«Caryl, chiamami Joe Bailey a Metro D.C.», disse Andie. Se c’era qualcuno capace di rintracciare Melanie Ryton, si trattava di Bailey. E poi le doveva un favore. Anzi, diversi favori.
«È in linea sulla cinque», annunciò Caryl.
Il monitor della scrivania sfarfallò, s’illuminò, mostrando la brutta faccia decisa di Bailey sorridere a Andie da dietro una ciambella.
«Ehilà, rossa, qual buon vento?»
«Una ragazza scomparsa. Mutante. Diciassette anni o giù di lì. Cinese-caucasica. Si chiama Melanie Ryton.»
«Bene.» Continuando a masticare una gomma, Bailey giocherellò con la tastiera. «Provenienza?»
«New Jersey.»
Bailey smise di masticare.
«Jersey? Non è nel mio giro. Non di recente, per lo meno.»
«Ha raccontato ai genitori di aver trovato un lavoro qui da noi.»
«E allora?»
«Loro non ci credono. Ho pensato che tu potessi controllare più in fretta di me.»
«Un minuto.» Si pulì le mani e volse le spalle allo schermo. Dopo un po’ tornò di fronte, scrollando il capo.
«Negativo. Nessuna Melanie Ryton da nessuna parte. Ho controllato le agenzie di collocamento, il carcere minorile, persino i casini. Nada.»
«Accidenti!»
«Credevo che i tuoi mutanti li tenessero tutti quanti tappati in casa sotto campane di vetro, i loro figli.»
«Né spiritoso. Né vero.»
«Speriamo comunque che stia all’erta, la bimba. Hai sentito di quello sceicco che vuole comprarsi una ragazza mutante per il suo harem?»
«No. Ma ci credo. Vedi se puoi tenermi il caso in evidenza, d’accordo?»
«Andie, ma lo sai di quanti ragazzi, genitori, nonni e animalini scomparsi debbo occuparmi ogni giorno?»
«Non lo faresti neppure per me, Joe?» Si sporse in avanti, scoccandogli a palpebre socchiuse un’occhiata malandrina.
Bailey sospirò. «Va bene.»
Una striscia gialla, contenente una comunicazione di Caryl, comparve attraverso la parte inferiore del monitor: INTERVISTA A HORNER COMINCIATA SU CANALE 12. URGENTE!
Andie diede un’occhiata al messaggio. «Joe, ti devo lasciare. Non dimenticarti di Melanie Ryton. E guarda che ti è rimasto un po’ di zucchero a velo sul mento.»
«Ricevuto. Ciao ciao, rossa.»
La sua immagine svanì e venne sostituita da quella del senatore Joseph Horner, che fissava dritto l’obiettivo sfoggiando un serafico sorriso tipo invito alla liturgia della domenica mattina. Poi tornò a volgersi verso il suo ospite, Randall Camphill.
«Come dicevo, Randy, dobbiamo stare molto attenti alla minaccia del supermutante», dichiarò Horner.
Ahiahi, pensò Andie. Che starà tramando questo figlio d’una cagna? Premette il pulsante di registrazione. La Jacobsen era in riunione, e avrebbe gradito di sicuro seguire l’intervista.
Camphill si girò in modo da offrire alla telecamera il suo profilo migliore. «Senatore», disse, «potrebbe spiegare al nostro pubblico che cosa intende per supermutante?»
«Un innaturale prodotto di eugenetica. Il risultato di un’empia adulterazione genetica. Il supermutante è un pericolo per tutti noi», dichiarò Horner con voce stridula. «Mentre siamo giunti ad accettare i nostri fratelli e sorelle mutanti che sono frutto, secondo quanto da essi stessi ci vien detto, di naturali sebbene malaugurati fenomeni, non possiamo invece ammettere, e dobbiamo impedire, la profanazione di esseri umani a scopi scientifici. E chi può dire, poi, se un supermutante, un prodotto di laboratorio, sia veramente umano?» Gli occhi di Horner scintillavano di legittima preoccupazione.
