4. Astrobia Felix

L’opulenza della parte civile di Astrobia sfidava ogni comprensione. Thomas aveva la mente pronta e l’occhio svelto, ma ugualmente fu abbagliato dalle meraviglie che sfilavano davanti a lui. Qui sorgevano le dimore e gli altri splendidi edifici per milioni e milioni di persone, grandi città seguite da altre grandi città, il tutto immerso nel lusso, nella bellezza e negli agi. Ma non soltanto gli edifici, le strade e i parchi trasudavano perfezione. La gente era elegante e ben nutrita, aveva un’aria incredibilmente civile, e osservava con occhi divertiti, in un misto di comprensione e disprezzo, la carovana che avanzava. Erano i veri re di Astrobia. Ognuno di loro era un re, e ogni donna una regina.

— È Roma risorta cento volte più grande — dichiarò Thomas. — Vi è maestosità e potere, qui, per il bene e per il male. Come del resto hanno sempre voluto le genti. Qui tutti i sogni sono diventati realtà, qui c’è la pentola d’oro dell’arcobaleno, la Perla Nera, qui la terra è ricca e la civiltà possente, è la Terra oltre le Colline dello zampognaro irlandese, il Favoloso Brazil, il Giardino delle Esperidi.

— Calma, Thomas, è un sepolcro imbiancato… Ma quanto è lucido e splendente, non trovi? — disse Evita in tono canzonatorio. Chi era Evita? cosa faceva qui? si chiese Thomas. Una fanciulla ammiccante, un sortilegio?

— Chi sei, bambina? — esclamò. — Che cosa fai nel mio gruppo? Come mai, pur essendo solo una marmocchia, ti conoscono tutti in questo mondo?

Ma Evita non rispose. Thomas non riuscì mai a sapere chi fosse esattamente, e neppure gli altri furono mai certi della sua identità.

— Dove stiamo andando? — chiese Thomas. — Io dirigo l’orchestra, e tocca a me agitare la bacchetta. Non voglio essere guidato per mano, come un bambino. Devo dire io ciò che va fatto.

— Appunto — interloquì Walter Copperhead, il negromante. — Noi parliamo soltanto a nome tuo. Stiamo eseguendo i tuoi ordini.

— Ma io non ho ordinato nulla — ribatté Thomas. — Tutto sta accadendo troppo rapidamente per me.

— È stata la tua mente a dare gli ordini — spiegò Rimrock l’ansel.

— Ti li visualizzi in un contesto romano o inglese e noi li adattiamo ad Astrobia. È un trionfo che tu vuoi per te stesso, non per orgoglio e vanità, ma per imporre un regime solido e fiorente. Ho trasmesso i tuoi ordini ai potenti ansiosi, ai grandi di Astrobia, e anche Copperhead li ha trasmessi. Abbiamo ordinato che si riunissero; hanno rifiutato ma lo stanno facendo. Sono sbalorditi, pieni di meraviglia ancora prima di averti visto.

— Rimrock, tu diventeresti ricco sfondato, a fare il prestigiatore in qualche fiera di campagna nella vecchia Inghilterra. Nessuno zingaro è mai riuscito a lanciare così bene un incantesimo. Ma dove stiamo andando?

— Al Palazzo delle Convocazioni come tu stesso hai deciso, mio caro Thomas; questo per afferrare subito quanto di meglio ci viene offerto, poiché siamo sulla cresta dell’onda. Tu sarai un’apparizione improvvisa e accetterai l’investitura e il ruolo mistico del Maestro del Passato.

— Non so neppure che cosa sia il Palazzo delle Convocazioni — disse Thomas, mentre proseguivano a bordo del carro corazzato di Battersea attraverso la splendida Cosmopoli. — Chi si è riunito lassù?

— Senz’altro si saranno riuniti tutti coloro ai quali l’hai ordinato — rispose Rimrock l’oceanico. — Ogni particolare si risolverà da solo mentre avanziamo, e sempre a nostro vantaggio. C’è una piccola, sanguinosa battaglia in corso a causa delle Trombe dell’Esultanza… Si tratta in verità di dodici piccole battaglie in altrettante torri intorno al Palazzo. Le Trombe non suonano da più di vent’anni, ma tu hai saggiamente deciso che dovranno squillare per te. Per fortuna i tuoi seguaci stanno vincendo queste piccole battaglie sanguinose.

— Non sapevo di avere dei seguaci — disse Thomas.

Erano giunti ai bordi di un’immensa piazza; si fermarono e scesero dal carro. Avanzarono tra le file di altissimi pioppi e il cielo sembrò spalancarsi, le Trombe dell’Esultanza lanciarono squilli laceranti e dorati come dodici arcangeli annuncianti un secondo Avvento. Le porte dorate del Palazzo delle Convocazioni si aprirono nel medesimo istante in cui le trombe squillarono. Era un effetto grandioso, accuratamente studiato duecento anni prima. Questo era il suo momento di gloria: la turba cenciosa sembrò risplendere di luce propria.

Tutti i grandi di Astrobia sedevano nella cerchia più alta, stupiti, alcuni presenti per propria volontà, altri no. Molti erano venuti, irresistibilmente attratti, pur protestando che non volevano. Quel qualcosa che li costringeva li lasciava perplessi, poiché erano esperti dei fenomeni della mente.

Thomas More e i suoi erano in piedi, in mezzo all’arena, ma ai grandi non fu consentito guardarli dall’alto al basso.

