15

Michael adocchiò avidamente, sull’albero che sorgeva nel prato di fronte a casa, una grossa susina color rosso borgogna. Settembre: la stagione ideale, per la frutta. Colse la sugosa tentazione, quindi spinse la porta per entrare.

La casa era deserta. Diede un bel morso alla susina, si soffermò a raccogliere la sua sacca da ginnastica, poi andò a controllare il monitor della corrispondenza in arrivo. Trovò il consueto assortimento di richieste e contratti. Prese mentalmente nota di ultimare, l’indomani, la trattativa Haytel. L’avvisatore di messaggi continuava a lampeggiare. Premette il pulsante di riproduzione, e sullo schermo prese vita con un guizzo l’immagine di sua madre.

«Saremo a casa fra due giorni», disse. «Le vampate di tuo padre sembrano calmarsi, ma gli serve ancora un po’ di riposo. Ci vediamo martedì.»

Michael finì di masticare e gettò il nocciolo della susina dentro lo scaricaimmondizie accanto alla porta. Aveva creduto che suo padre fosse troppo giovane per incominciare già a soffrire di vampate, ma evidentemente s’era sbagliato. La condizione mutante recava in sé una dose di ambiguità con la quale non era per nulla facile convivere.

Passato in cucina, controllò rapidamente cosa offriva la dispensa, e scelse crocchette ai funghi piccanti e maiale liofilizzato. L’estrattore del frigorifero entrò in funzione. Non appena la suoneria ebbe trillato, Michael fece levitare la confezione scongelata dentro il forno a convezione, regolò il temporizzatore, e lasciò cuocere per tre minuti.

Chissà che sensazione dava, si domandò apparecchiando, dover contare solamente sulle proprie mani per fare ogni cosa. Probabilmente di lentezza, più che altro. Scelse nel bar una Red Jack e indugiò a sorseggiarla, nell’attesa che il pranzo si raffreddasse un po’.

Attivò il video di cucina, predisponendo la sintonia automatica su una pausa di dieci secondi. Il monitor, obbediente, prese a sciorinare in sequenza un gruppo di danzatori somatodipinti in giallo e nero; film vecchi di almeno vent’anni, pieni di automobili antiquate, sparatorie e donne urlanti; talk show nei quali giornalisti in immancabile abito grigioscuro propinavano cronache da tutto il mondo ventiquattr’ore al giorno; e le aste televisive, un barbaglio di caleidoscopiche immagini di superlibratori e abitazioni galleggianti, condomini sulla Luna e fisioprotesi robotiche, intensificatori orgasmici a energia solare e interventi sensazionali di chirurgia plastica. Michael apprese che l’operazione della settimana riguardava la correzione del mento.

Diede un morso a una crocchetta, assaporando il violento gusto del peperoncino che gli fece bruciare lingua e palato. A dire il vero aveva voglia di una cosa sola: vedere Kelly. Ma lei era via con suo padre per motivi di lavoro, e non sarebbe tornata fino alla fine della settimana. E quindi lui doveva starsene solo con il video. Jimmy, per lo meno, passava la notte dai cugini.

Poggiando i piedi sull’idropoltrona che gli stava dinanzi, e lasciandosi comodamente sprofondare tra i fluidocuscini azzurri, rimase a osservare lo schermo che guizzava e cambiava, balenava e trascorreva. Le immagini di un rubrinotiziario attrassero la sua attenzione, quindi si sintonizzò. Un piacente giovanotto dalla folta capigliatura castana, sorriso gagliardo e luminosi occhi d’oro campeggiava sul monitor in tridimensionale olovisione.

Stephen Jeffers, pensò Michael. La nuova speranza dei mutanti. In tivù è ancora più bello. Che mento strabiliante. Chissà se ha fatto la plastica anche lui. Michael evocò un altro canale e lì si fermò, colpito dall’aspetto familiare del videocronista.

«Non dirmi che ti ricordo qualcuno», l’apostrofò quello guardandolo con espressione corrucciata. «Sveglia, ragazzo.»

Michael ammiccò sorpreso. Poi sorrise. «Skerry, nonostante tutto non è così difficile riconoscerti. Dove sei?»

«Più vicino di quanto credi. Ascolta, Michael, ti devo parlare.»

«Sei ancora incavolato nero per quello che è successo all’assemblea?»

«Diciamo che sono dispiaciuto. È per questo che ho bisogno di vederti.»

«Quando?»

«Facciamo subito?»

«Va bene. Dove?»

«Conosci l’Hardwired

«A Mountain Side? Certo.»

«Ci vediamo là fra un quarto d’ora.» L’immagine vacillò, e d’improviso al giornalista vennero i capelli biondi e gli occhi azzurri. Skerry se n’era andato. Michael diede il colpo di grazia all’ultima crocchetta, spedì il piatto a levitare in lavastoviglie e uscì per recarsi all’appuntamento con suo cugino.

