano vagamente. La principale difficoltà per un terrestre, e anche per un abitante di Astrobia, dal momento che nessuno saliva mai fin lassù, era d’indovinare dove si trovasse il suolo. In verità non c’era un vero e proprio terreno, niente che potesse essere definito una superficie, una base. Era un prato incolto, oppure stavano procedendo a mezz’altezza tra gli alberi?

Ma c’erano veramente, gli alberi? Non si poteva dire che questo fosse un albero, e quello un altro albero: non erano individui, ma un’unica, immensa creatura. Era come dire: questa è erba, ma anche quella è erba… Erano incredibilmente aggrovigliati gli uni agli altri, e anche se qualche volta, nel folto, qualcuno avesse tentato di calarsi abbastanza in basso nell’oscurità, non avrebbe trovato il suolo, ma piuttosto l’acqua. E anche raggiunta l’acqua, avrebbe potuto scendere ancora per decine e decine di metri attraverso le radici e i germogli, senza mai trovare il fondo, ma soltanto una vegetazione talmente fitta da impedire un’ulteriore discesa.

Eppure il gruppo riusciva ad avanzare, balzando su e giù, prima su una superficie liscia come un tappeto, poi scivolando lungo uno scheletro verdeggiante che sembrava composto di traversine, a volte costeggiando grandi pozze pensili costruite dai «kastroidi». Alcune di queste pozze si estendevano per più di un ettaro, erano molto profonde e la loro superficie era sempre increspata, sia per il grande numero di creature che le abitavano, sia per l’elasticità dei supporti.

— Ora andrò avanti a modo mio — disse Rimrock, l’ansel, — ma ci rivedremo di nuovo questa notte. E più tardi c’incontreremo sulla montagna.

L’ansel scomparve in una pozza profonda, forse viaggiò sott’acqua per tutto il percorso attraverso il groviglio delle radici. Nessuno metteva in dubbio che avrebbe fatto molto più presto del resto del gruppo.

— Anch’io andrò avanti a modo mio — disse Walter Copperhead, il negromante. — Vi sono delle domande che devo fare ai boschi e alla montagna, e quelli non rispondono quando altri sono presenti. Inoltre, vi vedrò molte volte, prima che arriviate ai grandi fulmini. Quando ucciderete il diavolo, io sarò là. Ho già esaminato le sue budella stese al suolo, ma non ne ho ancora risolto tutti i misteri. Ci proverò di nuovo.

Walter Copperhead si allontanò da loro a grandi balzi, come una capra, sulle cime degli alberi.

— è un tipo singolare — osservò Thomas. — non sono molto sicuro che a un cristiano sia lecito associarsi a lui.

— Non sono molto sicuro che ti creda ancora un cristiano — commentò Paul.

— Che cosa sono quelle cose che saltano? — gridò Thomas, saltando lui stesso la risposta che avrebbe dovuto dare a Paul. Si riferiva alle creature che in quel momento procedevano a balzelloni tutt’intorno a loro. — Hanno taglie da quella di un topo a quella di una pecora, ma sembrano tutte della stessa specie.

— Non so niente di queste cose — disse Scrivener.

— Neanch’io, di certo — Slider gli fece eco. — Le cose che abitano nelle zone incolte sono oscene per tutte le persone civili. Noi le classifichiamo allo stesso livello degli escrementi.

— Non c’è amore per le bellezze della natura, tra le genti civili di Astrobia — ribatté Maxwell. — Queste cose sono perfino meno reali delle creature che compaiono nei nostri sogni, dubito che abbiano un nome.

— Sono buone da mangiare — disse Evita. — La gente le mangiava ancora quand’ero bambina; io stessa le ho mangiate, non molto tempo fa.

— Sono lepri pellegrine — fece Paul.

— Grazie — replicò Thomas, — ricevere una risposta su Astrobia è un fatto nuovo e inaspettato.

Quelle lepri erano curiose creature saltellanti: molte erano grandi come un grosso coniglio, alcune anche più grandi, altre meno. Saltavano indiscriminatamente nelle pozze, sott’acqua, oppure sulle cime degli alberi più alti, con grande precisione; oppure passavano attraverso cespugli talmente fitti che anche un serpente si sarebbe trovato in difficoltà. Erano molto veloci: né Thomas né Paul riuscirono ad agguantarne qualcuna.

— Col pesce crucco e il bue vagante, la lepre è il principale cibo delle zone incolte — spiegò Paul. — Tutti si cibano di essi, o di ciò che si ciba di essi. Così i luporrendi, le pantere cinghiale e l’idra. Perfino gli uccelli si nutrono di esse, e così tutti gli altri predatori.

— Tutti questi animali devono essere assai simili a quelli della Terra — osservò Thomas.

— No, Thomas. Soltanto i nomi sono simili a quelli della Terra — rispose Paul, quasi con venerazione. — Sulla Terra non esistono animali simili a quelli che ci circondano. Siamo dei pazzi, sai, a fermarci qui. Scrivener e quelli come lui hanno ragione: un essere raziocinante non dovrebbe trovarsi qui. Conosco una roccia a picco, lontana non più di una mezza giornata di cammino, con migliaia di scheletri umani appesi ad arbusti spinosi. I roc volano giù e uccidono la gente per divertirsi: poi trascinano i cadaveri fin lassù e li lasciano appesi come avvertimento. Sulla maggior parte di quelle ossa ci sono ancora brandelli di carne annerita. Tu mi hai raccontato che ai tuoi tempi la gente uccideva i lupi e li appendeva ai pali delle staccionate, come un avvertimento per gli altri lupi. Qui è lo stesso. Si dice anche che Re Roc paga una taglia per ogni uomo ucciso appeso lassù.

— Sono pronto a scommettere che un bue del Middlesex riuscirebbe a sconfiggere qualsiasi animale di queste pozzanghere — disse Thomas in tono di sfida.

— Thomas, un luporrendo potrebbe fare un sol boccone della testa e dei corni di un bue terrestre, e divorare il resto del corpo con altri due — gli garanti Paul. — Il leone giallo può fare lo stesso col bue vagante, che è molto più grosso di quello terrestre. E il leone giallo adora la carne umana, non si limita a crocifiggere le sue prede lungo le pareti degli strapiombi, come fanno i roc. L’idra può inghiottire qualunque essere acquatico, in uno, o al massimo in due bocconi, ed è capace, per afferrare la preda tra i denti, di compiere balzi di dieci metri fuori dell’acqua. Si narra che una abbia fatto un solo boccone di sei uomini seduti a parecchi metri dalla riva.

«Inoltre, Thomas, la pantera cinghiale uccide e mangia il luporrendo, il leone giallo, il roc e la stessa idra. E intorno a noi, da ogni parte, ci sono almeno altre venti creature che possono fare a pezzi un uomo a mangiarlo.»

— Sono pronto a scommettere che un buon cacciatore potrebbe vivere meravigliosamente in questo luogo — disse Thomas. — Tu mi hai descritto un’incredibile abbondanza di selvaggina. La vita qui sarebbe intensa e piena di soddisfazioni.

— Io ho vissuto qui come cacciatore — replicò Paul. — Ci sono ancora poche migliaia di cacciatori su Astrobia. Ho vissuto con loro per qualche mese, quando dovevo nascondermi. Sì, la vita quassù è intensa. Le soddisfazioni sono inafferrabili, ma per certa gente sono tutto. Tuttavia quelli che si dedicano alla caccia non arrivano mai alla vecchiaia… anche se sono uomini che hanno qualcosa che li distingue, un sapore tutto particolare. Immagino che anche il leone giallo sia della stessa idea…

— Oh, Astrobia, il tuo sale non ha ancora perduto il suo sapore! — gridò Thomas. — Non è stupendo? Avevo l’impressione che, nonostante le sue meraviglie, la civile Astrobia fosse un po’ insipida. Ma non è così. Qui c’è tutto il sale di cui abbiamo bisogno. Qui c’è abbastanza lievito per far crescere la pagnotta. Dobbiamo soltanto garantirci che, questa volta, le dosi siano giuste!

