12

Andie si svegliò di soprassalto. Stava distesa sul divano, ancora completamente vestita. L’orologio a muro l’avvertì che erano le sette del mattino. Merda! Fra tre ore c’era la conferenza stampa della Jacobsen! Saltò giù e corse in bagno. Due minuti sotto la doccia, cinque di fronte allo specchio, altri cinque impiegati a infilarsi nel completo in seta grigia e a raccogliersi i capelli all’indietro in una crocchia austera. Poi acchiappò la videovaligetta e si precipitò a prendere la metropolitana, augurandosi che fosse in orario. La fortuna era dalla sua, e Andie riuscì a raggiungere l’ufficio dieci minuti prima che con lo scoccare delle otto e un quarto arrivasse la Jacobsen, cosicché le rimase giusto il tempo di trasferire gli appunti al terminale della senatrice.

Caryl sollevò il capo dal monitor e strabuzzò gli occhi. «Sono qui da un’ora, e già novanta chiamate.»

Mentre parlava ne giunse un’altra. La prese il robotele, e l’immagine registrata di Andie garantì all’interlocutore che la senatrice Jacobsen avrebbe visionato la telefonata, invitandolo quindi a lasciare il suo messaggio dopo il segnale acustico.

Tranquilla, sicura di sé, pronta all’azione, Eleanor Jacobsen fece la sua comparsa a passo vivace con indosso un abito color avorio.

«Tutto sotto controllo?»

«Finora sì. Gli appunti sono pronti.»

La senatrice annuì e scomparve nel suo ufficio.

Entro le otto e mezzo, tutto il personale era in sede. Andie cominciò a sentirsi più ottimista. L’avrebbero spuntata. Dovevano spuntarla.

Quindici minuti prima che avesse inizio la conferenza stampa, Andie scese nella sala presidenziale a controllare i microfoni. Tutti e cinque al loro posto. Osservò i giornalisti presentarsi alla spicciolata, in perfetto orario.

Accennò a Rebecca Hegen e sorrise a Tim Rogers. In effetti erano tutte facce conosciute, tranne una. Un giovanotto dai corti capelli neri, pallido in volto, che portava un paio di antiquati occhiali dalla montatura in tartaruga, si fece strada con piglio deciso fra gli altri giornalisti, andando a occupare senza indugio una poltroncina nel bel mezzo della seconda fila e guadagnandosi un’occhiataccia da almeno uno dei colleghi, che probabilmente, pensò Andie, aveva avuto intenzione di riservare proprio quel posto a qualcun altro. Ma il giovanotto occhialuto non fece alcun caso al disappunto del suo vicino. Fissò con grande attenzione il tavolo al quale si sarebbe seduta la senatrice Jacobsen. Poi abbassò il capo e prese a trafficare con una videovaligetta in pelle.

Preferirei andare a scavar fossati piuttosto che fare la giornalista in una tivù via cavo, pensò Andie. C’è una concorrenza spietata. Qualunque novellino può farsi avanti e soffiarti il posto. A giudicare dalle apparenze, quel giovanotto aveva dinanzi a sé una promettente carriera. Si ripromise di informarsi sul suo conto, più tardi.

All’ingresso della Jacobsen da una porta laterale, il cicaleccio che riempiva la sala scemò notevolmente. Eleanor rivolse ad Andie un lieve cenno del capo e andò a piazzarsi sul podio.

«È mia intenzione apportare alcuni chiarimenti a quanto affermato dal mio collega senatore Horner in correlazione alle dicerie attualmente circolanti sul cosiddetto supermutante», esordì Eleanor Jacobsen. Appariva lucida e sicura, perfettamente padrona della situazione. Andie cominciò a rilassarsi.

