Hal Clement Luce di stelle

1 Fermata di routine

Beetchermarlf sentì le vibrazioni smorzarsi quando il veicolo si fermò e istintivamente lanciò un’occhiata fuori prima di lasciare il timone della Kwembly. Fatica inutile, naturalmente. Il sole, o meglio il corpo celeste che cercava di concepire come il sole, era tramontato da appena venti ore. Il cielo era ancora troppo chiaro per vedere le stelle, ma non abbastanza chiaro da mostrare i particolari dell’anonima pianura coperta di neve polverosa che si estendeva intorno a loro. Dietro, cioè nell’unica direzione che risultava invisibile dal centro del ponte, la traccia lasciata dal grosso veicolo forniva almeno un punto di riferimento visivo, ma purtroppo non c’era nulla da fare: al timoniere la piccola sicurezza di un qualche punto di riferimento era negata.

Il capitano, stiracchiato sulla sua piattaforma situata sopra e dietro il timoniere, interpretò correttamente il significato della testa rialzata di quest’ultimo. Ne fu divertito, ma lo nascose benissimo. Nonostante gli anni trascorsi sugli imprevedibili oceani di Mesklin, un periodo pari a quasi due vite umane, non aveva ancora imparato ad amare l’incertezza ma semplicemente a conviverci. Comandare un mezzo che non conosceva a fondo, viaggiare sulla terraferma piuttosto che sugli oceani e sapere che la sua casa si trovava a più di tre parsec di distanza non intaccava minimamente la sicurezza che provava per sé stesso, anche se capiva perfettamente la mancanza di fiducia dei più giovani.

— Siamo fermi, timoniere. Possiamo dare il via alle cento ore di manutenzione ordinaria. Rimarremo qui per dieci ore.

— Agli ordini, signore — rispose Beetchermarlf assicurando il timone al piolo di fermo. Un’occhiata all’orologio gli rivelò che rimaneva poco più di un’ora di servizio, e così iniziò a controllare le funi che trasferivano i movimenti del timone alle ruote anteriori della Kwembly.

Le funi erano perfettamente visibili, dato che il disegno dei grossi e pesanti ricognitori di terra non concedeva nulla all’estetica. I progettisti dell’imponente veicolo e delle sue undici unità gemelle avevano badato esclusivamente alla robustezza e alla funzionalità. Bastò qualche secondo per sincerarsi che i pochi centimetri di fune che passavano per il ponte non mostrassero il minimo segno di usura. Il timoniere indicò a gesti al capitano che tutto andava bene, bussò sul ponte per indicare che stava arrivando, attese la risposta da sotto e sollevò la botola per discendere la rampa e continuare la sua ispezione.

Dondragmer lo osservò sparire al livello sottostante senza particolare apprensione. Le sue preoccupazioni andavano a ben altro, e il timoniere era solo un marinaio ai suoi ordini. Scacciò dalla mente la seccatura dei problemi al timone e si sollevò con tutti i suoi quarantacinque centimetri di statura fino a raggiungere i tubi acustici. Un lamento simile a una sirena, forse più forte del fischio del vento dei tifoni di Mesklin e comunque ridicolo nel silenzio dei campi ovattati di Dhrawn, catturò immediatamente l’attenzione dell’equipaggio.

— Parla il capitano Dondragmer. Stiamo iniziando una sosta di dieci ore per la manutenzione ordinaria. Turni di guardia: pronti per il servizio. Personale di ricerca: programma normale. Ricordatevi di lasciare il vostro nome sul ponte prima di uscire. I volatori rimarranno a terra fino a nuovo ordine. Controllo energia: a rapporto.

— Qui controllo energia, signore — rispose una voce poco più profonda di quella di Dondragmer.

— Biorigenerazione: a rapporto.

— Qui biorigenerazione. Tutto bene.

— Sala radio: a rapporto.

— Qui sala radio.

— Laboratorio: a rapporto.

— Qui laboratorio.

— Kervenser sul ponte a sostituirmi. Esco anch’io stavolta. Laboratorio, datemi le condizioni atmosferiche esterne.

— Un momento, signore — disse una voce giovane, riprendendo dopo brevissimo tempo. — Temperatura: settantasette. Pressione: ventisei virgola uno. Vento da ore nove a duecento corde l’ora. Percentuale di ossigeno: zero zero centoventidue, cioè standard.

— Neanche troppo male, dopotutto.

— Sì, in effetti può andar peggio. Col suo permesso, signore, vorrei uscire anch’io. Possiamo installare la trivella: prelevare campioni dal sottosuolo richiederà senz’altro meno di dieci ore.