Il locale era praticamente deserto, rischiarato solo dalle insegne rossoblù di qualche marca di birra e da una sfilza di luci bianche lampeggianti. Il robostereo eseguiva un sincoritmo degli I-Fours. Gli occhi di Michael si andarono lentamente adeguando alla semioscurità. Da anni non tornava all’Hardwired. Innanzitutto non si trattava di un ritrovo abituale dei mutanti; e poi, dopo l’aggressione subita da Melanie, Kelly aveva preferito evitarlo anche lei.

Scorse al bar una donna attraente con lisci capelli neri e un sorriso cordiale. Indossava una tunica verde, provvista di vertiginosa scollatura anteriore che metteva in mostra il seno abbondante. Quasi di sicuro una prostituta, dedusse Michael. Tuttavia avvertì ugualmente un’inconfondibile fitta di desiderio. Kelly, torna a casa presto, invocò fra sé.

Venne distratto dall’apparizione di una brillante freccia gialla, puntata verso un separé vicino alla parete di fondo. Si diresse da quella parte, preceduto dalla ballonzolante segnalazione. Proprio all’estremità della sala, in effetti, trovò Skerry ad attenderlo, mollemente adagiato sui cuscini di un cubicolo defilato. La freccia scomparve tintinnando. Non per la prima volta, Michael invidiò la maestria telepatica di suo cugino, una destrezza mentale che lui non sarebbe mai stato in grado di raggiungere. Gli sedette di fronte, sistemandosi sulle spesse imbottiture color marrone.

«Ciao. Bevi qualcosa?» Skerry premette un pulsante sul tavolino, e l’erogatore riempì un bicchiere per Michael.

«Allora, che succede?»

Skerry assunse un’espressione disgustata. «Succede che stavolta l’hanno combinata davvero grossa.»

Michael sorseggiò lentamente l’aggressiva mistura, godendosi la punta vigorosa della componente alcolica.

«Cosa vorresti dire?»

«Voglio dire, caro cugino, che Stephen Jeffers non è affatto quello che sembra.»

«No? E allora che cos’è?»

«Ambizioso. Pericoloso.» Skerry si abbandonò ancor più comodamente fra le soffici braccia del sedile.

«Ambizioso? Non direi che sia poi un così gran difetto. A me pare un tipo in gamba. È stato nominato a larghissima maggioranza. E poi sono stufo di questi mutanti che vanno in giro in punta di piedi stando attenti a non infastidire i normali. Come fai a sapere che è un tipo pericoloso?»

Skerry finì di scolare il suo bicchiere e ne ordinò un altro. «Be’, sono entrato senza bussare e ho dato un’occhiatina… ovvio, no?»

Michael rimase a bocca aperta. «Che cosa hai fatto?»

«Risparmiami le facce scandalizzate, ragazzo. Tanto è probabile che tu non mi creda lo stesso. Comunque ti dico che quel tizio cova vibrazioni balorde.»

«Di che genere?»

«Si dà il caso che sia uno di quei sostenitori della supremazia mutante. Odia i normali.»

«E con ciò? Metà membri del clan la pensano allo stesso modo. E la maggior parte dei normali contraccambiano, non ti pare?»

«Può darsi. Ma a livello di cariche pubbliche sarebbe meglio avere qualcuno con meno pregiudizi. Qualcuno che sappia trattare affabilmente coi nonmutanti. I fanatici mi rendono nervoso.»

Michael bevve un altro sorso. «Se sei davvero così preoccupato, perché non ne hai parlato chiaramente in assemblea?»

«Ci ho provato. Ma non posso forzare oltre un certo limite il nostro refrattario gruppetto. Altrimenti mi faranno la festa. O per lo meno tenteranno, e io mi difenderò, e saranno dolori. Devi tener presente che non hanno nessuna voglia di credermi. Jeffers gli piace troppo. E poi sono tutti ansiosi di lasciarsi alle spalle questa brutta storia dell’assassinio. Di conseguenza, adesso Jeffers è senatore.» Skerry si versò un altro bicchiere del rosso beveraggio e rimase a fissarlo con aria immusonita.

«Su, Skerry, smettila di angustiarti. Vedrai che Jeffers non sarà la gran catastrofe che pensi tu. E poi abbiamo bisogno di qualcuno che occupi per noi quel seggio in Senato.»

«Non ne dubito. Meglio lui che Zenora, comunque.»

«A proposito, si può sapere che cos’è successo fra voi due?» Anche Michael ricorse all’erogatore.

«Tre anni fa, dopo la grande assemblea, la cara zietta mi si mise appresso con chiari intenti.»

«Zenora?»

