7 L’occhio dell’uragano

La visita di Madeleine Dawnay al presidente era stata un atto impulsivo, risultato da una discussione con Kaufmann. Il tedesco gironzolava sempre attorno allo stabilimento, in cerca di qualsiasi informazione, anche minima, che potesse ingraziargli i superiori. Sebbene tutto il gruppo dei dirigenti fosse in teoria composto da impiegati del governo dell’Azaran, era la Intel, in pratica, a prendere le decisioni. Di conseguenza Kaufmann, come principale rappresentante della Intel regolarmente in carica, era considerato dai funzionari come un ufficiale di collegamento.

Gli esperimenti biochimici della Dawnay erano stati perfezionati abbastanza da poter essere messi alla prova sul terreno. Gli studi fatti sul suolo avevano fatto pensare che un’area costiera, vicina al Golfo Persico, sarebbe stata la più adatta; la Dawnay, tuttavia, voleva analizzare anche la striscia toccata dalle maree per accertarsi degli effetti che il vento ed il mare avevano avuto sulla terra. Durante una delle visite di Kaufmann nel suo laboratorio, gli aveva quindi domandato di organizzare per lei una serie di spostamenti, convinta che si trattasse di un ordinario problema di lavoro.

Il tedesco si era immediatamente insospettito. Ne aveva chiesto la ragione, e l’ovvia replica di lei, che non l’avrebbe capita, sembrò irritarlo.

Ma Madeleine sapeva essere molto ostinata, quando aveva deciso. Perciò insistette, dicendo che se doveva completare il suo lavoro, la cosa era necessaria. Kaufmann aveva risposto borbottando che avrebbe dovuto chiedere un permesso governativo.

«Benissimo,» aveva detto la Dawnay, «potete fare un salto in macchina a chiederlo subito, non vi pare?»

Kaufmann si era accigliato. «In questo momento è assolutamente impossibile.»

Questo era più di quanto Madeleine fosse disposta a sopportare. Si tolse la giacca ed appese il cappello da sole all’attaccapanni. «Se lei si diverte a mettere degli ostacoli ridicoli, io stessa parlerò al presidente.»

«Non conterei troppo sul presidente,» disse Kaufmann, «ma, comunque, ci vada pure, se vuole.»

Si avviò verso il cancello principale, per cercarle un’automobile. Quando la macchina arrivò, le aprì la portiera con studiata cortesia.

Durante il breve tragitto verso il palazzo del presidente, l’irritazione di Madeleine si placò, tuttavia le tornarono in mente le pessimistiche opinioni di Fleming su tutto l’insieme dell’organizzazione. Prese quindi la decisione di discutere con il presidente qualcosa di più delle gite sulla costa. Dopotutto, si disse, egli era a capo di uno stato, e, se ci fosse stata una sfida, la Intel non avrebbe potuto riuscire, più di quanto non fossero riuscite tutte le altre enormi compagnie petrolifere in una mezza dozzina di piccoli staterelli.

Le strade sembravano deserte, ma questo non attrasse la sua attenzione in modo particolare. Ella era stata nella capitale così di rado, che non aveva il modo di fare un paragone. La macchina rallentò davanti ai cancelli del palazzo, fino a che una sentinella non fece cenno all’autista di avanzare. L’uomo non sembrava interessato. La Dawnay scese dall’auto e passò attraverso il portico senza porte.

Un arabo con la barba, nel costume nazionale, le si inchinò e portò le mani alla fronte in segno di saluto. Il palazzo era bello, molto antico, e intatto da ogni tentativo di riparazione degli archi cadenti e della filigrana di pietra.

Con una certa incongruenza, il vecchio arabo prese il microfono del telefono interno fissato al muro, dietro un pilastro. Dopo aver mormorato qualche parola, tornò verso Madeleine, avvertendola in un inglese zoppicante che il suo padrone l’avrebbe vista subito.

Un ragazzetto negro arrivò saltellando dalle scale, la salutò con un sorriso, e con una dolce voce di soprano le chiese di seguirlo. Arrivarono al primo piano, attraverso un labirinto di passaggi, silenziosi nella pace di lunghi anni. Il ragazzo bussò ad una grande porta doppia, poi la spalancò.