— Va bene. Si dia da fare allora. Scenda con qualcuno a prendere la trivella e gli attrezzi, ed esca non appena può. Io vado adesso. Ci vediamo fuori. Ah, ricordi di riferire a Kervenser il suo numero di squadra… sa, per il giornale di bordo.

— Senz’altro capitano. Ci vediamo in dieci minuti.

Dondragmer si rilassò al suo posto. Anche a motori spenti non aveva intenzione di abbandonare la sua posizione prima che Kervenser arrivasse a sostituirlo. Sapeva però che il cambio avrebbe tardato qualche minuto, perché anche il suo secondo doveva trovare un sostituto. In ogni caso, l’attesa non lo annoiava: aveva molte cose a cui pensare. Anche se non poteva preoccuparsi, perché il sistema nervoso dei mescliniti non reagiva all’incertezza allo stesso modo di quello umano, gli piaceva esaminare a fondo le mille sfaccettature di certe situazioni, soprattutto se era destinato a viverle.

Il fatto che ben quindicimila chilometri li dividessero da qualsiasi forma di aiuto se la Kwembly si fosse guastata non lo preoccupava più di tanto e rappresentava nulla più di un pensiero alquanto fastidioso. Nella sua vita era sempre stato così, fin dai tempi in cui percorreva gli immensi oceani di Mesklin. Il senso di fastidio che corrodeva la sua placida e costante sicurezza era più che altro dovuto al mezzo che si trovava a comandare. Non assomigliava per nulla al flessibile insieme di travi di cui erano composte le navi del suo pianeta. Pareva che la Kwembly fosse in grado di galleggiare in caso di necessità e in effetti aveva galleggiato durante le prove su Mesklin, dove era stata costruita. Ma poi era stata smontata, caricata su una navetta, portata in orbita attorno al pianeta e infine trasferita nel capace vano merci di un’astronave interstellare per venir trasferita nuovamente su una navetta dopo un balzo nell’iperspazio di tre parsec che li aveva portati nelle vicinanze di Dhrawn. Dondragmer aveva seguito passo dopo passo lo smontaggio e il riassemblaggio della Kwembly e delle sue undici unità gemelle, ma molti passaggi erano stati per forza di cose eseguiti senza il suo controllo. Questo costituiva la ragione principale che lo spingeva a uscire. Nonostante l’ottima opinione che nutriva per Beetchermarlf e il resto dell’equipaggio preferiva rendersi conto di persona di come stavano le cose. Naturalmente si guardò bene dal menzionare qualcosa a Kervenser quando questi venne a rilevarlo sui ponte. Erano impressioni di cui non valeva la pena di discutere; e comunque, molto probabilmente il suo secondo pensava esattamente le stesse cose.

— I controlli di routine procedono. La squadra di ricerca sta uscendo con la trivella per prelevare campioni, e io intendo unirmi a loro per vedere come vanno le cose — spiegò Dondragmer cedendogli il posto. — In caso di necessità, utilizzi il solito segnale ottico. Bene, la Kwembly è tutta sua.

Kervenser serrò frivolamente due delle sue chele. — Ci penso io, capitano. Vada pure, e buon divertimento — rispose, e Dondragmer si avviò verso la botola ancora aperta da cui era entrato il suo sostituto, pensando che Kervenser non suonava per nulla spontaneo come voleva far sembrare.

Il portello stagno principale si trovava quattro livelli più sotto e una ventina di metri a poppa rispetto al ponte. Dondragmer si fermò parecchie volte prima di arrivarvi, per discutere con i membri dell’equipaggio che lavoravano tra le funi, le travature e le tubazioni che riempivano l’interno della Kwembly. Quando arrivò all’uscita trovò ad aspettarlo quattro scienziati che si stavano infilando le tute spaziali. Anche la trivella era già là. Il capitano li osservò con sguardo critico mentre avvolgevano il corpo allungato dalle molte zampe nei drappi trasparenti e verificò di persona la tenuta di ciascuna tuta, oltre a controllare le riserve di argon e idrogeno. Soddisfatto, fece loro cenno di oltrepassare l’uscita stagna e cominciò a vestirsi a sua volta. Quando uscì, gli altri avevano già iniziato a montare la trivella.

Diede loro solo una veloce occhiata fermandosi un attimo sulla rampa che conduceva a terra. Sapeva cosa stavano facendo e poteva fidarsi di loro ciecamente; solo gli sbalzi di umore del tempo rimanevano per lui totalmente inaffidabili. Anche quando chiuse il portello stagno esterno dietro di sé contemplò il cielo con tutta la dignità che derivava dal comando.