Skerry annuì. «Bevuto troppo, o chissà che altro. Forse lei e Halden avevano dei problemi. Vai a capire. All’inizio provai a far finta di nulla. Ma lei era piuttosto insistente. Così, a un certo punto, finì che la presi sul serio. Ehi, non guardarmi in quel modo, ragazzo. Sono cose che succedono. E ti dirò che fra di noi le cose filarono anche piuttosto lisce. Comunque venne il momento che ci diedi un taglio. Non avevo nessuna voglia di creare casini. Cercai di sganciarmi senza far tragedie, ma lei non la prese per niente bene. E ancora non le è passata. È uno dei motivi per cui me ne sto alla larga. Chi scorna un mutante la paga in contante, è il mio motto. Non dir niente ad Halden, d’accordo?»

«Stai tranquillo.» A Michael l’idea della maestosa, solenne zia Zenora che faceva il filo a un uomo più giovane, Skerry in particolare, parve ridicola. E penosa. Ridletté inoltre che Halden, probabilmente, sapeva tutto. C’erano pochi segreti, nel clan.

«Bene, e adesso cos’hai in vista?»

«Il Canada.» Skerry sbatté sul tavolo il bicchiere vuoto. «Vado al nord fra un paio di giorni. Volevo sapere se la cosa t’interessava. Potresti usare le tue capacità. Non venirmi a dire che lavorare in ditta col tuo vecchio non ti rompe le palle tremendamente.»

Michael annuì con aria afflitta. «Be’, non è il caso di esagerare…»

«Coraggio, vieni via con me.»

Michael rimase un poco in silenzio, col bicchiere sollevato a metà. Che tentazione, pensava. Lasciar perdere per sempre casa e clan… Smetterla di preoccuparsi per i contratti governativi e le tradizioni mutanti…

Skerry si sporse verso di lui. «Diciamo che esiste un certo numero di noi che si occupa, dietro le quinte, delle questioni mutanti. Un’efficiente organizzazione sotterranea. Ma con Jeffers a Washington, e l’Unione mutante che ricomincia a digrignare i denti, sarà bene scavare anche più a fondo. Bisognerà tenerlo d’occhio. E poi c’è sempre la minaccia del supermutante.»

«Be’, la cosa, in effetti, un po’ mi attrae…» ammise Michael posando il bicchiere. Perché no? pensava. Perché non partire? E lavorare con Skerry… E sottrarsi agli angusti confini del mondo mutante… Insomma, stava quasi per dire di sì, quando gli venne in mente Kelly. Ripensò alla sua pelle di seta. Ai suoi occhi scintillanti nel sorriso. Al calore che la sua risata gli trasfondeva nell’animo e nelle membra. Abbandonarla? Impossibile.

Aggrottando le sopracciglia, Skerry fece una smorfia di compatimento. «Inutile che cerchi di spiegare. Lo so già da me, non hai altro in testa che quella piccola normale che ti ha messo il fuoco nelle vene. Accidenti a te, Mike, smettila di pensare coi tuoi ormoni!»

«Mi mancherebbe terribilmente», si giustificò Michael arrossendo.

«La dimenticheresti in sei mesi», ribatté Skerry. «E incontreresti donne vere. Esotiche, eccitanti, esperte…»

«Lascia perdere, Skerry. Non è roba per me. Non ora, comunque.»

Un numero prese a lampeggiare nel cervello di Michael, cifre verdi ammiccanti dietro le pupille.

«Caso mai cambiassi idea, puoi lasciarmi un messaggio a quel codice. Pensaci, cugino. Adios.»

Tutt’intorno al tavolo l’aria fu percorsa da un tremolio. Michael sbatté le palpebre. Era rimasto solo nel separé. Sospirò, finì la bevanda, pagò alla cassa automatica, uscì.

Quando giunse a casa trovò fermo sul vialetto un libratore azzurro dal basso muso filante, e vide che il portoncino d’ingresso era aperto. In preda a un vago turbamento, varcò la soglia guardingo.

In soggiorno gli altoparlanti diffondevano una nenia inconsueta, pulsante, quasi inaudibile. Michael si accigliò. Percepiva, aleggiante intorno, l’aroma acre di uno spinello. Le luci erano talmente basse che riuscì appena a intravvedere una figura femminile seduta sul divano.

«Mel?»

Per tutta risposta, una lieve risata argentina.

«Kelly?»

«Ma no, sciocco, sono io, Jena.» Si alzò e gli andò incontro. Indossava un attillato monopezzo in plastipelle turchina che metteva in evidenza la sua corporatura snella, le lunghe gambe. Bionde chiome fluenti sulle spalle. Occhi dorati, luccicanti come monete.

«Gradisci uno spino?»

«Come hai fatto a entrare?»

