Beetchermarlf provava un’insolita sensazione di inutilità. Il timone della Kwembly era connesso alle ruote direzionali da un semplice sistema di cinghie e pulegge. Persino i muscoli dei mescliniti non bastavano a smuovere le ruote quando il veicolo era immobile e anche se mentre avanzavano era possibile compiere una svolta, manovrare lo scafo non era certo semplice. Ma in quel momento la Kwembly galleggiava con le ruote direzionali fuori dall’acqua, mentre il timone si muoveva debolmente in risposta alle sollecitazioni provenienti dal moto inerte dello scafo. In teoria la Kwembly era manovrabile sul mare, ma per uscire di lì sembrava necessario installare delle pale sui pneumatici, cioè un’operazione molto complicata da svolgere in acqua. Dì primo acchito Dondragmer aveva in effetti pensato di mandar fuori qualcuno in tuta spaziale per cercare di riuscirci, ma poi aveva abbandonato l’idea ritenendola troppo pericolosa anche legando gli improvvisati operai alla Kwembly con delle funi di sicurezza. Pareva probabile che lo scafo fosse destinato a venir trascinato verso l’imboccatura della pianura trasformatasi in un lago, e le funi di sicurezza potevano servire a ben poco se la Kwembly si fosse disincagliata mentre la squadra era fuori.
Gli stessi pensieri attraversarono la mente del timoniere fermo al suo posto, che però evitò di esprimerli ad alta voce. Beetchermarlf era giovane, ma non tanto giovane da non riuscire a capire che tutti comprendevano l’ovvio. Era tra l’altro molto convinto della competenza e della preparazione del suo capitano.
Man mano che passavano i minuti però cominciò a preoccuparsi. Dondragmer rimaneva chiuso in un impenetrabile silenzio. Qualcosa si doveva pur tentare; non poteva accettare passivamente di venir spinto tanto a est. Lanciò un’occhiata alla bussola; sì, il vento soffiava verso est, senza ombra di dubbio. Da quella parte doveva trovarsi una catena di colline, secondo uno dei rapporti ricevuti dai ricognitori aerei, le stesse colline che delimitavano la pianura innevata e che risultavano ogni tanto visibili in lontananza all’orizzonte. La catena era lunga circa cinquemila chilometri e a giudicare dal suo colore doveva esser composta di roccia e non di ghiaccio. Se l’acqua su cui galleggiava la Kwembly proveniva semplicemente dallo scioglimento della neve della pianura, la terraferma non doveva trovarsi lontana. Beetchermarlf non aveva idea della velocità a cui il vento li spingeva, ma la sua fiducia nella resistenza della Kwembly era pari a quella nel suo capitano. Ciononostante, l’idea di incagliarsi sugli scogli di Dhrawn lo attirava quanto quella di incagliarsi sugli scogli di Mesklin.
In ogni caso, la loro velocità non doveva essere eccessiva vista la densità dell’aria. La sommità della Kwembly era leggermente ricurva e le sue linee spezzate dal ponte, mentre la presenza delle ruote sotto lo scafo li rallentava senza dubbio in modo notevole. Secondo i rapporti dei palloni sonda la pianura era priva di dislivelli, per cui l’acqua in sé stessa non doveva essere in movimento. A questo proposito, la pressione atmosferica poteva confermare o smentire le osservazioni dei palloni sonda. Forse era meglio dare una controllatina. Il timoniere si mosse, alzò lo sguardo verso il capitano, esitò per un attimo e infine parlò.
— Signore, che ne pensa di controllare la pressione atmosferica? Se ci muoviamo anche per l’effetto delle correnti, stiamo per forza di cose scendendo. La pressione atmosferica potrebbe anche smentire… — disse Beetchermarlf, ma fu interrotto dal suo capitano.
— I volatori però non hanno segnalato alcun dislivello… no, ha ragione lei: è meglio controllare — disse, sollevandosi fino a raggiungere i tubi acustici per chiamare il laboratorio. — Borndender, che mi dice della pressione? La sta tenendo sotto controllo, vero?
— Naturalmente, capitano. Sia il pallone di prua sia quello di poppa hanno continuato a espandersi da quando ci siamo mossi. Direi che siamo scesi di almeno sei lunghezze corporee… stavo giusto per immettere altro argon.
Dondragmer ringraziò, poi si rivolse nuovamente al timoniere.
— Aveva ragione, e io avrei dovuto pensarci prima. Questo significa che veniamo trasportati anche dalla corrente oltre che dal vento, e che tutte le nostre congetture su dove, quando e come ci saremmo fermati vanno riviste. Non può esistere corrente se non esiste una pendenza, e in tal caso l’acqua di questo altopiano deve pur defluire da qualche parte!
— Siamo in grado di resistere a lungo qui dentro, signore, e possiamo tenerci pronti per un eventuale impatto. Non vedo cos’altro si possa fare…
— Una sola cosa — mormorò cupamente Dondragmer, sollevandosi di nuovo fino ai tubi acustici e richiamando l’attenzione generale con quel suo lungo ululato a sirena. Una volta sicuro che tutti lo stavano ascoltando, mosse indietro di qualche decina di centimetri per sistemarsi alla stessa distanza da tutti i tubi e iniziò a parlare a voce alta per farsi sentire in modo chiaro.
