Andie spense l’antiquato lettore di microfiche.
«Al diavolo!»
La sua idea non era approdata a nulla. Rio ospitava una piccola popolazione mutante di circa duemila persone, percentuale quasi insignificante sui dieci milioni di brasiliani stipati nella città. Nemmeno sufficiente a riempire tutti i bar dell’immenso agglomerato con camerieri e clientela dagli occhi d’oro. Era evidente che l’entità della locale popolazione mutante faceva a pugni con le sue bizzarre congetture. Gli occhi d’oro di quel venditore di gelati doveva esserseli proprio immaginati.
Quasi un giorno intero sprecato a rincorrere un’assurda intuizione. Che cosa avrebbe raccontato alla senatrice Jacobsen? L’indagine si stava rivelando un completo insuccesso, e chissà quante storie avrebbero fatto alla Ragioneria Generale. Per non parlare di tutti i voti che, sotto elezioni, quella vicenda sarebbe potuta costare alla Jacobsen. Bisognava che escogitasse qualcos’altro.
Attorno a lei ronzava la biblioteca dell’Istituto di Medicina Rosario do Madrona. Monitor incastonati a intervalli regolari nella bianca parete circolare la fissavano gravemente. Qui non c’era nulla che potesse confermare i suoi sospetti. Forse era giunto il momento di adottare un approccio più diretto.
Si rivolse a Catalina Jobim, la bibliotecaria addetta al reparto consultazione.
«Potrebbe suggerirmi altre fonti che trattino l’argomento dell’inconsueta pigmentazione oculare? Una pigmentazione oculare dorata, per l’esattezza?…»
La bibliotecaria in verde ostentò un’aria perplessa.
«Ma, signorina Greenberg, che cosa sarebbero questi occhi dorati di cui mi parla?»
«Oh, solo certa gente che ho visto per strada», minimizzò Andie. «I loro occhi mi sono parsi così… belli. Ero curiosa. La vostra popolazione mutante è numericamente piuttosto modesta, in fondo.» Fece una pausa, fissando con attenzione la Jobim. «Esisterà pure una qualche documentazione in proposito, vero?»
«No», replicò la bibliotecaria in tono reciso. «Niente del genere. Quel che lei ha visto erano probabilmente lenti a contatto. Ne sono certa.» Sorrise. «Rimarrebbe sbalordita, se sapesse quante mode pazzesche nascono qui da noi. L’anno scorso portavano tutti i capelli rossi. Tutti, le dico. Adesso gli occhi dorati. E domani chissà cos’altro inventeranno.»
Andie avrebbe voluto crederle, ma il modo strano in cui l’altra la fissava non fece altro che accrescere i suoi sospetti. Ringraziò la bibliotecaria e si congedò. Era quasi mezzogiorno.
A pranzo, la Jacobsen aveva un’aria più riservata del solito.
«Trovato qualcosa?» domandò, gingillandosi con una fetta di popone.
«Niente», ammise Andie. «E prego già di scovare un indizio, una traccia, non pretendo proprio una prova tangibile, dell’esistenza di questi supermutanti… tanto per aver qualcosa da riportare a casa.»
«Come ti capisco.»
Andie si domandò se nel corso delle indagini il suo capo non fosse incappata in qualche ostacolo imprevisto. Comunque le sembrava inverosimile. Se c’era qualcuno capace di veder chiaro attraverso le cortine fumogene, si trattava proprio di Eleanor Jacobsen. Ma la senatrice appariva tesa e preoccupata. Arrivate al dessert, Andie pensò bene di porre una domanda precisa.
«Non è nulla, Andie», rispose la Jacobsen. «E risparmiami quegli sguardi materni. Il clima tropicale non fa per me. Tutto qui.»
Sebbene a malincuore, Andie lasciò perdere. Avendo un’ora libera subito dopo pranzo, prese in considerazione la possibilità di godersi una passeggiata lungo la spiaggia, ma poi decise che non era il caso: il sole del primo pomeriggio picchiava troppo forte. D’altra parte le veniva l’agitazione, alla sola idea di rimanersene lì rinchiusa a respirare l’aria condizionata dell’albergo. Bisognava che uscisse, non foss’altro che per una semplice camminata attorno all’isolato.