Tutti i grandi, infatti, si alzarono, e non avrebbero voluto. I grandi d’Astrobia si alzavano soltanto in presenza di un superiore, ma in quell’istante balzarono tutti in piedi: Kingmaker, Proctor, Foreman, Pottscamp, Northprophet, Dobowski, Quickcrafter, Haddad, Chezem, Treva, Goldgopher, Chu, Sykes, Fabelo, Dulldoggle, Potter, Landmaster, Salver, Stoimenof, principi e duchi, una mezza dozzina di ex Presidenti di Astrobia, i più grandi scienziati, i cervelli, i progettisti del mondo.

E, al centro dell’arena, Thomas More, sporco e cencioso, la mascella spezzata ricucita alla meglio da uno scalzacane di Cathead, un uomo dal naso prominente, grottesco quasi, di bassa statura e di mezza età; l’Individuo Paul, che aveva smarrito il cognome e la cittadinanza per aver violato la legge, frammenti d’osso nel cervello, la vista confusa, la mente alterata; Rimrock, l’uomo oceanico, il quale comunicava con mezzi sconosciuti e aveva l’aspetto di un grottesco animale dal naso di gomma; Evita, la leggendaria donna bambina, la cui esistenza veniva posta in dubbio da ogni essere razioncinante; Walter Copperhead il negromante, nulla più di un chiromante: da tutti esalavano miasmi soffocanti, il marchio della tenebrosa Cathead.

Lo stentoreo squillare delle Trombe dell’Esultanza s’interruppe. Morì in un rimbombare d’echi e lasciò il posto a un silenzio vibrante.

Un Individuo si era dichiarato.

Era il Maestro del Passato, morto da mille anni, un uomo grassoccio, piccolo, sull’orlo della vecchiaia, uno gnomo roseo in un mondo di giganti dalla pelle bronzea e dorata. Ma su tutti, in quegli istanti, aleggiava la magia, la grazia carismatica, il magnetismo, la presenza e il segno del Messia… Era piombato in mezzo a loro, con i vestiti ancora sporchi della polvere della tomba. Era il più puro prodotto del mondo degli spettri, aveva attraversato porte chiuse e sepolcri sigillati, un Maestro del Tempo. La sua trascendenza li aveva folgorati.

Poi vi fu l’ovazione, come un oceano in tempesta. Esplose in enormi ondate, una più alta dell’altra. Durò a lungo e innalzò lo spirito di quella folla dorata e cinica, che aveva dimenticato da tempo ciò che va esaltato. Alcuni di loro ne avrebbero parlato in seguito come di un’assurda carnevalata, e tuttavia sarebbe sempre rimasta una delle esperienze più sconvolgenti della loro vita.

Thomas li aveva conquistati senza dire una parola. Una presenza immanente era stata creata per lui, e aveva trionfato. Come tale presenza fosse stata creata, e da chi, Thomas avrebbe cercato di scoprirlo più tardi. Era opera di un negromante ciarlatano e di un animale ciarlatano? o di una marmocchia? Chi faceva uso della magia in quel luogo? Era chiaro che numerosi poteri di origine aliena lo avevano aiutato.

E quella presenza fu riconosciuta subito, in tutte le città e in tutto il pianeta, da un capo all’altro.

— È il Maestro del Passato — diceva la gente, dovunque.

C’era riuscito… C’era riuscito! Parlò a voce alta, distintamente.

— Accetto il fardello che mi viene offerto — annunciò in tono squillante e grave. — Ora dovremo governare e risolvere i problemi di questo mondo.


— Ma noi non ti abbiamo offerto alcun fardello… — brontolò Peter Proctor tra i denti. Peter, però, sogghignava come una volpe; nessuno più di lui sapeva apprezzare un colpo da maestro.


Dopo alcuni minuti, o forse ore, l’assemblea s’interruppe, e tutti i presenti si dispersero in ogni direzione, come frammenti luccicanti. Le decisioni prese sarebbero state definite nel corso di riunioni più piccole, fra gruppi più ristretti e speciali comitati. Gli ultimi particolari, infine, sarebbero stati risolti dall’esperienza (o dall’astuzia) amministrativa dei funzionari di carriera.

Ma nessuno metteva in dubbio che Thomas fosse l’uomo che volevano.


— è stato Rimrock, l’uomo oceanico dal naso di gomma — disse Thomas dopo essersi appartato col suo gruppo, prima di fare ritorno dagli alti dignitari. — è stato Copperhead con i suoi poteri occulti. Paul col suo cranio fratturato. La strega bambina con la duplice, contrastante aura intorno a sé. Sono stati loro, col magico spettacolo che hanno imbastito, a cogliere di sorpresa i grandi e a trasformarli in una massa di contadini superstiziosi.

— Sì. E le Trombe!


— Pensavo di essere io il supremo Maestro delle Meraviglie — replicò Cosmos Kingmaker, rivolgendosi a Thomas, — ma non sono mai riuscito a realizzare uno spettacolo come il tuo. E ho anche un problema personale. Mia moglie è sempre stata giudicata la più bella donna di Astrobia, e così si giudica lei stessa. In verità, è quasi un obbligo della mia posizione: mia moglie dev’essere la più bella di Astrobia. Ma la bambina della leggenda che è nella tua compagnia ha sconvolto anche lei, e subito la voce popolare l’ha sostituita a mia moglie. Fino a quando Evita era soltanto una leggenda, poteva essere tollerata. Ora è apparsa in pubblico, è viva e concreta, e tutti, su questo pianeta, sanno che esiste.