— Voglio che tutto l’equipaggio indossi immediatamente le tute spaziali. Abbandonate pure i vostri posti, pronti però a tornarvi non appena le avrete indossate — ordinò. Poi si abbassò sulla piattaforma di comando e si rivolse a Beetchermarlf. — Vada a prendere la mia e la sua tuta spaziale, svelto.
Il timoniere fu di ritorno entro un minuto e mezzo. Si avvicinò al capitano per aiutarlo a infilarsi la tuta, ma fu allontanato con gesto imperioso e scese a infilarsi la propria. Due minuti dopo, entrambi i mescliniti facevano ritorno alle proprie posizioni, un po’ impacciati dalla tuta trasparente.
Ma tutta quella fretta si rivelò superflua. Passò del tempo, mentre Beetchermarlf giocherellava con l’inutile timone e Dondragmer si chiedeva se gli scienziati umani potevano, per una volta, saltar fuori con qualche informazione che fosse utile oltre che accademica. Sperava più che altro che i satelliti riuscissero a determinare la loro velocità e direzione. Sarebbe stato simpatico, pensò con cinismo, sapere in anticipo quanto forte sarebbe stata la botta che erano destinati a prendere al termine del viaggio. Ma questa era un’informazione difficile da ottenere e lui lo sapeva bene. Più di trenta satelliti circondavano ormai il pianeta, ma orbitavano a meno di cinquemila chilometri dalla superficie. Nessuno aveva mai pensato di elevare le loro orbite, perché il loro ridotto campo di rilevazione visiva e infrarossa garantiva in pratica lo studio perfetto di una determinata superficie. La base spaziale umana, che stazionava a dieci milioni di chilometri dalla colonia, avrebbe teoricamente dovuto seguire tutti i ricognitori grazie alla sua sofisticatissima strumentazione. Infine, la velocità dei satelliti, che si avvicinava a centocinquanta chilometri al secondo, rappresentava senza dubbio una difficoltà per il rilevamento temporaneo nonostante gli umani affermassero che era necessaria per mantenere sotto controllo tutta l’area coperta dai ricognitori. Insomma, Dondragmer dubitava che i satelliti potessero essergli di qualche aiuto e sapeva che la base spaziale non lo vedeva perché da loro non aveva mai ricevuto informazioni utili.
Finalmente, circa un’ora e mezzo dopo lo scioglimento della neve una leggera vibrazione percorse tutta la Kwembly. Dondragmer subito segnalò ai suoi uomini che le ruote stavano probabilmente toccando il basso fondale. Tutti avevano comunque pensato la stessa cosa e la tensione cominciò a salire.
Poco o nulla preannunciò loro la fine del viaggio. Un suono dal laboratorio richiamò l’attenzione del capitano, a cui venne riferito che la pressione saliva alquanto rapidamente e che un’immissione addizionale di argon era necessaria per prevenire una possibile depressurizzazione. La velocità non sembrava aumentare, ma le implicazioni del rapporto dal laboratorio erano abbastanza chiare: stavano scendendo più rapidamente. A quanto poteva equivalere la loro velocità orizzontale? Il capitano e il timoniere si guardarono negli occhi, e nessuno dei due trovò il coraggio di porre all’altro questa domanda. Passò altro tempo. La tensione ormai era palpabile, e chele e zampe afferravano il più saldamente possibile sostegni, maniglie e ripari.
Poi, all’improvviso, il silenzio fu rotto da un frastuono spaventoso, e lo scafo curvò bruscamente. Seguì un altro colpo, e la Kwembly si inclinò pesantemente su un lato. Per parecchi secondi il robusto mezzo sembrò lottare contro forze immani per non capovolgersi, e coloro che si erano riparati vicino alla prua la sentirono cozzare ripetutamente e gemere ferita dalle rocce. La nebbia, o forse era spuma ribollente, impediva la vista e rendeva impossibile seguire visivamente le peripezie della caduta. E infine, con un suono secco e metallico e un sobbalzo spaventoso, la Kwemby sembrò fermarsi inclinandosi di sessanta gradi a tribordo: stavolta era incagliata. Gemiti e sfregamenti suggerivano qualche movimento, ma per fortuna quell’incredibile corsa sembrava definitivamente terminata. Per la prima volta, il gorgogliare delle acque che passavano sotto lo scafo inclinato divenne chiaramente udibile.
Dondragmer e l’equipaggio erano incolumi. Per delle creature che consideravano normali duecento gravità della Terra e una sgradita seccatura un’attrazione pari a seicento G, un’accelerazione come quella appena subita non significava nulla: le loro chele stringevano ancora gli appigli più vicini, e le loro zampe rimanevano ben piantate sul pavimento. Il capitano non si preoccupò neppure di sincerarsi delle condizioni dell’equipaggio. Le sue prime parole indicarono che stava considerando le cose da un punto di vista più ampio.