«Mi hanno chiamato i tuoi genitori, sono stati loro a darmi la combinazione d’ingresso. Mi hanno chiesto di dare un’occhiata, di vedere come stavi.» Tornò a sedersi, mettendosi a gambe incrociate. Indossava stivali neri coi tacchi alti. L’aria era impregnata di narcoesalazioni. Michael cominciava a provare un certo stordimento.

Lentamente, confuso, si lasciò sprofondare nel divano. L’alcol bevuto in compagnia di Skerry gli stava dando alla testa. E quella nenia insistente aveva un effetto ipnotico. Notò che la tuta di Jena variava da opaco a translucida proprio in corrispondenza dei capezzoli. Una vocina, al centro dei suoi pensieri, già si domandava che sensazione avrebbe dato insinuarsi lì sotto con dita carezzevoli, percorrendo lentamente ogni centimetro di quella fulva pelle vellutata…

«I tuoi quando tornano?»

«Martedì.»

Districate le gambe, Jena gli si avvicinò, porgendogli una narcocicca. Lui ne morse l’estremità, sentendosi rapidamente pervadere dalla familiare corrente impetuosa. L’attimo dopo, con la vista annebbiata, si abbandonò completamente contro i cuscini. Jena gli si fece ancora più accanto, stringendosi a lui.

«Allora, come stai?» gli domandò con voce rauca.

Michael esitò un istante, pensando a Kelly. Poi la ritmica pulsazione della nenia lo travolse. Al diavolo, si disse. Kelly era lontana, irraggiungibile. Jena era invece vicinissima, evidentemente pronta e vogliosa. Kelly non l’avrebbe mai saputo, pensò, mentre circondava Jena con un braccio.

Morbida. Dio, com’era morbida. La tuta pareva seta. Pareva pelle. Guidò la mano giù giù lungo il braccio di lei fino alla vita, per poi risalire, con avide dita protese alla ricerca di un’ancor più cedevole morbidezza. Tentò la scollatura della tuta, la trovò aperta, insinuò un dito in missione esplorativa. Quel che trovò fu l’eccitato turgore di due capezzoli. Sospirando, Jena si protese verso l’audacia di quella mano.

Michael la baciò, sentendo le labbra di lei dischiudersi e la lingua guizzare impetuosa contro la sua. Il bacio parve prolungarsi all’infinito, mentre sull’onda della nenia palpitante Jena si muoveva ritmicamente contro il suo corpo. La consapevolezza, come concentriche increspature alla superficie di un laghetto, rifluì verso l’esterno, riducendosi a un sensuale turbinio cui faceva da sottofondo la pulsazione del suo sangue. Quando riaprì gli occhi si scoprì allungato sul divano, con Jena semidistesa sotto di lui. Gli indumenti di entrambi giacevano ammucchiati sul pavimento.

Un incalzante titillare di lingue invisibili percorreva la sua pelle cercando ogni punto segreto, ogni più sensibile terminazione nervosa, facendolo gemere di piacere. Sollevatasi appena su un gomito, Jena l’osservava pigramente a occhi socchiusi.

«Ti piace?» sussurrò, rivolgendogli un sorriso felino.

Mille immagini erotiche gli danzavano nella mente, voluttuoso mandala che l’accerchiava in un assedio fiammeggiante. Affondò le mani nei cuscini, col cuore che cominciava a martellargli.

«Jena… Dio mio…»

«A essere sincera, non sono stati i tuoi genitori a chiamarmi», gli confessò gaiamente. «Li ho cercati io da Halden, dicendomi preoccupata per il fatto di saperti solo.»

«Davvero?»

«Certo. E sapevo pure che la tua Kelly era fuori città.»

«Ah sì?» Michael cercava di concentrarsi su quello che Jena gli stava dicendo, ma era un’impresa quasi disperata.

Lei ridacchiò. «Si capisce. Come facevo quindi a non pensare che tu potessi davvero sentirti solo?…» Gli insinuò una mano in mezzo alle gambe, blandendolo lentamente. Egli s’inarcò per assecondare quelle carezze.

«… e vedo che avevo ragione.» Quando ritrasse la mano, il carezzevole andirivieni non si arrestò. Michael avrebbe voluto dirle che non era lei, quella cui anelava il suo desiderio, ma riuscì solo a mordersi un labbro per trattenersi dal dirle di continuare, di non fermarsi…

«Dimmi un po’: è capace, la tua ragazza normale, di farti questo? È capace di leggerti dentro e scoprire ciò che preferisci, e come, e quando, e poi metterlo in pratica su di te, intensificato mille volte, senza neppure toccarti?»

Abbandonato a quei magici tocchi invisibili, Michael cominciava a sudare, a farsi rovente, incandescente.

«Non sapevo che fossi una duplice…» ansimò.