— Non vorrai dire che Astrobia deve esporsi ancora di più ai pericoli di queste terre dimenticate! — esclamò Scrivener. — Sono orrori peggiori della morte. Devono restare nascosti per sempre.

— Ma — chiese Thomas, — siamo armati? Sembra che nessuno ci abbia pensato… Devo essere sempre io quello che pensa per tutti?

— Io sono sempre armato — disse Paul. — Ho con me un coltello a lama corta, l’unica arma che un cacciatore delle zone incolte si degna di usare. E credo che anche Maxwell sia armato: anche lui ha fatto il cacciatore, in qualcuna delle sue vite.

— Anch’io sono armata — fece Evita. — La qui presente donna bambina era una cacciatrice; molto tempo fa, più di quanto voi possiate credere. Non certo per difendere me stessa, visto che posso sempre stregare gli animali. Per difendere il nostro Thomas, il Santo.

Discesero per parecchi metri sotto le cime degli alberi, e raggiunsero quello che si poteva quasi definire un terreno solido, anche se crepe capricciose tradivano la verde tenebra irta di radici dell’abisso sottostante.

— Dovrebbe esserci almeno una creatura capace di vivere in quest’oscurità verde — osservò Thomas. — Sesto Empirico diceva che ogni ambiente deve avere il suo genius loci. Ma uno spirito che si adatti a questo verde sottosuolo dev’essere ben strano.

— Non dirmi strano, caro Thomas — disse una voce verdeggiante. — Sono certo che Sesto Empirico parlava di me, e anche di te. Anche tu sei uno spirito, ma un uomo non si considera mai sotto questo aspetto. Un uomo crede di essere tale, quando viene allevato dagli esseri umani.

La voce verdeggiante proveniva da un monaco che indossava la tonaca verde dell’ordine di sant’Arpionaio. Era nero (e tuttavia c’era una sfumatura verde cupo nel suo nero) e ammiccava verso di loro, sogghignando. Tutti lo fissarono, stupiti del modo in cui era comparso tra loro, come dal nulla.

— Liberaci da luporrendi, pantere e cose programmate — li benedisse il monaco. — Queste ultime vi stanno inseguendo, lo sapete? Sono le più difficili da scoprire: non hanno odore.

— Cosa ci fa un bravo monaco nei boschi malsani di Astrobia? — gli chiese Thomas.

— Santa Cathead, sto pescando, naturalmente! Ma cosa ci fa della brava gente come voi in un posto simile? Mi ricordate un’epopea della Vecchia Terra, Pollicin del bosco. Pollicino siete voi. Quanto a me, io sono padre Oddopter delle Tonache Verdi, ma adesso mi accorgo che non siete affatto delle normali persone perbene. C’è Maxwell, l’incarnazione che brucia corpi uno dietro l’altro, e noi preghiamo per lui. C’è l’Evita bambina, archetipo dei sogni lascivi d’ogni religioso, ed è lei a pregare per noi. è la protagonista di tutte le leggende delle terre incolte. C’è Paul, che conosciamo bene. Morirà in una missione di cui non conoscerà mai lo scopo. E ci sei tu, Thomas, incredulo come l’apostolo di cui porti il nome. Sei risorto, ma porti su di te un doppio segno. Lo Spirito Santo ha scelto strumenti ben strani. A volte mi chiedo se non sia impazzito. E ci sono gli altri due: l’uomo nulla, e quello ancor meno di nulla.

— Quale dei due sono io? — domandò Slider, sorridendo amaro.

— Oh, tu sei l’uomo nulla. L’altro è ancora meno di nulla. Come? Diventa rosso dalla rabbia? Com’è difficile accettare la semplice verità!

Scrivener stava veramente diventando paonazzo dalla rabbia.

— Cosa stai pescando di speciale, padre Oddopter? — chiese Thomas More, il risorto che portava su di sé un doppio segno.

— Vedrai — rispose il monaco.

E gli avvenimenti presero a snocciolarsi fitti fitti come corvi. Avevate dubitato del colore degli occhi di Evita, che sembravano ora verdi, ora grigi? Adesso erano verdi, verdi, del luminoso verde dell’attesa.

Il monaco si arrotolò una corda intorno al polso e maneggiò un arpione lungo un metro. Scrutò la superficie verde dell’acqua con occhi verdeneri circondati di rughe. Poi si tuffò sulla preda, completamente vestito, con un volo possente nell’acqua verdeggiante. Vi fu un’improvvisa turbolenza. Una lotta titanica si scatenò sott’acqua: una forza incredibile che si dibatteva per spezzare qualcosa di molto pesante.

La tonaca verde riaffiorò; con una sola spinta si issò sulla piattaforma di radici. Tirò la corda, e nel far questo le mani e i polsi gli si ingrossarono in modo così terrificante che sembrava impossibile appartenessero a lui. L’acqua era torbida e insanguinata; quando la cosa affiorò, il monaco la tirò fuori dall’acqua per metà.

Era qualcosa di grasso, a forma di disco, nero e tremolante, e un terzo della sua circonferenza era costellato di denti rabbiosi. Pesava almeno un quintale e mezzo, e avrebbe potuto spezzare in due il corpo di un uomo.

— Mi definivo un pescatore, sulla Vecchia Terra — esclamò Thomas, con ammirazione, — ma nella mia vita non ho mai catturato un pesce così grande. Accidenti, non basta vedere per credere!

— Thomas, Thomas — lo rimproverò il monaco, — questa è solo la mosca che si raccoglie col palmo, per usarla sull’amo. Questo non è il pesce, è l’esca.

Il monaco infilzò altri tre arpioni nella creatura, che ancora si dibatteva stridendo. Adesso c’era qualcosa d’altro, laggiù, nelle profondità dell’acqua: immense ali, che sembravano raccogliersi per balzare in alto. Le più grandi ali mai viste. Il monaco assicurò i cavi degli arpioni a numerosi grossi rami e radici. L’esca colossale, per tre quarti immersa, ancora si dibatteva.

Poi il monaco balzò a cavalcioni sulla sua esca e la squartò con un colpo preciso del coltello. Il sangue uscì a fiotti dal corpo, un torrente rosso cupo che schizzò in tutte le direzioni, esalando un odore inebriante d’acciaio marziale e di rami scortecciati: l’odore del campo di battaglia.

Attraverso un potente organo, ancora immerso, la creatura continuava a ruggire rabbiosamente, facendo tremare l’acqua e l’aria. Il monaco si mantenne in sella e colpi ancora il corpo semiaffondato, mettendo a repentaglio braccia e gambe, e la stessa vita.

— Diavolaccio, sali e muori! Guarda chi ti aspetta fuori! — Evita stava intonando questa specie di canzoncina infantile, ma nei suoi occhi verdi c’era il fuoco antico di un vulcano acceso da un miliardo di anni.

— Presto! — gridò Paul, — sta risalendo con la velocità del fulmine!

— Lo so, lo so — mormorò il monaco. — Santa Cathead, sale in fretta, ma l’ultimo istante è il migliore.