— Equipaggio, a rapporto — urlò nei tubi acustici. — Iniziare immediatamente il controllo esterno del fasciame e segnalare quanto prima le incrinature, le ammaccature, gli squarci e qualsiasi altro danno che possa provocare delle perdite. Personale scientifico: iniziare le procedure d’emergenza e verificare la presenza di infiltrazioni di ossigeno. Biorigenerazione: bloccare il ricircolo atmosferico fino a quando non sia stata verificata la tenuta dello scafo. Scattare!
Apparentemente i tubi acustici funzionavano bene. Difatti non appena Dondragmer terminò cominciarono a echeggiare suoni di risposta. Man mano che arrivavano i rapporti Beetchermarlf si rilassò. Non si aspettava che la struttura e il fasciame della Kwembly offrissero tanta resistenza agli urti e dopo aver constatato che l’atmosfera velenosa di Dhrawn non trovava facile accesso all’interno dello scafo sentì salire di parecchio la scarsa stima che provava per gli ingegneri alieni che l’avevano progettato. Aveva sempre considerato la resistenza e la durata dei materiali artificiali inferiore a quella dei materiali organici e trovava ottimi motivi per continuare a pensarla così. Tuttavia, apparve chiaro una volta terminati i controlli che la Kwembly non aveva riportato danni alle strutture né si erano aperti squarci nel fasciame. Anche in condizioni normali, però, esistevano delle perdite inevitabili in una costruzione che doveva avere delle uscite per la strumentazione e il personale e parecchie aperture per l’equipaggiamento di rilevazione esterno. Ma anche qui i controlli tranquillizzarono un po’ tutti: sembrava proprio che tutto fosse andato per il meglio. Naturalmente, il controllo dell’ossigeno e di eventuali infiltrazioni sarebbe continuato come normale routine.
L’energia non era mancata un momento, ma la cosa non sorprese nessuno. I venticinque generatori indipendenti all’idrogeno, moduli identici che potevano venir sistemati e utilizzati in qualsiasi sezione della Kwembly, erano dispositivi a stato solido privi di parti in movimento se si eccettuavano le molecole del gas che vi veniva pompato. Potevano finire per sbaglio sotto una pressa meccanica senza che ne risultassero minimamente danneggiati.
La maggior parte dei fanali esterni risultavano danneggiati e non funzionavano più, ma sostituirli o ripararli non rappresentava un grosso problema. Alcune luci però funzionavano ancora, e dalla parte del ponte che si trovava a livello dell’acqua era possibile guardar fuori. La nebbia era calata di nuovo e impediva completamente la vista. Con cautela, Dondragmer raggiunse la sezione più vicina alle rocce, e osservò l’agglomerato di macigni arrotondati con diametri fino a venti lunghezze corporee contro cui la Kwembly si era arenata. Poi, usando la stessa cautela, si arrampicò di nuovo fino alla sua piattaforma, attivò la radio e trasmise la comunicazione che Barlennan doveva ricevere poco più di un minuto dopo. Senza attendere la risposta, si girò verso il suo timoniere.
— Beetchermarlf, mi sostituisca in caso l’equipaggio avesse bisogno di qualcosa. Io scendo a dare una controllata generale a mia volta, soprattutto ai portelli stagni. Qualsiasi cosa si possa dire sulla resistenza della Kwembly, nessuno poteva prevedere una serie di colpi così quando l’abbiamo montata. Speriamo di non essere obbligati a servirci solo delle piccole uscite di emergenza… il guaio è che il portello principale si trova proprio nella zona a contatto delle rocce. Potrebbe anche risultare bloccato esternamente e forse aprendo il portello più interno troveremo la vasca del “septum” completamente sommersa. Chiacchieri pure con gli umani, se vuole. Pratichi un po’ il loro linguaggio e li obblighi a praticare un po’ il suo: è positivo sia per lei che per loro. Bene, il ponte è tutto suo.
Dondragmer bussò sul ponte come sempre per segnalare che stava per scendere, anche se vista la situazione era scontato. Poi aprì la botola e scese le scale, lasciando Beetchermarlf da solo.
Il timoniere sentì di non aver tempo per chiamare la base umana e fare un’inutile chiacchierata con gli alieni: il capitano lo aveva lasciato con troppe domande a cui rispondere. Date le circostanze, non si sentiva affatto felice di assumersi la responsabilità del ponte. Non era neppure molto preoccupato per il portello stagno principale perché i portelli di emergenza erano abbastanza larghi anche se, ricordò in quel momento, privi di meccanismi di climatizzazione. Be’, al momento la voglia di uscire sembrava passata un po’ a tutti, ma se non fosse stato possibile liberarsi da quell’incomoda posizione certamente il problema sarebbe saltato fuori.
La vera domanda era quanto utile poteva mai essere lavorare all’esterno. Trecentomila cavi, cioè poco meno di diciannovemila chilometri, rappresentavano una lunga camminata, soprattutto appesantiti dalle vasche di biorigenerazione. Senza di esse infatti non valeva neppure la pena di tentare. L’organismo dei mescliniti era di una resistenza incredibile e poteva sopportare una gamma di temperature che sbalordiva i biologi umani, ma l’ossigeno rappresentava la loro bestia nera e spesso su Dhrawn la percentuale presente nell’aria era tale da costituire un serio problema.