— Non ho visto tua moglie, e non ho prestato molta attenzione alla bambina, a parte certe strane qualità che la circondano, e che non sono affatto, nell’insieme, sinonimo di bellezza. Non ho la più pallida idea di come sia entrata a far parte della mia compagnia. Anche per me è un mistero.

— Così, sei stato uccel di bosco per tutti questi giorni e queste notti — lo accusò Kingmaker, — e chissà in quali mani sei caduto. Non è un inizio molto responsabile. Quali foreste di Astrobia hai mai visto?

— Diciamo, invece, paludi. Da noi, sulla Terra, gli uccelli più liberi volano nelle paludi e sui laghi. Ne ho viste fin troppe di paludi.

— Ah sì, eh? — osservò Kingmaker. — Non l’avrei supposto. Bene, in qualsiasi palude tu sia sprofondato, non ritornarci più finché non sarai debitamente istruito. Ancora non sai con quali occhi devi guardare certe cose. Devi prima ascoltarci.

— Voglio usare i miei occhi.

— No, no, così non va bene. Non ti lasceremo interferire in alcun modo con quanto abbiamo preparato per te, e tu non agirai senza il nostro consenso.

— Mi stai dicendo, forse, che non devo guastare l’immagine con la quale intendete presentarmi ad Astrobia?

— Esattamente, Thomas. La tua immagine ha già superato, un poco, quei limiti che ci eravamo imposti. C’era il rischio che non fosse abbastanza convincente, ma ora, forse, lo è fin troppo. Mi aspettavo, tuttavia, che tu restassi sbalordito davanti alle meraviglie di Astrobia.

— Kingmaker, amico mio, le guardo con l’occhio attonito di un vitello di fronte alla porta di una stalla verniciata di fresco. I mille anni di progresso tecnologico che ci dividono dal mio tempo (metà di questo progresso si è verificato dopo che l’uomo è giunto su Astrobia) mi stupiscono. Non l’avrei creduto possibile. Eppure, ai miei tempi, ero considerato un precursore in questo campo. Non ho mai saputo cosa chiedere del futuro… beh, ho avuto occasione di parlare di questo argomento con certi viaggiatori, molto tempo fa, o almeno molto tempo prima d’ora. Li ho tempestati di domande sulla filosofia, sulla teologia, sulla struttura politica, sulle arti, sulle lingue e sui progressi dell’introspezione. Ma non mi è mai passato per la mente che gli sconvolgimenti materiali sarebbero stati così profondi. Noi già eravamo immensamente progrediti rispetto ai tempi dei greci e dei romani, e mi ero convinto che il pendolo avrebbe oscillato nella direzione opposta, nei mille anni a venire, e che dopo la mia morte l’umanità si sarebbe dedicata ai problemi dell’intangibile… Sì, tutto questo mi ha colpito, e ogni cosa che vedo mi colpisce ancora di più.

«Così, ad esempio, il fatto che non ci siano corpi malati tra voi (a parte nel Barrio e a Cathead). Sarebbe una meraviglia ancora più grande, per me, il fatto che non ci siano menti malate, se non avessi constatato di persona che molte menti sono già morte. Tutti i vostri artifici meccanici e psichici sono nuovi di zecca per me. Mi affascina il vostro modo di sondare e penetrare le menti, anche quando lo usate contro di me. E lo state facendo anche in questo momento, non è vero, Kingmaker? Sento un formicolio, come tante piccole talpe che mi scavano cunicoli nel cervello. Ah! Ora le ho bloccate. Basta che io pensi in latino, e non possono più far nulla… Curioso, avrei pensato, quando questo fosse accaduto, che avreste usato un sistema a immagini mentali, e non verbale».

— Li usiamo entrambi, Thomas. Il sistema verbale è il più semplice.

— Così semplice che ti è possibile nasconderlo nel palmo della mano, Kingmaker. Non è quello che stai facendo?

— è molto più semplice che origliare a una porta — disse Kingmaker. — E percepisce anche le inflessioni subvocaliche. Tu invece usi un ansel: non è soddisfacente. L’ansel tende a dimenticare di essere soltanto uno strumento di comunicazione. A volte diventa il padrone. La maggior parte degli uomini pensa a parole, quando è distratta, e specialmente quando parla e pensa contemporaneamente. Il mio apparecchio, naturalmente, può essere munito di un accessorio per il latino o qualsiasi altra lingua. Soltanto… dimenticavo che il latino era ancora d’uso comune ai tuoi tempi fra gli uomini di cultura. Mi è sfuggita un’intera sequenza dei tuoi pensieri, proprio i più interessanti. Ti dispiacerebbe ripeterli?

— No, Kingmaker. Ti brucerebbero le orecchie. Ma fra tutte le cosa che ho visto finora su Astrobia, quelle che più mi affascinano sono i Programmati. Non gli Assassini programmati, che mi hanno già dato un mucchio di fastidi, ma gli altri. Un sogno fantastico divenuto realtà! I greci lo hanno sognato, una volta, e anche gli ebrei, in tempi più recenti. Un vero uomo meccanico! Qualsiasi apprendista orologiaio darebbe metà della sua anima per imparare il segreto. Mi entusiasma il pensiero che si possono costruire macchine a nostra immagine e somiglianza, e che queste macchine possono lavorare, e perfino pensare, meglio di noi! è una meraviglia incredibile, Kingmaker. O forse questa per voi è una meraviglia sulla quale ormai il tempo ha depositato la muffa? E non soltanto l’uomo li ha progettati, perché lavorino meglio di lui, ma mi dicono che, ora, queste macchine creano se stesse meglio di quanto le abbia sapute fabbricare l’uomo.