— Diavolaccio, alza la testa! Prendi Evita come esca! — continuava a intonare la bambina selvaggia, ma i suoi occhi erano vitrei, come in un attacco isterico.

Il monaco saltò via dalla sua esca moribonda proprio all’ultimo istante. L’immensa cosa schizzò in superficie e piombò sull’esca: una tonnellata di muscolatura massiccia inghiottì in un sol boccone la creatura incatenata, tentacoli lunghi trenta metri si agitarono alla cieca alla ricerca di altra preda, l’enorme occhio al centro saettò uno sguardo omicida, livido di rabbia. Era il Demonio! La maggior parte del suo corpo uscì dall’acqua a causa della spinta possente che l’aveva precipitato in superficie. Fu soltanto questione di un attimo, ma molte cose accaddero in quell’attimo fulmineo, non ultimo un vero fulmine scagliato dall’immensa creatura, una scarica simile a una corona abbagliante.

Era l’idra, e aveva abboccato all’esca.

— Ora! — rintoccò il monaco, con voce simile alle campane della torre di San Lo, che si trova sott’acqua.

— Ora! — gracidò Paul, rumoreggiando come una rana infuriata.

— Ora! — cantò Evita, con la voce di un gong incrostato di verde. Avevano gridato insieme, e l’istante era sempre lo stesso.

In tre, furono addosso all’idra, ancora prima che ripiombasse nell’acqua con fragore di tuono. Colpirono con pugnali a forma di serpente l’occhio dell’idra e il cervello dietro di esso, con fretta febbrile, prima che i tremendi tentacoli riuscissero ad avvinghiarli e a strapparli via. Una battaglia isterica, una sfida rimbombante di tuoni, alte grida di trionfo.

L’idra schizzava e rumoreggiava in un’agonia clamorosa che riecheggiava da un capo all’altro delle terre incolte, e le sue urla trapassavano gli uccelli più piccoli, uccidendoli. Sprofondò nell’acqua, con un immenso fragore, dall’altezza alla quale il suo balzo l’aveva portata, e i tre assalitori non mollarono la presa ma continuarono a colpirla con le tre lame, con furia crescente e folle.

L’idra urlò ancora sott’acqua, e risalì alla superficie.

I giganteschi tentacoli sferzavano lo spazio tutt’intorno, contorcendosi, ma non avevano più la forza iniziale. Il monaco, Paul ed Evita avevano trapassato il gigantesco occhio e raggiunto il cervello, proseguendo senza sosta la furiosa azione dei loro coltelli. Evita aveva immerso la testa e buona parte del corpo in quell’occhio gigantesco, e il suo canto usciva dalla cavità: — Diavolaccio scoppia e tuona! Questo colpo non perdona! — La voce ultraterrena d’una bimba folle.

L’idra demonio continuò a lamentarsi con urla che riecheggiavano nell’intera regione.

E poi morì.


— Ehi, ma quanto ho appena visto è una recitazione allegorica… — dichiarò Thomas, che ancora vibrava nel turbine delle emozioni di coloro che lo circondavano. Stava scegliendo accuratamente le parole, nel tentativo di minimizzare quello che aveva visto.

— Partecipa, Thomas, non ti ritrarre — gridò il monaco, spiccando un nuovo balzo verso la piattaforma di radici che era quasi un terreno solido. — Lasciati trascinare anche tu. Sei stato spesso a teatro, a Londra, ma non hai mai assistito a una recitazione ruggente e sublime come questa. Un uomo non riuscirebbe a farlo due volte nello stesso giorno. Un corpo robusto può resistere, ma le emozioni potrebbero uccidere.

— Non era vero — si ostinò Thomas. — Non poteva essere vero. è stata soltanto una grande illusione. Ma guardate il povero Paul: è ridotto agli sgoccioli, ha gli occhi stralunati come un mezzo morto, riesce a malapena a risalire sulla riva, le gambe non lo tengono. Cosa vuol dire tutto ciò, padre Oddopter? Qual è la sua sostanza autentica?

— Ma è l’uccisione del Demonio, caro Thomas. Il Demonio dev’essere nuovamente ucciso ogni giorno. Se ciò non fosse, allora i nostri giorni sarebbero giunti alla fine. Cosa ne dici? È molto grosso, oggi, non trovi? Ma non sempre è un’idra, sai? A volte é un luporrendo, altre volte una pantera cinghiale in calore. Il Demonio assume molte forme, ma dobbiamo ucciderlo ogni giorno, per chiarirne i limiti.

— C’è ancora speranza per il nostro caro Thomas — ansimò Paul, ritornando dal profondo mondo delle ombre a un altro mondo un po’ meno profondo. — Non ti è affatto dispiaciuto lo spettacolo, Thomas. Anche tu ti sei lasciato trascinare dall’esaltazione, come noi, nonostante che tu cerchi di negarlo. La Dorata Astrobia non si è ancora completamente impadronita di te con le sue sterili lusinghe. T’infiacchisci e ti conformi, e sembra che esse abbiano il sopravvento. Ma quanto è ora successo leverà alto il suo segno, prima che tu t’infiacchisca senza rimedio. Questo sangue sia la tua benedizione, Thomas!

— Siete tutti degli sciocchi — brontolò Thomas, scosso, e tuttavia inebriato dall’odore del sangue. — È contro natura e satanico quanto è avvenuto qui, e voi ne gioite! E la donna bambina, si è ammattita del tutto?

— è posseduta — disse il monaco. Evita era quasi completamente scomparsa nel cavernoso cervello dell’idra demonio. Se ne stava gioiosamente saziando.

— Si è già accompagnata al Demonio quando questi ha assunto altre forme — dichiarò il monaco. — C’è una strana tensione, fatta di odio, tra i due. Non ho mai partecipato all’uccisione di un mostro demonio in compagnia della bambina, prima d’oggi, ma ne ho sentito parlare. A volte diventa una vera selvaggia.

— Ma voi credete nell’esistenza del Demonio, qui nelle terre incolte? — chiese Thomas, mentre Evita incominciava a uscire dal mostro.

— Che strano tipo sei, Thomas! — esclamò padre Oddopter, stupito. — Ci hai visto con i tuoi occhi mentre uccidevamo il Demonio, e ci chiedi se esiste! Non credi forse ai tuoi occhi? Pensi che questa sia una creatura come tutte le altre?

— Non è come tutte le altre, questo è certo — disse Thomas, in tono poco convinto, come se stesse difendendo una causa persa in tribunale, — ma, per definizione, essa rientra nell’ordine dei fenomeni naturali, dal momento che un altro ordine di fenomeni non esiste.

— Thomas, Thomas, non puoi vincere in questo gioco, neppure quando ti fai le regole da solo.

— Posso capire che un ignorante, un superstizioso…

— No, no, caro Thomas. Guarda! Scrivener l’ignorante e Slider il superstizioso sono rimasti sbalorditi dalla violenza della cosa, e tremano ancora. Ma non ci credono.

«Maxwell, l’ignorante a metà, trema anche lui, ma ci crede soltanto per metà. Noi che invece sappiamo, crediamo in quello che vediamo e che sentiamo: cioè di avere attirato il Demonio fuori della sua tana e di averlo ucciso. Tu non ci credi? »

— Io non ci credo — dichiarò Thomas, ma non si sentiva del tutto tranquillo. — Vi dedicate a svaghi dissennati: è solo un piacere violento, sanguinario, estremamente pericoloso.

Evita era finalmente riemersa dall’occhio del mostro, luccicante di sangue, e aveva tra le braccia una parte del cervello del Demonio. Aveva i capelli scompigliati e gli occhi di una pazza.