La cosa migliore da tentare in quel momento era di rimettere la grossa macchina sulle ruote. Se e come questo risultato poteva venir raggiunto dipendeva in larga misura dal flusso d’acqua che scorreva sotto lo scafo inclinato. Nonostante la corrente, lavorare all’esterno sembrava possibile; sicuramente difficile e pericoloso, certo, ma possibile. Per lavorare però bisognava venir pesantemente ancorati, per non farsi trascinare via dalla furia delle acque, e questo rappresentava un’ulteriore complicazione.
Tra l’altro il flusso non sembrava affatto permanente: era iniziato con quel repentino cambiamento del tempo, e poteva smettere in modo altrettanto repentino. In ogni caso, pensò subito, vi è una differenza notevole tra il tempo e il clima. Se il lago era stagionale, la sua natura temporanea poteva provarsi troppo lunga Per i loro gusti: un anno di Dhrawn equivaleva a una volta e mezzo quello di Mesklin e a oltre otto volte quello della Terra.
Questo era un argomento su cui gli umani potevano aiutare. Gli alieni avevano studiato Dhrawn per più di uno dei suoi lunghi anni e lo avevano osservato senza troppo approfondire per molto più a lungo. Dovevano saperne qualcosa sulle sue stagioni. Il timoniere si domandò se era il caso di chiamare la stazione spaziale e porre apertamente la domanda. In fin dei conti il suo capitano non lo aveva fatto, o forse non ci aveva pensato. In effetti il capitano aveva esplicitamente dichiarato che poteva usare la radio per fare una chiacchierata, senza troppo approfondire quale argomento dovesse trattare.
L’idea che non esistesse nulla di cui non si potesse discutere con i loro sponsor umani tranne il disastro della Esket faceva molta fatica a diffondersi negli ultimi gradini della scala gerarchica dei mescliniti. Il giovane timoniere stava quasi per decidersi quando la radio accanto a lui cominciò a parlare. Si trattava, tra l’altro, di qualcuno che parlava la sua lingua, anche se l’accento lasciava molto a desiderare.
— Dondragmer, immagino che sia molto occupato in questo momento e non so se si trova in posizione di rispondermi, così sarei lieto se qualcuno lo facesse per lei. Il mio nome è Benj Hoffman, e sono un assistente presso il laboratorio di meteorologia della stazione spaziale. Abbiamo bisogno di informazioni, e mi chiedevo se qualcuno di voi può darcele.
“Per quanto mi riguarda — continuò Benj — sarei felice di far pratica con il vostro linguaggio: immagino vi risulti ovvio che ne ho un gran bisogno. Qui al laboratorio siamo in una posizione difficile. Due volte di fila abbiamo ottenuto delle previsioni per la vostra parte del pianeta totalmente inaffidabili. Il fatto è che non abbiamo abbastanza informazioni dettagliate per poter lavorare seriamente. I rilevamenti che riusciamo a fare da qui si stanno dimostrando insufficienti e vicino a voi non vi sono altri ricognitori per poterci dare una mano. Voi e gli altri avete disseminato un sacco di rilevatori automatici sulla vostra strada, ma l’area coperta è minima rispetto all’estensione del pianeta. Visto che delle previsioni meteorologiche accurate possono aiutare sia voi che noi, avevo pensato di chiamarvi per parlare con qualcuno dei vostri scienziati e ascoltare i loro rilevamenti, in modo da poterli inserire nel computer con gli altri dati e cercare di ottenere delle previsioni esatte, almeno per la vostra area.”
Il timoniere replicò senza pensarci due volte.
— Il capitano adesso non è sul ponte, umano Benj Hoffman. Il mio nome è Beetchermarlf e sono uno dei timonieri. Per quanto mi riguarda, sono felice di farle praticare il nostro linguaggio quando le circostanze lo permettono, come adesso. Temo però che gli scienziati siano molto occupati adesso, e anch’io in effetti debbo attendere a molte cose perché sostituisco il capitano. Le cose non vanno molto bene, anche se ho sentito che il capitano vi ha fatto solo un rapporto frettoloso. Cercherò di fornirvi un quadro completo della situazione assieme ad alcune considerazioni che ho fatto qui sul ponte. Registri pure le mie osservazioni per rivederle con qualcun altro dei vostri scienziati, se crede. In caso lei pensi che la nostra chiacchierata non valga la pena di venir riferita ai nostri superiori, non lo farò. Dondragmer ha già abbastanza problemi per conto suo. Aspetterò che lei mi dica se ha intenzione di registrare oppure no prima di cominciare.
Beetchermarlf fece una pausa, non solo per la ragione appena data. Si domandava invece se valesse poi la pena di raccontare a un alieno le sue idee sulla loro situazione, idee che tra l’altro gli parevano ingenue e poco elaborate.
Tuttavia, riferire i fatti era senz’altro utile. Gli umani infatti non conoscevano in dettaglio la loro attuale situazione. Quando arrivò la risposta di Benj, il timoniere aveva già recuperato un po’ di fiducia.