«Non dobbiamo consentire all’emotività di recare intralcio ai fatti. E, al momento, i fatti puri e semplici sono che non sussiste alcuna prova circa l’effettuazione di qualsivoglia genere di esperimento genetico del tipo di quelli cui ha fatto riferimento il senatore Horner. E, analogamente, nessuna sia pur minima prova è stata rinvenuta a favore dell’esistenza di una qualche sorta di superuomo mutante. Sospetto dunque che il mio esimio collega possa essere rimasto vittima di una mistificazione, e lo invito a rivelare, a me o ai rappresentanti degli organi di informazione, la natura e identità delle sue fonti.»

I telecronisti pendevano dalle labbra di Eleanor Jacobsen. Andie notò il bizzarro giovanotto occhialuto in seconda fila rivolgere verso la senatrice quello che pareva un apparecchio di registrazione.

«È di vitale importanza che tutti noi si consideri questa presunta scoperta per ciò che veramente è: una pura falsità, un’inconsistente diceria…»

Un gemito lacerante traversò la sala, sommergendo la voce della senatrice. Eleanor Jacobsen, volgendosi per identificare la causa della turbativa, s’interruppe di colpo, avviluppata in un turbinio di luce bianca.

Andie boccheggiò, cercando di muoversi, ma il locale era gremito e si ritrovò bloccata da ogni parte, impotente. Ricolma di orrore vide Eleanor crollare in avanti, stramazzare di schianto sul palco.

«Quell’uomo! Prendete quell’uomo con gli occhiali!» urlò.

Ma quello stava già scavalcando una fila di sedili, sgusciando fra la gente, correndo verso l’uscita. Poi la folla proruppe.

«Trovate un dottore!»

«Chiamate la vigilanza!»

«Prendetelo! Ha sparato a Eleanor Jacobsen!»

Un nerboruto cameraman in maglietta azzurra catturò l’attentatore a un metro e mezzo dalla porta, ed entrambi scomparvero sotto un mucchio di agenti in uniforme.

Andie riuscì ad aprirsi la strada fino alla pedana. Eleanor giaceva abbandonata al suolo come una bambola di stracci. Gli occhi spalancati, immobili, fissi nel vuoto. Una donna in rosso stava china su di lei, cercando qualche segno di vita.

«Come sta? Respira? E il cuore?»

Andie rivolse quelle domande meccanicamente. Le era bastato uno sguardo per rendersi conto. Eleanor Jacobsen era morta. Rimase a guardare, istupidita, mentre la donna, con gesto pietoso, chiudeva due palpebre inerti sugli occhi ormai spenti della mutante.

«Un dottore! Chiamate un dottore! Presto!» gridava qualcuno.

Andie si costrinse a fissare il volto pallido di Eleanor, vincendo l’impulso di accarezzare le bionde chiome scompigliate. Quella magnifica intelligenza, quello spirito indomito, quell’impegno continuo… tutto svanito. L’eroina mutante, la splendida Eleanor dagli occhi d’oro, assassinata da un nonmutante. Brucianti, copiose, sgorgarono le lacrime. Si accasciò sul bordo della pedana, si nascose il volto fra le mani. Era tutto finito, pensò. Tutto finito.


«Passami la livella laser», ordinò Bill McLeod, chinandosi sopra il muso del suo vecchio Cessna.

Joanna rovistò dentro la borsa degli attrezzi. «Quale sarebbe?»

«È lunga e nera, con un led giallo.»

«Non la trovo», si arrese. «Ma te lo dovevi proprio portare in vacanza con noi, quest’aggeggio?»

«Non importa. Dai qua, che guardo da me.»

Accompagnando il gesto con un sorriso, Joanna gli allungò la borsa dondolante. Certo, a lei non interessava affatto passare il tempo a lavorare sull’aereo di Bill, ma una visitina alla vecchia pista nei pressi di Lake Louise faceva da sempre parte integrante delle loro vacanze. E poi le dava gusto stare a guardare i piloti della domenica che armeggiavano coi loro apparecchi. Il balenio delle lucenti vernici metalliche… i limpidi cieli azzurri attraverso i quali salivano a librarsi i piccoli scafi… le piaceva trovarcisi in mezzo.