«E lei sostiene di aver visto questi cosiddetti supermutanti, durante il suo viaggio d’indagine in Brasile?»
«Be’, ecco, Randy, non è che proprio li abbia visti. Ma ho notato sintomi, ho colto indizi. E ripeto, dobbiamo essere cauti, rimanere all’erta. Perché già potrebbero essere fra noi. Solamente uno o due, all’inizio, null’altro che una goccia nel gran mare della popolazione. Ma, non dimentichiamolo, persino un immenso oceano ha inizio con una piccola goccia d’acqua. Occhi aperti, dunque, se non vogliamo farci tutti travolgere da questa incipiente inondazione.»
«Grazie, senatore Horner. Il tempo a nostra disposizione è purtroppo scaduto…»
Andie si distolse dallo schermo.
«Che il diavolo se lo porti», borbottò. «Non poteva mica stare zitto, quel bastardo…»
Era il caso di avvertire la Jacobsen mentre ancora si trovava in riunione? Certo, bisognava che replicasse, e alla svelta.
Il segnale di chiamata in attesa prese a lampeggiare sul monitor di Andie, ed in pochi istanti tutte le linee dell’ufficio si erano messe a trillare.
«Ora sono cavoli nostri!» esclamò Caryl precipitandosi al suo telemonitor. «Che diavolo gli racconto, a questi?»
«Nulla da dichiarare», suggerì Andie. «La senatrice è in riunione, digli che riprovino più tardi. Se insistono, prendi nome e numero. Registra tutte le chiamate, ma se fanno domande, mi raccomando, nessun commento.»
«D’accordo.»
Nella sua immaginazione, Andie poteva udire le parole di Horner riecheggiare centinaia, migliaia di volte da un capo all’altro della nazione, per il mondo intero, rimbombando da ogni videocabina a ogni angolo di strada, e provocando reazioni di isterismo. Come se la gente non fosse già abbastanza tesa, nei confronti dei mutanti. Le sommosse di vent’anni prima erano un persistente, orribile ricordo. La paura di chissà quale mostruoso supermutante avrebbe potuto creare il panico, forse peggio. Era questo che voleva Horner?
E se il senatore avesse avuto ragione? Se il mondo non fosse stato pronto a vedersela con una nuova razza di mutanti superiori? Le tornò in mente la memocassetta avuta a Rio da Skerry. Aveva previsto di mostrarla alla Jacobsen non appena tornate dal Brasile. Invece erano trascorse intere settimane. Gli impegni di lavoro l’avevano sopraffatta. E ogni volta che ripensava alla richiesta di Skerry, le pareva sempre di più come il frutto di fantasticherie paranoidi. Si era ripromessa di consegnare la memocassetta alla senatrice proprio quel pomeriggio. Chissà se faceva ancora in tempo?
Gli avvisatori di chiamata continuavano a lampeggiare nonostante gli sforzi affannosi di Caryl, che con rabbiose scrollate di capo andava rispondendo alle telefonate più in fretta che poteva.
«No… Spiacente… Per il momento non abbiamo dichiarazioni da fare… No… Assolutamente no…»
Tratto un respiro profondo, Andie digitò il codice di priorità assoluta per stanare la senatrice.
«E dove l’avresti trovata?» domandò la Jacobsen. Lo schermo era vuoto. Avevano esaminato per due volte l’intero contenuto della memocassetta.
Andie sospirò. «Le ho già spiegato…»
«Che a Rio sei stata avvicinata da un misterioso sconosciuto, il quale ha detto di conoscermi e ti ha passato la cassetta?…» La Jacobsen, gli occhi spalancati in una espressione d’incredulità, si lasciò andare contro lo schienale della poltroncina. «Ma non ti rendi conto che accettando questa roba avresti potuto comprometterci tutti quanti?»
«Sì, però…»
«Be’, suppongo che ormai sia troppo tardi. Comunque avresti dovuto avvertirmi immediatamente.»