— No, per me non è una meraviglia ammuffita, Thomas. Non ero sicuro del tuo atteggiamento, visto che sei stato aggredito dagli Assassini programmati. Ma gli Assassini sono soltanto una minoranza specializzata, creata per salvaguardare l’Ideale di Astrobia da qualsiasi pericolo: essi però, a quanto sembra, a volte sbagliano, e gravemente. Quelli che contano sono i veri Programmati, gli uomini del futuro, i nostri successori.


Mentre Kingmaker parlava, Thomas rievocava nelle profondità della sua mente uno dei sogni che aveva vissuto durante il Passaggio, in quell’assurda esperienza vissuta con Paul, fra la Terra e Astrobia. Cosmos Kingmaker era un ragno dorato dalla testa di leone. Il ragno (maschio o femmina? nei sogni, il sesso è qualcosa di indefinibile) stava tessendo la tela sul grande e altamente civile pianeta di Astrobia. I grandi edifici e la grande società del pianeta nascevano tutti da questa ragnatela. L’intero mondo di Astrobia era soltanto un velo sottile. Ma il ragno rampante era pronto a difendere ogni guglia e ogni pinnacolo del suo trasparente tessuto. Nessun compromesso era possibile: la facciata, l’evanescente trama serica, doveva essere salvata. Il fatto che non avesse sostanza non importava.

Poi si alzò il vento: soffiava cupo e minaccioso da Cathead. La trama cominciò a spezzarsi. — A me, a me! — gridava il grande Kingmaker, con la sua stupenda voce di ragno. — Quello che soffia è falso, io sono la verità, io sono il leone. E io ti ordino, vento: Cessa! Non danneggiare la mia tela… Non distruggere la mia tela!


— Vedrò meraviglie molte volte ancora, Kingmaker — disse Thomas in tono completamente diverso. — La cosa più meravigliosa è il vostro modo di viaggiare. Per venire su Astrobia, in ogni istante ho superato di cento volte tutti i viaggi della mia vita. E io, ho viaggiato parecchio, e le capitali di tutto il mondo cristiano mi sono familiari. La velocità è diventata infinita.

— No, Thomas. Viaggiando con l’equazione di Hopp, la velocità è soltanto otto al quadrato, cioè sessantaquattro volte la velocità della luce. Con questo sistema possiamo raggiungere soltanto una parte ristretta del nostro universo. Sono stati tentati altri viaggi, su differenti basi numeriche, ad esempio trentasette al quadrato, l’equazione di Horwitz. Ma nessun pilota è mai ritornato da quei viaggi. Forse riemergerà un miliardo di anni nel futuro, o è riemerso nel passato, o forse si è perduto per sempre. Noi non siamo ancora i padroni della velocità.

— Ma anche così, avrete miliardi di mondi da colonizzare!

— No, non ancora, e per molti secoli. Disponiamo soltanto di sei mondi dove la vita sarebbe possibile, a parte Astrobia. Ma le colonie che vi abbiamo fondato non progrediscono affatto. I migliori non sono disposti ad andarci, non c’è più lo stesso entusiasmo che ha consentito all’uomo di conquistare Astrobia. Oggi, non stiamo più avanzando in nessuna direzione. Al contrario, stiamo retrocedendo.

— Ma ognuno di voi è, a dir poco, un genio! Dovreste progredire a balzi giganteschi. Kingmaker, avete progettato di usarmi come un burattino, un uomo di paglia: tu stesso l’hai confessato. Ma quel poco che ho visto della politica di Astrobia non mi rassicura affatto. Ho scoperto che avete avuto recentemente, tra i vostri Presidenti a breve durata, un Mister X, l’Uomo Mascherato, il Mida degli Asteroidi e l’Uomo Falco di Helios. Quest’ultimo doveva assomigliare molto a Foreman. Hanno il suono familiare dei gladiatori dell’antica Roma o, come qualcuno mi ha suggerito, dei campioni di catch dell’America medievale. Adesso, vi siete impadroniti di me e mi considerate come un altro pagliaccio in costume, un altro simbolo prefabbricato da manipolare. Così, avete deciso di regalare anche a me un soprannome: Maestro del Passato.

— è assai probabile; l’appellativo ha risvegliato la fantasia popolare. Ma non abbiamo ancora deciso.

— Cosmos: nessuno mi manipolerà! Se sarò eletto Presidente, allora sarò il Presidente!

— È proprio quello che noi temiamo e speriamo, Thomas. No, il tuo caso è diverso. Non abbiamo più conigli da tirar fuori dal cappello, ma il popolo vuole ancora vederne degli altri. Per essere eletto, dovrai presentarti come un simbolo prefabbricato. Ma per salvare Astrobia dalle insidie mortali, tocca a te fornirci il nuovo, decisivo elemento…

— E sono convinto che tu abbia una paura folle di questo nuovo elemento, Kingmaker.

— Naturalmente, ma non permetterò che la trama del nostro mondo si spezzi.

Cessa! Non danneggiare la mia tela!… Non distruggere la mia tela!

— Cosa stai dicendo, Thomas?

— Un frammento di sogno dal fondo della mia mente, nient’altro. Tu saresti disposto a tutto, anche al cambiamento più radicale, purché questo mondo non cambi.

— Non so quale sarà l’elemento decisivo. Foreman crede di saperlo. Vedo, Thomas, che eventuali attentati contro la tua persona non ti preoccupano.