Il presidente avanzò verso la Dawnay con la mano tesa. La sua faccia rugosa, pensò lei, era quella di un uomo molto vecchio, più vecchio di quanto si sapeva che fosse. Ma i suoi occhi erano vivaci ed intelligenti, ed egli appariva meticolosamente pulito e ordinato nella persona, con la barba tagliata accuratamente e le grandi, sensibili dita morbide e gentili quando stringeva la mano. La nota discordante in lui era l’abito occidentale — una giacca ed un gilé ben tagliati, ma di stile molto vecchio, del genere di quelli che gli aristocratici inglesi portavano per il fine-settimana in campagna circa cinquant’anni fa. La Dawnay immaginò un qualche sarto londinese che accuratamente ripeteva l’ordinazione conservata dall’originale, negli anni prima del 1914.

La cortesia di lui era gradevolmente antiquata, come la sua apparenza. Felice di poter intrattenere una signora inglese, le spiegò che stava guardando i propri ricordi» fotografici, e che sperava non le sarebbe dispiaciuto vederne qualcuno.

«La fotografia è il mio hobby,» disse, «un modo come un altro per avere dei ricordi del mio paese — del suo popolo, dei suoi ricchi tesori archeologici e storici e, naturalmente, dei miglioramenti che — con l’aiuto di Allah — ho potuto realizzare.»

Il ragazzo negro era già vicino al proiettore. Ad un cenno del suo padrone, spense le luci centrali del soffitto, e cominciò. La Dawnay frenò la propria impazienza facendo qualche osservazione pertinente ed educata, mentre il suo ospite spiegava con cura ogni fotogramma. Finalmente, lo spettacolo finì. Il ragazzo riaccese le luci e fu mandato via.

Il presidente prese posto in una sedia di fronte a lei, infilando le mani nelle tasche. «E ora,» disse, «perché ha voluto vedermi?»

La Dawnay prese allora a ripetere con voce intensa le parole che si era detta tutto il tempo, mentre guardava le fotografie. Sperò di essere convincente, obiettiva ed onesta. Gli disse dell’origine del progetto del calcolatore, degli esperimenti biochimici che avevano culminato nella creazione della ragazza, e, infine, delle ragioni per le quali Fleming aveva progettato la distruzione della macchina in Scozia.

Quando ebbe finito, il presidente rimase silenzioso per qualche minuto. «Per tutto ciò io ho soltanto la sua parola,» rispose poi tranquillamente, «e sono cose, come potrà capire, in un certo senso difficili da accettare; o, forse, dovrei dire: da capire.»

«Mi dispiace di non poter essere più chiara di così, vostra Eccellenza. Ci sono molte cose di noi stessi, che non comprendiamo. Il professor Fleming aveva sempre sospettato i propositi del calcolatore.»

«E lei?»

Ella ponderò la risposta. «Io penso che vi siano modi giusti e modi sbagliati di usarlo,» disse finalmente.

Egli le lanciò un’occhiata. «E noi lo stiamo usando in quello sbagliato?»

«Non voi, ma la Intel.»

«Siamo nelle loro mani,» sospirò il presidente come un uomo molto vecchio e stanco; «sono tempi molto difficili.»

Si alzò e andò verso la finestra, spostando le pesanti tende e lasciando che un raggio di sole quasi accecante entrasse nella stanza scura. Per qualche momento, guardò fuori, verso la città che si stendeva alla base del palazzo.

«Quando uno è in una posizione come la mia,» disse, «il governo deve dare dei risultati, o non può sopravvivere. La Intel dà dei risultati.»

Ritornò verso il centro della stanza, ma rimase in piedi. «Io sono un moderato,» sorrise, «ma ci sono fazioni, qui, che sono fiere, giovani, impazienti. E sono anche potenti. Ho bisogno di tutto l’aiuto che posso trovare, per mantenermi fedele il popolo.»

La porta si era aperta, ed era apparso il ragazzo negro. Nelle mani reggeva un telefono. Lo poggiò in una nicchia del muro, quindi porse al presidente il microfono. Il presidente lo prese ed ascoltò. Disse poche parole in arabo, quindi rese il microfono al negretto.

Di nuovo, traversò la stanza, andando verso la finestra. Un tonfo sordo, molto lontano, fece vibrare un poco il vecchio edificio, seguito da una secca scarica di fucili automatici. Il presidente richiuse la tenda sulla finestra e si volse a guardare la sua ospite.

«Non credo, professoressa, che sarò in grado di aiutarla. La telefonata era del colonnello Salim, un ufficiale efficiente ed ambizioso.» Fece una pausa, per ascoltare il rombo lontano di alcuni grossi motori che passavano e il fracasso delle escavatrici che cresceva rapidamente di volume, sulla strada principale davanti al palazzo. «Questa, immagino,» disse, «è la prova di quanto mi ha detto.»