E poi, in un attimo, sembrò che nulla le fosse accaduto. La violenta passione che l’agitava scomparve, e niente sembrò più possederla, tutto con la stessa facilità con cui sarebbe balzata giù da un albero. Ammiccò a Thomas e scoppiò in una risata squillante.

— Avevo in mente di sedurti in un modo diverso — disse, con voce soffocata, — ma adesso ho deciso di sedurre la tua mente e le tue convinzioni. Carnalmente, ti brucerei troppo presto e farei friggere tutto il tuo grasso, Thomas. E insieme al grasso, il tuo cervello. Ahimè! Un saggio troppo ignorante per credere nel Demonio!


Non fate mai le cervella di Demonio? Dovreste farle, ne vale la pena. Paul e il monaco si occuparono di cucinarle. Le avvolsero in una palla di fango e le adagiarono su un fuoco scoppiettante, subito acceso ed estremamente caldo, di viticci oleosi. Questi bruciarono sviluppando un calore tremendo e una nuvola di fumo soffocante, a causa dell’acqua contenuta in essi, che sfrigolava nell’olio. Il tutto emanava una luce simile a quella del sodio. Lasciarono che il cervello si arrostisse per un’ora, poi la palla di fango si spaccò di colpo con un tonfo simile a un’esplosione. C’era nell’aria un odore di zolfo. Tutto era pronto.


In questi casi, una pietanza vi piace o non vi piace.

Scrivener e Slider non vollero saperne.

Maxwell dovette fare uno sforzo di volontà: — Dopo tutto — si disse, — sono solo cervella di pesce. Il resto sono scherzi della gente ignorante di questi luoghi. — Ma a mano a mano che mangiava trovava le cervella sempre più appetitose.

Thomas le assaggiò di cattivo umore, e solo per curiosità. Ma subito le trovò deliziose e le definì uno dei piatti più squisiti e saporiti di tutti i tempi. E le cervella ben presto furono parte di lui. Ah, lo zolfo e il sale gli sarebbero serviti quando per lui fosse venuta l’ora cruciale. Mangiando il cervello di quel suo nemico, avrebbe sempre avuto un certo controllo su di lui.

Le cervella d’idra si potevano anche assaggiare in alcuni locali alla moda di Cosmopoli, ma costavano cinquanta stoimenof d’or al chilogrammo. Il prezzo era alto, laggiù, e la qualità delle cervella era bassa; qualcosa del vecchio Diavolo si perdeva sempre, nel trasporto e nella preparazione.

Qui, invece, erano nelle loro condizioni migliori, mangiate fresche, chilogrammo dopo chilogrammo, fino a saziarsene. Non c’era bisogno di condimenti. Il sale e lo zolfo c’erano già dentro.


Chi ride? Chi ride? Solo un negromante può ridere così. Era Walter Copperhead che usciva dalla giungla, con occhi soltanto per l’idra. Lui aveva saputo, naturalmente, l’ora e il luogo esatti dove l’idra sarebbe stata uccisa. Avrebbe potuto estrarne le budella, tentando di risolvere i suoi enigmi, come un antico aruspice.

E infatti lo era.

Si fabbricò una specie di carrucola con le liane della giungla, curvando rami e tendendo arbusti. Lavorò finché non riuscì a sollevare il mostro e a togliergli le budella. Gli altri componenti del gruppo si allontanarono di qualche passo e lo lasciarono solo con i visceri fumanti del mostro. Quello che Walter Copperhead doveva fare, era una questione privata.


S’incamminarono di nuovo dopo aver passato un’ora o due in una di quelle piacevoli conversazioni che seguono sempre un buon pasto. Padre Oddopter dalla tonaca verde li segui. Non aveva una dimora fissa: era una regola del suo ordine, quella appunto di non appoggiare mai la testa nello stesso luogo per due notti di seguito. Incontrarono altri cacciatori e altri pescatori. Incontrarono anche un gruppo che stava tirando fuori dall’acqua e uccidendo degli ansel. Questo lasciò Thomas perplesso.

Rimrock, l’ansel, possedeva un intelletto e quindi era umano. Ma quegli ansel, Thomas se ne accorse subito, erano sprovvisti d’intelletto, e non erano affatto umani. Nella pratica la differenza era assai evidente, ma in teoria non lo era affatto. Thomas fu sorpreso di non provare alcuna ripugnanza nel constatare che venivano uccisi. E neppure esitò, poi, a mangiarne dei pezzi tagliati di fresco che gli furono offerti.

Perciò, era perplesso.

— C’è una domanda che non so come formulare — disse infine, rivolto a Paul. — Rimrock, l’ansel, mangerebbe carne di ansel?

— Lo farebbe e lo ha già fatto — rispose Paul. — Ma non ci va pazzo. Dice che il sapore non è poi gran che. Un ansel non ha bisogno di carne di ansel nella sua dieta. Ma non prova ripugnanza a mangiarne. E un ansel che abbia superato un certo stadio diventa una creatura completamente diversa da un ansel primitivo. Non so come faccia ad assumere queste nuove caratteristiche immateriali, ma tutti gli animali si accorgono della differenza. Un luporrendo, per esempio, può mangiare un ansel primitivo con facilità, come mangerebbe una lepre pellegrina. Mangerebbe anche un ansel trasfigurato, o anche un uomo; ma proverebbe ripugnanza a farlo. C’è differenza tra una preda naturale e una trascendente, e i divoratori di carne lo sanno. è risaputo che tutti gli animali rimangono turbati dopo aver divorato un uomo, e Rimrock, sotto questo aspetto, è un uomo.

— Gli aspetti teologici della cosa sono impossibili — dichiarò il monaco. — Non è possibile che una creatura, già nel pieno della sua esistenza, riceva a un certo istante un’anima e un’intelligenza. Tuttavia è proprio quello che sembra accadere ad alcuni ansel eccezionali. Ho parlato col vostro amico Rimrock proprio oggi. L’avevo visto pochi minuti prima d’incontrarmi con voi.


Si rimisero in cammino. Le montagne avevano un aspetto molto più maestoso, così incombenti. Viaggiarono per tutto il pomeriggio, sempre inseguiti dagli Assassini programmati, e al tramonto arrivarono a Goslar, la città imperiale salica.


(Qui, una rapida storia.)

Gli imperatori salici avevano avuto origine sotto forma di una confraternita di universitari underground, a Wu Town. Certi giovani che si credevano particolarmente audaci organizzarono una rivolta, metà per spirito dottrinario, metà per burla, ma nell’insieme del tutto disorganizzata, contro la dorata mediocrità di Astrobia e l’umanistico sogno planetario. Molti di questi giovani, allora (due secoli prima della nostra vicenda) fondarono la piccola città di Goslar, e la chiamarono capitale imperiale. Alcune famiglie di cacciatori presto contribuirono ad aumentare la popolazione, poiché Goslar si trovava giusto al centro dei territori selvaggi. In questo punto, infatti, le Paludi Desolate, le Foreste Piovose e le Savane s’incontravano, ai piedi del Monte Elettrico, il primo tra i pinnacoli più elevati di quella catena.

Goslar contava adesso un centinaio di abitanti, e possedeva un grande edificio, una sorta di gigantesca baracca che fungeva da osteria, palazzo reale, albergo, e centro del commercio delle pelli.

Sin dalla sua fondazione, un imperatore salico aveva sempre risieduto a Goslar. L’attuale imperatore era Carlo Seicentododicesimo: questo perché nessun imperatore aveva regnato per più di un anno. Molti erano rimasti sul trono meno di un mese.