— Oh, ho già preso le mie misure, Kingmaker. Tutto ha origini molto più lontane dei semplici Assassini programmati; si estende in realtà fino ai Programmati più complessi e ai più alti dignitari umani.

C’è un partito piuttosto forte che mi vuol morto ancora prima che io sia, per così dire, nato su Astrobia.

— C’è un’altra cosa di cui abbiamo paura, Thomas. Abbiamo paura che la gente ti veda, e allo stesso tempo abbiamo paura di nasconderti, ed è ormai troppo tardi per cambiare idea. Per gli adepti, il tuo nome è pieno di significato. Sei stato salutato da un’ovazione incredibile: questo non riusciamo a capirlo, non riusciamo a capire come sia potuto succedere, e neppure la parte da noi recitata perché accadesse. Ora il popolo ti adora, eppure la tua non è una personalità trascinante…

— Ascolta, Kingmaker! Io non mi pavoneggio seduto su un trono, se è questo che vuoi dire. Ma sarò un uomo eccellente, sol che mi sia concesso il tempo; non riuscirai a trovare un altro migliore di me. Ai miei tempi ero considerato un maestro, e lo diventerò anche qui. Sulla scena posso recitare la parte del nobile tra i retorici!. La mia recitazione non sarà goffa né incerta. Astrobia ha sete soprattutto di oratoria, oggi, e noi nell’oratoria siamo stati sublimi professionisti: voi, al confronto, siete dei dilettanti. So che avete analizzato il fenomeno, scomponendo nelle parti essenziali quel particolare fascino personale che porta un individuo al trionfo. Ma se tagliate a fette sottili un uccello, forse per questo diventate capaci di fabbricarne uno? E anche se riuscite a farlo, esso tradirà sempre, come i Programmati, la sua origine artificiale. So che avete messo a punto macchine complicate capaci d’imitare l’eloquenza, ma anch’esse suonano false. Ma è prova la derisione di cui le gratifica la gente, spazzandole via come le foglie d’autunno, e il ludibrio del popolo che le ha travolte. Ho ascoltato oratori umani e programmati che hanno imparato dalle macchine dell’eloquenza; ho visto e sentito un’infinità di cose in questa mia prima settimana su Astrobia. Il popolo ha sete di tutto ciò che è reale, autentico, e io posso darglielo. Voi avete cercato di analizzare i perché della grande ovazione che mi ha raccolto al Palazzo delle Convocazioni, e non vi siete riusciti. In parte era dovuta all’astuzia dei miei amici, in parte era frutto delle circostanze. Ma soprattutto era dovuta a me stesso, e basta.

— Ebbene, ti sarà concesso di tentare, Thomas. Ma non immischiarti nella politica. Thomas: la politica è una scienza troppo complicata su Astrobia.

— La politica era fin troppo complicata anche ai miei tempi — ribatté Thomas.

Kingmaker scoppiò a ridere. Thomas fece una smorfia, dubbioso.

— È una fortuna, oggi, esser vivi — dichiarò Peter Proctor, la volpe fortunata. — E non intendo, Thomas, parlare in senso negativo, come se qualcosa ci minacciasse. Voglio dire che tutto è sotto il segno della fortuna, la situazione e i suoi sviluppi. Oggi, su Astrobia, le cose sono più fortunate che mai.

— E allora, Proctor, per quale ragione tanta gente abbandona questa vita?

— Abbandona? Vuoi dire, si trasferisce a Cathead? Oppure intendi parlare di quello che, un tempo, era detto suicidio? La prima cosa mi deprime, la seconda mi delizia. Non è una fortuna poter lasciare una vita che ci ha dato tutto? E non è una fortuna poterlo fare in un modo così rapido e pulito? Un uomo dovrebbe rimpinzarsi di cibo anche dopo essere sazio? Perché vivere un minuto di più di quanto è necessario? La dorata Astrobia non è una prigione, non ci sono muraglie intorno ad essa per impedire che la gente esca. La vita non è per tutti, e una vita troppo lunga non dovrebbe essere per nessuno. Un uomo può disporre liberamente di sé, su Astrobia: per questo, gli abbiamo fornito apposite cabine ad ogni angolo della strada. La cosa non dà più né apprensioni né incertezze, ciascuno può andarsene con la coscienza tranquilla.

— Già. L’azione più sporca, ma con la coscienza tranquilla! Siete riusciti anche a questo!

— Viviamo in un mondo molto fortunato, Thomas. Possiamo esserne soddisfatti. E sono convinto che per il nostro mondo la fortuna aumenterà ancora.

— E io sarei il vostro portafortuna, non è vero? — chiese Thomas. — E tu, Peter, cosa sei? Me lo sono chiesto tante volte, e mi dicono che altri se lo sono chiesto prima di me.

— Io, Thomas? Io sono l’uomo più fortunato di questo mondo, di qualsiasi altro mondo. Non c’è bisogno di affaticarsi a cercare: io sono l’uomo più ricco di Astrobia, dopo Kingmaker, così tutta l’invidia è per lui e non per me. Ho avuto fortuna nel prender moglie, nei figli, in tutto quello che ho conseguito, nella dimora che mi sono edificato…

— Risparmiami il resto — l’interruppe Thomas.

— E piaccio a tutti — concluse Proctor, con uno sguardo che era qualcosa di più di quello di una volpe.