L’oscurità avanzava molto, molto lentamente man mano che la rotazione bimensile di Dhrawn allontanava il suo pallido sole dalla linea dell’orizzonte. Anche qui, come a casa, l’orizzonte sembrava elevarsi dolcemente man mano che lo sguardo si allontanava. Accadeva su tutti i pianeti a elevata gravità dotati di atmosfera, che addensandosi sulla superficie era responsabile di questo e altri insoliti effetti quali il violento tremolare delle stelle non appena diventavano visibili. Dondragmer rivolse lo sguardo verso sud, ma le due stelle gemelle a guardia del polo meridionale, Fomalhaut e Sol, non erano ancora sorte. Parte del cielo era coperta da bizzarre nubi cirriformi, in rapido movimento verso ovest. Evidentemente i venti ad alta quota soffiavano in direzione quasi opposta a quelli di terra, come sempre durante il periodo di luce. Ma i venti sarebbero presto cambiati, si disse Dondragmer. Qualche migliaio di chilometri più a ovest l’oscurità era già molto più intensa e questo avrebbe provocato dei cambiamenti di temperatura intensi e incredibilmente repentini, con effetti secondari che li avrebbero raggiunti forse in meno di una dozzina di ore. Quali potevano essere questi effetti nessun mesclinita, neanche i più anziani ed esperti, poteva prevederlo nonostante l’aiuto di tecnologia e scienze aliene. Al momento, comunque, tutto sembrava andare per il meglio. Discese la rampa fino in fondo e si allontanò dalla Kwembly di un’ottantina di metri verso est, dato che il portello si trovava a tribordo, in parte per assicurarsi delle condizioni del cielo e in parte per ottenere una panoramica completa della Kwembly e dell’equipaggio prima di iniziare l’ispezione.

Il cielo a occidente era rassicurante quanto quello sulle loro teste, e non rimase a osservarlo per più di qualche istante.

Tutto sembrava andare come al solito. Davanti a sé vedeva la Kwembly, che a un umano avrebbe ricordato probabilmente un grosso sigaro vagamente schiacciato tipo una forma di pasta lasciata troppo a lungo sull’asse da forno. Era lunga più di trenta metri, larga da sei a otto e il suo punto più alto si innalzava sul terreno gelato per cinque o sei metri. Si notavano due di questi punti: la curva superiore dello scafo, più spostata verso la coda del veicolo, e il ponte. Quest’ultimo era largo quasi sei metri e le sue linee quadrate sembravano fatte apposta per rompere l’armonia dell’insieme. Si trovava completamente a poppa, e consentiva al capitano, al timoniere e al personale di ricognizione di osservare bene il terreno davanti a loro man mano che la loro marcia procedeva.

La pancia del veicolo era piatta e si trovava a circa un metro di distanza dal suolo. Poggiava su diversi insiemi di larghe e robuste ruote dotate di pneumatici con spesso battistrada, collegate al timone da un’incredibile serie di funi che consentivano alla Kwembly un controllo praticamente completo in un raggio relativamente ristretto. Un materasso pneumatico isolava infine il fondo dello scafo dalle ruote, distribuendo la trazione e ammortizzando i sobbalzi dovuti alle piccole asperità del terreno.

Una sottile figura a forma di bruco avanzò lentamente lungo il lato visibile della Kwembly. Doveva trattarsi di Beetchermarlf intento a ispezionare l’esterno dello scafo. A una ventina di metri si ergeva la torre di trivellazione, ormai completamente montata. Altre figure, aggrappate alle maniglie di sostegno esterne invisibili dal suo punto di osservazione per via della distanza, stavano ispezionando il fasciame e controllando la tenuta delle travature. Di tutti i lavori quello era il più difficoltoso per i mescliniti. La paura morbosa delle grandi altezze era uno stato psicologico normale per una creatura proveniente da un pianeta con una gravità polare pari a seicento volte quella della Terra e una gravità “domestica” pari a un terzo. La gravità di Dhrawn, relativamente debole per i loro standard, toglieva un po’ di tensione all’operazione ma risultava facile comunque capire l’avversione che i marinai provavano per quella mansione. Dondragmer si avviò strisciando verso la grande mole del veicolo, attraversando nuovamente la ruvida distesa gelata la cui monotonia veniva interrotta di quando in quando da piccoli e stentati arbusti spinosi.