Sebbene dietro insistenza di Bill avesse frequentato regolari corsi di volo e conseguito la licenza di pilota, con la nascita dei ragazzi il suo interesse per quel gioco rischioso s’era affievolito fin quasi a svanire. Conservava gelosamente nella memoria i momenti esaltanti delle sue evoluzioni solitarie, ma preferiva che rimanessero appunto quel che erano: vagheggiamenti del pensiero, nient’altro.

«Ti ricordi quando Kelly veniva qui insieme a noi?» gli domandò.

«Già. Sarebbe potuta diventare un pilota fenomenale.»

«Lo credo anch’io. Ora come ora, invece, non riesco neppure a capire che cosa le interessa.» Joanna si lasciò sfuggire un sospiro.

«A parte i combattimenti all’arma bianca, vuoi dire?»

«Bill!»

Lui sollevò le mani in gesto di resa, poi tornò a dedicarsi all’aereo. «Dai, scherzavo. A proposito, saputo più nulla di quella ragazzina mutante?»

«Melanie Ryton? Kelly non ne ha quasi più parlato.»

«Me n’ero accorto. Da quando siamo arrivati, praticamente non fa altro che andarsene in giro con aria trasognata.»

«Soffre per la mancanza di Michael. È un fatto naturale.»

«Vorrei poter dire lo stesso di lui…»

«Lo sai, no, che non mi piace sentirti parlare di Michael a questo modo.» Joanna incrociò le braccia con aria irritata.

«Accidenti, Jo, che ci posso fare? Mi fa venire i brividi. È un bravo ragazzo, niente da dire, però ha certi occhi… La loro aria esotica non è che migliori molto le cose. Comunque non lo so mica chi era più a disagio, quando Kelly l’ha convinto a fornire quella prova pratica di levitazione… Dava l’impressione di volersi andare a nascondere sotto il divano. E ti dirò che non stento affatto a capirlo. A lui dev’esser sembrata più che altro una presuntuosa e ridicola ostentazione.»

Joanna ridacchiò. «Eppure era una cosa davvero sbalorditiva. Non credo di aver mai veduto un mutante mettersi in mostra tanto apertamente. Quasi quasi lo invidiavo. Pareva un’esperienza piuttosto gradevole.» Cercò, per un istante, d’immaginare che sensazione le avrebbe dato librarsi in aria a quel modo.

«Può darsi. Ma se vuoi la mia opinione, quel mutante non mi sembrava che si divertisse poi tanto.»

«In effetti hai ragione. È sempre così serio. Penso comunque che sia preoccupato per sua sorella.»

«Già, e adesso dobbiamo anche fare i conti con questa assurda storia del supermutante, ammesso che ci sia da credere a quel senatore… come si chiama?… Horner.»

McLeod rimase qualche attimo in silenzio, il che voleva dire che probabilmente era intento a serrare un cavetto. Joanna si appoggiò alla fusoliera argentata.

«Caro, sono quasi le cinque e un quarto. Vuoi sentire le notizie di borsa?»

«Certo.»

Joanna premette un pulsante sul proprio orologio. Un annunciatore sciorinò la consueta serie di comunicati commerciali, propose qualche commento spicciolo sul mercato azionario, quindi passò alle cifre di chiusura della giornata borsistica.

«Gran parte dei valori guida hanno subito un’immediata, precipitosa flessione a seguito del delitto di oggi pomeriggio… l’indice Dow Jones dei titoli industriali ha chiuso a duemilacinquataquattro e quaranta, con una perdita secca di settecentoventi punti.»

McLeod rialzò la testa di scatto, mancando per un pelo uno dei pannelli del vano motore. «Quale delitto?»

Joanna sintonizzò il canale notiziario.