Un altro di quei brevi sogni del Passaggio riemergeva dal fondo della mente di Thomas. Peter Proctor era una volpe e correva a quattro zampe su una sottile crosta vulcanica sotto la quale si spalancava un abisso. Thomas fu bruscamente preso dal terrore alla vista di quel vuoto sotto la crosta, e delle fiamme guizzanti che erano soltanto una delle orrende caratteristiche di quel vuoto. A quale profondità giungeva il baratro sotto la crosta? Thomas guardò: l’abisso era eterno, senza fondo. S’intravedevano le stelle laggiù, a una distanza immensa, ma c’era qualcosa di strano in quelle stelle. Erano in qualche modo distorte, e così la loro luce. Ma Peter la Volpe non aveva paura di quelle profondità abissali, neppure quando enormi frammenti della crosta vulcanica si sfaldarono sotto i suoi piedi, precipitando nell’eternità sottostante. — Laggiù sono a casa mia — disse la volpe. — Che la crosta precipiti pure là dentro, che si spezzi e si frantumi, e che tutti gli esseri che vi abitano precipitino anch’essi fra le fiamme. Io dò il benvenuto al vuoto dell’abisso, al vuoto fondamentale. Nacqui per esso, e trascinerei l’intero universo dentro di esso, se soltanto quegli sciocchi confusionari che cercano di sostenere la crosta la smettessero una buona volta. Le fiamme che guizzano nel vuoto sono la mia casa. Niente può nuocere a una volpe dalla coda di amianto. — E allora Thomas si accorse che Peter la Volpe aveva davvero la coda d’amianto.


— Ma tu non sei uno dei tre uomini che mi hanno preso dal Passato? — domandò Thomas. — Se tutto va così bene, perché l’hai fatto?

— Oh, io credo che combinerai molto meno danni di quanto avrebbe potuto fare un altro, mio piccolo Thomas. Tu sarai la novità delle novità. Ci serve qualcosa del genere, oggi, per il popolo, almeno finché non avremo superato questa fase provvisoria. La gente deve cibarsi di novità, dopo essersi saziata di cibo.

— La ricerca forsennata di novità non è altro che un aspetto della disperazione.

— Chi ha detto questo, mio piccolo Thomas?

— Un francese, qualche secolo dopo di me. Sono incappato in questa frase per pura coincidenza.

— Be’, io invece credo che le novità siano un aspetto della speranza: la speranza nella grande soluzione, che mette continuamente nuove foglie verdi. La stessa speranza è soltanto una tappa che incontriamo nel nostro cammino. Ma è meravigliosa.

— Già, Proctor. E la fortuna è fortunata. C’è così poca realtà in te, ch’io mi domando se veramente tu proietti un’ombra.

— Spero che non sia un’ombra nera, Thomas. Ti stai ancora chiedendo perché anch’io ho deciso di chiamarti, visto che le cose vanno così bene? Io ti considero innocuo, un giocattolo fuori moda. Diamo al popolo il suo giocattolo!

— E cosa farai, se io sarò qualcosa di più di un semplice giocattolo?

— È una fortuna che io abbia tanti volti, e così diversi. Che io possa essere crudele senza rimpianti: posso agire in modo assai sgradevole quando la situazione lo richiede, Thomas, non ti permetterò di diventare qualcosa di più di un giocattolo. Una sola mossa falsa, e tu sarai un giocattolo rotto. La politica è una scienza, ormai, e io sono il suo unico grande sacerdote. Credimi, io sono il solo che sappia veramente ciò che sta accadendo. Sono io la causa di tutto. Quando Kingmaker se ne lava le mani, assolvendo così se stesso, sono io che prendo il controllo. E se tu sarai qualcosa di più di un giocattolo, prenderò il controllo io.


— Il momento più buio prelude sempre a un’aurora falsa — osservò Fabian Foreman. — Il gallo pazzo ha già cantato (c’erano anche ai tuoi tempi i galli, Thomas, o forse confondo i secoli? ) ma è ancora notte. Astrobia è stata una falsa aurora, e ora noi crediamo che quell’aurora non finirà mai.

— Mi sembra che qui ci sia abbastanza luce — rispose Thomas. — Se questa è ancora la notte, a cosa assomiglia il giorno?

— Ma ci sbagliamo, se crediamo che le tenebre possano durare per sempre — continuò Foreman. — Se l’aurora vera non fa in fretta ad arrivare, non arriverà più niente. La notte finirà, o con la venuta del giorno, o con la venuta del nulla. Mi dispiace però che il prossimo sole debba sorgere dietro una nuvola particolarmente sporca. Ma, semplicemente, non vedo altro modo di sistemare le cose.

— Sei proprio tu quello che farà sorgere il sole, Foreman?

— Proprio così, Thomas. Sarò proprio io che farò sorgere questo sole. Pensavi che il sole potesse sorgere per virtù propria? O che qualcun altro avrebbe potuto farlo sorgere al mio posto?

— Proctor è convinto di essere lui a far marciare le cose su Astrobia.

— Sono io che faccio marciare Proctor, Thomas.

— Dice anche che quando Kingmaker se ne lava le mani, assolvendo così se stesso, è lui, Proctor, che prende il controllo.

— Naturalmente. Kingmaker è l’azione, Proctor è la reazione e l’annichilazione. Kingmaker agisce con grandiosità; Proctor reagisce fulmineo, sfruttando la sorpresa. Io, astutamente, li aiuto entrambi. E sono il solo che sa interpretare i risultati.


Ancora una volta dal fondo della mente di Thomas, da un groviglio di ragnatele polverose che avvolgono una bottiglia di spumante, escono novanta secondi di orrore e di agonia: un dramma che si svolge sulla falsariga dei fatti e che ne mette a nudo le radici.