Gli Assassini programmati si erano subito votati al programma di distruggere qualsiasi imperatore in carica. Abbiamo già descritto questi Assassini come gli spazzini più perfetti, il non plus ultra della polizia, i più devoti guardiani dell’Ideale di Astrobia. Essi eliminavano qualsiasi cosa che si presentasse come un ostacolo a quell’ideale. Erano stati costruiti per questo, si erano riprodotti e avevano continuato a seguire le direttive originarie. Sul petto di ogni Assassino programmato era inciso il motto Non ho tradito l’Ideale.

Le sonde sensoriali di questi Assassini non lasciavano spazio a errori, ed erano inesorabili. Qualsiasi cosa minacciasse l’Ideale di Astrobia era loro nemica, ed essi l’avrebbero inseguita fino in fondo per cancellarla. Non avevano fallito una sola volta, anche se alcuni individui più furbi degli altri erano riusciti a eludere le loro ricerche per anni.

Quando però un ricercato si arrendeva, essi percepivano il cambiamento. Se abbandonava l’eresia e accettava l’Ideale di Astrobia, anche soltanto nel silenzio della sua mente, la caccia cessava. Gli Assassini programmati potevano anche essere distrutti, certo. Ma nel preciso istante in cui uno di essi era distrutto, un altro veniva creato in un centro lontano, e gli veniva data la stessa missione del suo predecessore.

Avevano perseguitato e ucciso gli imperatori salici, come appunto stavano perseguitando (e avrebbero infine ucciso) ogni membro del gruppo di Thomas More che giudicavano pericoloso. Ma c’era una caratteristica, nel modo di successione degli imperatori salici, che li accomunava alla razza degli Assassini programmati: in qualsiasi momento un imperatore regnante fosse stato ucciso, veniva creato istantaneamente il suo successore. Non appena venuti a conoscenza della sua morte attraverso un sistema niente affatto ortodosso di comunicazioni (in molti casi, addirittura qualche ora prima che accadesse) i salici dell’Università di Wu Town tenevano subito un conclave, giorno o notte che fosse, e sceglievano un nuovo imperatore nel giro di pochi minuti. Il nuovo imperatore s’incamminava immediatamente a piedi verso la selvaggia Goslar, dove arrivava nel giro di dieci ore, senza alcuna preparazione, o assistenti, o denaro, o cibo, o abiti di riserva. Egli viaggiava servendosi unicamente del suo intuito, dal momento che Goslar non è segnata su alcuna carta e il nuovo imperatore non vi era mai stato prima di allora.

Così la dinastia sì perpetuava.

Carlo 612 era sul trono da meno di venti ore quando il gruppo di Thomas arrivò. Egli era giunto nel colmo dell’oscurità della notte precedente, ed era stato incoronato da un cacciatore d’uccelli muto dalla nascita.

(Questa è la storia, anche se è andata un po’ per le lunghe.)


Carlo 612 aveva soltanto diciott’anni, ed era un giovane dagli occhi sbalorditi e dal sorriso spaventato. Ma comprese subito chi erano i componenti del gruppo, ancora prima che il gruppo stesso arrivasse. Come imperatore, era dotato di speciali poteri di comprensione. Accennò al gruppo dei visitatori di entrare nella grande baracca, poi indicò un’ampia parete alla quale appoggiare l’equipaggiamento, e un angolo dove ammucchiare la paglia per i loro letti, perché questo non era soltanto il palazzo reale, ma anche una locanda.

Evita gettò più di cinquanta chilogrammi di carne d’idra demonio nel grande calderone che ribolliva al centro della sala. Aveva portato quel pezzo di carne che pesava più di lei, insieme a molte altre cose, attraverso un terreno estremamente accidentato. Era forte come un mulo.

Poi l’imperatore Carlo cominciò a dare ordini, com’era suo diritto e dovere:

— Maxwell, Slider, il prete Oddopter, Paul, Thomas e la bambina demonio possono dormire tutti qui — disse l’imperatore. Non si erano ancora presentati, ma lui era l’Imperatore e aveva il dono di sapere ogni cosa di quelle persone. Inoltre, Rimrock era arrivato prima di loro, aveva fornito a Carlo i nomi e una descrizione di tutti i componenti del gruppo. — Scrivener, invece, no — continuò l’imperatore. — Lui non potrà usare la sala comune. Dev’essere alloggiato nel box delle macchine; li riceverà il cibo. Non è una persona.

— Cosa sei, un Programmato, Scrivener? — gli chiese Thomas. — Non lo sapevo.

— Non so neppure io la risposta — si lamentò Scrivener. — Lo sospettavo, e c’è una leggenda nella nostra famiglia che parla di antenati programmati. Ma a chi mai dovrebbe importare? Non c’è più nessuna differenza tra i Programmati e le persone normali. Vorrei proprio non essermi mai unito a questa disgraziata spedizione, e non intendo essere trattato come un inferiore!

— Io sono l’Imperatore e conosco queste cose — ribatté l’imperatore ragazzo Carlo 612. — Scrivener è una macchina e perciò alloggerà nel box delle macchine. Non facciamo una montagna di un granello di sabbia. Fatto sta che le definizioni hanno perduto il loro valore, su Astrobia, e uno dei doveri di un imperatore salico è quello di restaurarle e di chiarirle.

— Thomas, usa la tua autorità e non assoggettarti a questo pagliaccio! — gridò Scrivener. — Tu sei un uomo importante e io sono un membro del tuo gruppo!

— Ho già avuto i miei problemi con i sovrani in un altro luogo — disse Thomas, — e la mia regola è di non contraddirli mai nelle piccole cose: è già abbastanza difficile farlo nelle grandi. Non interferisco mai con un sovrano nelle faccende di minore importanza. E tu sei di minore importanza, Scrivener.

Così, Scrivener fu costretto a dirigersi, con la furia in corpo, verso il suo alloggio nel box delle macchine.


Carlo 612 stava lustrando il teschio di Carlo 611, l’imperatore ucciso il giorno prima dagli Assassini programmati. Il cranio era stato in parte fracassato dal colpo mortale, e il Carlo attuale doveva maneggiarlo con delicatezza. Adoperava un impasto di creta bianca e tentava d’incollare le schegge più grandi. Evita entrò e cominciò a sistemare anche i frammenti più piccoli, ripulendoli abilmente dalle incrostazioni di sangue vecchie di un giorno.

— Sei di sangue blu, bambina demonio? — le domandò il giovane imperatore, stupito. Sembrava più giovane di lui, e se la leggenda di Evita era vera anche solo in parte, ciò era impossibile. — Tutti quegli scaffali rigurgitanti di teschi lungo la parete si rivolterebbero, se un solo frammento venisse toccato da mani plebee. Invece sembrano tutti felici nella loro nicchia. Cosa? cosa? Tu eri la consorte di uno di loro? E quel teschio cerca di cantarti una canzone, come meglio può cantarla un teschio…

«Ma ce ne sono più d’uno che vogliono farti la serenata! Tu devi essere molto vecchia! Molto vecchia! Vedo che Carlo 112 si agita per te. Tu sei Stefania, la regina dagli occhi verdi! Ma Carlo 205 sta anche lui scampanellando, agitandosi nella sua nicchia. Per cui, tu sei anche la regina Brigida ! E Carlo 315 è felice perché tu sei qui. Tu sei allora la regina Candy Mae ! Com’è possibile che tu sia tutte loro? Io ti ho chiamata bambina demonio e con ragione. Ma loro, invece, ti amano tutti! »

— Vorrei che fosse vero — disse Evita. — Ma avrai anche notato che Carlo 313 ha girato la faccia al muro. Povero Carlo! è stato tutto un equivoco, Carlo, proprio così. Ed eccone altri due che schiamazzano, non certo di felicità. Sono stata tante volte una buona regina, e altrettante volte sono stata una regina cattiva. Ritorno spesso a Goslar, a rinnovare me stessa. Sono stata un mucchio di regine.