Comprendendo soltanto a metà, la Dawnay si alzò e si mosse esitante verso la porta, ringraziandolo per la pazienza che aveva avuto nell’ascoltarla. Solo molto più tardi si ricordò di non aver nemmeno chiesto il permesso di visitare la costa.

«Arrivederci, professoressa,» disse il vecchio. Non la guardava. Si sedette, molto eretto, del tutto immobile, su un’antiquata sedia dallo schienale alto. La Dawnay ebbe l’impressione di vedere un re, al quale fosse rimasta solo la sua dignità come sostegno.

Il ragazzo negro stava fuori, nel corridoio. I suoi occhi erano spalancati dalla paura o forse dall’eccitazione. Nella sua agitazione, quasi si mise a correre nello scortarla verso il cortile.

La macchina con la quale era venuta, se ne era andata. Le si fecero invece incontro due soldati, che le si misero ai lati, indicandole con i fucili che avrebbe dovuto aspettare vicino al cancello. Poco dopo, arrivò una piccola macchina dell’esercito, e si fermò davanti al portico. I soldati fecero dei cenni con la testa perché vi entrasse.

Un giovane ufficiale la salutò militarmente. «La riportiamo indietro noi, signorina,» disse, in un inglese rotto.

Durante il viaggio di ritorno, il conducente della macchina dovette accostare spesso su un lato della strada, per non ostacolare le colonne di mezzi dell’esercito che correvano rombando verso Baleb. C’erano mezzi cingolati ed alcuni carri armati leggeri. I soldati a bordo erano completamente equipaggiati ed armati, ma stavano in piedi. Era chiaro che non si aspettavano una vera sparatoria.

I cancelli del campo della Intel erano aperti, ma davanti ad essi stazionava un carro armato, e dovunque si vedevano gruppi di soldati con l’elmetto. La Dawnay fu portata direttamente ai suoi quartieri, dove altre truppe erano di pattuglia. Il giovane ufficiale che l’aveva accompagnata le rese noto gentilmente, ma in modo molto fermo, che avrebbe dovuto rimanere nella sua stanza fino a nuovo ordine.


Il colpo di stato militare organizzato da Salim era basato su tre azioni — chiudere tutte le frontiere ed i porti, impadronirsi della capitale, e proteggere gli stabilimenti della Intel. L’azione per la Intel, naturalmente, era soltanto una formalità, grazie a Janine Gamboul.

La prima notizia che Fleming ebbe su quello che stava accadendo gli giunse da Abu Zeki. I due uomini avevano litigato per la seconda volta. Abu aveva orgogliosamente detto a Fleming che la distruzione dei fogli con le equazioni per il missile era stata inutile, perché il nastro perforato principale era intatto. Aveva proseguito illustrando con orgoglio la forza e le possibilità che il suo paese avrebbe avuto ora, con i mezzi di difesa che il calcolatore avrebbe progettato.

«Abbiamo già conquistato un potere. Il colonnello Salim e le sue truppe si sono fin da ora addossati il compito di proteggerci.»

«Da parte del presidente?»

«Il presidente è un uomo troppo vecchio e stanco. È finito.»

«E la Intel?»

«Stanno già togliendole ogni potere, alla Intel,» rispose Abu Zeki. Poi, notando l’occhiata di Fleming verso la consolle dei controlli, la cui sedia era vuota: «Se sta cercando la ragazza, non è qui. È in nostra custodia.»

Fleming corse fuori dell’edificio, affrettandosi verso la zona residenziale. Due guardie armate stavano davanti alla porta di André. Cercò di passare in mezzo ad esse, ma non si spostarono nemmeno.

«Non la lasceranno entrare; temo che non si fidino più di lei, professor Fleming,» disse una voce familiare.

Girò su se stesso. Kaufmann camminava lentamente verso di lui, con un ghigno. «Ad ogni modo, la ragazza non è qui,» continuò. «Si stanno occupando di lei. Nel frattempo, mademoiselle Gamboul vuole vederla.»

«Dove?» ringhiò Fleming, «e quando?»

Il sorriso di Kaufmann scomparve. «Ora,» disse, «verrà con me.» Lo guidò alla sua macchina.