«… Ed ora, ultimissima di cronaca da Washington: Arnold Tamlin, presunto assassino della senatrice Eleanor Jacobsen, è stato trovato morto nella sua cella all’una e trentotto pomeridiane. Nulla è ancora trapelato circa le cause del decesso. Si prevede che l’autopsia verrà eseguita non appena saranno stati individuati e informati i famigliari.»

«Bill, qualcuno ha ucciso quella senatrice mutante… Dio mio, non è possibile…» Joanna si sentiva strana, come in preda allo stordimento.

McLeod si accigliò. «Tanto lo sapevo che una cosa del genere doveva succedere, prima o poi…»

«Ssss… ascolta!»

Il notiziario proseguiva.

«L’arresto di Tamlin è avvenuto pochi attimi dopo il verificarsi del mortale attentato ai danni della senatrice Eleanor Jacobsen dell’Oregon. La senatrice Jacobsen, mutante, stava in quel momento tenendo una conferenza stampa per confutare le affermazioni fatte dal senatore Horner a proposito delle voci, recentemente circolate, sull’esistenza di un cosiddetto superuomo mutante. Colpita da una scarica fotonica a distanza ravvicinata, la senatrice Jacobsen ha perso la vita all’istante. Nel conseguente tafferuglio, il sospetto Tamlin è stato bloccato e arrestato. Informato dell’accaduto, il senatore Horner ha rilasciato la seguente dichiarazione: ’È una tragedia. Una vera tragedia. Ma sia fatta la volontà di Dio. Chiniamo dunque la testa, fratelli, raccogliendoci in preghiera…’»

Senza dir nulla, Joanna premette il pulsantino scarlatto di spegnimento. Davanti al sole passava una nube, proiettando al suolo la sua ombra.

«Non l’ho mai sopportato, quell’uomo», commentò McLeod.

Joanna rimase senza fiato.

«È tutto qui quel che sai dire?» sbottò. «Una donna straordinaria viene uccisa, e tu non sai far altro che manifestare il tuo fastidio per quella specie di stupido prete!» Con gesto rabbioso scagliò al suolo la borsa degli attrezzi, e guardò il contenuto sparpagliarsi sul terreno scuro.

«Joanna, ma si può sapere cosa ti succede?» McLeod la fissava sconvolto.

Lei si volse a fronteggiarlo, le mani piantate sui fianchi.

«Sono stufa del tuo atteggiamento verso i mutanti, Bill. Nostra figlia è innamorata di un ragazzo mutante, e tu sei capace solo di continuare a dire quanto ti fa schifo. Una donna coraggiosa e intelligente è stata uccisa, e tu non provi nemmeno un briciolo di rincrescimento. Incomincio a pensare che abbia ragione Kelly. Sei davvero un fanatico intollerante.»

«Un momento, Jo. Nonostante tutte le mie battute, credo anch’io che il figlio di Ryton sia un ragazzo in gamba. E sono convinto che l’uccisione della loro senatrice sia una grave perdita, per i mutanti. Comunque non puoi pretendere che di punto in bianco io cambi idea su tutta la linea.»

«Certo che no. Però mi aspetto che tu te la prenda un po’ più a cuore.»

McLeod saltò giù dal suo trespolo e la strinse fra le braccia.

«Jo, non giudicarmi un cinico insensibile. Ogni omicidio è un fatto allarmante. Spaventoso. Ma non ti accorgi che i mutanti sembrano coagulare attorno a sé questo genere di violenza? E così è stato fin da quando uscirono allo scoperto negli anni Novanta. Io non voglio che nostra figlia rimanga coinvolta in una situazione del genere. E tu?» La fissò gravemente.

Joanna gli poggiò la testa su una spalla. «Anch’io sono spaventata, caro. I figli di Ryton mi sembrano due ragazzi perfettamente a posto. Non posso credere che i mutanti debbano meritare un simile trattamento. E poi non so più che cosa dire a Kelly.» Batté le palpebre in fretta, rintuzzando le lacrime incombenti. «A prescindere da quanti mutanti possano venire assassinati, non proibirò a Kelly di rivedere Michael. Non posso farlo. E voglio che tu ne prenda atto. Ora finisci, per favore, e andiamocene via di qui.» Gli voltò le spalle, avviandosi a lunghi passi verso il libratore.