Andie non l’aveva mai veduta in preda a una simile irritazione.
«Magari avrei dovuto lasciare che tu gettassi Horner fuori della finestra, a Rio. Accidenti a quell’idiota.»
«Veramente credevo che fosse proibito, leggere i pensieri senza autorizzazione», commentò Andie imporporandosi.
«Infatti. Ma tu emettevi con tale intensità che era impossibile non percepirti. A volte ci riescono persino i nonmutanti.» L’espressione della Jacobsen si ammorbidi in un sorriso. «Allora, perché non me ne hai parlato subito?»
«Perché credevo che ci spiassero.»
«Così era, probabilmente. Comunque avrei preferito saperlo prima. Adesso, supponendo che questo materiale sia attendibile, finalmente ce l’ho, la prova che cercavo… la certezza che in Brasile stanno conducendo esperimenti genetici su embrioni umani. Però mi tocca anche escogitare un sistema per ovviare al danno che ha fatto quel pazzo di Horner, cercando di mentire il meno possibile.»
«Secondo me sarebbe opportuno che domattina tenesse quella conferenza stampa», osservò Andie. «Prima che la situazione peggiori. Solo oggi mi è toccato attivare due risponditori automatici, in ufficio.»
La Jacobsen si accigliò. «Procedura alquanto insolita. Innanzitutto dovrei fare rapporto al Congresso. E consegnare una copia di questa memocassetta al Consiglio dei mutanti. Ad ogni modo, penso che tu abbia ragione. Horner ha appiccato un pericolosissimo incendio, e la cosa più urgente da fare è spegnerlo.»
«Ho prenotato la sala presidenziale per le dieci di domattina.»
«Ottimo. Ti spiacerebbe chiamare Craddick sulla mia linea privata? Poi rilascia un comunicato stampa a tutti i soliti canali d’informazione.»
Il resto della giornata trascorse sull’onda di una confusa frenesia, mentre Andie fissava interviste per il dopo conferenza, teneva testa ad altre telefonate e faceva galoppare tutto il personale dell’ufficio. Coi nervi a fior di pelle, e un poco più irritata ogni volta che qualcuno pronunciava il termine «supermutante».
Alle sei e mezzo telefonò Karim per rammentarle che dovevano uscire a cena insieme. Pur a malincuore, Andie dovette rinunciare. Alle nove e mezzo si ricordò di farsi mandare su in ufficio un tramezzino. Due ore dopo si costrinse a tornare a casa. Livia l’accolse sulla soglia a suon di stizzosi gnaulii abissini.
«Scusami tanto, amorosita. Ho avuto un giornataccia. Sì, lo so, lo so che hai fame.»
Calciò via le scarpe, godendosi la voluttuosa sensazione della folta moquette azzurra sotto i piedi doloranti. Diede da mangiare all’indignata gatta, cercando di farsi perdonare con una bella porzione fuori ordinanza, poi andò a sistemarsi sul divano per ripassare gli appunti in vista della conferenza stampa dell’indomani. Livia le si acciambellò accanto, facendo le fusa soddisfatta. Pian piano, la testa di Andie si chinò in avanti, le sue palpebre si chiusero. Ebbe un sonno inquieto, pieno di angosciosi sogni in cui mostri di Frankenstein dagli occhi d’oro la incalzavano, sospingendola verso chiese le cui porte si spalancavano per mostrare file e file di aguzzi denti sogghignanti.
Nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, Melanie rimase appoggiata al bar a guardare la folla dello Star Chamber. Due uomini elegantemente abbigliati avevano l’aria di poter elargire mance generose. Vicino a loro c’era un gruppo di turisti coreani; gente che non lesinava mai le mance, e per di più neanche stringeva troppo forte. Individuò una coppia di clienti fissi e si ripromise di tenersi alla larga dal cascatore dai capelli grigi, che tentava continuamente di strapparle via le freccette.