— E allora devi esserlo ancora una volta! — pianse Carlo. — Il prete Oddopter ci sposerà subito.

— Oh, no, i miei giorni come regina sono finiti. Sto impegnando tutta me stessa in questa avventura con Thomas e lo seguirò per parecchi mesi, finché il mio impegno cesserà con la sua morte. Dubito che tu sarai ancora vivo a quell’epoca, Carlo, comunque verrò a controllare.

I teschi erano uno spettacolo imponente nelle loro nicchie, lungo la rozza parete. Non tutti i seicentoundici si trovavano li. In realtà ce n’erano tredici di meno, e le loro nicchie vuote spiccavano. Questi erano gli imperatori precipitati dalle vette più alte in abissi profondi, o bruciati al punto che neppure le ossa erano state recuperate, o morti in qualche altro modo maciullante per mano degli Assassini programmati. Ma la stragrande maggioranza era lì: la biblioteca memonica dell’epopea orale della grande dinastia.

— Più di uno, tra voi che siete giunti qui, è un taibhse — disse Carlo. — Io sono Imperatore e perciò ho l’intuito di queste cose. Maxwell abbandona dietro di sé dei corpi, e Thomas, invece, delle teste. Evita è vissuta troppo a lungo per essere così giovane, e questo è il caso che mi riesce più incomprensibile. Come ti è possibile, bambina dal cuore tenebroso?

— Non ti hanno insegnato nulla all’Università, Carlo, ragazzo mio? — gli chiese Evita. — Da più di duecento anni è possibile prolungare la vita, su Astrobia. Dicono che la cosa non sia stata ancora provata in via definitiva, ma negli ultimi duecento anni hanno compiuto un mucchio di esperimenti, e io sono uno di questi esperimenti. Ma chi vuole vivere così a lungo? ci si chiede. Nove persone su dieci, su Astrobia, chiedono di essere eliminate molto prima che la loro vita normale sia giunta al termine. Trovano che la vita li stanca troppo… Il cosiddetto popolo dorato! Al diavolo, io no di certo. Più si porta all’estremo la perfezione, più questa perfezione ci sazia. Ho detto a Thomas, il Santo, che è questo, e non Cathead, o il Barrio, o la ribellione nelle terre incolte, il male di Astrobia. La gente è talmente esausta di vivere in un mondo perfetto, che chiede di essere eliminata, ogni anno, a un’età più giovane. Molti lo chiedono quando sono ancora fanciulli. Cosa c’è di perfetto in una vita che la gente si rifiuta sempre più di vivere?

— Ho dimenticato la tua leggenda, bambina demonio — disse l’imperatore Carlo, — anche se sono sicuro di averla imparata quando ho studiato le leggende di Astrobia, a scuola. Non c’è forse una frase, nella tua leggenda, che dice «Andare all’inferno dentro un cesto? »

— Sì, c’è infatti, Carlo, ragazzo mio. Avevo dei metodi ingenui, e dirigevo la mia rivolta su obiettivi ingenui — dichiarò Evita. — I miei maestri dicevano che l’inferno non esisteva, e neppure il Demonio, e questo mi faceva arrabbiare. Sapevo che si sbagliavano: avevo una certa conoscenza personale di entrambi. Dicevano che non esisteva il peccato. In particolare affermavano che i fanciulli erano incapaci di commettere peccati mortali, e sapevo che in questo si sbagliavano peccaminosamente.

«Perciò decisi di andare all’inferno, per dimostrare che si sbagliavano. Decisi di trovare il Demonio. Quello che incontrai per primo fu il vecchio scienziato demoniaco delle leggende, un uomo artificioso al punto di essere una caricatura di se stesso. E tuttavia era un vero scienziato e un vero figlio del Demonio. Mi associai a lui, mi donò la lunga vita e mi introdusse ad alcuni aspetti del male. Fui uno dei primi esperimenti di longevità che diedero dei risultati positivi. È necessaria una tremenda energia psichica e fisica, perché la cosa funzioni, e io la possedevo. A quell’epoca pensavo che lui fosse il Demonio in persona, e che io fossi Faustia, che aveva stretto un patto col Demonio.

«Bene, lui conosceva perfettamente la sua biologia, e mi diede quello che volevo. Oggi, non c’è più una grande richiesta. “Eterna giovinezza? E chi se ne fa niente?” dicono ridendo. Ma io volli averla, e la voglio ancora oggi. L’ho avuta per secoli… Ah, Thomas, il Santo, e gli altri sorridono, loro non credono alla mia leggenda. Non crederebbero a una leggenda neppure se la vedessero in carne ed ossa, di fronte a sé.»

— Passerotto, tu non hai ancora vent’anni — esclamò Thomas.

— Caro Thomas, ne ho più di duecento — ribatté Evita. — Bene, ho commesso tutti gli abominii che erano di moda al tempo della mia ricerca dell’inferno. Ho goduto della fornicazione, dell’orgoglio, della perfidia, del disprezzo intellettuale. Ma non ho trovato subito l’inferno.

«C’è un’altra leggenda che narra di un ragazzo che girò tutto il mondo per trovare la sua casa. E la prima volta che la vide, subito la riconobbe. È a me che è successo: ho trovato l’inferno. La Dorata Astrobia, il suo Ideale sono l’inferno. L’inferno non mi piace, non mi piacerà mai, ma esiste! »

— Ma la Dorata Astrobia è perfetta, mia cara donna bambina — insisté Thomas. — È l’insieme di tutte le perfezioni divenute un’unica perfezione.

— Sicuro che lo è, mio caro Thomas. L’hanno confezionata in un elegante pacchetto, annodandolo con un nastro dorato. Ero stata ingannata da insegnanti bugiardi che usano certe parole soltanto per significare il contrario, Thomas, e lo sei stato anche tu: dovresti essere abbastanza intelligente per capirlo. Bene, lascia pure che usino le parole che vogliono e nel modo che vogliono! Lascia pure che chiamino le cose come loro aggrada di più. Se Cathead e il Barrio sono l’inferno, allora io sono per l’inferno, finché non ne troverò un altro ancora migliore! Ma non sono pronta ad accettare un inferno così definitivo come l’Ideale della Dorata Astrobia. È una stretta mortale! Spegne via le anime con un soffio come tante candele messe in fila!

C’erano file di candele, lì nell’immensa baracca, o per lo meno dovevano essere pezzi di grasso a forma di candela, lì nella grande stanza dove potevano dormire anche venti persone, e che era palazzo reale, osteria, e centro per il commercio delle pelli, e le candele ogni tanto si spegnevano, perché c’erano molte fessure e fuori s’era alzato il vento.

Un uomo entrò.

— Gli spettri sono di cattivo umore questa notte, Imperatore — annunciò l’uomo. — Hanno appena divorato tutta la carne di mia moglie, lasciando solo le ossa.

— Bene, sto lavorando a un incantesimo regale da usare contro di essi, ma non ha ancora una forma definitiva — disse l’imperatore Carlo 612. — Si afferma che i teschi dei vecchi imperatori dovrebbero darmi l’ispirazione, ma fino a questo momento ne ho ricavato soltanto un mucchio d’informazioni sconnesse. Immagino che per questa notte dovremo lasciarli con il loro cattivo umore, gli spettri.