Si diressero verso la casa di Salim. Non c’erano soldati, là, né servi a riceverli, mentre salivano le scale. Kaufmann aprì una porta, invitando Fleming ad entrare. La porta si chiuse e fu lasciato solo. Camminò un poco per la stanza nella quale aveva per la prima volta incontrato Salim, poi andò verso il balcone. Qualche minuto dopo, si diresse verso il limite estremo del terrazzo, dove delle sedie di bambù erano disposte intorno ad una tavola. Sulla tavola c’erano delle bottiglie di whisky e dei bicchieri. Sentiva il bisogno di bere qualcosa. Nell’avvicinarsi, passò oltre una tenda contro il sole ed accanto ad una sedia a sdraio. Ebbe un involontario sussulto di spavento.

Janine Gamboul giaceva abbandonata su un fianco, con la testa piegata oltre la spalliera ed un braccio pendente verso il pavimento. Il suo volto appariva pallido come la cera, ad eccezione del segno rosso delle labbra e del nero delle ciglia, mentre gli occhi semiaperti lo fissavano.

La prima impressione di Fleming fu che fosse morta. Si chinò e le pose una mano dietro la nuca, appoggiandole il capo sulla spalliera. Ella gemette.

Poi, mentre le accostava al corpo il braccio pendente, vide il bicchiere sul pavimento. Lo odorò: era whisky.

Stava per andarsene, quando ella aprì gli occhi del tutto e rise. Si tirò su con qualche difficoltà e, mezzo sdraiata, gli fece goffamente cenno con la mano.

«Credeva che fossi morta?» sogghignò. «Non è così, come vede. Ho detto io a Kaufmann di portarla qui. Volevo parlarle.»

Con uno sforzo accurato, mise i piedi sul pavimento e si alzò incerta. «Adesso ti dò da bere.» Si mosse traballando verso la vicina tavola.

Versò del whisky in due bicchieri, poi si guardò intorno. «Non c’è niente seltz,» borbottò confusamente, «io l’ho bevuto liscio, ma tu vuoi di sicuro la soda, vero? Salim deve averne nella sua stanza.»

Riuscì faticosamente a prendere in mano i due bicchieri, e si avviò ondeggiando verso la porta-finestra. Fleming era rimasto immobile, e la fissava.

Janine Gamboul si volse a guardarlo. «Perché mi sta guardando così?» chiese con la lingua impastata. Poi, con un sorriso astuto: «Non è il caso che si faccia delle idee su di me; non, almeno, finché io non abbia saputo tutto sull’altra donna, la sua donna…»

Riprese a camminare, poggiando i bicchieri su di una pesante credenza, mentre si inchinava barcollando per aprirne gli sportelli. Nell’interno c’erano due sifoni per il seltz, ma sembrava che fosse per la Gamboul uno sforzo troppo grande tirarli fuori dal mobile. Prese, invece, i bicchieri a turno e vi schizzò la soda. Fleming, che non l’aveva seguita nella stanza, non vide con quale cura e precisione ella ne riempisse ognuno da un sifone diverso.

Canticchiava una canzone d’amore francese, mentre tornava verso di lui ondeggiando. Gli diede un bicchiere, e si gettò in una poltrona reggendo l’altro.

«Mi racconti della sua ragazza,» mormorò, guardandolo al di sopra del bicchiere.

«Abu Zeki non le ha detto tutto quello che aveva bisogno di sapere?» rispose Fleming cupo.

Janine ridacchiò. «Oh, delle cose proprio fantastiche. Così assurde che, naturalmente, io le credo… e voglio saperne di più. A votre santé!» Alzò il bicchiere.

Fleming ebbe un attimo di esitazione, poi bevve un sorso dal proprio. Il sapore forte del whisky sul palato lo fece sentire meglio. Decise di prendere un po’ di tempo. La Gamboul si comportava ancora come se fosse ubriaca, con la voce impastata ed il corpo instabile. Tutto ciò la rendeva ancora più attraente del solito.

«Che cosa ha contro di noi?» gli chiese. «Il fatto che siamo commerciali? Lo sporco che si suppone resti attaccato al denaro?»

«In parte,» borbottò Fleming.

«Non abbiamo dato dei risultati così cattivi, in questo paese. Non c’era niente, quando siamo arrivati. Ora che Salim ha il potere, progrediremo ancora di più.» I suoi occhi brillavano di eccitazione. «Forse diventeremo grandi e favolosi come l’antica Venezia o la Compagnia delle Indie. Ad ogni modo, ben presto nessuno potrà competere con noi. Il mondo intero sarà ai nostri piedi.»

«O a quelli di lei,» osservò Fleming, sorseggiando il suo whisky.

Ella si chinò verso di lui. «A quelli di lei? Perché non mi parla di lei? C’è qualcosa che solo lei sa? Qualcosa che farà?»