Foreman, il volto grifagno deformato da una smorfia dolorosa, sedeva a un rozzo tavolo di legno, più rozzo di qualsiasi altro di Astrobia. C’erano trenta conchiglie disposte sul tavolo davanti a lui, con le quali giocherellava, contandole. Piangeva, ma alla maniera di un falco, goffo e impacciato, tossendo e stridendo orrendamente. — Così dev’essere — gracchiava. — Non c’è altro modo.

Ma una delle conchiglie era in realtà un guscio d’uovo, e Foreman il Falco sobbalzò quando se ne accorse. Poi venne un tuono e si sedette al suo tavolo: — È un pulcino di falco che stai distruggendo — disse il tuono. — Non c’è dolore al mondo più grande del tuo.


— So come il gatto fissa un uccello — fece Thomas a Foreman (l’attimo del Passaggio era volato via), — e so in qual modo un uccello può essere utile al gatto. Tuttavia, tu non riuscirai a fare un boccone di me. Sono un uccello coriaceo, ti garantisco. E adesso vedo che sei un falco, e non un gatto, ma tuttavia cerchi di assalirmi.

— Di che cosa stai parlando, piccolo Thomas?

— Anche Proctor mi ha chiamato così, e anche lui faceva le fusa, nel dirmelo. I vostri rispettivi animali si confondono, voi non siete della stessa razza degli animali terrestri, Foreman, e ho l’impressione che tu mi stia mettendo con le spalle al muro. Una volta che mi sia lasciato mettere con le spalle al muro, sarà poi la mia stessa ostinazione a impedirmi di uscire da quella situazione.

— Sono costretto a mettere tutti in situazioni senza uscita. E mi sento molto solo, poiché sono l’unico a vedere le cose chiaramente, con tanto anticipo. E poi, quando ti è successo per la prima volta, non c’è stato anche allora qualcuno a metterti con le spalle al muro? Qualcuno che sapeva che eri troppo ostinato per salvarti? Sai almeno chi è stato? Vuoi che te lo dica io, Thomas?

— No, non voglio saperlo, poiché sospetto chi fosse l’uomo, così stimato, che fu causa del mio assassinio. Ma quella prima volta non è ancora venuta, per me. Il tuo pilota mi ha strappato alla morte sulla Terra mille anni fa, pochi mesi prima che mi ghermisse. Non capisco bene cosa mi accadde quella prima volta, poiché, capisci? non mi è ancora accaduta…

— Ma io lo so, Thomas. Sì, un uomo ti ha già messo con le spalle al muro, allora, e io ti ci metterò di nuovo, in questa occasione. Non ti sarai aspettato una fine diversa, spero. Quella prima volta, gli effetti sono stati limitati. è servita a salvare per metà una situazione disperata. Questa volta servirà a molto di più. Non assolverò me stesso e neppure me ne laverò le mani, ma sentirò la tua mancanza.

— Foreman, qui su Astrobia sembra che tutti mi nascondano qualcosa. Tutto è meraviglioso su Astrobia, così mi dicono, e pare anche a me, a parte una zona relativamente piccola che è comparsa da poco e presto sparirà. Ma, invece, questa zona si estende.

«Il male di Astrobia non può consistere solo nel fatto che un gruppo di persone ha adottato una forma di economia retrograda e un sistema di vita dimenticato. Non può neppure consistere nel fatto che abbiano fatto ritorno a una vita dura e difficile, immergendosi nella povertà senza coercizione alcuna e senza alcuna ricompensa visibile. Vi sono stati culti consimili anche in altri periodi storici. Se il male consistesse soltanto in questo, non mi avreste chiamato per curarlo, o per fare da paravento a chi ha la pretesa di farlo. Bene, c’è qualcosa di molto malato in questo mondo; c’è una meravigliosa febbre dorata che uccide. Io non ne capisco neppure i sintomi. E uno dei ‘duri’ di Cathead mi ha detto che avrei confuso la malattia con la cura.»

— Quel «duro» di Cathead aveva ragione almeno per metà, Thomas. Cathead è per molti sinonimo di pazzia. Un ritorno alla povertà più abbietta, una scelta fatta liberamente da milioni di persone; da più di un decimo della popolazione di Astrobia, fino ad oggi. Hai detto di aver visto la miseria che regna laggiù. No, non puoi averla conosciuta in due giorni e due notti. Sono i lunghi anni di quella miseria che ti corrodono fino alle ossa e ti rivoltano solo a immaginarli. Ma i sostenitori di Cathead affermano che attraverso il loro esperimento stanno riscoprendo la Vita. Questo, io non sono in grado di spiegartelo, ma neppure loro: dovresti sperimentarlo tu, sulla tua pelle, e non hai abbastanza tempo per farlo. Lo potrai capire, forse, negli ultimi istanti della tua vita.

— Forse lo capirei già ora, se soltanto ci fosse qualcuno con cui poter ragionare.

— Oh, i due mondi si stanno divorando tra loro, ma chi può dire quale dei due sia giusto, e quale, invece, sbagliato? Cathead non è la malattia, e neppure la cura. è soltanto un’eruzione cutanea, un effetto superficiale della malattia. Noi siamo ancora più malati di Cathead e del Barrio. Finiremo per morirne!

«Io ho già messo a punto dei piani per una completa rinascita, o, quanto meno, per creare qualcosa di diverso, che potrebbe anche assomigliare, ma non esattamente, al mondo d’oggi. Ora ci concentriamo sui particolari, finché il mondo muore. Uomini peggiori di te ci sono stati utili nelle cose meno importanti; tu ci sarai utile in quella più importante. E dopo la tua morte ci sarai ancora più utile.»