— Per me va benissimo, Beetchermarlf. Sto per registrare il suo rapporto. Mi ero già preparato, comunque, per far pratica con il linguaggio. Possiamo cominciare da dove vuole, e anche se i vostri scienziati sono occupati io e lei potremmo cercare di stabilire quali sono le condizioni atmosferiche effettive. Non dovrebbe risultare difficile farsi riferire i risultati dei loro rilevamenti, e lei si trova sul posto e può vedere fuori. Inoltre, lei è stato scelto da Barlennan su Mesklin, e senza dubbio conosce qualcosa sul tempo atmosferico. Per quel che ne so io, lei potrebbe aver trascorso il doppio dei miei anni a studiare meteorologia su Mesklin. Bene, cominci pure: la sto ascoltando.
Questo discorso sortì l’effetto di sollevare completamente il morale di Beetchermarlf. Erano trascorsi solo dieci anni di Mesklin da quando gli alieni avevano iniziato il loro corso di istruzione per pochi mescliniti selezionati. Quel giovane umano doveva avere al massimo cinque anni, forse anche di meno. Certo, era difficile capire come incideva l’età sulla maturità di una razza aliena e non si trattava di una domanda da porre a cuor leggero. Ma nonostante l’aura di anormalità che tendeva a circondare tutti gli alieni, gli risultava difficile considerare un giovane di solo cinque anni come una creatura superiore.
Rilassato come poteva esserlo chiunque su una superficie inclinata di sessanta gradi, il timoniere iniziò a descrivere la situazione della Kwembly. Raccontò in dettaglio il lungo viaggio in balìa della corrente e del vento e concluse che l’altipiano doveva ormai venir considerato un lago. Descrisse poi quello che vedeva dalle vetrate sul ponte. Spiegò che le ruote sembravano uscite dai loro supporti ed enfatizzò i problemi che attendevano tutti loro se non fossero riusciti a metterle a posto. Entrò infine nei dettagli della struttura dei portelli stagni, riferendo che quello principale pareva fuori uso e gli altri di dubbia utilità.
— Ci aiuterebbe moltissimo sapere — concluse il mesclinita — cosa succederà a questo lago e se ghiaccerà o seccherà. Se tutta la neve caduta in questa pianura si è sciolta nello stesso momento e sta lentamente defluendo a valle, è probabile che rimarremo bloccati qui fino all’anno prossimo, anno di Dhrawn naturalmente. Questo significa che dovremo pianificare le cose in modo molto diverso. Se invece verremo a sapere che presto il flusso d’acqua si interromperà, aspetteremo che succeda per poter lavorare all’asciutto.
Benj impiegò molto di più di sessantaquattro secondi per iniziare a rispondere. Evidentemente la domanda lo aveva obbligato a riflettere. — Porterò subito la registrazione del nostro colloquio alla sezione di pianificazione, che la distribuirà ai laboratori dopo averne fatto delle copie. Persino io capisco che senza una maggior conoscenza del pianeta è difficile, se non impossibile, sapere in anticipo cosa succederà a quel lago. Certo se è iniziato una specie di disgelo e la neve caduta in inverno sta cominciando a sciogliersi sarà dura che l’acqua diminuisca prima di un lungo periodo di tempo. Se tutte le precipitazioni nevose del Nord America si sciogliessero nello stesso momento e l’acqua fosse obbligata a defluire da un’unica via… be’, forse un anno intero non basterebbe. Non ho idea di quale estensione coprano i vostri rilevamenti aerei e non so quanto chiare possano risultare le foto prese da qui o dai satelliti, ma scommetto che quando avremo riportato tutti i dati su una mappa ci sarà ancora posto per le discussioni. E anche se arrivassimo a una conclusione comune, sarebbe tutta da verificare: Dhrawn è ancora in gran parte misterioso.
— Ma voi avete esplorato altri pianeti, e vi dovete esser fatti un’esperienza notevole! — esclamò il mesclinita. — Pensavo che questo potesse esservi di aiuto.
Di nuovo la risposta arrivò con molto ritardo rispetto al lasso di tempo dovuto alla distanza.
— Gli uomini e le altre razze capaci di viaggi interstellari hanno esplorato molti pianeti, questo è vero, e io ho studiato molto le condizioni ambientali e i problemi incontrati in queste esplorazioni. Ma il guaio è che nessuno di quei pianeti presentava le caratteristiche di Dhrawn. Brevemente, esistono tre tipi di pianeti dotati di atmosfera. Il primo è di tipo terrestre: piccolo, denso e praticamente privo di idrogeno libero. Il secondo è di tipo gioviano: molto grande e poco denso perché hanno trattenuto tutto l’idrogeno liberato alla loro formazione. Fino a poco tempo fa conoscevamo bene solo questi due tipi di pianeti, perché sono gli unici presenti nel nostro sistema solare.
“Il terzo tipo invece è molto grande, molto denso e molto difficile da studiare. La teoria che spiegava che il tipo uno aveva perso il suo idrogeno per via della sua massa ridotta alla formazione e che il tipo due lo aveva mantenuto grazie alla grande massa andava bene finché non ci siamo imbattuti nel terzo tipo. Insomma, non appena abbiamo messo il naso fuori dalla porta di casa le nostre teorie si sono dimostrate tremendamente inadeguate, se mi consente di esprimermi come il mio professore di fisica.