I suoi occhi lo fissavano senza un battito di ciglia, malevoli. Egli provò la ridicola sensazione che lo stesse ipnotizzando. Per cancellarla, guardò altrove e finì di bere il suo whisky. Mentre posava il bicchiere, capì di essere stato drogato. Si sentiva le gambe debolissime e non poteva impedire al proprio cervello di vagare senza scopo in reminiscenze del passato. Brancolò per afferrare una sedia che vedeva appena, e vi piombò sopra.

Subito la Gamboul si alzò e si fermò vicino a lui.

«Adesso mi dirai tutto,» ordinò.

Sul principio, egli parlò in modo esitante, non completando le frasi, su argomenti comuni e sconnessi tra loro. Ma, dopo una mezz’ora, la Gamboul aveva saputo l’intera storia.

Sedette, fissando Fleming che, mezzo incosciente, continuò a giacere goffamente sulla sedia per molto tempo, dopo che l’interrogatorio fu finito. Si domandava se questo inglese enigmatico — ma molto attraente — l’avesse in qualche modo ingannata, o fosse stato in grado di resistere all’azione del siero della verità, ma abbandonò questa idea come assurda. Sapeva tutto quello che c’era da sapere sui suoi effetti.

Alzò il microfono del telefono interno, che era sulla scrivania vuota di Salim, e ordinò che Fleming venisse riportato alla sua abitazione. Per se stessa, fece venire una macchina.

Venti minuti più tardi, la Gamboul era davanti alla porta di André. La porta era aperta e c’era, vicino, soltanto una sentinella. Janine chiese in arabo dove fosse la ragazza bianca; l’uomo rispose che era uscita per andare al fabbricato di fronte. Spaventato, aggiunse che non gli era stato ordinato di usare la forza per impedirle di muoversi all’interno del campo.

La Gamboul entrò nell’edificio del calcolatore. Abu Zeki non c’era. Soltanto due guardie camminavano incessantemente su e giù per il corridoio principale. Vide André seduta tranquillamente davanti allo schermo principale, nella sezione della comunicazione.

«Cosa sta facendo qui?» chiese sospettosamente la Gamboul.

André le sorrise. «Stavo aspettando,» disse con voce atona. «Lei. Lei è la scelta logica.» Guardò intenta nello schermo oscurato. «Cosa ha obbligato il professor Fleming a parlare?»

«Lei… lei sa questo?» esclamò la Gamboul.

André annuì. «Tutto è prevedibile. E non c’è dubbio che non ha potuto credere a quanto le ha detto. Ma glielo mostrerò io. Si sieda accanto a me. Non abbia paura; non c’è nulla da temere.»

La Gamboul prese una sedia. André le fece un cenno rassicurante, poggiando le mani sui controlli. Sullo schermo apparve un punto di luce che si estese e poi sparì. Quindi si coprì di una vaga e nebulosa fantasmagoria di immagini in tono indistinto.

«Cosa sono?» sussurrò la Gamboul.

La voce di André suonava piatta e meccanica. «Stia ad osservare, glielo spiegherò. È il luogo dal quale giunge il messaggio. Saprà presto quello che è stato calcolato perché lei lo faccia.»

Fino a tarda notte, le due donne sedettero davanti allo schermo; la fragile, leggera figura di André rigida ed un poco altera; la Gamboul immobile, affascinata, con gli occhi fissi, come se cercasse di assimilare le strane forme che apparivano, diventavano nitide e poi sparivano in una nebbia, mentre il suo cervello assorbiva il basso mormorio di André, che le interpretava per lei.

Abu Zeki fu l’unica persona, a parte le guardie annoiate, che le vide mentre erano lì. Riconoscendo la Gamboul, volse le spalle e se ne andò. Quella donna lo intimidiva e non gli piaceva. Ad ogni modo, aveva sentito parlare della sua intimità con il colonnello Salim. Non sarebbe stato saggio avere delle complicazioni con l’amante del nuovo dittatore.

Andò nella sua stanza, e si sdraiò sul letto. Sapeva che non sarebbe stato capace di dormire bene, in quel momento di crisi. Ebbe un attimo di felicità pensando al mondo nuovo che era nato, quando la radio di stato annunciò il cambiamento di governo. Tuttavia, c’era, in fondo alla sua mente, un ironico presentimento di disastro. Si accorse che derivava dal discorso fatto con Fleming. Fleming gli piaceva; gli piaceva il modo nel quale riusciva a vedere il centro di un problema, al di là di tutte le apparenze: Abu avrebbe voluto imparare ad essere così.