Svoltando all’angolo dell’Avenida Rio Branco si allontanò rapidamente dai bassi, aerodinamici libratori coi parabrezza schermati che si allineavano lungo il viale silenzioso — troppo silenzioso in quell’ora inerte — e camminò per parecchi isolati attraverso il quartiere elegante, ammirando le sgargianti vetrine dei negozi di Rio do Sul Mall. La strada era pressoché deserta, fatta eccezione per una ragazza vestita di rosa che stava sgridando due bambini. Incrociata un’invitante via trasversale, Andie fece sosta a un caffè, attratta dalle tovaglie vivacemente colorate e dall’ombra di una jacaranda purpurea in piena fioritura.
I tavolini erano quasi tutti vuoti. Seduto a uno di essi un uomo scarno, in costume da bagno, fumava e scrutava il proprio orologio, in attesa di qualcosa. Accanto al compubar un altro uomo, con barba e occhiali neri, sorseggiava una birra.
Andie scelse un tavolino presso l’albero. Il cameriere, un mulatto dagli occhi castani e dai riccioli biondi, si avvicinò per prendere l’ordinazione domandando, in cadenzato portoghese: «Tazza o ipodermica di caffeina?»
«Tazza, per favore.»
Andie lo guardò inserire l’ordinazione nel bar. Poi si rilassò contro lo schienale curvo del sedile di plastica e rimase a osservare la strada. Le giungeva, assai smorzato, il lontano pulsare del traffico. Provò la tentazione di vagabondare giù per l’isolato fino a scomparire, dando un calcio alle indagini parlamentari e dimenticando ogni preoccupazione circa il colore degli occhi della gente.
Un’ombra più scura venne a incombere su di lei.
«Mi scusi», l’apostrofò in perfetto angloamericano una voce tenorile. «È libero questo posto?»
Alzando lo sguardo, Andie constatò che il barbuto del bar adesso le stava accanto. Prima che potesse replicare per le rime all’importuna richiesta, quello si era già seduto.
«Desidero essere lasciata in pace», dichiarò freddamente. L’uomo sorrise e si tolse le lenti scure, mettendo in mostra due occhi chiarodorati.
«È proprio sicura di non gradire la mia compagnia, signorina Greenberg?» Si mise comodo, esaminandola attentamente. Tornò il cameriere recando una tazzina di nero liquido fumante. Senza rendersi ben conto di quello che faceva, Andie prese a versarvi cucchiaini di zucchero riempiendola sin quasi all’orlo. Quando il cameriere si fu allontanato, Andie tornò immediatamente a rivolgersi allo sconosciuto interlocutore.
«Come fa a sapere chi sono?»
«E per quale motivo non dovrei conoscere il nome dell’assistente amministrativa di mia cugina Eleanor?» Si strinse nelle spalle, bevve un sorso di birra. «Mi chiamo Skerry. E risparmierò a entrambi un mucchio di tempo e un sacco di fastidi, signorina Greenberg. Io lo so perché siete qui. E magari sono anche in possesso di qualche informazione che potrebbe tornarvi utile.»
«Per esempio?»
«Lei è preoccupata per questa storia del supermutante ancor più di quanto non lo sia la mia esimia parente. E fa bene, ad esserlo. Eleanor si sta sbagliando. Cerchi di farglielo capire, prima che sia troppo tardi.»
«Vuol dire che quaggiù ci sono davvero dei supermutanti? Che non si tratta solamente di chiacchiere?» D’un tratto, a dispetto di se stessa, Andie desiderava credergli.
Skerry alzò le spalle. «Difficile a dirsi. Ora come ora, tutto quel che sappiamo è che sono riusciti a produrre un qualche genere di agente mutageno capace non solo di evidenziare, ma anche di esaltare la potenziale tendenza a certe specifiche mutazioni. Questo, per lo meno, è quanto emerge dai risultati ottenuti. Non ho idea di come ci siano riusciti, e non so neppure fin dove possano essersi spinti.»
«Chi è implicato in questa faccenda?»
«Gran parte degli operatori attivi localmente nel campo della ricerca medica. Ribeiros è la pedina più importante, certo. Ma è inutile che stiate a perder tempo. Non riuscirete mai a incastrarlo. È troppo ben protetto, e credo che la cara Eleanor se ne stia rendendo conto.»
«Mi spiega perché dovrei darle retta? Come fa a sapere tutte queste cose?»
Skerry sorrise. «Diciamo che ho i miei canali… e i miei sistemi per venire a sapere le cose. E poi non sono ostacolato da norme e regolamenti ufficiali.»
