Il mutante — l’estraneo in mezzo a noi, l’alieno in incognito, il diverso dai misteriosi poteri — rappresenta uno dei grandi personaggi mitici della fantascienza. Se la fantascienza è, come io credo che sia, una letteratura del cambiamento, una letteratura delle infinite possibilità, allora nel mutante s’incarna un elemento fantascientifico assolutamente fondamentale, in quanto colloca la zona del cambiamento assai vicino al nostro nucleo, direttamente nelle cellule germinali umane.
Fu il botanico genetista olandese Hugo de Vries che verso la fine del Diciannovesimo secolo coniò, a partire dal verbo latino mutare, i termini «mutazione» e «mutante». De Vries, che stava conducendo esperimenti di selezione sulle primule, nell’incrociarne ripetutamente diverse varietà aveva osservato il verificarsi di repentini e vistosi cambiamenti. Le sue ricerche lo portarono a concludere che tutti gli esseri viventi sono soggetti a tali cambiamenti, o mutazioni, e che le forme mutanti trasmettono sovente, alle successive generazioni, le proprie alterate caratteristiche. Gli stessi processi evolutivi possono quindi essere considerati come una successione di mutazioni.
Le moderne ricerche genetiche hanno ormai da tempo confermato le teorie di de Vries. Oggi sappiamo che l’aspetto fisico degli organismi viventi è determinato da corpuscoli, denominati geni, presenti all’interno dei nuclei cellulari. Tali geni sono a loro volta formati da complesse molecole disposte secondo intricate strutture, e ogni cambiamento nella struttura (o «codice») del materiale genetico, che comporti la sostituzione di una certa molecola con una molecola diversa, produrrà una mutazione. In natura le mutazioni si generano spontaneamente, indotte dal verificarsi di alterazioni chimiche o termiche all’interno del nucleo, oppure dall’influenza dei raggi cosmici sui geni. Ma possono anche venire provocate artificialmente, sottoponendo il nucleo ai raggi X, all’ultravioletto o ad altre radiazioni penetranti.
Le mutazioni spettacolose sono piuttosto rare. I mutanti straordinariamente diversi dai propri genitori — creature con tre teste, esseri privi di apparato digerente, e così via — tendono a sopravvivere per breve tempo: o perché la mutazione li rende incapaci di esplicare certe irrinunciabili funzioni vitali, o perché vengono rifiutati da chi li ha generati. I mutanti che riescono a trasmettere la propria mutazione ai loro discendenti sono di solito affetti da alterazioni piuttosto lievi: le grandi trasformazioni evolutive risultano da un accumulo di piccoli mutamenti, piuttosto che da un unico sbalorditivo balzo genetico.
Il tema del mutante è sempre stato uno dei prediletti degli scrittori di fantascienza. I pionieristici esperimenti di H.J. Muller, il quale nel 1927 dimostrò che utilizzando radiazioni era possibile indurre mutazioni nelle drosofile, diedero vita quasi immediatamente a una copiosa produzione narrativa incentrata sui mutanti. John Taine (pseudonimo del matematico Eric Temple Bell), uno dei grandi romanzieri fantascientifici delle origini, ci diede nel 1929 The Greatest Adventure, in cui dalle profondità oceaniche cominciano inesplicabilmente a riemergere i corpi di rettili giganteschi: frutto, si scoprirà infine, di antichissimi esperimenti mutageni realizzati da una civiltà fiorita nell’Antartide. Un anno dopo, con The Iron Star, Taine narrò gli sbalorditivi effetti di mutazione regressiva indotti sugli esseri umani da una meteora precipitata nel cuore dell’Africa. Ancora Taine, nel 1931, descrisse con Seeds of Life la vicenda di un uomo che, colpito da radiazioni, acquisisce poteri sovrumani e li trasmette alla generazione successiva. Nel 1938 Edmond Hamilton, nel racconto He That Hath Wings, immagina la poetica, commovente storia di un essere umano mutante, nato con le ali da genitori sottoposti a radiazioni. Appartengono a quegli anni numerose altre storie del genere, molte delle quali, a fini sensazionalistici, si prendono fin troppe libertà rispetto alle reali conoscenze scientifiche del tempo.