“Un pianeta del terzo tipo è quello che state esplorando. Questi pianeti hanno la strana caratteristica di non comparire mai in sistemi solari dove sia presente un pianeta di tipo terrestre; una spiegazione sicuramente ci sarà, ma noi ne siamo ancora ben distanti. In ogni caso, nulla si sapeva su questo tipo di pianeti fino a quando è stata creata la Confederazione delle razze e sono iniziati viaggi interstellari a cadenze regolari, e il numero di astronavi è cresciuto a un punto tale che l’obiettivo principale delle ricerche non era più la scoperta di nuovi pianeti sfruttabili, ma la ricerca su nuovi fenomeni. Ma anche allora potevamo studiare ben poco sui pianeti del terzo tipo, addirittura meno di quanto potevamo sui pianeti di tipo gioviano. In genere inviavamo delle sonde robotizzate costruite appositamente, molto costose e qualche volta poco affidabili. Quella che ci offre la sua specie è la prima occasione che abbiamo di portare un’esplorazione simile fino in fondo.”
— Ma anche Mesklin è un pianeta di terzo tipo — ribatté Beetchermarlf — se ho ben capito la sua descrizione. Ormai dovreste conoscerlo bene: sono più di dieci anni che avete preso contatto con la mia razza, e alcune vostre spedizioni sono anche atterrate sulla Corona… voglio dire, all’equatore.
— Sì, per noi questo è successo più di cinquant’anni fa. Ma il guaio è che Mesklin non è un pianeta di tipo tre: è un tipo due abbastanza particolare, che probabilmente avrebbe mantenuto tutto il suo idrogeno se non ruotasse su se stesso a quella velocità incredibile. Con il suo giorno lungo appena diciotto minuti e quella forma da uovo fritto, il vostro pianeta è unico nella galassia, o meglio non ne abbiamo ancora trovato uno paragonabile. Ecco quindi il motivo per cui la Confederazione ha investito molto sia in termini finanziari che di tempo per contattare la vostra razza e realizzare la colonia su Dhrawn. Tra una trentina d’anni terrestri ne sapremo molto, molto di più sia grazie ai rilevatori neutrinici dei satelliti sia grazie ai sismografi e all’equipaggiamento elettronico che state disseminando per la superficie del pianeta. Ma anche le vostre analisi chimiche e il campionamento sottosuperficiale ci aiuteranno non poco. Ancora cinque o sei dei vostri anni e ne sapremo abbastanza su quella palla di roccia da poter affermare con sicurezza se si tratta di una stella o di un pianeta, e finalmente sapremo perché esiste.
— Vuol dire che siete entrati in contatto con la nostra razza solo per dare il via all’esplorazione di Dhrawn?
— No, in effetti non era questo che intendevo dire. Le razze intelligenti sono poche, e valgono la pena di essere conosciute solo perché esistono. Almeno, questo è quanto i miei genitori continuano a ripetermi, anche se ho conosciuto dei drommiani che forse avrei preferito non incontrare. Credo che l’idea di collaborare con voi per l’esplorazione di Dhrawn sia saltata fuori molto tempo dopo che i corsi d’istruzione per voi erano stati istituiti. Mia madre o il dottor Aucoin potranno certamente rispondere meglio di me. Immagino però che quando l’idea di esplorare Dhrawn col vostro aiuto è stata proposta, tutti l’hanno accolta con grande entusiasmo.
Questo naturalmente spinse Beetchermarlf a porre un’altra domanda che gli ronzava in testa da tempo, qualcosa che non aveva mai osato chiedere per paura di offendere la mentalità umana come il domandare a qualche umano più anziano quanta validità avesse il colloquiare con una creatura di appena cinque anni. Comunque stavolta non si trattenne, e i due continuarono a discutere per quasi un’ora sull’utilità di portare a compimento un’esplorazione tanto complicata e priva in apparenza di vantaggi concreti e immediati. Benj non difese troppo bene le sue argomentazioni. Rispose in modo abbastanza completo sulla necessità di progetti indotti dalla curiosità umana, argomento che il mesclinita conosceva e sembrava apprezzare; poi parlò della necessità di trovare sempre nuovi campi di sviluppo tecnologico, portando a esempio le difficoltà energetiche degli uomini e di altre razze prima che le missioni nello spazio consentissero la realizzazione dei generatori a fusione di idrogeno; in ogni caso, Benj era troppo giovane per risultare veramente eloquente. Gli mancava l’esperienza necessaria per illustrare chiaramente anche a sé stesso la completa dipendenza di ogni cultura dalle spiegazioni che sapeva fornire sulle leggi dell’universo. In ogni caso la conversazione tra i due non languì mai, cosa abbastanza difficile con più di un minuto a disposizione per raffreddare gli entusiasmi tra affermazione e risposta. In effetti, tutta la conversazione servì soprattutto a Benj per rafforzare la sua conoscenze dello stennita.