Si accrebbe il sorriso felino. «Esatto. Telepatica e telecinetica. I tuoi genitori hanno ragione. Saremmo proprio una bella coppia. Materiale genetico di prim’ordine.» E ridacchiò, soggiungendo: «Chissà, magari potremmo addirittura mettere al mondo quel supermutante per cui son tutti così infervorati…»

«Ma scrutare le menti è proibito…»

«Basta che non si risappia in giro. E non credo proprio che alla prossima assemblea andrai a dire a tutti quanti come mi sono insinuata nella tua testolina per darti il piacere più intenso e completo che tu avessi mai provato…» Ormai quasi faceva le fusa, Jena. E mani invisibili continuavano ad affaccendarsi tra le gambe di Michael, stuzzicandolo, sconvolgendolo, innalzandolo pian piano a uno stato di frenetica esaltazione.

Il mandala prese a roteare, e convulsamente sfaccettarsi in plurime immagini scintillanti di Michael e Jena appassionatamente impegnati in tumultuose gesta carnali, come un fregio vivente scaturito da un tempio indiano fatto di luce. Ora egli giaceva sopra di lei, ora sotto. Qui lei gli s’inginocchiava dinnanzi, là gli si avviticchiava come un serpente.

«Lo so, lo so bene che non t’interesso ancora», gli flautò sommessamente Jena. Scivolò giù in mezzo alle sue cosce, e piano, piano, incominciò a lambirlo. Esalando un sospiro di piacere, Michael chiuse gli occhi. «Ma non ti scorderai di oggi. E ogni volta che sarai con lei, ripenserai a cosa vuol dire farlo con me. E tornerai a cercarmi. Vedrai, vedrai…»

L’attrasse su di sé, bocca contro bocca per farla tacere. Jena spalancò le gambe, e con un solo movimento egli fu dentro di lei, udendo un fragore di tuono ingigantirsi nel cervello mentre inarrestabilmente precipitava verso il compimento. Negli ultimi istanti si disse che Jena sbagliava, che dopo quella sera egli non avrebbe più pensato a lei, e cercò di mantenere ben salda in mente l’immagine di Kelly, ma quell’immagine si offuscò, si dissolse, e quando venne, gridando, ansimando e sospirando, centro d’una caleidoscopica girandola d’altri Michael intrappolati nell’arazzo incantato, non seppe quale nome di ragazza invocassero le sue labbra.


Prese a ronzare, sul monitor, l’avvisatore di chiamata. Andie lo ignorò. Voleva completare gli appunti sulle ricerche mutagene in Brasile, da consegnare a Stephen come base per la relazione della sottocommissione.

L’avvisatore insisteva.

«Caryl?»

Nessuna risposta. Doveva essere a fare colazione.

Imprecando, Andie allungò una manata che aveva come obiettivo il tasto di attivazione della segreteria automatica, ma sbagliò mira e beccò invece il tasto di risposta normale. Lo schermo s’illuminò, e lei si ritrovò a faccia a faccia con Karim.

«Andie?»

«Oh, ciao, Karim. Senti, mi devi scusare, ma in questo momento sono davvero occupatissima…»

«Non ne dubito. Ma si tratta di una cosa importante.»

Andie sospirò, cercando di far trasparire il meno possibile l’esasperazione che la pervadeva. Nelle sue attuali condizioni di spirito, l’ultima cosa che desiderava era proprio mettersi a fare conversazione con Karim. «Va bene, ti ascolto. Allora, cosa c’è?»

«Perché non lo dici tu a me?»

«Che significa?»

Karim si accigliò. «Ascolta, preferirei discuterne in privato, ma da quando è arrivato il tuo nuovo capo la cosa è diventata non dico difficile, ma praticamente impossibile. Non potremmo vederci a pranzo? Bere qualcosa insieme? Incontrarci nel corridoio cinque minuti?»

«Karim, debbo assolutamente finire questi appunti.»

«Andie, te lo chiedo per favore.» Le parve così vulnerabile che non ebbe il coraggio di liquidarlo con un netto rifiuto. Controllò il suo ruolino. Avrebbe potuto incontrarlo mentre Stephen si studiava gli appunti.

«Ti va bene fra tre quarti d’ora?»

«Perfetto. Da Henry

«Ci vediamo là.»

Un’ora dopo, Andie entrava nel bar tutta trafelata. Quei benedetti appunti le avevano richiesto più del previsto. Sebbene l’ora di pranzo fosse trascorsa da un pezzo, la sala principale era ancora mezzo piena. Nel prendere posto, Andie si sentiva sudata e a disagio. Karim la salutò freddamente con un cenno del capo.

«Ormai non ci speravo più.»

«Scusa il ritardo.»

Le porse il menu. «Qualcosa da mangiare?»