James Ryton sedeva immobile nel proprio ufficio con lo sguardo passivamente inchiodato sul videoterminale della scrivania, confusa macchia baluginante. Aveva visto l’inizio della conferenza stampa, aveva visto la telecamera oscillare come impazzita mentre Eleanor Jacobsen cadeva. E poi facce indistinte, e gente che correva, e una donna mutante, vestita di bianco, riversa esanime al suolo, occhi sbarrati sul nulla.

«Glielo dicevo, io, che dovevamo stare attenti!» proclamò Ryton con voce alta, petulante, all’ufficio deserto. «Ma non hanno voluto credermi. Non hanno mai voluto darmi ascolto. E guarda ora cos’è successo. I normali hanno ammazzato Eleanor Jacobsen. Lo sapevo. Lo sapevo…»

E adesso anche l’assassino era morto.

Chinò la testa e se la prese fra le mani, massaggiandosi le tempie mentre le vampate mentali incominciavano il loro quotidiano rumoreggiare. Se solo potessero, i normali ci sterminerebbero tutti quanti fino all’ultimo, pensò con amarezza. E mia figlia è là fuori chissà dove, in balia di quelle belve scatenate.


Skerry sedeva sopra uno sgabello di legno del Devonshire Arms di SoHo, sorseggiando una Red Jack e seguendo le notizie via satellite. Mandavano di continuo la scena registrata, con la donna bionda che cadeva e cadeva e cadeva. Poi la faccia pallida dell’assassino, morto nella sua cella. Anche il barista si era fermato a guardare.

«Che peccato, eh, amico, per quella senatrice mutante», commentò. «Sembrava una tipa abbastanza per bene.»

Skerry annuì lentamente, senza staccare gli occhi dallo schermo.

«Lo era.»

Vuotò il bicchiere.

«Bisogna che me ne vada.»

Buttò sul banco un gettone da un credito.

«Tieni il resto.»


Seduto alla sua scrivania, Stephen Jeffers si stropicciava una mano sulla bocca fissando il monitor.

«Maledizione», disse. «Questa non ci voleva. E ora?»


Sue Li Ryton, sguardo puntato sul video, si lasciò andare contro lo schienale della poltroncina. Trevan, l’assistente di reparto, entrò nell’ufficio e senza una parola le porse un bicchiere ambrato, quasi colmo. Lei lo ringraziò con un cenno del capo e bevve un sorso. Avvertiva il profumo dell’anice, ma, per chissà quale curioso motivo, la bevanda non le dava alcuna sensazione a livello di papille gustative. Sorbì un’altra sorsata, poi ancora un’altra.

«Ouzo», disse Trevan in tono contrito. «È tutto quel che ho.»

«Va benissimo», lo rassicurò Sue Li porgendogli il bicchiere vuoto. «Ti spiacerebbe portarmene un altro?»


Chiuso nel suo ufficio, Benjamin Cariddi non abbandonò lo schermo fino al termine del notiziario. Quindi, pallido in volto, digitò un numero segreto disattivando il video.

«Sì?» rispose una voce tesa.

«Sono Ben.»

«Hai saputo, vero?»

«Già. Non credevo che fosse in programma una cosa del genere.»

«Quel pazzo fottuto ha esagerato.»

«Eppure ti avevo avvertito…»

«Al diavolo te e i tuoi avvertimenti! Ormai è troppo tardi. Dovremo muoverci ancora più in fretta.»

«Ti sei occupato di Tamlin?»

«Naturale. E tu ce l’hai ancora la ragazza?»

«In carne, ossa e occhi d’oro.»

«Allora procediamo.»