La discussione si interruppe quando Beetchermarlf si accorse all’improvviso di un cambiamento attorno a sé. Per quasi un’ora la sua attenzione era stata interamente catturata dalla comunicazione con l’umano, e il ponte inclinato con il gorgoglio del liquido che scorreva sotto la Kwembly erano passati completamente in secondo piano. Ma quando rialzò la testa si accorse con estrema sorpresa che attraverso le vetrate brillavano le stelle. Orione. La nebbia si era dissolta.
Esplorando con lo sguardo l’ambiente attorno a sé fissò con incredulità l’acqua che circondava il ponte da tutte le parti. Sì, sembrava un poco più bassa. Dieci minuti di attenta osservazione lo convinsero che non era un’impressione: il livello dell’acqua stava veramente scendendo.
Durante quei dieci minuti Benj era rimasto in linea. Beetchermarlf gli spiegò il motivo di quel silenzio improvviso e il ragazzo avvisò subito McDevitt. Quando il mesclinita confermò che il livello dell’acqua stava veramente scendendo, Benj era circondato da parecchi colleghi più anziani di lui interessatissimi per quel fenomeno inaspettato. Il timoniere riferì brevemente sulle novità, e fu solo dopo che chiamò Dondragmer ai tubi acustici.
Quando la novità lo raggiunse il capitano si trovava molto a poppa, oltre l’area del laboratorio e in prossimità dei vani contenenti i palloni di controllo pressione. Ci fu una pausa dopo che Beetchermarlf terminò il suo rapporto, e il timoniere si stupì molto di non sentire il capitano annunciare che sarebbe arrivato sul ponte in meno di un minuto. Dondragmer però la pensava in modo diverso. I portelli stagni secondari sparsi un po’ per tutto lo scafo erano comunque troppo piccoli per permettere di stimare con accuratezza il livello dell’acqua, si disse il comandante osservando il portello della sezione in cui si trovava, e quindi era meglio accettare senza riserve la valutazione del timoniere. Conveniva quindi rimanere dove si trovava, e stupire ancora una volta il suo giovane secondo.
— Tenga nota di quanto velocemente scende il livello. Manderò tra poco qualcuno a sostituirla — ordinò. — Riferisca poi a me e agli umani non appena ritiene che il rilevamento sia attendibile, aggiornando i dati se vi sono dei cambiamenti.
— Agli ordini — fu la risposta di Beetchermarlf, che subito si arrampicò sul ponte fino a raggiungere un punto in cui riuscì a tracciare una linea sul vetro di un oblò per indicare il livello dell’acqua. Dopo aver riferito dell’azione al capitano e agli ascoltatori umani, ritornò al suo posto con gli occhi fissi sulla linea. Le increspature sul pelo dell’acqua raggiungevano però anche i dieci centimetri, e quindi impiegò più tempo del previsto per avere conferma della variazione di livello. Dalla stazione spaziale arrivarono due o tre domande impazienti, alle quali rispose meglio che poteva nel suo limitato linguaggio umano, prima che Benj gli annunciasse di essere di nuovo solo a eccezione di coloro che seguivano sui monitor gli altri ricognitori. La maggior parte del tempo trascorsa prima che Takoorch venisse a dargli il cambio passò veloce discorrendo con il giovane umano dei rispettivi pianeti e correggendo i preconcetti che l’uno nutriva sul pianeta dell’altro, oltre che a praticare entrambi i linguaggi. Piano piano, tra i due stava nascendo una profonda simpatia.
Beetchermarlf ritornò sei ore dopo per dare il cambio a Takoorch (in effetti l’intervallo era di venti giorni mescliniti, cioè un giro completo dei loro orologi) e vide che l’acqua era scesa di una trentina di centimetri rispetto al segno di riferimento. Takoorch lo informò che l’umano chiamato Benj era appena tornato ai monitor dopo aver riposato. Il giovane timoniere non poté evitare di domandarsi quanto tempo dopo la sua dipartita Benj aveva deciso di andare a dormire. Naturalmente non aveva intenzione di formulare questa domanda in modo esplicito, ma si mise comodo ugualmente e attivò l’impianto di trasmissione, chiamando subito la stazione.
— Sono di nuovo qui, Benj. Non so quanto recente sia l’ultimo rapporto di Takoorch, ma sembra che il livello sia sceso più di mezza lunghezza corporea e la corrente sia decisamente meno impetuosa. Il vento è cessato quasi completamente. I vostri scienziati hanno qualche novità?
Mentre attendeva il messaggio di ritorno realizzò che quella domanda aveva in effetti poco senso. La principale informazione che gli umani potevano trasmettere loro riguardava la durata del deflusso delle acque, e senz’altro avrebbero dovuto attendere ancora prima di saperlo. Però potevano esserci anche altre cose che Dondragmer avrebbe voluto sentire.
— Il suo sostituto ci ha riferito la stessa cosa non molto tempo fa, insieme a molte altre informazioni — annunciò la voce di Benj.
— Mi fa piacere parlare di nuovo con lei, Beetchermarlf. Non ho ancora sentito niente dai laboratori, ma abbiamo riprodotto la posizione in cui vi trovate paragonandola al tasso di abbassamento del livello dell’acqua e direi che in sessanta, settanta ore dovreste trovarvi all’asciutto, naturalmente se l’acqua continua ad abbassarsi alla stessa velocità. Può darsi che l’acqua defluisca attraverso un largo e comodo passaggio, ma io non ci conterei troppo. Odio sembrare un pessimista, ma sono pronto a scommettere che l’acqua smetterà di defluire prima che voi vi troviate completamente all’asciutto.