Deliberatamente, sforzò la sua mente a riposare su idee più gradevoli — sua moglie, il suo bambino. Ma non servì. Il brontolio basso del calcolatore sembrava permeare l’aria stessa. Si assopì…

Il brontolio. Allora era ancora al lavoro. Si alzò a sedere e guardò l’orologio. Le lancette luminose indicavano le tre e mezzo. Se le due donne erano ancora là, significava che avevano lavorato per otto ore.

Si alzò. Il cielo, ad est, era già soffuso di rosa. Attraversando il campo, corse verso il calcolatore. Una sentinella, che si era addormentata in piedi, sussultò spaventata. Abu si fece riconoscere e la guardia si riappoggiò al muro.

Nell’interno dell’edificio, le luci erano brillanti e l’aria sembrava calda e pesante, dopo quella tagliente della notte, che veniva dal deserto. Abu avanzò lentamente, in silenzio. Le due donne erano ancora là, e fissavano lo schermo. La voce di André era talmente bassa, che non poté capire quello che stava dicendo, nemmeno quando si fermò a pochi passi da loro.

«Mam’selle Gamboul,» disse, «che sta succedendo? Signorina André, sono io — Abu Zeki…»

Non si volsero nemmeno; avrebbe potuto essere un fantasma senza voce. Ebbe un brivido di paura; tornò indietro silenziosamente.

Quando fu fuori, si fermò un attimo a respirare profondamente la deliziosa aria fresca. Si sentì meglio, con il cervello più chiaro. Capì qual era la cosa più urgente da fare.

Corse verso l’abitazione di Fleming. Davanti alla porta, una sentinella all’erta gli sbarrò la strada. Il soldato chiamò qualcuno dietro di sé e la porta si aprì. Apparve Kaufmann.

«Devo vedere il professor Fleming,» disse Abu.

Kaufmann gli borbottò di entrare. Fleming giaceva abbandonato e completamente vestito sul proprio letto. Due sedie, una di fronte all’altra, mostravano dove avesse riposato Kaufmann, mentre lo sorvegliava.

Abu scosse bruscamente Fleming per la spalla. «Professor Fleming,» supplicò, «deve venire subito!»

Fleming mugolò, aprì gli occhi, si stropicciò il viso. «Che ora è?» balbettò.

«Quasi le cinque.»

Fleming saltò a sedere con un sussulto. Dovette lottare contro un senso di vertigine.

«Il professore ha ingerito un po’ di droga,» spiegò Kaufmann, «starà subito bene.»

Fleming si alzò cautamente in piedi. «Cosa è successo, Abu?» chiese, ignorando il tedesco.

«Non capisco proprio quello che sta succedendo,» disse Abu. «Mam’selle Gamboul è venuta al calcolatore ieri sera. Era con la ragazza. Io sono andato a letto. Sono ancora lì, nell’unità di comunicazione. Ho parlato loro, ma non si sono accorte di me. Sembrava che non sapessero che ero lì. Stavano guardando lo schermo principale.»

Fleming si passò le mani nei capelli. «Oh, Dio mio! Avrei dovuto capirlo.» Si mosse verso la porta, ma Kaufmann si fece avanti, mettendo la mano grassa sulla maniglia.

«Ho degli ordini,» disse con imbarazzo.

Fleming sembrò prepararsi a giocare il tutto per tutto. Rapidamente, intervenne Abu. «Deve venire!» gridò a Kaufmann, «è necessario per il calcolatore.»

Kaufmann guardava dubbioso dall’uno all’altro. Era confuso. Il calcolatore era tutto. Il suo compito era sopra ogni altra cosa di servirlo.

«Se deve venire, verrà,» grugnì, «ma io lo scorterò. I miei ordini sono di sorvegliarlo.»

«Maledizione, mi tenga per mano, se vuole,» ringhiò di rimando Fleming, «ma, per amor del cielo, andiamo!» Si volse verso Abu. «Vada a svegliare la professoressa Dawnay,» gli ordinò, «e le dica di venire immediatamente al calcolatore.»

L’aria e la breve camminata gli fecero bene. La confusione che aveva in mente si chiarì, e presto riacquistò il controllo perfetto delle membra. Passò come un fulmine attraverso la porta aperta e si lanciò verso la sezione del calcolatore. Immediatamente, una sentinella gli puntò contro il fucile automatico; Kaufmann si spostò di fianco.

Fleming si arrestò, con la canna contro il petto. In fondo al corridoio illuminato, poté vedere la Gamboul che si alzava dalla sedia. Una Gamboul diversa. Ascoltava mitemente ciò che André le stava dicendo. Poi annuì, e venne verso di loro.