Il fasciame delle grandi sezioni ricurve era composto di fibra di boro legata a polimeri di ossigeno e fluoruri. Proveniva da un pianeta che nessun mesclinita aveva mai visto, nonostante i contatti con la razza che vi dominava fossero praticamente all’ordine del giorno. L’ingegneria chimica umana aveva sviluppato quel materiale proprio per la sua grande resistenza a qualsiasi agente corrosivo conosciuto. Gli umani sapevano che Dhrawn era uno dei pochi pianeti dell’universo con condizioni meteorologiche addirittura peggiori di quelle del loro pianeta tutto acqua e ossigeno. Conoscevano anche i mille problemi in cui ci si poteva imbattere nell’esplorazione di un pianeta con elevata gravità. Tutto questo aveva giocato un ruolo predominante nella concezione dei componenti dello scafo e dell’adesivo che li teneva insieme, sia l’adesivo temporaneo utilizzato per le prove su Mesklin sia quello permanente applicato su Dhrawn per l’assemblaggio definitivo. Dondragmer sentiva di potersi fidare ciecamente dell’abilità degli uomini e del loro impegno, ma non riusciva a dimenticare che non avevano mai affrontato direttamente, né contavano di farlo, le condizioni per cui i loro prodotti erano stati sviluppati. In breve, avevano costruito un paracadute senza esser mai saltati, anche se un simile paradosso risultava difficile per la mente di un mesclinita.

E così il capitano non disdegnava di dare di tanto in tanto un’occhiata al fasciame per vedere se l’adesivo stava cedendo in qualche punto. Certo, nutriva un profondo rispetto per la scienza degli alieni, ma sapeva che talvolta tra teoria e pratica corre una differenza enorme.

Quando si sentì di poter affermare che l’adesivo teneva bene e che nulla pareva fuori posto il cielo appariva notevolmente più scuro. Rispondendo alle sue segnalazioni, Kervenser aveva acceso parte delle luci esterne. I mescliniti arrampicati sulla Kwembly avevano quasi terminato il loro lavoro e a uno a uno iniziarono a scendere lasciando le loro caratteristiche impronte sulla neve gelata.

Beetchermarlf comparve da sotto lo scafo e riferì che tutti i pneumatici parevano in condizioni perfette. Gli addetti alla trivella continuavano il loro lavoro. Avevano già estratto parecchi chili di campioni, subito riposti al sicuro per evitare che lo sbalzo di temperatura li danneggiasse. La neve che copriva il terreno sembrava composta soprattutto di acqua, e quindi la temperatura dell’aria era molto inferiore al suo punto di fusione. Meglio però non fidarsi troppo: nessuno poteva sapere quanto profondo poteva essere lo strato di acqua gelata.

Le luci artificiali rendevano il cielo meno presente. La prima avvisaglia di un cambiamento del tempo fu un soffio di vento improvviso. La Kwembly oscillò leggermente sulle molte ruote con la ragnatela di funi che vibrava mentre il densissimo vento l’attraversava. Ma i mescliniti non vi prestarono molta attenzione. Con la gravità di Dhrawn, sarebbe stato necessario un uragano per soffiarli via. Su quel pianeta pesavano mediamente quanto una grande statua d’oro massiccio sulla Terra. Dondragmer non provò il minimo disturbo per quell’improvviso soffio di vento, ma istintivamente affondò le zampe nella neve polverosa. Gli seccava più che altro di non aver notato prima le nubi minacciose che il vento portava con sé. I cirri lanosi a più di tremila metri erano scomparsi, e al loro posto si imponevano minacciosi dei nuvoloni scuri bassi sull’orizzonte. Ancora non vi era traccia di precipitazioni, ma nessuno dei presenti dubitava che sarebbero presto arrivate. Non potevano sapere, comunque, che forma potessero assumere né con quanta violenza la tempesta si sarebbe sfogata. La maggior parte di loro si trovava su Dhrawn da un anno e mezzo in termini umani, ma questo non bastava per apprendere tutte le caratteristiche di un pianeta tanto più grande del loro. Ma anche se fossero rimasti per una rivoluzione completa del pianeta, invece del quarto di rivoluzione attuale, non sarebbe bastato; l’equipaggio ne era perfettamente cosciente.