«Ma insomma, qual è il motivo della sua presenza qui?»
«Non crederà mica che il Congresso degli Stati Uniti sia l’unico organismo interessato alla questione del supermutante…»
«E del supermutante, a lei, chi gliene ha parlato? Qual è la sua fonte d’informazione?»
«Ho buone orecchie. Migliori, a dire il vero, di quelle di cui dispone gran parte dei nostri uomini politici… Guardi che le si sta freddando il caffè.»
Andie ne prese un sorso, reagendo con una smorfia a quell’infame sciroppo zuccherino, e si affrettò a posare la tazza. «Quindi, secondo lei, dovrei credere che uno sconosciuto chiacchierone sbucato dal nulla sta conducendo la sua indagine privata sulla medesima questione che interessa a noi, con la differenza che costui conosce già tutte le risposte? Pretendo troppo se le chiedo per conto di chi agisce, lei?»
«Diciamo soltanto che si tratta di un gruppo… molto particolare.»
«Particolare come sono particolari i mutanti?»
Le rivolse un beffardo gesto di saluto. «Brava davvero. Persino più sveglia di quanto immaginavo.»
«È da solo, qui?»
«No, siamo venuti in due, a dare un’occhiata.»
«Perché non parlarne alla Jacobsen?»
Lui scrollò il capo. «Sarebbe solo una perdita di tempo. Mia cugina è una signora di saldi princìpi. E io non è che sia esattamente il benvenuto, in certi raffinati ambienti mutanti.»
«Capisco. Be’, e se le parlassi io, a nome suo?»
«Ci crederebbe ancora meno.»
«Ma allora perché si è rivolto a me?»
«Perché lei fa parte di una commissione governativa autorizzata a indagare. Potrebbe indirizzarla verso le direzioni adeguate. E favorire in definitiva l’intervento di… be’, diciamo, degli opportuni organismi.»
«Vuol dire la CIA? In tal caso mi servirebbero prove piuttosto solide.»
«Provi con questo.» Skerry si tolse di tasca una memocassetta e gliela porse. Lei lo fissò con aria scettica.
«Che roba è?»
«Il resoconto di esperimenti genetici su embrioni umani eseguiti in una clinica nei pressi di Jacarepaguá.»
«Cosa? Ma è illegale! E chi gliel’ha dato?»
Un sorriso. «L’ho rubato.»
Andie scansò la sedia dal tavolino e scosse la testa. «Non posso accettarlo. Mi renderei complice di un reato. Per non dire della baraonda che nascerebbe se si venisse a sapere che abbiamo sottratto informazioni…»
Fu interrotta dalla risata di Skerry. «Comincio a pensare che lei non sia poi così sveglia. Scusi, basta non dirlo che è roba rubata. Da quella clinica, creda a me, non uscirà nemmeno una parola.»
«Preferirei comportarmi onestamente.»
Skerry smise di sorridere. «Qui non siamo negli Stati Uniti, signora avvocatessa. Qui le sue regole di comportamento non valgono un bel nulla. Da queste parti conta soltanto chi conosciamo e che cosa sappiamo. E, soprattutto, chi è a conoscenza di quanto sappiamo. Quindi stia molto attenta. Si tenga strette queste informazioni, e non le passi a Eleanor finché non sarete rientrate a Washington. Quaggiù la sua cara senatrice è attentamente controllata.»
«Da chi?»
«Sono in parecchi. La polizia. Gente che rappresenta interessi stranieri. E altri mutanti, ovviamente.»
Andie immaginò una folla di estranei impegnati a scrutare il suo capo, e lei stessa, con potenti binocoli e attraverso i buchi delle serrature. Un esercito di spie, volendo prestar fede alle dichiarazioni di quello sconosciuto.
«Ma lei come fa a saperlo?» insisté. «E poi perché dovrebbe interessarle?»
«Per usare una frase fatta, se non io, chi? E se non ora, quando? Dammi retta, sorellina, questa è una faccenda seria. Per voi, per me e per quella massa di gente che tiene d’occhio il tuo capo. E mentre tutti perdono tempo ad agire attraverso i canali ufficiali, gli esperimenti continuano.»
«Su soggetti umani?»
«A quanto pare.»
«Ma ne sei proprio sicuro?»