In due settimane di lavoro al club, Melanie aveva imparato alla svelta chi evitare e chi al contrario incoraggiare. I cascatori, in genere, andavano sul pesante; nella loro attività doveva esserci qualcosa che li rendeva aggressivi. I testatici, invece, erano innocui. Ridacchiavano, la pizzicavano, e a volte, quando si ricordavano di dare la mancia, non erano per nulla spilorci. Scrutò il lato opposto della sala. Oh, no… Seduto a un tavolino, da solo, se ne stava quel ridicolo balordo di Arnold Tamlin, con lo sguardo più appannato del solito.
«Guarda guarda, il tuo moroso sempre all’erta», commentò Gwen.
«Ma non rompere.»
Fin da quella prima sera al bar, quando era stata troppo ingenua ed inesperta per schivarne le profferte, Melanie aveva mantenuto le distanze dalla focosa testa rossa. Ma adesso era molto meno sprovveduta. Quando si svegliava in piena notte, fradicia di sudore, dagli ingarbugliati sogni in cui cercava disperatamente di sottrarsi a mani carezzanti e bocche risucchianti, si diceva che doveva avere bevuto troppo. Incubi. Erano quegli incubi che le facevano martellare il cuore. Era paura, e non desiderio. Certo.
Durante il secondo spettacolo, Melanie fece in modo di evitare i brutali brancicamenti dei cascatori dedicando ogni sua attenzione ai coreani. E costoro le misero tanti di quei gettoni sotto la cintura, che lei non osò quasi levarglisi dinanzi. Danzò con impegno, divertendosi a stuzzicare due testatici, e le riuscì anche di sottrarsi alle attenzioni di quel disgustoso Tamlin. Che razza di babbeo. Concluse il numero con una piroetta e pensò bene di uscire a farsi uno spinello.
L’aria notturna si andava rinfrescando, comunque il sudore si asciugò alla svelta sulla sua pelle. Washington era una città incredibilmente afosa, in luglio, ma per lo meno la sera portava un po’ di refrigerio. Se ne restò appoggiata accanto alla porta di servizio del club, pensando alla sua famiglia. Chissà come ci sarebbero rimasti, se avessero saputo quanti soldi stava guadagnando! Melanie provò un istante di incondizionata soddisfazione. Non aveva nessun bisogno, di loro. Se la cavava benissimo da sola.
«Mi… mi scusi… Signorina Venere?.,.»
Mio Dio, no, di nuovo quel Tamlin. L’aveva seguita fuori del locale, e adesso campeggiava sulla soglia, ostruendola. Melanie indietreggiò lentamente, sforzandosi di sorridere.
«Sì?»
«Ecco, le volevo dire… sapesse quanto mi piace, vederla danzare!» Le si fece incontro, guardandola fisso negli occhi.
«Be’, grazie.»
«E mi chiedevo… sì, se non sarebbe disposta a ballare solo per me…» Era sempre più vicino, e tendeva le mani verso di lei.
«Oh, Arnold, che devo dirle… Il fatto è che sono davvero stanca.» Continuò a indietreggiare, cercando di aggirarlo per raggiungere la porta. Perché Dick non mandava qualcuno fuori a cercarla? Il suo intervallo era finito.
«Danza solo per me, Venere. Levita, su, e danza fra le nubi soltanto per me.» L’afferrò per le spalle con stretta brutale, affondandole le dita nella carne.
«Ma Arnold, io non sono capace di levitare.» Si contorse, tentando di liberarsi. «Per favore, lasciami.»
«Ma certo che sei capace. Fallo per me, ora. Tutti i mutanti sono capaci di levitare, no?»
«Lasciami in pace, mi fai male.»
Parve che l’altro neppure la sentisse. Mentre la sospingeva, Melanie cercò di prenderlo a calci negli stinchi, ma incappò in una buca del selciato, perse l’equilibrio, capitombolò all’indietro e cadde al suolo supina, trascinandoselo addosso. Tamlin l’afferrò alla gola con entrambe le mani, incominciando a stringere.
«Levita, maledetta! Dannata mutante! Schifosa! Levita o ti ammazzo!»