— A dire il vero, sono quasi contento che se ne sia andata — fece l’uomo, afferrando nel calderone un pezzo di carne dell’idra demonio con una forchetta di legno. — Ma finirò per sentirne la mancanza. Ci azzuffavano spesso, ma non c’era nessuno con cui ci si azzuffasse così bene. Adesso non mi è rimasto nessuno.

— Che cosa sono mai questi spettri? — domandò Thomas, affondando anche lui la forchetta nel calderone per tirar fuori pezzi di carne del demonio. Poi, anche tutti gli altri infilarono le forchette nel calderone e cominciarono a mangiare.

— Gli spettri assomigliano ai taibhse — disse padre Oddopter dal profondo della sua tonaca verde. — Poiché tu sei uno di loro, Thomas, dovresti sapere di che cosa si tratta, almeno in parte. Sono degli animali, o delle creature, o degli esseri strappati al loro ambiente naturale e costretti a vagare altrove. Per la maggior parte del tempo sono invisibili, e anche nelle loro manifestazioni più concrete essi rimangono sempre trasparenti, o almeno un po’ traslucidi, come te stesso al lume di candela.

— Ma esistono davvero? — chiese ancora Thomas. — Oppure sono soltanto storie d’ignoranti?

— Sono reali. E molti di loro sono profondamente irritati di trovarsi in un luogo estraneo. Pensi che la storia di un ignorante sia in grado di divorare la carne di una persona, lasciando solo le ossa? — ribatté il monaco. — Be’… forse anche questo è possibile. Tutto è possibile. Degli spettri, o come altro li vuoi chiamare, si può solo dire che esistono. Una volta avevano un posto nella storia naturale di Astrobia. Ora non più. Ma queste creature hanno una mente superiore a quella degli animali, più o meno al livello dell’uomo. Hanno un corpo, per quanto fragile e mutevole. Sono stati visti, toccati e uditi. Hanno ucciso e sono stati uccisi. In quel calderone ha bollito anche la loro carne, ma è diventata vapore e si è dissolta nel nulla, lasciando soltanto un vago odore. Hanno città e villaggi. Spesso non si avvicinano alle abitazioni degli uomini (forse è vero che si possono tenere lontani con un incantesimo), ma a volte vengono e divorano la carne, tutta la carne di un essere umano, in un attimo.

— Vedo che nelle zone selvagge di Astrobia regna ancora la superstizione — disse Thomas.

— Sì, penso proprio di sì — rispose il monaco. — L’energia psichica, la libido, regna incontrastata quaggiù, almeno a quanto mi risulta. Una volta, credo, era così anche sulla Vecchia Terra, e sopravvisse più a lungo in Africa, e ad Haiti. Tu dimentichi che il controllo della natura, su questo pianeta, è cosa recente. Le zone incolte sono le riserve d’energia di Astrobia. Sono importanti per regolare il tempo, per fertilizzare la terra, per l’acqua e per l’energia prodotta dall’acqua, e anche per l’energia che proviene dal sole. Credo che siano anche le riserve dell’energia psichica di Astrobia, anche se gli esseri umani che vi abitano sono poche migliaia, contro i miliardi dell’Astrobia «civile». Sì, Thomas, qui la superstizione è molto forte.

«Se tre persone, non più, delle terre selvagge immaginano una cosa con sufficiente convinzione (per quanto essa sia mostruosa), esse sono in grado di farla diventare realtà. Possono creare un corpo per la cosa che immaginano, e questo corpo sarà abitato da certi spiriti incorporei che vagano nelle vicinanze. L’ho visto fare. E ho anche fornito il mio aiuto. Quando i bambini delle terre incolte giocano ai mostri, essi creano dei veri mostri, visibili, fetidi. E a volte il mostro divora i suoi creatori.

«Sì, qui si trovano le persone e le bestie più improbabili, gli spiriti e i mezzi spiriti, puri e meno puri; gli archetipi dei sogni collettivi; tutti vivono qui, e spesso esistono in carne e ossa. Qui la superstizione, la credenza nell’incredibile o nell’inesistente, esiste sotto forma di cose irsute e pungenti che lasciano impronte e segni di zanna. Qualsiasi pensiero, o accenno di pensiero, che la razionale Astrobia giudica folle e cancella dalla sua mente, qui riemerge e prende corpo. C’è un uomo, qui da noi, che alleva, ingrassa e uccide per profitto una creatura nata dagli incubi più orrendi della Dorata Astrobia. Espulsa dalle città grazie alla terapia di gruppo, essa è riemersa quaggiù come una realtà fisica.»

— Padre, padre, ma dove hai messo il cervello? — lo rimproverò Thomas. — Vedo che dovrò imporre una quarantena molto più severa a queste regioni, se mai diventerò il Presidente di Astrobia.

— E io ti dico, Thomas, che in realtà la parte civile di Astrobia non ha alcuna importanza — disse il monaco. — è un sottile fungo dorato che cresce su una porzione della crosta di questo pianeta. Se questa sfera antichissima e irsuta dovesse dare un brivido, una sola volta, più bruscamente del solito, la dorata civiltà di Astrobia sarebbe immediatamente distrutta. Sia benedetta questa carne! è buona.

— Sarà un atto di carità, sterminare tutte le persone che vivono nell’ignoranza più nera in queste terre selvagge, e io mi assicurerò che sia fatto — dichiarò Thomas. — È vero, questa carne è proprio buona.

— Ti troverai in difficoltà con gli ecologi, se proporrai lo sterminio della popolazione delle terre incolte — gli fece osservare l’imperatore Carlo. — Le migliaia di uomini che abitano queste terre selvagge di Astrobia sono parte integrante dell’ecologia del pianeta. Se saranno distrutti, l’equilibrio tra la vita animale e quella vegetale sarà spezzato, il grande serbatoio dal quale dipende la parte civile di Astrobia cambierà struttura e forse sarà rovinato per sempre. Gli scienziati non vogliono che accada questo. Essi dicono che noi dobbiamo vivere qui, nel numero che riusciamo a viverci. Ma noi non siamo considerati esseri umani. Per loro, siamo molto più simili agli animali, bestie tra bestie; praticamente, dipendiamo dal Ministero per la Protezione della Natura!

— Per tutte le volpi, gli argomenti che regalo al bugliolo sono più solidi di quelli che voi mettete in tavola in un’intera notte di chiacchiere! — esclamò a questo punto Thomas, rosso in viso. — Anzi, devo farlo subito. Mi scuso, ma devo andare al vespasiano… o forse lo chiamate il carlo, qui da voi, imperatore?

— Chiamalo pure come vuoi, Thomas — disse il giovane imperatore. E ammiccò a Evita, quasi una scintilla scoccata tra i due. Thomas se ne accorse.

— Non vedo cosa ci sia da ridere — interloquì, ancora più arrabbiato. — Forse che un onest’uomo non può andare al vespasiano senza essere preso in giro?

— Niente, niente. Solo che c’è un certo cittadino di Goslar che si guadagna da vivere in modo alquanto inusitato… — spiegò l’imperatore. — è un’arte che si tramanda di padre in figlio. Tra poco ti sentiremo alzare la voce, caro Thomas.

Thomas uscì perplesso, alla volta del vespasiano.


L’uomo che aveva perduto la moglie (eccettuate le ossa) entrò portando con sé un barilotto colmo di verdelampo.