L’esplosione, avvenuta nel 1945, delle prime bombe atomiche, portò drammaticamente all’attenzione del mondo intero il concetto di mutazione indotta da radiazioni, e questo, come era da aspettarsi, divenne un tema ossessivamente ricorrente nella fantascienza del dopoguerra: tanto che il direttore della più importante rivista specializzata di allora, il quale inizialmente aveva chiesto ai suoi scrittori di prendere in esame con estrema attenzione le implicazioni scientifiche e sociologiche dell’era atomica, fu costretto a un certo punto a imporre una tregua nella produzione narrativa incentrata sul cataclisma nucleare, che con la sua invadenza cominciava a tagliar fuori ogni altra tematica. Fu comunque proprio in quel periodo che videro la luce alcune delle migliori opere del genere: in particolare le storie del ciclo «Baldy» (1945-1953) di Henry Kuttner, ispirate al concetto della non facile convivenza fra umani normali e mutanti telepatici, e Children of the Atom (1948-1950) di Wilmar Shiras, una toccante vicenda di superintelligenti bambini mutanti. E da allora i mutanti non hanno mai cessato di occupare una posto di primo piano nelle speculazioni dei fantascrittori. Li troviamo ad esempio nel classico A Canticle for Liebowitz di Walter Miller Jr, nell’asimoviano ciclo di «Fondazione», nei romanzi di John Wyndham, in numerose storie di Robert A. Heinlein… per non parlare della loro ininterrotta militanza cinematografica, di solito con vicende dai risvolti terrificanti. Nel mutante la fantascienza incarna una metafora dell’estraneo, del solitario, della creatura superiore messa al bando dal cosiddetto consorzio civile. Il tema della mutazione rappresenta uno dei più efficaci mezzi utilizzati dalla fantascienza per interrogarsi sulla natura delle società umane, sulle relazioni fra esseri umani, sul destino ultimo della nostra specie.
Qualche osservazione sulla genesi di questo libro.
Nel 1973 pubblicai un breve racconto, The Mutant Season (La stagione dei mutanti), nel quale abbozzavo in pochissime pagine l’ipotesi che i mutanti, dopo essere vissuti per lungo tempo in mezzo a noi normali sotto mentite spoglie, come una sorta di società segreta, si decidano finalmente a uscire allo scoperto. In quel racconto mi accontentai di delineare sommariamente, senza entrare in alcun dettaglio, quali avrebbero potuto essere alcuni degli effetti di un tale avvenimento sia sulla nostra società sia su quella dei mutanti, e non mi spinsi oltre.
Poi, a distanza di parecchi anni, si fece avanti il mio amico Byron Preiss per suggerirmi che in quella vecchia idea avrebbe potuto esservi molto da esplorare in lungo e in largo, forse addirittura in una serie di romanzi, magari da scrivere in collaborazione con mia moglie Karen Haber, per l’appunto agli inizi della sua carriera come scrittrice di fantascienza. La mia prima reazione fu di sorpresa. Il racconto era talmente minuscolo — sulle duemila parole appena — che l’ipotesi di attingervi per cavarne diversi romanzi mi parve lì per lì davvero stravagante. Tuttavia, rileggendolo, mi resi conto che Byron aveva ragione: in quelle poche pagine avevo adombrato un’intera società, anche se poi, chissà perché, avevo lasciato che il concetto mi sfuggisse di mente.
Ecco dunque il racconto in forma di romanzo, con la prospettiva di ulteriori opere da elaborare a mano a mano che andremo sviscerando tutte le implicazioni dell’esistenza di una cultura mutante parallela alla nostra, esistente prima segretamente, e quindi apertamente, in seno alla società americana contemporanea. Lavorare in collaborazione ha costituito per noi un esperimento interessante. Karen e io abbiamo ideato insieme la trama e i personaggi della vicenda, prendendo spunto (con alcune sostanziali modifiche) dal mio racconto originale, ampliato enormemente sino a comprendere un arco di parecchie generazioni. Poi Karen ha realizzato la prima stesura del libro, che io ho in seguito rivisto riga per riga suggerendo revisioni tanto tematiche quanto stilistiche, dopo di che è toccato di nuovo a Karen sedersi alla tastiera. Abbiamo così trascorso diversi mesi in stretta e sostanzialmente armoniosa interazione letteraria. Scrivere un libro insieme alla propria moglie è un po’ come insegnarle a guidare un’automobile: ci vuole pazienza, buonumore, e riflessi pronti. È un’esperienza che non mi sentirei di raccomandare a tutte le coppie. Noi due, comunque, siamo passati attraverso diverse stesure di La stagione dei mutanti senza cessare di condividere né il letto coniugale né il desco familiare, e fra di noi continuano tuttora a correre, con minime eccezioni, buoni rapporti. L’altro giorno Karen mi ha consegnato le prime cinquanta pagine del secondo volume. Ho la netta impressione che questi mutanti continueranno a frequentare casa nostra per un bel pezzo…
ROBERT SlLVERBERG