«Grazie, ma ho un panino che mi aspetta sulla scrivania.»

«E da bere?»

«Solo caffè», rispose, digitando l’ordinazione al compubar. Karim la fissava senza dir nulla. Protraendosi quel silenzio, Andie cominciò a sentirsi imbarazzata.

«Che c’è, mi è rimasta un po’ di soia fra i denti?»

«No. Mi stavo solo chiedendo come mai.»

«Come mai cosa?»

Karim si protese verso di lei, negli occhi un’espressione dura. «Andie, sono tre settimane che non ci vediamo. Quasi non sono riuscito nemmeno a scambiare due parole con te. Non ti pare un poco strano?»

«Il fatto è che sono stata così occupata…» rispose, torcendosi nervosamente fra le dita una ciocca di capelli.

«Balle. Quando c’era la Jacobsen non ti è mai successo di essere tanto occupata da non avere tempo per me. Basta però che compaia un bel maschione mutante, ed ecco che tutt’a un tratto io divento un estraneo.»

Andie sorrise a disagio. «Karim, non sarai mica geloso?»

«Può darsi. Ma credevo che fra noi avessimo cominciato a impostare un rapporto abbastanza decente. Dopo Rio pensavo…»

«Oh, via, Karim. Ma lì era Rio, per l’appunto. Le stelle, la musica… A uno gli salta qualche rotella, no? Per un po’ ce la siamo spassata. È stato molto bello. Chi lo nega? Ma ora siamo tornati a Washington.»

«Io non la vedo a questo modo.»

Andie annaspava in cerca di un argomento convincente. «Rifletti, Karim, lo capisci anche tu che non possiamo permetterci di prendere sul serio una storia del genere. Siamo tutti e due troppo indaffarati, ognuno per conto suo.»

Lui si accigliò. «Eppure ero convinto che fossimo d’accordo sul fatto che è rischioso fissarsi eccessivamente sul lavoro. In particolare dopo la morte della senatrice Jacobsen.»

«Be’, ho scoperto che lavorare favorisce il processo di cicatrizzazione. E il mio capo mi tiene occupata.»

«Ah, certo, non ne ho mai dubitato.»

Le guance di Andie s’imporporarono. «E con questo cosa vorresti dire?»

Karim la guardò con aria nauseata. «Cara Andie, non sono mica nato ieri, sai? Lo vede anche un cieco che hai preso una sbandata per il tuo principale. E lo sappiamo, no, che razza di lavoratore uno diventa quando si è beccato una cotta.» Fece una pausa, bevve un sorso di Campari. «Sì, Jeffers è un uomo davvero molto occupato. Ho letto del suo disegno di legge sull’Unione mutante negli atti del Congresso. Non perde tempo, vero? Sta raccogliendo consensi per l’abrogazione del Principio d’Imparzialità. Si sta dando da fare per ottenere una carica nel sottocomitato al bilancio. S’è messo a corteggiare il senatore Sulzberger, capo della maggioranza, e persino il vicepresidente.»

«E cosa c’è di male?»

«Nulla, specialmente da parte di un pescecane intenzionato a stornare fondi pubblici a favore di interessi privati.»

«Tipo?»

«I diritti dei mutanti, per esempio.»

Andie si accorse che ricominciava a sudare. «Le tue accuse mi offendono. E mi sanno tanto di intolleranza antimutante. Stephen non è affatto un pescecane, ma semplicemente un individuo capace, impegnato. Lavora sodo perché le sue motivazioni sono sincere e profonde.»

Karim emise un fischio di beffarda ammirazione. «Ma lo sai che stai imparando a esprimerti proprio come i tuoi comunicati stampa?»

«Non fare il cinico, Karim.»

«Specialmente quando c’è di mezzo Stephen, giusto?» La voce di Karim sonava ora gelida di rabbia. «Sei davvero cambiata, Andie. Pensavo tu fossi più lungimirante. Scusami tanto se ti ho rubato un po’ del tuo prezioso tempo.» Si alzò.

«Karim. Aspetta.» Mordicchiandosi nervosamente le labbra, lo guardò andar via. Si disse che Karim stava semplicemente comportandosi in modo puerile, attribuendo eccessiva importanza a una banale avventura estiva. E non diede ascolto alla voce insistente che già le diceva «ti manca.» Oltretutto, entro mezz’ora Jeffers avrebbe parlato in Senato a proposito delle indagini sull’omicidio Jacobsen. Lei non aveva tempo di dar retta ai malumori di Karim.

Andie tornò indietro di corsa sotto il sole del tardo settembre, raggiungendo il suo posto nella grande aula con un paio di minuti d’anticipo. Il senatore Sulzberger stava concludendo quella che doveva essere stata una prolissa filippica ostruzionistica contro il disegno di legge 173, inteso a proteggere Base Marte dallo sfruttamento commerciale. Adempiuto il proprio compito, Sulzberger si rimise a sedere.