Melanie cercò di urlare, benché sapesse che il frastuono del bar avrebbe coperto le sue grida e qualunque altro rumore esterno. Si batté disperatamente, aggrappandosi alle mani di lui mentre il ruggito che le esplodeva nelle orecchie diveniva più forte. Sempre più forte. La stretta di Tamlin era troppo tenace, per lei. Lottò, boccheggiando, per riuscire a respirare, mentre lampi colorati le pulsavano sotto le palpebre serrate. Poi i colori incominciarono a sbiadire. Respirare le parve uno sforzo insostenibile. E desiderò lasciarsi andare. Ma c’era qualcosa che la tratteneva.
«Signorina? Si sente bene?»
Qualcuno la stava scuotendo. Melanie riaprì gli occhi. Un giovane dai lunghi capelli castani, incarnato olivastro, intensi occhi color nocciola, era chino su di lei, e la fissava preoccupato. Lentamente, guardinga, Melanie si tirò su a sedere.
«Dov’è?»
«Se l’è filata quando l’ho colpito.»
«Dio mio», balbettò Melanie tastandosi la gola. «Credo che lei mi abbia salvato la vita.»
«Be’, mica potevo star lì a guardare intanto che quello la strozzava.» L’aiutò a rimettersi in piedi, sorreggendola attorno alle spalle con un braccio vigoroso e delicato a un tempo, e Melanie, piena di sollievo e gratitudine, accettò volentieri quel sostegno premuroso. L’aveva riconosciuto per uno degli uomini d’affari notati in sala.
«Come si sente? Vuole che la porti da un dottore?»
Lei scosse la testa. «No no, ora sto bene.»
«Allora mi permetta di accompagnarla a casa. Il suo aggressore potrebbe essere appostato qui nei pressi, potrebbe seguirla.»
«Dice sul serio?»
«Tutto è possibile, con un pazzo come quello.»
«Ma lei chi è?»
«Mi chiamo Benjamin. Benjamin Cariddi. Ben.»
Gli strinse la mano, sentendosi un po’ ridicola. «Io sono Melanie.»
«In effetti avevo qualche dubbio, su Venere», le sorrise di traverso.
Lei ricambiò il sorriso. «Dammi solo cinque minuti… giusto il tempo di cambiarmi, e di avvertire che per stasera ho chiuso.»
«Ci vediamo all’ingresso principale.»
Lo trovò ad attenderla dentro un lucido, affusolato libratore color notte. La tappezzeria pareva cuoio grigio. Probabilmente una buona imitazione, pensò Melanie.
«Fame?» le domandò.
«Sì.»
«Diciamo hamburger?»
«Autentici? Magari.»
«Allora conosco un posticino favoloso.» Svoltò per una via trasversale dirigendosi verso l’ingresso dell’autostrada, digitò un codice sul cruscotto, si rilassò contro lo schienale.
Melanie sgranò tanto d’occhi sulla plancia. «Completamente roboguidato?»
«Più o meno.»
«Ma non sono terribilmente cari, questi libratori?»
Ben le sorrise. «Si capisce.»
Melanie arrossì. Smettila di fare domande cretine, si disse, e goditi il panorama.
I dintorni, una tranquilla zona residenziale, le erano ignoti. Il libratore lasciò l’autostrada alla prima uscita, sfrecciando poi a fianco di ben curati tappeti erbosi e case eleganti circondate da luci smorzate. Un’altra svolta, ed eccoli procedere veloci fra due ali sontuose di slanciati edifici. Il libratore si arrestò dinanzi a un’imponente costruzione verde la cui cima si perdeva nella nebbia e nell’oscurità, poi venne inghiottito da un montacarichi che in pochi istanti scese a depositarlo, con un fremito stridente, nelle profondità di un parcheggio sotterraneo.
«Tutti a terra», disse Ben, aprendo lo sportello a Melanie.
«Dove siamo?»
«A casa mia.»
«Ma non dovevamo andarci a fare un hamburger?»