Michael correva lungo il corridoio in penombra, diretto verso l’ufficio di suo padre. In ognuno dei locali accanto a cui passava, intravvedeva un monitor baluginante in rosso, ambra, oro, sempre le medesime immagini, interminabilmente ripetute.

Rabbia e dolore ardevano nei suoi occhi senza lacrime.

L’hanno ammazzata, pensava. Maledetti, l’hanno ammazzata!

Irruppe nella stanza di Ryton.

«E adesso cosa facciamo?»

Suo padre rialzò la testa e si volse a guardarlo con aria stanca.

«In che senso?»

«Non chiediamo l’apertura di un’inchiesta?»

«Ma certo. Probabilmente Halden sta già presentando formale domanda.»

Sorpreso, Michael guardava fisso suo padre.

«Pensavo di trovarti più in collera.»

«Ma io sono in collera, Michael. I miei timori più gravi stanno divenendo realtà.»

«Ci sarà una riunione di clan?»

«Sì. Martedì, da Halden.» La voce di Ryton s’era ridotta ad un sussurro.

«Voglio esserci anch’io.»

Suo padre annuì. «Benissimo. Vedi, allora, se puoi occuparti di organizzare il viaggio…»


Durante l’intervallo di colazione, Melanie sostò all’ombra della videocabina masticando un panino imbottito. Benjamin le aveva procurato un lavoro al bureau della Betajef, e lei ci si trovava piuttosto bene. Era divertente incontrare tutti quegli uomini d’affari stranieri, e la decorosa divisa color garofano che doveva indossare adesso le risultava decisamente preferibile rispetto al costume dello Star Chamber.

Sullo schermo stavano intervistando un vecchio bacucco di senatore. E cosa diceva… qualcosa a proposito dei supermutanti? Mentre Melanie guardava, la scena cambiò, passando a mostrare una sala conferenze sul cui pavimento stava distesa una donna bionda, snella, dagli occhi d’oro. Melanie smise di masticare. Ma quella non era Eleanor Jacobsen? Suo padre ne parlava di continuo. Ora che stava dicendo il commentatore?

«… uccisa ieri. Il presunto assassino è stato a sua volta rinvenuto cadavere oggi a Washington, nella cella dov’era custodito. I capi delle varie comunità mutanti sparse per tutto il Paese stanno confluendo verso la sede governativa dello Stato dell’Oregon, dove verrà discussa la successione alla Jacobsen…»

Morta? Non era possibile.

Sullo schermo si vedeva ora un gruppo di aggrondati cronisti televisivi in un grigioscuro abbigliamento di circostanza.

«Allen», osservò una giornalista dai capelli grigi, «è mia opinione che a seguito di questa tragedia possiamo aspettarci un incremento di attività politica, da parte dei mutanti.»

«È molto probabile, Sarah», convenne un collega biondo. «Si nutre inoltre il timore che questo assassinio rappresenti soltanto l’inizio di un piano su vasta scala inteso alla eliminazione di tutti i mutanti che ricoprono cariche pubbliche.»

«Quei maledetti mutanti se la sono andata a cercare, ve lo dico io», borbottò, guatando lo schermo, un uomo anziano con profonde rughe attorno agli occhi.

Melanie chinò svelta la testa, inforcò gli occhiali scuri e si allontanò dal piccolo capannello assembratosi davanti al monitor. Provava la sensazione che tutti la osservassero, che tutti le guardassero gli occhi, però si disse che nessuno, probabilmente, l’aveva notata. Intonò fra sé, per tre volte di seguito, un canto rasserenante, poi tornò in gran fretta al lavoro.