Andie attese impaziente che Jeffers, in un impeccabile abito grigio di sartoria, salisse sul podio. Posati gli appunti, il senatore volse lo sguardo da un capo all’altro dell’aula.

«Signore e signori, colleghi del Senato, ritengo converrete con me che questa indagine si è trascinata già troppo a lungo», dichiarò Jeffers. «Chiedo quindi formalmente, dinnanzi a voi tutti, che si trovino infine risposte adeguate alla tragica morte del mio predecessore, senatrice Eleanor Jacobsen. Consentire a questo caso di protrarsi insoluto è prova lampante d’una scandalosa mancanza di coscienza sociale e solerzia politica. È forse questo il messaggio che intendiamo proporre alla nazione? Che un membro di quest’augusto consesso può venire impunemente assassinato?»

Calcava il pavimento del Senato con la sicurezza e l’eleganza di un grande felino selvatico, pensò Andie. Immagini di slogan elettorali le danzarono davanti agli occhi della mente. Stephen era in gamba, molto in gamba. Farsi rieleggere l’anno prossimo sarebbe stata una bazzecola, per lui. E successivamente avrebbe anche potuto puntare molto più in alto. Se solo la Jacobsen avesse posseduto il suo carisma. Invece che minacce di morte, Andie contava ora missive di ferventi sostenitori. Piaceva persino ai nonmutanti. L’istituzione della borsa di studio non gli aveva creato alcuna difficoltà, e così pure il finanziamento del fondo per la cooperazione. Si parlava già di giochi estivi imperniati sull’uso dei poteri mutanti.

«Mediagenico», aveva commentato Karim con un certo sorrisetto di consapevolezza dopo aver conosciuto Jeffers. Be’, questo era un fatto innegabile. Che male c’era, comunque, a essere carismatico? Nelle mani di Stephen costituiva semplicemente un mezzo per compiere in maniera più efficace il proprio lavoro. E bisognava riconoscere che lavorava davvero bene. Aveva finora proposto con successo tre progetti di legge aventi a che fare con questioni mutanti, mentre già altri senatori gli facevano la ronda per ottenerne l’appoggio.

Un vigoroso applauso la distolse dalla sua fantasticheria. Non rimase affatto sorpresa che i colleghi tributassero a Jeffers una simile ovazione. Egli rivolse all’assemblea un ampio sorriso, se ne uscì in un’affermazione di modestia e si affrettò a riguadagnare il proprio seggio, facendo l’occhiolino ad Andie.

In programma c’era poi la relazione della sottocommissione sulla trasferta brasiliana. Fu Craddick a presentare i risultati dell’indagine, integrati da alcune osservazioni di Jeffers. Horner era assente, ma tale circostanza non parve causare eccessivo rincrescimento nelle file dei suoi colleghi. Andie, che quel materiale lo conosceva quasi a memoria, non poté fare a meno di estraniarsi durante gran parte del resoconto di Craddick. Rifacendosi però attenta non appena udì la voce di Jeffers.

«Mi dichiaro d’accordo con le conclusioni della sottocommissione. In mancanza di solidi e inconfutabili dati di fatto, non posso raccomandare, al momento, alcuna ulteriore indagine.»

Cosa? Andie si stropicciò gli occhi. Si era aspettata che Jeffers avanzasse una vibrante proposta di immediato intervento. Gli aveva mostrato tutti i suoi appunti. E anche la memocassetta. Come faceva, allora, a rimanersene lì inerte e consenziente sostenendo che non esistevano prove tali da giustificare ulteriori indagini? Lei aveva previsto che Craddick e Horner si sarebbero preoccupati di eliminare dalla relazione qualunque elemento potenzialmente capace di destare allarme… Ma Jeffers? In preda all’ira, Andie tornò in ufficio ad attendere il principale.

«È andata bene», sorrise il senatore. «Meglio di quanto sperassi.»

«Lieta di sentirtelo dire», replicò Andie. «I tuoi giudizi sulla relazione della sottocommisione sono stati una grossa sorpresa, per me.»

Jeffers la fissò con espressione esitante. «Mi sembri turbata.»

«Lo sono.»

«E perché?»

«Ero convinta che avresti chiesto ulteriori indagini sugli esperimenti genetici in Brasile.»

«Ma come potevo? L’isterismo creatosi attorno all’assassinio di Eleanor non si è ancora placato. Confermare la possibilità della prossima comparsa di un nuovo genere di mutanti, anzi, di supermutanti, non farebbe che esacerbare ulteriormente gli animi. Neanch’io posso permettermi di rischiare tanto, Andie.»

«Quindi preferisci affossare tutto nelle sabbie mobili del Senato?»