«Esatto. Qui da me si mangiano i migliori hamburger della zona.» La guidò sorridendo verso un altro ascensore. «Ventitreesimo piano, per piacere.»
Melanie non ebbe neppure il tempo di contarli, quei piani, che già la fulminea cabina era giunta a destinazione. Ben le fece strada lungo un corridoio grigio ricoperto di folta moquette. Il palmo della sua mano, a contatto col sensore di un pomello, diede loro accesso ad un arioso appartamento su due livelli. Il vestibolo-soggiorno appariva profusamente arredato di piante verdi e bassi divani in pelle color bruno fulvo.
«Mettiti pure comoda», le disse, e scomparve in cucina.
Le pareti erano foderate di ricche stoffe in toni verdi e dorati. Un corridoio metteva in comunicazione l’ingresso con tre camere da letto, un bagno e un piccolo studio. L’ultima camera, la più ampia, sfoggiava nella penombra un lussuoso rivestimento di pannelli in legno scuro. La parete di fondo ospitava un ascensore interno che doveva probabilmente condurre al secondo piano.
L’aroma della carne alla griglia giungeva ora aleggiando fino a Melanie.
«La cena è servita», annunciò da un altoparlante la voce di Ben.
La cucina lunga e stretta, tappezzata di lucidi mobili bianchi, sfociava in un vano circolare dov’era sistemata una tavola imbandita con sottili piatti neri e posate scintillanti. Scodellando generose mestolate di salsa dentro una ciotola attigua al vassoio degli hamburger, Ben le indicò una sedia.
«Coraggio, accomodati. Vediamo se ti piace la mia ricetta.»
Melanie osservò i piatti luccicanti, i bicchieri sfavillanti, l’argenteria ordinatamente disposta. Aveva mangiato un po’ troppo spesso a base di soia, ultimamente. Afferrato un hamburger, gli affibbiò un morso avido. Poi un altro.
«Davvero squisito», apprezzò Melanie fra un boccone e l’altro. Si era scordata di quanto fosse buono il sapore della carne vera. Aggiunse un po’ di salsa; pareva a base di pomodoro e cipolla, con un deciso gusto dolceacidulo.
«Non mi piace promettere a vuoto», replicò Ben. Bevve un sorso di birra, soppesando Melanie con sguardo indagatore. «Com’è che sei capitata a lavorare in un posto del genere?»
«Be’, è un lavoro come un altro. Ne avevo bisogno.»
«I tuoi dove stanno?»
«Sono morti.» Melanie cercò di concentrarsi sul cibo.
«Da dove vieni?»
«New York.» Prese un altro hamburger.
«Ma non hai qualche membro del clan che possa darti una mano?»
Melanie smise di masticare e lo fissò. «E tu che ne sai, dei clan?»
«Ho visto un docuvideo in cui si diceva che i mutanti hanno riunioni di clan e roba del genere.»
«Io non me lo ricordo mica, un video così.»
Ben si strinse nelle spalle. «Mah, può darsi che a New York non l’abbiano programmato.»
«Già, può darsi.» Melanie inghiottì l’ultimo boccone e si pulì le labbra. «Be’, tante grazie per la cena.»
Si alzò in fretta, afferrò la borsa e si diresse all’uscita.
«Ma dove stai andando?» s’informò Ben rincorrendola.
«A casa mia.»
«Una stanza in qualche alberghetto di quart’ordine, senza dubbio.»
«Senza dubbio.» Melanie cercò di aprire la porta, ma il battente non si mosse. «Fammi uscire.»
Ben le si sporse accanto a digitare un codice sul quadro di controllo. La porta si aprì silenziosa.
«A quest’ora è impossibile che trovi un taxi.»
«Vuol dire che prenderò la metropolitana.»
«Niente stazioni, da queste parti. Dovresti fare chilometri a piedi, e non sai nemmeno dove ti trovi.» Si appoggiò allo stipite. «Forse non è poi un’idea così buona andare a cena con degli sconosciuti, eh?» Le rivolse un altro di quei suoi sorrisetti di traverso, e il cuore di Melanie prese a martellare. In che razza di pasticcio era andata a cacciarsi?