Le lampade installate lungo il corridoio dell’ospedale sfavillavano con impersonale gaiezza. Andie prese posto su una sedia gialla accanto alla porta del pronto soccorso, trastullandosi distrattamente con qualche ciocca ribelle sfuggita alla costrizione della crocchia. Le sembrava di non aver dormito per giorni e giorni, aveva la sensazione di essere nata, e di essere destinata a morire, dentro quel medesimo formale abito di seta grigia. L’orologio le comunicò che erano le 3.30 del mattino. Poi le 3.31. Poi le 3.32. Si stropicciò gli occhi. La Valedrina offertale da un medico stava incominciando a fare effetto, e il doloroso stordimento si andava stemperando in un piacevole rimescolio.

Si lasciò andare all’indietro contro la parete, chiuse gli occhi, poggiò la testa, e di nuovo si trovò a ripercorrere gli avvenimenti della giornata come se stesse visionando una registrazione televisiva.

Non riusciva ancora a crederci. Si era trovata lì a due passi. Forse sarebbe riuscita a salvarla. Rivide la scena e immaginò se stessa nell’atto di affrontare Tamlin prima che puntasse l’arma, afferrandolo, distogliendolo, interponendo il proprio corpo sulla traiettoria del raggio mortale.

Un incubo. Spaventoso. Grottesco. Interminabile.

Quando Tamlin era stato trovato cadavere nella sua cella, Andie aveva incominciato a pensare che il mondo fosse davvero completamente impazzito. Nonostante la continua sorveglianza video, l’uomo s’era d’un tratto stretta la testa fra le mani, era crollato a terra, era morto. Le prime risultanze dell’autopsia parlavano di massiccia emorragia cerebrale. Ma ci sarebbero voluti diversi giorni per reperire la documentazione medica di Tamlin, studiare i suoi precedenti sanitari, e decidere se si trattava di un decesso per cause naturali oppure no.

«Dormi sempre, quando sei al lavoro?» domandò una voce familiare.

Andie aprì gli occhi. Un giovanotto barbuto, alto e muscoloso, con pantaloni militari da lavoro e una maglietta bianca decorata in giapponese, era in piedi accanto a lei.

«Skerry?»

«Per servirti.»

Andie si tirò su. «Ma come fai ad avere un’aria così allegra?»

«Abitudine. E tu come te la passi?»

«Non bene.»

«Meglio di molti altri, insomma.» Le si sedette a fianco. «Immagino che tu fossi lì, vero?»

«E come no. Un posto in prima fila», rispose Andie con voce tremante.

«Calmati.» Le pose una mano su una spalla. «Ascolta, mi rendo conto che per te è stata dura, ma abbiamo lasciato una questione in sospeso, e non si può più rimandarla.»

«Che vuoi dire?»

«Quel regalino che ti ho fatto a Rio. Bisogna che tu me lo ridia.»

«Stasera? E per farne cosa?»

«Ora che Eleanor è morta, tocca a me consegnarlo al Consiglio dei mutanti.»

«Mi pareva che non ti vedessero di buon occhio.»

«Infatti. Ma non c’è nessun altro che possa assumersi l’incombenza.»

Andie trasse un respiro profondo, scossa dall’idea pazzesca che le era balenata in mente.

«Skerry, lascialo fare a me», azzardò. «Voglio occuparmene io. Per Eleanor.»

«Ti ha dato di volta il cervello?»

«No, Skerry. Ti prego. Sono stata a Rio insieme a Eleanor. Su questa faccenda ne so quanto ne sapeva lei. Forse più. E ho ancora qualche conoscenza, fra i politici.»

«Alle riunioni del Consiglio non sono ammessi i nonmutanti.»

«Ma almeno proviamo.»

«Non ti faranno entrare.»

«Nemmeno insieme a te?»

Skerry restò un attimo in silenzio. «Be’, insieme a me forse sì.» Gli angoli della bocca cominciarono a incresparglisi in un sorriso. «E va bene. Non so proprio cosa ne potremo cavare di positivo, danni però non dovrebbe farne. Sono già talmente in urto, col clan, che non sto certo a preoccuparmi. Al massimo potranno bandirmi o appiopparmi un biasimo ufficiale.»