— Sì, può darsi che vada così — concordò il mesclinita. — D’altro canto, se la corrente rallenta abbastanza ci consentirà di lavorare all’esterno, e quindi di metterci in salvo sulle rive prima che succeda qualche altro fenomeno imprevisto.
Questa fu un’osservazione profetica. Era ancora a metà strada tra la Kwembly e la stazione spaziale quando un suono in uno dei tubi acustici richiamò la sua attenzione.
— Beetchermarlf, informi gli umani che tra poco arriverà Kervenser a sostituirla e si rechi immediatamente al portello di emergenza a tribordo, pronto per uscire. Voglio controllare le ruote e le funi di guida. Uscirete in tre per maggior sicurezza. Non mi interessa tanto la rapidità quanto delle osservazioni accurate. Se vi sono danni più facilmente riparabili in posizione inclinata che in posizione normale voglio saperlo prima possibile. Dopo aver controllato lo stato della Kwembly, voglio che diate un’occhiata in giro. Voglio sapere quanto solidamente ci siamo ancorati e quanto lavoro c’è per ritornare in posizione normale. Uscirò anch’io per un simile controllo, ma mi interessa l’opinione di qualcun altro.
— Va bene, signore — rispose il timoniere, quasi scordandosi di riferire a Benj. Anche stavolta l’ordine l’aveva sorpreso, non tanto perché gli veniva richiesto di uscire, ma perché il capitano aveva scelto proprio lui per controllare il suo giudizio.
Tutti si erano tolti le tute spaziali una volta scoperto che non si registravano infiltrazioni, ma Beetchermarlf si infilò la sua in poco più di mezzo minuto e un attimo dopo si avviò verso il punto d’incontro designato. Là incontrò il capitano e quattro marinai che lo stavano aspettando, tutti con già indosso la tuta spaziale. I marinai tenevano con le chele delle grosse gomene.
— Eccola qua, finalmente — disse il capitano. — Stakendee uscirà per primo e connetterà la corda alla maniglia esterna più comoda da raggiungere. Dopo toccherà a lei, Praffen. Mi raccomando di connettere la corda a una maniglia diversa. A quel punto potrete iniziare a svolgere i compiti che vi sono stati affidati. Aspettate… legate queste ai rinforzi delle vostre tute: senza zavorra rimarreste a galla — spiegò, porgendo al timoniere quattro pesi con meccanismo di aggancio rapido studiato per le nervature metalliche delle tute.
L’uscita avvenne in silenzio attraverso il piccolo portello. Si trattava essenzialmente di uno stretto passaggio a U inondato di ammoniaca, abbastanza profondo da non soffrire in modo particolare l’insolita inclinazione della Kwembly. Comunque, il fatto che l’estremità esterna si trovasse immersa nell’acqua poteva creare parecchi problemi. Beetchermarlf emerse proprio nel mezzo del fiume e si sentì sollevato quando sentì la forte presa di Stakendee stringerlo impedendo alla forte corrente di trascinarlo via prima di aver assicurato la sua corda a una maniglia.
Un minuto dopo anche il terzo membro del gruppo si era unito a loro e insieme iniziarono a percorrere la breve distanza che li separava dalle secche su cui erano arenati. Queste erano composte da rocce arrotondate, le stesse rocce visibili dalle vetrate del ponte, disposte in un bizzarro insieme a onda che tagliava in due l’emissario del lago nel senso della corrente. A una prima occhiata, Beetchermarlf ebbe l’impressione che il ricognitore si fosse incastrato tra due di queste rocce. Le luci esterne rimaste funzionanti bastavano per vedere, anche se non certo in modo soddisfacente.
Il trio si fece strada e oltrepassò la parte anteriore della Kwembly per dare un’occhiata alla pancia del veicolo. Nonostante la scarsa visibilità apparve subito chiaro che avrebbero avuto molto da riferire a Dondragmer.
La Kwembly poggiava inizialmente su sessanta ruote larghe circa un metro e disposte in cinque serie longitudinali di dodici ruote ciascuna. Tutte le ruote erano sostenute da un perno girevole e l’insieme era manovrabile tramite un dedalo di corde connesse al timone che ricadevano sotto le responsabilità di Beetchermarlf. Presso ogni serie di ruote si trovava una nicchia in cui veniva installato un generatore collegato a un proprio motore, che consisteva di un albero dal diametro di sei pollici con una microstruttura tale da consentire una presa diretta su un campo magnetico rotante, cioè una delle modalità con cui gli elementi di fusione rilasciavano energia. In assenza del generatore le ruote giravano liberamente. Al momento dell’incidente, dieci dei venticinque generatori in dotazione alla Kwembly erano installati all’esterno in modo da formare una V che partiva da poppa per convergere a prua.
I tre non poterono far altro che constatare che a poppa mancavano diciotto ruote, ripartite tra cinque insiemi alimentati direttamente da un generatore.