«Ti dico di sì. Mi raccomando, quindi, state in campana.» E Andie vide d’un tratto l’immagine di lui tremolare come se, fra di loro, fosse trascorsa una folata di vento torrido. Era forse un effetto da imputarsi a stanchezza visiva, oppure lo sconosciuto le stava davvero svanendo dinanzi agli occhi? Attraverso la sua maglietta si scorgeva ormai il tronco della jacaranda. Andie dovette fare uno sforzo per impedirsi di rimanere semplicemente lì, inerte, a bocca aperta.
«Aspetta! In caso di necessità come faccio a rintracciarti?»
Ma la sedia di fronte era già vuota. Sentì alitarle, su una guancia, la carezza di un venticello fresco.
«Sarò io a trovare te.» Un mormorio all’orecchio, un sussurro nella sua mente. Chinò lo sguardo, quasi aspettandosi di veder svanire anche la memocassetta. Ma l’ellissoide in plastica azzurra continuava a giacerle in palmo di mano simile a un uovo. Lo ripose nello scomparto della cintura e diede un’occhiata all’orologio. Se si sbrigava, avrebbe fatto appena in tempo per l’appuntamento al Cesar Park.
Bill McLeod afferrò il nebulizzatore. Il muso del suo Cessna superleggero necessitava di una ritoccata, e a tale scopo egli aveva appena preparato una dose di vernice argentea.
Alle sue spalle sentiva Kelly chiacchierare con quella ragazza mutante, Melanie Ryton, mentre si davano entrambe da fare a sverniciare la coda del Cessna. Nonostante i timori di suo padre, Kelly insisteva nel frequentare quella famiglia. Mah, forse era soltanto una fase passeggera. Melanie era una brava ragazza. E, come Joanna continuava ad assicurargli, anche suo fratello Michael era un bravo ragazzo.
Bravi ragazzi un corno, pensò McLeod. Aveva promesso a Joanna di astenersi dall’affrontare l’argomento, tuttavia non gli andava proprio giù che sua figlia si ostinasse a filare con quel giovanotto mutante. E poi non faceva nessuna fatica a immaginare fin dove sua figlia e Michael Ryton si fossero spinti, sessualmente parlando. Nemmeno questo gli andava a genio. Kelly, d’altra parte, aveva diciotto anni. Finché si comportava con discrezione, gli sarebbe toccato cercare almeno di rispettare la sua intimità.
McLeod tracciò un lucido e scintillante arco con il liquido argenteo. A contatto con la fusoliera, il pigmento crisacrilico si asciugò all’istante. Squadrò l’effetto con occhio critico. Un piccolo intervento di rifinitura non avrebbe guastato, pensò.
«Kelly! Posso interromperti?»
«Certo, papà.»
«Ti spiacerebbe andarmi a prendere la borsa degli attrezzi che sta nel bagagliaio del libratore?»
«Va bene.»
La osservò correr via con Melanie alle costole. Il limpido sole di maggio luccicava sui suoi capelli neri e sulla tuta gialla. Per un attimo l’immaginò in corsa attraverso una pista in direzione di un aereo, la snella figura fasciata di un diverso genere di abbigliamento, una grigia tuta di volo. Che magnifico pilota sarebbe stata! Bisognava che le suggerisse di far domanda per entrare all’Accademia Aeronautica. Se solo le fosse riuscito di pensare a qualcos’altro, oltre ai mutanti…
«Tuo padre è fenomenale», disse Melanie, cercando di stare al passo con le lunghe falcate di Kelly mentre trottavano verso il parcheggio. Il tiepido vento primaverile le scompigliava sugli occhi i capelli sottili, ed invidiò a Kelly la sua composta acconciatura a treccia.
«In che senso?»
«È simpatico. Gentile. Ed è anche un bell’uomo.» Melanie ridacchiò. «Lo so che lo metto a disagio, però lui fa del suo meglio per non darlo a vedere.»
«Il fatto è che non capisce i mutanti.»
«Ma quand’era in aviazione non gli è mai capitato di lavorarci assieme?»
«Solo di tanto in tanto. Sembra che siano molto bravi a scansare il servizio militare.»
Melanie sorrise. Ricordava bene con quanta destrezza suo cugino avesse influenzato la commissione di leva tramite una leggera pressione telepatica.
«Non devi prenderlo come un fatto personale», continuò Kelly. «Tu sei un mistero, per lui. Come per la maggior parte della gente. È da questo che nasce il loro disagio.»