Kaufmann si mise dietro a Fleming e gli afferrò le braccia piegandogliele dietro la schiena. La Gamboul passò davanti a tutti loro come se non esistessero. Teneva la testa alta; sulle sue labbra errava un vago sorriso.

Fleming lottò violentemente per liberarsi. «Fermatela!» gridò, «per l’amor di Dio, non fatela uscire di qui!» Si dimenò ancora più violentemente, ma Kaufmann continuò a tenerlo. «Lei starà con me!»

La Gamboul era uscita intanto dalla porta principale; si udì il rumore della sua macchina che si metteva in moto, proprio mentre Madeleine Dawnay entrava correndo.

Kaufmann lasciò la presa e fece un cenno alla sentinella. «Possono passare, adesso.»

Fleming corse al banco dei controlli e si chinò su André. Ella gli dette un’occhiata, poi si appoggiò alla spalliera, persa nei suoi pensieri. La Dawnay le corse vicino; era allarmata dal pallore di morte della ragazza.

«Che cosa c’è, John? Cosa è successo?» domandò.

Fleming afferrò la sedia girevole e la voltò, in modo che André non potesse evitare il suo sguardo.

«Che cosa hai fatto?» le sussurrò.

La ragazza sorrise serena. «Quello che andava fatto,» mormorò; «mademoiselle Gamboul sa quello che deve fare.» Le sue labbra si piegarono in una smorfia simile al disprezzo. «Lei non ha avuto paura quando le ho mostrato il significato.»

Improvvisamente, tutta la forza e la sicurezza la abbandonarono; si piegò su se stessa, come un bambino malato e impotente.

La Dawnay si chinò su di lei. «È mortalmente malata, John,» disse sottovoce, «lascia che la porti all’infermeria.»

Fleming dette un ordine a Kaufmann. Spaventato e servile, il tedesco si fece avanti e sollevò André per le spalle, mentre Fleming la prendeva per i piedi. La trasportarono all’infermeria, dove Madeleine ordinò loro di uscire, mentre con una infermiera si accingeva a mettere a letto la ragazza.

Kaufmann cercò di parlare a Fleming, ansioso di venire rassicurato; sentiva di trovarsi in qualche modo coinvolto in un disastro, e non voleva essere biasimato. Ma Fleming continuava ad ignorarlo, ed al tedesco sconsolato non restò che andarsene.

Quando la Dawnay ricomparve, trasse subito Fleming in disparte. «È debole, molto debole; come se avesse fatto uno sforzo enorme. Ora si sta addormentando. L’infermiera ci avvertirà se ci sono cambiamenti. Vieni nella mia stanza, farò un po’ di caffè.»

Mentre la macchinetta si scaldava, Madeleine domandò se ci fossero novità da fuori. «Il colonnello Salim si è impadronito di tutto, suppongo.»

«Non so molto,» disse Fleming stancamente, «sono stato drogato questa notte, da quella donna — la Gamboul. Mi ha fatto dire di André. Probabilmente la stessa droga che hanno usato con te a Londra. Dopo di che, deve essere venuta direttamente qui, e deve aver trovato André che la aspettava.»

«Ma perché?» chiese la Dawnay.

Fleming sospirò. «Il calcolatore ha scelto come capo la Gamboul. Io credevo che avrebbe scelto Salim, ma in questo modo è stato più abile. Attraverso di lei, la macchina acquisterà potere.»

«E come?»

«Non lo so. In qualche modo, la macchina le ha rivelato le cose che André non aveva potuto mettere in parole per me. Suppongo che abbia fatto in modo di dare alla Gamboul quella specie di terribile e rapido attimo di rivelazione che si crede abbiano i santi ed i profeti. È tutto così dannatamente logico ed inevitabile. Come dice sempre André, tutto lo svolgimento è prevedibile.»

Il caffè stava bollendo. La Dawnay riempì due tazze, e ne porse una a Fleming. «Prima non avevo avuto mai questa sensazione,» disse, «di tutto che combacia.»

John rise brevemente. «Sai, invece, che io l’ho sempre avuta. Ed ho anche capito che chiedere aiuto a qualcuno, ad Osborne, per esempio, o compiere delle azioni distruttive, non è servito a molto.» Poggiò con violenza la tazza del caffè, rovesciandolo nel piattino. «Ora il calcolatore ha vinto. L’intera faccenda non è più nelle nostre mani… meglio così. Abbiamo finito.»