La voce del capitano risuonò più forte del sibilo del vento. — Rientro immediato! Forza, tutti dentro. Stakendee, Reffel e Berjendee, aiutatemi a smontare la trivella. Il primo che entra avvisi Kervenser di tenersi pronto con i motori per dare la prua al vento — ordinò Dondragmer, realizzando però subito dopo che quest’ultima parte dell’ordine sarebbe stata impossibile da eseguire. I controlli di routine erano in pieno svolgimento, e probabilmente la squadra di manutenzione stava lavorando proprio sui motori. Ma visto che l’ordine era stato dato non ci pensò oltre. Sarebbe stato eseguito se possibile; ora la sua attenzione doveva andare ad altro. La trivella era priorità assoluta: le ricerche si svolgevano soprattutto tramite campionamento del sottosuolo. In pratica, quell’arnese rappresentava la sola ragione della loro presenza su Dhrawn. E anche se si sentiva libero da sospetti e pregiudizi nei confronti degli umani e delle loro intenzioni, al contrario di molti suoi consimili, sospettava che gli scienziati umani con cui collaboravano avrebbero preferito la morte di metà dell’equipaggio alla perdita della trivella.

La squadra di ricerca aveva già ritirato e smontato l’asta di guida e si stava dirigendo verso la Kwembly quando lui la raggiunse. Seguivano l’argano e la scatola degli ingranaggi del dispositivo, il cui funzionamento era totalmente manuale. Bisognava ancora smontare la struttura di supporto e la torre vera e propria. Salvarli era meno importante, in quanto avrebbero potuto venir sostituiti senza bisogno dell’assistenza umana, ma visto che il vento non sembrava voler aumentare il capitano e i tre sottoposti rimasero per vedere di smontarli e portarli in salvo nella stiva. Quando finalmente terminarono, gli altri erano già entrati da tempo e Kervenser li stava aspettando sul ponte con impazienza.

Finalmente, Dondragmer guidò il suo gruppo lungo la rampa di accesso e al di là del portello stagno, che chiuse dietro di loro. Si trovavano su un’asse larga circa un metro e lunga praticamente quanto il portello stagno, oltre la quale si estendeva una vasca altrettanto lunga piena di ammoniaca liquida che occupava la rimanente metà dello scompartimento. I più carichi del gruppo si calarono nella vasca afferrando delle maniglie simili a quelle che si trovavano sulla parte esterna dello scafo; gli altri, compreso Dondragmer, saltarono semplicemente dentro. La parete interna dello scompartimento si estendeva per circa un metro e mezzo sotto la superficie, e terminava a novanta centimetri dal fondo della vasca. Tutti si immersero e passarono sotto di essa, risalendo dall’altra parte su un’asse simile a quella da cui si erano appena tuffati. Un successivo portello dava direttamente sulla sezione centrale della Kwembly.

Avevano ancora addosso un leggero odore di ossigeno; qualche bolla di atmosfera esterna accompagnava in genere qualsiasi cosa passasse attraverso il portello, ma gli onnipresenti vapori di ammoniaca e i catalizzatori installati in parecchi punti dei molti livelli del veicolo si erano già da tempo dimostrati capaci di mantenere questo fastidio sotto controllo. La maggior parte dell’equipaggio aveva imparato a non prestare troppa attenzione all’odore penetrante dell’ossigeno, in particolar modo da quando era stato dimostrato che dosi minime del gas non potevano arrecare alcun disturbo.

I membri della squadra di ricerca si tolsero le tute e si avviarono con la loro apparecchiatura e i campioni prelevati, al sicuro in speciali contenitori per proteggerli dall’immersione nell’ammoniaca liquida. Dondragmer congedò gli altri e si diresse verso il ponte. Kervenser fece per abbandonare la consolle del capitano non appena lo vide entrare dal portello, ma lui gli fece cenno di restare dov’era e si diresse verso la sezione più a tribordo della sovrastruttura. Qua e là il pavimento era trasparente. Gli ingegneri umani avevano inizialmente concepito pavimenti trasparenti dappertutto, ma non avevano preso in considerazione la psicologia dei mescliniti. Strisciare tutto il giorno in un ambiente chiuso era già abbastanza seccante, ma farlo su un pavimento trasparente a cinque metri dal suolo era al di là di ogni concezione. Il capitano si fermò nei pressi di una di queste sezioni trasparenti e lanciò una timorosa occhiata allo spazio vuoto sottostante.

La superficie grigia che circondava il veicolo pareva immutata; il vento che lo scuoteva non provocava evidentemente alcun cambiamento nella neve compressa da chissà quanto tempo da una gravità pari a quaranta volte quella terrestre. Persino i vortici originati dalla presenza della Kwembly non lasciavano alcun segno sul terreno, ma Dondragmer sapeva che una grossa buca impiegava solo pochi secondi ad aprirsi, soprattutto nei pressi della parte posteriore dello scafo. Più oltre, fin dove le luci riuscivano ad arrivare, si vedevano oltre alle buche solo pochi cespugli con i rami che frustavano il vento. Osservò attento per qualche minuto, aspettandosi qualche esibizione di quell’autentica forza della natura, poi deluso rivolse la sua attenzione al cielo.