«Ecco, a dire il vero non sono poi del tutto convinto che ci sia, come tu dici, tutta questa gran necessità di compiere altre indagini.»

Andie fu sul punto di replicargli che altri mutanti la pensavano diversamente… Ma una vocina, di dentro, le suggerì di lasciar perdere. Erano beghe mutanti, quelle, e lei c’entrava poco o nulla.

«Be’, comunque ci sono rimasta male che tu non abbia affrontato la questione un po’ più vigorosamente…»

Jeffers le accarezzò dolcemente il volto.

«Mi dispiace, Andie. Ti ho deluso. E proprio in una questione che per te significa molto, vero? Ascolta, che ne dici se ci troviamo alle sette per l’aperitivo, e poi ne parliamo con calma a cena?»

Il cuore di Andie diede un balzo. «D’accordo.»

Tre ore dopo se ne stavano seduti nella lussuosa sala da pranzo morbidamente illuminata di un ristorante francese a più stelle.

«Ti prego, Stephen, cerca di capire», insisteva Andie. «Sono stata in Brasile insieme a Eleanor poco prima che venisse uccisa. E ho, in un certo senso, l’impressione di tradirla, se non mi impegno con maggior decisione lungo la strada che lei aveva intrapreso.»

«Tu hai fatto del tuo meglio», replicò Jeffers in tono pacato. «È bellissimo tener vivo il suo ricordo, e sai bene quanto io ci tenga. Tuttavia sarebbe assurdo cercare di uniformare le nostre scelte attuali a quello che avrebbe potuto essere il comportamento di Eleanor.»

«Ma come la mettiamo se in Brasile stanno veramente conducendo esperimenti per creare un supermutante? Indizi sostanziosi non mancano di certo.»

Jeffers gettò il tovagliolo sulla tavola, e dalla tastiera chiese il conto. «Be’, personalmente continuo a non credere che quella memocassetta rappresenti una prova inconfutabile. E poi non mi avevi detto che i mutanti stanno conducendo una loro personale indagine? Quindi la vicenda è ben lungi dall’essere chiusa.»

«Sì, però…»

«Andie, ufficialmente più di tanto non possiamo fare. Il Brasile è una nazione straniera. Non possiamo rischiare di scatenare un incidente diplomatico. Sono d’accordo con te che l’idea di esperimenti su soggetti umani è ripugnante, ma una prova definitiva in tal senso non l’abbiamo. Registrazioni di scissioni embrioniche realizzate in vitro non significano per forza che debbano esservi, in qualche clinica di Rio, donne tenute prigioniere per far da involontarie ospiti a indotte gravidanze mutanti.» Jeffers aggrottò le sopracciglia. «Sembra la trama di un video dell’orrore. Il dottor Ribeiros e la sua isola di embrioni mutanti.»

Andie rise suo malgrado e l’accompagnò fuori del ristorante, risalendo con lui sul libratore grigio. Quando Stephen fermò accanto al marciapiede nei pressi dell’appartamento di Andie, lei rimase sorpresa nel vederlo spegnere il motore.

«Andie, non so dirti cosa significhi, per me, l’aiuto che mi dai. Hai trasformato le difficoltà di questo avvicendamento in una tranquilla passeggiata.»

«Mi fa piacere.» Teneva lo sguardo chino, imbarazzata.

«Sono davvero felice di lavorare con te. Di stare insieme a te.»

L’attirò a sé, la strinse fra le braccia. Il bacio fu appassionato, profondo.

«Vorresti salire da me?» Lo stava davvero invitando nel proprio appartamento? Il suo principale? Un mutante?

«Ma certo.»

Andie gli fece strada all’interno, e di sopra. Sostarono brevemente sul divano per un bicchierino. Poi passarono in camera.

«Vieni», le sussurrò, tendendo le braccia. Ogni esitazione scomparve in lei. Gli si abbandonò con la massima naturalezza, come se l’avesse già fatto innumerevoli volte.

Una volta a letto, Andie scoprì con sollievo che egli era un perfetto, normalissimo maschio umano. Nulla di genitalmente stravagante, grazie a Dio. Mentre si muoveva su di lei, dentro di lei, Andie percepiva sotto la sua pelle abbronzata il fluido incresparsi dei muscoli. Non era mai stata così vicina a un mutante. Le parve curiosamente caldo, come se la sua temperatura corporea fosse più alta del normale. Quegli imperscrutabili occhi dorati, occhi di felino selvatico, la dominavano con ipnotica intensità. L’aveva ghermita, facendola sua preda? Non le importava. La sola cosa che per lei contava, in quel momento, era avere Stephen Jeffers nel proprio letto. Sospirò dolcemente. Poi non altrettanto dolcemente, mentre l’orgasmo la travolgeva.

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