Come per accompagnare queste parole con un effetto adeguato, una folata di vento passò fischiando sul campo, e con la sabbia che trascinava sembrò grattare sulle mura della casa. La Dawnay andò a chiudere la porta, mentre la sabbia batteva contro i vetri della finestra.

Si interruppe, vedendo Abu Zeki che correva verso di loro. Quando fu entrato, questi si fermò ansante, cercando di riprendere fiato. «Professor Fleming,» riuscì a dire infine, «il colonnello Salim è morto.»

Fleming annuì; non era sorpreso. «E il suo esercito fa man bassa?»

Abu si passò la lingua sulle labbra. «Non lo so. Veramente non capisco nulla. Le sentinelle armate se ne sono andate tutte dal campo. Sono rimaste solo le guardie e gli impiegati della Intel. Ma ora sono armati. Non riesco a capire.»

Fleming si alzò e guardò fuori della porta. «Le dirò io quello che è successo,» disse, «la Gamboul ha preso il controllo. Ha fatto uccidere Salim o lo ha ucciso lei. È perfettamente capace di uccidere, anche se non glielo ordina una forza esterna a lei stessa. Non ci possono essere improvvisazioni, in questo piano; così, se il colpo di stato di Salim è fallito, non si tratta di un errore, ma di uno stadio dello schema generale. Che ne è del vecchio?»

«Il presidente, vuol dire?» domandò Abu. «È ancora nel palazzo. Il messaggio che il colonnello Salim era morto è stato diramato personalmente da lui.»

Un’altra folata di vento passò sul campo. Fleming abbassò la testa e la sabbia gli entrò negli occhi. Si volse a chiudere la porta. «Il presidente diventerà il burattino della signora. Lei tirerà i fili e lui ballerà. Presto saremo tutti marionette nelle sue mani.»

La Dawnay bevve lentamente il resto del suo caffè. «John,» disse pensosamente, «è tutto molto strano.»

«Strano? Cosa c’è di strano? La Gamboul sta soltanto facendo quello che è costretta a fare. Fa parte del programma.»

Ella scosse il capo impaziente. «Non parlo dei fatti politici. Parlo del vento. Normalmente non soffia così; non almeno in questo periodo dell’anno.»

«No?» disse lui con aria assente, «un bel ricordo di Thorness. Il tempo era infernale, quando André ed io ci nascondevamo su quell’isola.»

«Sì, le condizioni erano anormali anche lassù,» disse la Dawnay. «Credo che andrò a fare un lavoro in laboratorio.» Prese un’espressione preoccupata, come se stesse già lavorando. «Avrei voluto avere quei campioni che avevo chiesto dalla costa.»

«Sei fortunata ad aver qualcosa da fare,» disse Fleming. «Quanto a me, non sono affatto ansioso di andare a rapporto come un servo obbediente da quel dittatore elettronico.» Guardò Abu. «Ma sarebbe meglio che qualcuno stesse laggiù, Abu. Ci vada e aspetti lì intorno qualche istruzione. Non dubito che la Gamboul manderà presto il suo segugio teutonico con degli ordini.»

Fleming tornò nella propria stanza. Il vento continuava a soffiare, sollevando di tanto in tanto pungenti nuvole di sabbia e cessando poi improvvisamente, come era cominciato.

Guardò il suo orologio; era presto, appena le sei e mezzo. Accese la radio, e cercò la stazione della B.B.C, per il Medio Oriente. Si domandò per quanto tempo avrebbero permesso che fosse mantenuto questo legame con quelli di fuori.

La ricezione era pessima; la voce di Londra svaniva spesso ed arrivava a volte distorta in modo incomprensibile.

«…Non si hanno altre notizie della situazione in Azaran. Le frontiere rimangono chiuse e, durante la notte, la stazione governativa di Baleb ha continuato a trasmettere l’annuncio del presidente che una giunta militare è stata organizzata…»

I disturbi coprirono la lettura del bollettino per qualche minuto. Quando divenne di nuovo udibile, l’annunciatore stava dicendo: «… condizioni simili sono riferite dai bollettini di tutta l’Europa occidentale e dei paesi sul Mediterraneo. Tempeste di forza eccezionale sono state registrate perfino sulle coste orientali dell’Africa, nei pressi di Aden, e dalle stazioni meteorologiche di Iceland e Newfoundland.»

Fleming spense la radio. Trovava del tutto naturale che il clima mondiale fosse impazzito nel momento in cui il mondo stesso stava irrevocabilmente precipitando in una crisi.

Загрузка...