Tra gli ammassi nuvolosi cominciavano a distinguersi le stelle, ma per i guardiani del polo era ancora troppo presto. Sorgevano infatti a pochi gradi dall’orizzonte meridionale, anche per via della forte rifrazione, e le nuvole coprivano spesso il loro percorso obliquo. Ancora non si vedeva segno di pioggia o neve, né qualche segno che indicasse quale delle due aspettarsi. La temperatura esterna era di poco inferiore al punto di fusione dell’ammoniaca pura e molto inferiore a quella dell’acqua, ma una precipitazione mista era più che probabile. Cosa sarebbe successo allo strato di ghiaccio d’acqua su cui poggiavano era impossibile prevederlo, e Dondragmer non tentò neppure di trovare una risposta. Conosceva la reciproca solubilità di acqua e ammoniaca, ma non aveva mai mostrato interesse per i diagrammi e le tabelle di possibili reazioni studiate al corso d’istruzione. Se la neve si fosse sciolta avrebbero avuto occasione di vedere se la Kwembly galleggiava oppure no. La prova, comunque, non lo entusiasmava affatto.

Kervenser interruppe i suoi pensieri.

— Capitano, potremo muoverci in quattro o cinque minuti. Diamo potenza ai motori?

— Non ancora. Temevo che il vento potesse soffiarci via la neve da sotto e rovesciarci come una vecchia nave spiaggiata in balìa della risacca; volevo quindi dispormi a prua per affrontare meglio il pericolo. Ma si direbbe che la tempesta non sia così violenta. Continuiamo pure i controlli di routine, pronti però ad avviare i motori nel giro di cinque minuti.

— Con il suo permesso, è quello che stiamo già facendo. Ho pensato bene di adattare il suo ordine alla situazione, capitano.

— Molto bene. Allora, luci esterne accese e teniamo la situazione sotto controllo fino a quando il vento non smette di soffiare.

— Mi secca molto non sapere quando questo avverrà.

— Anche a me. A casa, una tempesta dura raramente più di un giorno e quasi sempre termina nel giro di un’ora. Ma questo pianeta ruota così lentamente che i campi di bassa pressione possono essere grandi quanto un continente e le precipitazioni durare per centinaia di ore. Ma non possiamo fare altro che aspettare che finisca.

— Intende dire che non possiamo muoverci finché la tempesta non cessa?

— Non saprei. Un’esplorazione aerea sarebbe rischiosa, e senza di essa non potremmo mai avanzare abbastanza velocemente da fare in modo che valga la pena muoversi per i nostri principali umani.

— Non mi piace comunque avanzare così velocemente. Non si può conoscere veramente un posto se non ci si ferma per un po’. Stiamo tralasciando tante cose che persino gli umani, con tutte le loro stranezze, troverebbero interessanti.

— A me è sembrato che sappiano perfettamente quello che vogliono: una prova per decidere se Dhrawn è un pianeta o una stella e sono disposti a pagarci per saperlo. Ammetto comunque che il lavoro può diventare noioso per chi può solo passare il tempo con questa routine.

Kervenser lasciò che quest’ultimo commento si spegnesse senza ribattere, se non addirittura senza farci caso. Sapeva che il capitano non nutriva alcun intento offensivo, nonostante il suo commento di prima sulla sanità mentale dei loro datori di lavoro. Su questo punto l’opinione di Dondragmer differiva radicalmente da quella degli altri mesciutiti, convinti che gli alieni cercassero sempre e solo di guadagnarci il più possibile da buoni commercianti. Ma Dondragmer aveva passato molto tempo in stretto contatto con scienziati umani, Drommiani e di Paneshk, forse più tempo di qualsiasi altro mesclinita. La sua personalità aperta e accomodante lo aveva poi aiutato a diventare quello che molti definivano troppo vicino agli alieni.