«Ma non si rendono conto di quel che stai cercando di fare per loro?»

Skerry crollò il capo. Il suo sorriso si irrigidì. «I metodi mutanti sono lenti, ostinati, e seguono regole molto rigide. Le regole del nostro Libro. Chi non vive secondo il Libro, è un fuorilegge.»

«Be’, fuorilegge o no, li costringeremo ad ascoltarci!» Per la prima volta in tante ore, Andie sentì la fiducia rinascerle dentro.

«Allora, dov’è la memocassetta?»

«Dentro la mia scrivania.»

«Possiamo andarla a prendere?»

«Adesso?» Andie si strinse nelle spalle. «Be’, sì, certo… ma perché tanta fretta?»

«Voglio solo evitare di perdere altro tempo, tutto qui.»

Andie sospirò. Si sentiva esausta, ma lo sguardo di lui non le dava tregua.

«D’accordo, andiamo.»

L’edificio era illuminato solo a metà e praticamente deserto. Giunti a destinazione, Andie accese le luci ed aprì subito la sua scrivania.

«Per la miseria!» esclamò. «Eppure avrei giurato che fosse qui…»

Skerry si sporse a guardare. «Cosa c’è che non va?»

«Ero convinta di averla lasciata sul fondo dello schedario. Di solito lo tengo chiuso.»

«Buona idea. Però non c’è?»

«Già. Ricordo benissimo che dopo averla fatta vedere a Eleanor l’avevo rimessa a posto.»

«Guarda negli altri cassetti.»

Andie rivoltò la scrivania da capo a fondo. Poi setacciò anche il posto di Caryl. Niente.

Si volse a fronteggiare Skerry. Il giovane era scuro in volto.

«E la scrivania di Eleanor?…»

«Che debbo dirti? Proviamo.»

Seppure alquanto controvoglia, Andie entrò nell’ufficio privato della defunta senatrice. Skerry forzò la serratura situata sul cassetto in alto, e tutto il resto si aprì facilmente. Dieci minuti di ricerca non approdarono a nulla.

«Merda.» Skerry si lasciò andare nella poltrona di Eleanor. Andie sedette sul pavimento, poggiando la testa contro il fianco della scrivania.

«E adesso?»

«Secondo me ci hanno fottuto», commentò Skerry. «Da sola non può essersene andata di sicuro.»

«Ad ogni modo non capisco come abbia fatto a sparire. Qualcuno avrebbe dovuto sapere che ce l’avevo, e chiunque sia stato bisogna che l’abbia rubata mentre quel criminale stava compiendo il suo delitto. Ma, innanzitutto, come avranno fatto a entrare? E poi te l’ho detto, la mia scrivania la tengo sempre chiusa a chiave.»

«Eppure hai visto con quanta rapidità ho violato la scrivania di Eleanor. Una serratura non vuol dire nulla.»

D’un tratto Andie balzò in piedi e prese a digitare sul terminale di Eleanor.

«Che stai facendo?»

«Mi è venuta un’idea.»

Si mise a far scorrere velocemente i nomi dei file.

«Maledizione!» borbottava. «Dove diavolo è?»

Dopo qualche istante introdusse dalla tastiera diversi comandi, poi si raddrizzò tirando un sospirone di sollievo. «Eccola qua.»

«Ma cosa?»

«Due giorni fa avevo mostrato la memocassetta a Eleanor. È rimasta nella memoria di schermo.»

Skerry si chinò a esaminare il monitor.

«È possibile registrarla e poi cancellare la memoria?»

«Certo.»

Con il più radioso dei sorrisi, Skerry le batté affettuosamente sulla schiena. «Dolcezza mia, ritiro ogni e qualsivoglia osservazione scortese io possa aver mai pronunciato a proposito dei nonmutanti. Sei favolosa. E quando ci saremo lavorato ben bene il Consiglio dei mutanti, vedrai se non proporranno te, per la nomina a senatrice!»

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