— Amava tanto inebriarsi con questo — disse l’uomo, — e non le serve più, ora. Questa notte berremo alla moglie che ho perduto (eccettuate le ossa), e tesseremo i suoi elogi, se saremo capaci di trovare qualche motivo per tesserne. Io non so se ci riuscirò, ma alcuni di voi sono più in gamba di me nell’uso delle parole. Mi piaceva, ma non riesco a ricordarne nulla che valga la pena di venire elogiato.

— A tua moglie, eccettuate le ossa! — intonò Evita, e sollevò il barile nelle braccia robuste trangugiando dallo zampillo qualche sorsata.

L’imperatore Carlo la imitò e così fecero Paul e padre Oddopter dalla tonaca verde. Maxwell e Slider, invece, non riuscirono a sollevare il barile a un’altezza sufficiente, e perciò furono esclusi.

Nessun altro? Olà, olà! Basta attaccarsi a un barile, ed ecco che tutti si precipitano. Walter Copperhead il negromante e Rimrock l’ansel entravano nella stanza in quell’istante e si precipitarono verso il barile. Copperhead l’alzò quasi al soffitto e ne trangugiò un’incredibile quantità. Rimrock l’afferrò in un modo che sarebbe sembrato goffo in un uomo, ma che col suo corpo da pesce fu invece agile e disinvolto, e a sua volta gorgogliò soddisfatto.

— Dove siete stati voi due? — chiese Paul.

— Ad assassinare gli Assassini — ribatté Copperhead, eccitato. — Nessuno di voi sarebbe vivo questa notte se non fosse per noi. Siete troppo distratti quando viaggiate.

— Son sempre dell’idea che bere, come fate voi, sia una cosa da barbari — borbottò Slider, offeso perché era escluso dal festino a causa della sua inettitudine. — Nella civile Astrobia il semplice tocco di un elettrodo, o la puntura di un ago elettrico, basterebbe a produrre un effetto molto superiore, la luce dorata! Siete dei maiali, da ingozzarvi dì sostanze intossicanti, direttamente?

— Silenzio, mezza cartuccia — intimò l’imperatore Carlo, e alzò la mano. — Stiamo ascoltando.

Si udì la voce rabbiosa di Thomas giungere dal vespasiano, dietro la baracca reale. Si avvertivano secoli di rabbia nelle furiose invettive che Thomas stava scagliando contro qualcuno.

Evita, l’imperatore Carlo, il monaco e l’uomo che aveva perduto la moglie (eccettuate le ossa) scoppiarono a ridere convulsamente. Anche la risata caprina di Copperhead era superba, e il riso primordiale dell’oceanico Rimrock dilagava al di là di ogni umana comprensione.

— Cosa succede? — chiese Paul. — Detesto venir lasciato all’oscuro!

— Paul, è quel certo cittadino di Goslar che si guadagna da vivere in modo alquanto inusitato — stridette il monaco, nel tentativo di dominare le risa, mentre i ruggiti collerici di Thomas crescevano d’intensità. — Siede sul vaso giorno e notte. E c’è soltanto un vaso pubblico in tutta la città di Goslar. Non si sposta finché uno non gli porge una moneta. Percosse e minacce non lo smuovono. Soltanto una moneta. Senti il caro Thomas! La rabbia gli dà una bella voce stentorea! Ma il cittadino di Goslar ha il coltello dalla parte del manico.

— Oh, smettila, Rimrock! — disse Evita. — Ti spezzerai in due, continuando a ridere così.

— Che paese! — sospirò Paul, con il suo solito sogghigno truce. — Sarei quasi tentato di dare ragione a Thomas, quando afferma che dovrebbe essergli imposta una quarantena molto più severa. Tuttavia, qui c’è una specie di genialità in tutte le cose. Non credo di aver mai incontrato nulla di simile in tutta la civile Astrobia.

La voce rabbiosa di Thomas era diventata un mugolio amaro. E dopo qualche istante Thomas ritornò nella stanza, paonazzo in volto.

— Nessuno ha per caso uno stoimenof d’etain? — domandò, impassibile.

Paul si affrettò a darglielo. Era una moneta di peltro dal valore assai piccolo nell’Astrobia civile, ma evidentemente era valuta pregiata nelle terre incolte. Thomas usci nuovamente.

Si presume, a questo punto, che abbia offerto la moneta a quel certo cittadino di Goslar, che gli sia stato consentito libero accesso, e che si sia liberato del suo peso. Ad ogni modo, quando ritornò nella grande stanza era del tutto rasserenato, ma rimaneva un po’ sulle sue, come per scoraggiare gli altri dal prolungare lo scherzo.

— Tutto questo mi ricorda qualcosa — sorrise Thomas. Il suo sorriso, però, era alquanto distorto, come quello di Paul, e la sua voce aveva un tono brusco. — Mi ricorda qualcosa per cui non trovo il nome. Credo ancora che l’Ideale della Dorata Astrobia sia perfetto, e che le irregolarità incontrate nelle terre incolte siano delle mostruosità molto al di sotto del livello umano. Tuttavia, non sarebbe male, forse, interrompere la dorata perfezione per cinque minuti al giorno, per rinfrescare le anime. Si, proprio così, ne sono convinto.

Thomas riuscì facilmente a sollevare il barile e a saziarsi, e questo lo ammansì alquanto. Il verdelampo è quanto di meglio, quando la dorata perfezione non è a portata di mano.

Evita raccontò la storia del diavolo e della massaia, del ricordino che lei si prese con un coltello affilato, e della ragione per cui il detto «rimanere come il diavolo» significa possedere soltanto metà degli attributi normali.

Il monaco raccontò la storia della creatura spaziale che veniva da Gootz, la quale, arrivata in quello stesso albergo di Goslar, si era accovacciata in mezzo al pavimento. Così pensarono che si trattasse di una grande forma di cacio, e la tagliarono in cento fette, e ogni cittadino di Goslar mangiò la sua. La creatura di Gootz ancor oggi fa patire le pene dell’inferno a tutti: non può ricostruire il suo corpo e si rifiuta di uscire da essi. Per questo tutti i cittadini di Goslar hanno quell’aria verdolina sul viso.

L’imperatore Carlo 612 ne raccontò un’altra. Walter Copperhead raccontò quella del tizio che corteggiava una donna perché voleva esaminarne le budella. — Poi te le rimetto — diceva. — Te le ricucio esattamente dove sono, ma fammele vedere, almeno una volta. — No, no e poi no — ribatteva la donna. — Credevo di averle sentite tutte dai miei spasimanti!

Paul raccontò la sua. L’uomo che aveva perduto la moglie (eccettuate le ossa) ne raccontò una anche lui. E Thomas si esibì in tutta una serie di storielle facete, citando le parti oscene in latino. Infine, anche Rimrock disse la sua, un imbroglio oceanico talmente oltraggioso da mozzare il fiato e far diventare vérde il fegato.

Infine il barile fu vuoto. In quel momento la guardia notturna di Goslar lanciò uno squillo di tromba, a indicare che tutto andava bene, quella notte. Un istante dopo suonò ancora, freneticamente, a indicare che non tutto andava poi così bene, che c’era qualcosa che si agitava là intorno, in cerca di preda.

L’imperatore Carlo e tutti i viaggiatori si addormentarono sulla paglia (un sonno interrotto di tanto in tanto dalle risatine di Rimrock: un niente agita questi ansel, che poi restano eccitati molto a lungo), e i teschi di cinquecentonovantotto imperatori li fissavano con le loro orbite vuote, dalle nicchie sulla parete.

La Dorata Astrobia si mostrava a tutti con un sorriso sul volto. Ma dietro, nascosto, aveva un pungiglione nella coda.

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