Le discussioni su questo argomento erano comunque rare, e l’arrivo di Beetchermarlf diede a entrambi una buona occasione per evitarne una. Il timoniere annunciò il completamento dei controlli. Dondragmer lo dismise, gli ordinò di mandare il nuovo timoniere sul ponte e rimase in silenzio fino a quando quest’ultimo non arrivò. Takoorch però non era il tipo da rimanere in silenzio per molto, e ben presto avviò quella che considerava indubbiamente una conversazione brillante. Kervenser, sempre divertito dall’inventiva e dall’umorismo del compagno, gli diede corda mentre Dondragmer rimase in silenzio intervenendo solo qualche volta su qualche argomento specifico. Si sentiva più interessato alle condizioni del tempo là fuori, per quanto non fossero nulla di speciale.

Decise di spegnere tutte le luci esterne e sul ponte, con l’eccezione di quelle del livello inferiore, per poter osservare meglio il cielo senza però perdere di vista il terreno su cui poggiavano. Parte delle nuvole si erano dissolte e le altre non sembravano più così gonfie. Anche le correnti in quota non parevano più intense di prima. Il fischio del vento rimaneva però identico. Lentamente, cominciavano ad apparire anche altre stelle. Una volta riuscì a intravedere per qualche istante uno dei guardiani, come venivano definiti dai marinai di Mesklin, basso sull’orizzonte meridionale. Non avrebbe però saputo dire quale dei due poteva essere: Sol e Fomalhaut apparivano ugualmente brillanti su Dhrawn, e il violento tremolare dovuto alla spessa atmosfera dell’enorme pianeta rendeva i colori totalmente inaffidabili. L’apparizione fu in ogni caso molto breve, in quanto le nuvole non si erano completamente dissolte.

— …L’intero gruppo di travi a tribordo si è staccato, con tutti eccetto me sul corpo centrale…

Ancora nessuna traccia di precipitazioni, e il cielo che si stava schiarendo le rendeva sempre meno probabili con gran sollievo del capitano. Un controllo al laboratorio eseguito tramite uno dei tubi acustici lo informò che la temperatura stava scendendo: attualmente vi erano settantacinque gradi all’esterno, tre gradi in meno del punto di fusione dell’ammoniaca. Ancora abbastanza vicina al punto in cui qualche problema con i composti poteva sorgere, ma decisamente le cose procedevano bene.

— …Delle isole a sud e a ovest di Dingbar. Siamo stati sospinti a terra dalla coda di una bufera, e ci trovavamo in alto e all’asciutto con una buona metà dei timoni direzionali a pezzi. Io…

Le stelle sopra di loro erano ormai tutte visibili e le nuvole quasi completamente scomparse. Naturalmente, le costellazioni gli risultavano familiari. La maggior parte delle stelle che brillavano in quel settore risentivano poco del balzo di tre parsec. Dondragmer aveva avuto tutto il tempo di abituarsi alle piccole differenze e ormai non vi faceva più caso. Di nuovo, cercò con lo sguardo i guardiani del polo ma anche stavolta senza fortuna. Forse a sud le nubi non si erano dissolte. Ormai era troppo buio per potersene accertare. Anche disattivare le luci a terra non serviva a nulla. Servì, comunque, ad attirare l’attenzione degli altri due; il flusso di aneddoti cessò bruscamente.

— Qualcosa non va, capitano? — domandò subito Kervenser, perdendo immediatamente la voglia di scherzare davanti alla possibilità di un po’ di azione.

— Forse. Sopra di noi si vedono le stelle, ma non a sud. In effetti si direbbe che a sud non esista neppure la linea dell’orizzonte. Cerchiamo di scoprire perché.

Il primo ufficiale ubbidì, e un raggio di luce venne proiettato verso l’alto non appena sfiorò uno dei pochi comandi elettrici. Dondragmer si diede da fare con alcuni cavi e la sottile lama di luce venne orientata verso l’orizzonte meridionale. Un gemito, l’equivalente mesclinita di un grugnito di sorpresa umano, ruppe il silenzio quando il raggio arrivò più o meno a livello del suolo.

— Nebbia! — esclamò Kervenser. — Non è molto spessa, ma abbastanza da nascondere la linea dell’orizzonte — aggiunse. Dondragmer espresse il suo accordo con un gesto e arretrò fino a raggiungere un tubo acustico.

— Laboratorio — chiamò. — Pericolo di precipitazioni. Verificate di cosa si tratta e quali possono esserne gli effetti sullo strato di ghiaccio.

— Ci vorrà un po’ per raccogliere dei campioni, signore — rispose qualcuno. — Cercheremo di muoverci più velocemente possibile. Possiamo operare esternamente o dobbiamo raccoglierli rimanendo all’interno?

Il capitano rimase silenzioso per un attimo, ascoltando il vento e ricordando l’impressione che gli aveva fatto.