Ben scosse la testa. «Stai tranquilla. Sono inoffensivo. Sei libera di andartene, se vuoi. O di restare.»
«E perché dovrei restare?»
«Perché questo è un posto più decente di quello in cui dormi di solito. Perché se rimani vedrai che alla porta della tua camera c’è una serratura che puoi azionare solo tu. Perché hai bisogno d’aiuto, e io te lo posso dare.»
«Per esempio?»
«Procurandoti un lavoro migliore, tanto per incominciare.»
«E da me cosa vorresti, in cambio?»
Sul volto di Ben rispuntò il solito sorriso. «Ci penserò. Ma non stasera. Dai, su, che è tardi.»
Melanie si lasciò prendere per un braccio e riportare nell’appartamento. Ben richiuse il portoncino, quindi fece scorrere lo sportello di un armadio a muro, mettendo in mostra diversi ripiani carichi di lenzuola e asciugamani azzurri.
«Prendi pure tutto quel che ti serve. La tua stanza è la prima porta a destra. Ha un bagno privato.»
Lei indugiò a fissarlo, esitante.
Sospirando, Ben entrò nella camera. Digitò un codice al terminale nell’angolo. Lo schermo rimase inerte, ma dopo qualche secondo si udì la monotona cadenza di una voce artificiale.
«Siete in contatto col dipartimento di Polizia del District of Columbia, sezione meridionale. In caso di emergenza, chiamate il sette-tre-tre; certificati penali al sei-due-due; squadra antidroga al…» Ben interruppe il contatto, poi spinse un pulsante.
«Ecco fatto. L’ho messo in ripetizione automatica. Possono localizzare una chiamata in tre secondi, e ad ogni modo dentro questo cassetto qui in alto c’è il mio indirizzo, nel caso ti venisse voglia di denunciarmi per eccessiva gentilezza verso gli ospiti di passaggio.»
«Non capisco», disse Melanie.
«Che cosa non capisci?»
«Nemmeno ti conosco. Perché dovresti farmi tutti questi favori?»
Ben sorrise. «Mi è capitato di trovarmi stasera in quel locale per il semplice motivo che un mio collega proveniente dal Tennessee aveva voglia di assistere a un po’ di danza orientale. E il tuo numero mi è piaciuto sul serio.» Fece una smorfia. «Però non mi è piaciuto per niente vedere quello psicopatico che cercava di strozzarti. E non posso mica essere lì tutte le sere a proteggerti.» Le accarezzò una guancia. «Meriti di meglio, questo è certo.»
Prima i complimenti, pensò Melanie, e dopo la seduzione. E va bene, vediamo un po’ come va a finire. Ma sul volto di lui c’era un’espressione strana. Insomma, si decideva a baciarla oppure no?
Lui le seguì con l’indice, delicatamente, la curva delle labbra. «Sei davvero una ragazza incantevole, sai? E io non voglio che ti accada nulla di male.» Lasciò ricadere la mano e arretrò di un passo.
«Nel caso sentissi rumori strani in piena notte, non ti devi preoccupare. Mi capita spesso di lavorare alle ore più assurde. Faccio l’esportatore di generi di lusso, e ho corrispondenti in tutto il mondo. E adesso cerca di riposare un po’.» Attraversò il corridoio, entrò in camera sua e richiuse la porta.
Melanie rimase immobile sulla soglia, incredula. Vai un po’ a capire cosa gli frulla per la testa, a quello. Le aveva salvato la vita, le aveva dato da mangiare, adesso le offriva persino asilo. E non aveva neppure cercato di farle qualche avance. Strano davvero. Annusò le lenzuola a fiori, gustando il loro profumo di pulito. Il letto l’attraeva irresistibilmente. Prima di tutto, comunque, chiuse a chiave la porta della camera, e controllò due volte la serratura.