«E tu come pensi che mi senta, io, a essere una mutante?» replicò Melanie appoggiandosi alla carrozzeria azzurra del libratore, mentre Kelly si metteva a rovistare nel portabagagli. «Credi che mi piaccia? Le persone, con me, o si sforzano di essere fin troppo carine e quindi esagerano e finiscono per ottenere l’effetto contrario, oppure sono apertamente sgarbate… per non dire brutali.»
«Già. In effetti è persino strano che i mutanti si sforzino di andare d’accordo coi nonmutanti, quando il più delle volte ci agitiamo attorno a voi come un mare in tempesta.» Tirò fuori un contenitore verde tenendolo per la maniglia e richiuse la macchina.
Melanie alzò le spalle. «Non possiamo mica continuare a nasconderci all’infinito. E poi non abbiamo altra scelta. Voi siete molti più di noi.»
«Ma non è che il numero dei mutanti aumenta di anno in anno?»
«Certo. Però se ci volessimo mettere in pari dovremmo passare tutto il tempo a fare bambini mutanti.»
«Detta così sembra una cosa buffa.» Kelly incominciò a far roteare per gioco la borsa degli attrezzi, ma si interruppe a metà di un’oscillazione. Si era fatta seria in volto. «E i bambini semimutanti, nati da matrimoni misti?»
«Non è che ce ne siano molti.»
«Ma hanno capacità mutanti?»
«Alcuni. Comunque il clan scoraggia in tutti i modi l’esogamia.»
«Già, me l’avevi detto.» Kelly si fermò e rimase lì, lo sguardo fisso in lontananza.
«Cosa c’è che non va?»
«Niente.»
«Davvero?»
«Davvero. Stavo solo pensando al futuro.» Si girò verso Melanie.
«Stavi pensando a mio fratello, vero?»
Kelly annuì. «Mi sono innamorata di lui», disse, quasi in un sussurro.
«Innamorata?» Melanie l’afferrò per una spalla. «E gliel’hai detto?»
«No.» Sotto la spinta dell’emozione, la voce di Kelly s’incrinò.
Confusa, Melanie la strinse in un abbraccio. «Non piangere», disse. «Scommetto che anche lui ti vuole bene. Perché non glielo chiedi?»
«Mi sentirei una stupida. E poi deve dirmelo lui spontaneamente, altrimenti non ha valore.»
«Capisco.» Melanie la lasciò andare. Si sentiva combattuta fra la voglia di aiutarla e il timore di rimanere coinvolta. Aveva già abbastanza problemi per conto suo. E aveva già rischiato molto mentendo ai propri genitori circa il programma di quel pomeriggio. Le vicende sentimentali di Michael non la riguardavano. Ma Kelly era sua amica. Come faceva a dirle che ciò che desiderava tanto appassionatamente era impossibile?
«Dai, smettila. Non vorrai mica che tuo padre ti veda piangere, no?» Le porse un fazzolettino.
«Grazie. Sarà meglio cambiare argomento», assentì Kelly asciugandosi il viso. «Cosa pensi di fare, dopo il diploma?»
«Avrei in vista un lavoretto estivo a Washington.» Al pensiero, le sorrisero gli occhi. «Dopo non lo so. Non mi va di infilarmi subito all’università.»
«Ma tuo padre non vuole che tu vada a lavorare con lui?»
«È quello che continua a dire. Io però preferirei trovarmi un lavoro da qualche altra parte. Arrangiarmi un po’ da me, insomma, per far vedere ai miei genitori che so cavarmela anche da sola.» Le tornò in mente la pubblicità che aveva visto in tivù: «Hai diciotto anni o più? Lavori estivi a Washington. Casella postale 7172A…» E ripensò alla spessa busta che l’attendeva chiusa nell’armadio. Aveva mandato la sua domanda la settimana prima. E ieri era giunta la risposta. Le offrivano impiego come assistente di sala al Washington Convention Center! Forse avrebbe persino avuto occasione di conoscere qualche telecronista…
«Magari fossi anch’io tanto sicura di quello che voglio fare…», commentò Kelly. Dal tono si sarebbe detto che fosse un po’ invidiosa. Mentre le rivolgeva uno sguardo di affettuosa comprensione, Melanie cercò di ricordarsi quando fosse stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva invidiata per qualcosa. Che piacevole sensazione…