— Dannazione, ma per voi io sono già morto!

— Sì. Io la vedo così. è la tua morte che ci serve oggi, su Astrobia. Quello che ci riserva il futuro è terribilmente confuso, ma tutto potrebbe risolversi ancora per il meglio, una volta usciti da questo guaio.

— Per il meglio di chi, Foreman? Ho l’impressione di essere pesato e portato in giro come una semplice pedina.

— Ma tu sei una pedina. Prendi la cosa dal suo lato migliore, Thomas. Sei morto da mille anni. Che cosa t’importa di quello che ti accadrà qui?

— Foreman, m’interessa in modo particolare sapere ciò che mi accadrà dopo la mia vera morte. Per ora, nonostante le apparenze, non sono ancora morto. Dall’altra parte, oltre la morte, il tempo si misura in modo diverso. Non ti capisco, Foreman, sei con me o contro di me?

— Sono con te, Thomas, assolutamente. Opero per ottenere il meglio servendomi dei mezzi più abbietti. Perciò sono completamente dalla tua parte, fino alla morte e anche oltre… la tua morte, non la mia. E dopo queste parole incoraggianti, puoi anche lasciarmi.


— Se questi tre sono la Cerchia interna dei Maestri, non c’è da stupirsi che Astrobia sia un pianeta moribondo — disse Thomas, parlando a se stesso.


Thomas s’incontrò poi con Pottscamp, che veniva chiamato il quarto esponente dei Tre Grandi. Thomas trovò molto piacevole la conversazione con Pottscamp, uno degli individui più interessanti che avesse mai incontrato. Fu una gradita sorpresa, poiché Pottscamp aveva una mente agile e guizzante come il mercurio. A volte sembrava a Thomas che in quella mente vi fosse il vuoto, e tuttavia sembrava inesauribile, come se Pottscamp corresse a una sorgente e vi attingesse a fondo ogni volta che provava il bisogno di fare rifornimento.

Aveva occhi azzurri, grandi e innocenti, e un aspetto eternamente giovane. E tuttavia si stava curando degli affari dì Astrobia da anni e anni ed era sicuramente più vecchio di Thomas. Ma era anche un bambino, un bambino precoce, un bambino sorprendente, capace di torturare un gatto e d’innumerevoli altri altri abominii, ma sempre nella più completa innocenza.

— Tanto perché tu sappia chi comanda veramente Astrobia, Thomas…

— Lo so già, Pottscamp, lo so già.


Un altro sogno del Passaggio, un’altra minuscola dose. C’era un ragazzo che aveva costruito un giocattoli. Era un ragazzo molto sveglio, e il giocattolo era molto ingegnoso. Thomas non avrebbe saputo dire quale dei due fosse Pottscamp, poiché si assomigliavano come due gocce d’acqua. — Vai a rubare le mele — ordinò il ragazzo, e il giocattolo obbedì. — Avvicinati al mio migliore amico, laggiù in strada, e scaraventalo per terra — ordinò il ragazzo, e il giocattolo obbedì. Scaraventò per terra il suo migliore amico, e in cambio fu picchiato a sangue. Il ragazzo fu deliziato quando vide ciò che era successo al suo migliore amico e al giocattolo. — Fammi tutti i compiti per domani — ordinò, e il giocattolo esegui tutte le analisi e le traduzioni dal camiroi, dal puca e dal neospagnolo. — Bevi — disse il ragazzo, e il giocattolo andò a bere al ruscello che scorreva vicino alla casa. — Mangia — disse il ragazzo, e il giocattolo lo mangiò, carne, ossa, cervello, fino all’ultimo pezzetto. Qual era Pottscamp? Era il giocattolo divoratore, o era l’ingenuo che si faceva divorare?


— Lo so già, Pottscamp, lo so già chi comanda su Astrobia — disse Thomas. — Kingmaker comanda tutto lui. Così fa Proctor. E così fa anche Foreman: egli addirittura ordina al sole di alzarsi. E tu dirai lo stesso, immagino.

Ma Pottscamp scosse la testa: — Faremo una lunga conversazione un’altra volta, Thomas. Oggi, queste poche parole mi servono soltanto per presentarmi a te. Tu sei una persona; io sono una persona: gli altri non sono persone, o almeno, non sono persone reali. Se la tua presenza, qui, non avesse una certa importanza, non mi sarei affatto preoccupato di avvicinarmi a te per parlarti.

«Più tardi, Thomas, e in un luogo diverso, avremo occasione di parlare con tutta comodità. E con me ci saranno altri otto esseri che troverai molto interessanti. Quella che incontrerai una di queste sere è la vera Cerchia dei Maestri, anche se molti di noi appartengono a entrambe le Cerchie.

«Ti diremo quello che sta veramente accadendo. Ti faremo vedere il rovescio del ricamo. Quello che hai visto finora non è il vero volto di Astrobia, o per lo meno è assai incompleto. Il rovescio del ricamo è assai meno risplendente, ma anch’esso forma un’immagine reale, ed è molto più significativo del mondo che vedi ora. Tira fuori gli occhi, Thomas, e comincia a lustrarteli. Pulisciti le orecchie e adornale di foglie d’acanto. Tutti i tuoi sensi siano all’erta, per capire quanto ti sarà rivelato. Non hai mai avuto l’impressione, Thomas, di stare osservando ogni cosa dalla parte sbagliata? Ebbene, è proprio così.»

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