— Uscite pure, ma cercate di fare in fretta.

— Ci muoviamo subito, capitano.

Con un gesto, Dondragmer ordinò al suo secondo di spegnere il riflettore e di seguirlo a tribordo per tenere sotto controllo la spedizione esterna. Il timoniere si unì a loro.

Si erano mossi velocemente, ma una foschia densa fece la sua comparsa proprio quando aprirono il portello stagno. Una sagoma scura, vagamente a forma di bruco, emerse dalla Kwembly portando con sé un contenitore di forma cilindrica. Subito un’altra sagoma la seguì. I due mescliniti si allontanarono un po’ dallo scafo e una volta raggiunto un punto idoneo, praticamente sotto i tre spettatori, iniziarono a montare il loro equipaggiamento composto essenzialmente da un grosso imbuto con la parte più larga esposta al vento e un filtro sulla parte opposta. Passarono parecchi minuti prima che si convincessero di aver raccolto un campione sufficiente ma finalmente iniziarono a smontare l’apparecchio, sigillando il filtro in un contenitore per evitare di contaminarlo con il bagno nell’ammoniaca liquida e dirigendosi poi verso il portello.

— Immagino che adesso ci vorrà almeno un giorno prima di sapere che cosa hanno raccolto — borbottò Kervenser.

— Forse no — replicò il capitano. — Si sono allenati non poco con i test pronti per le soluzioni di ammoniaca e acqua. Credo di aver visto Borndender dire agli altri qualcosa sulla densità, forse che era sufficiente per un esame ben fatto.

— In tal caso, perché ci mettono tanto?

— Immagino che si stiano ancora sfilando le tute spaziali — rispose con pazienza il capitano.

— Ma perché dovrebbero farlo prima di aver consegnato il campione al laboratorio? Perché non hanno…

Un suono proveniente dal tubo acustico interruppe la conversazione. Dondragmer rispose.

— Si tratta di pura ammoniaca, signore. Minuscole goccioline di ammoniaca ghiacciata. Nel filtro ha assunto l’aspetto di una schiuma, intrappolando anche parecchia aria che ha rilasciato non appena abbiamo aperto il filtro nell’atmosfera climatizzata della Kwembly. Pertanto, se sentite odore di ossigeno in giro non preoccupatevi. Gli effetti di questo fenomeno non dovrebbero risultare molto fastidiosi… esiste il pericolo che la Kwembly venga ricoperta da uno strato di ghiaccio, e se quanto successo nel filtro dovesse ripetersi sulle vetrate del ponte la visibilità verrebbe resa difficile. Ma altri guai non ce ne dovrebbero essere.

Poteva esserci dell’altro, invece, e Dondragmer lo sapeva bene, ma per il momento accettò senza commenti la relazione degli scienziati.

— Non avevo ancora assistito a un fenomeno di questo genere — commentò — e mi chiedo se si debba a qualche tipo di cambiamento stagionale sconosciuto. L’orbita del pianeta si sta avvicinando al sole. Qualche volta rimpiango che gli umani non abbiano svolto maggiori ricerche prima di proporci di esplorare questo pianeta per loro. Sarebbe piacevole sapere cosa ci aspetta. Kervenser, dia ordine di avviare i motori. Non appena pronti, ci disporremo con la prua al vento e muoveremo prudentemente avanti fino a quando vi sarà un minimo di visibilità. Se la nebbia dovesse diventare ancora più spessa ci muoveremo in tondo per rimanere in un’area conosciuta. Teniamo d’occhio le ruote, naturalmente in modo figurato perché non possiamo certo vederle senza uscire; mi riferisca subito se presentano delle incrostazioni di ghiaccio. Mandi qualcuno a poppa, e gli spieghi quanto importante è osservare attentamente cosa succede alle tracce che ci lasciamo dietro. Mi ha capito?

— Ho capito solo gli ordini, signore, ma non quello che dobbiamo temere.

— Forse mi sto sbagliando, e in ogni caso non c’è nulla che possiamo fare. Non mi piace l’idea di uscire e liberare a mano le ruote dal ghiaccio. Quindi, mi limito a sperare.

— Agli ordini, signore — disse Kervenser, trasmettendo immediatamente gli ordini all’equipaggio. Pochi minuti dopo, i motori a fusione della Kwembly tornavano alla vita. Il capitano si girò verso un vicino parallelepipedo di plastica alto una decina di centimetri, spesso altrettanto e largo forse due spanne, inserì una delle sue chele in una fessura su un lato, manipolò un comando e iniziò a parlare.

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