5 Sole e calore

Il giorno spuntò molto prima che l’aereo cominciasse lentamente ad abbassarsi, traversando la frontiera dell’Azaran. Fleming, che guardava avvilito attraverso il finestrino, non trovò nulla che sollevasse il suo interesse. La terra grigio-marrone, piatta ed interminabilmente deserta, si stendeva fino all’orizzonte, dove basse colline disegnavano un contorno ineguale. Di tanto in tanto, si vedeva una nube di polvere, là dove una carovana di cammelli si muoveva lungo le scure file di arbusti che segnano le antiche piste del deserto. A parte alcune macchie simili a stracci, dai contorni più chiari — poche miserabili case intorno ad una pozza d’acqua — il posto sembrava senza vita.

L’ululato dei jet si abbassò fino a diventare un rumore cupo, gli ipersostentatori si abbassarono. Sotto di sé, Fleming vide dei tondi coperchi di serbatoi di petrolio e, non lontani da essi, i tralicci slanciati di qualche gru. Il terreno cominciò a scivolare sempre più vicino, mentre una città diventava visibile, con i suoi bianchi edifici scintillanti nella luce del mattino. L’aereo virò in direzione opposta, e l’orizzonte invase il finestrino di Fleming. Quando l’aereo si raddrizzò, dopo la virata, ebbe appena il tempo di notare un lungo fabbricato grigio, moderno, con il tetto piatto. Era isolato dalla città, a circa otto chilometri da essa.

I jet ripresero forza, divennero regolari e poi si smorzarono. Stavano atterrando.

Un calore leggero colpì i loro volti come un soffio soffocato, quando uscirono dalla cabina. Dei soldati arabi, in tenuta da campo ed elmetti d’acciaio di stile americano, stavano tutto intorno con i mitra imbracciati. Una vecchia limousine inglese, con la verniciatura mimetica tutta screpolata, si accostò all’aereo. Kauffmann, sudando abbondantemente, spinse Fleming e André sul sedile posteriore. Poi sedette accanto al guidatore armato.

Una strada di cemento ben tenuta conduceva direttamente in città. Appena ebbero raggiunto i miserabili quartieri esterni, dove le catapecchie col tetto di lamiera ondulata stonavano oscenamente vicino alle decrepite, ma ancora graziose case di tradizionale architettura araba, la strada si allargò in una grande via centrale, malcurata e gremita di folla. Alcune donne, velate e piene di grazia, conducevano asini mezzo coperti da carichi di panieri. Qualche uomo indossava il costume arabo, ma la maggior parte portava miserabili abiti occidentali.

La bandiera dell’Azaran pendeva da tutti i fabbricati. Qua e là, degli altoparlanti belavano musica orientale, la cui dissonanza veniva aumentata dalle distorsioni dell’apparecchio. Il guidatore entrò in mezzo alla folla, con la mano continuamente sul clacson. Passata la grandissima piazza del mercato, dove centinaia di persone se ne stavano in piedi senza scopo, eppure animate, la macchina si infilò nella stretta entrata di una grande casa. Due sentinelle fissarono impassibili i passeggeri dell’automobile, mentre il conducente la guidava attentamente nel fresco cortile ombroso, attorno al quale la casa era costruita.

Kaufmann scese e disse alcune parole ad un arabo in un perfetto abito occidentale. Quindi sparì attraverso l’entrata senza porta. L’arabo si avvicinò all’automobile, ordinando in un inglese accurato a Fleming e ad André di seguirlo. Quindi li condusse attraverso il cortile verso alcuni gradini ed una porta magnificamente decorata.

«Aspettate qui, prego,» disse, e chiuse la porta dietro di sé.

Fleming fece un giro per la stanza; era piccola, ma con il soffitto alto. Una serie di strette feritoie, chiuse da vetri moderni, permettevano ai raggi del sole di disegnarsi sul pavimento di pietra. Tappeti persiani pendevano dalle pareti. Vi erano comode sedie moderne, come pure fragili tavolini orientali. Su uno di questi stava un vassoio di ottone, con una caffettiera d’argento e delle minuscole tazze. Fleming prese la caffettiera; era calda, e l’aroma di caffè che ne usciva, eccellente. Versò un poco del liquido denso come sciroppo in una tazza, e la porse ad André.

«Che cos’è questo posto?» domandò lei, mentre sorbiva il caffè.

Fleming si tolse la giacca e sbottonò il colletto della camicia. «Un paese molto caldo,» ghignò, «un posto chiamato Azaran, che sembra essere piccolo, ma avido di notorietà. Questa è senza dubbio la residenza favorita di un pascià. A meno che non sia quella di Kaufmann.»

«Non è un cattivo uomo,» disse André.

Fleming la guardò sorpreso. «Hai questa impressione? In fondo hai ragione, ne sono sicuro. Il guaio è la dura crosta che copre la sua indifesa e dolce anima.»

Ma l’attenzione di André era di nuovo svanita.

Vi fu un lieve ondeggiamento tra i tappeti che coprivano l’angolo opposto della stanza, e Janine Gamboul venne verso di loro. Indossava uno strettissimo abito di seta, in un tentativo di apparire fredda e, allo stesso tempo, di attirare l’attenzione.

«Il professor Fleming?» mormorò, fermandosi davanti a lui senza sorridere.

«Chi è lei?» domandò sgarbatamente Fleming.

«Il mio nome è Gamboul,» rispose, volgendosi ad osservare André.

«La padrona di casa?» domandò lui.

Ella non staccava gli occhi da André. «Questa è la casa del colonnello Salim, membro del governo dell’Azaran. Non è potuto venire di persona; è estremamente occupato. Oggi è l’anniversario dell’indipendenza del paese e quest’anno le celebrazioni hanno un significato particolare perché il governo ha rotto gli impegni che aveva per il petrolio. Per evitare ogni interferenza, anche la frontiera è stata chiusa.»

«Un gran giorno, come dite voi,» rispose Fleming, «ed è stato questo Salim che ci ha fatto portare qui?»

Essa si volse lentamente e lo fissò. «Io… cioè, noi vi abbiamo fatto portare qui.»

«Capisco. E voi — al singolare o al plurale — siete la ditta che manda i fiori in tutto il mondo… la cosiddetta Intel?»

«Io rappresento la Intel,» ribatté lei freddamente. Guardò di nuovo André. «E lei è…»

«Una collega,» disse rapidamente Fleming.

Janine Gamboul lasciò errare un’ombra di sorriso sulle labbra sensuali.

«Lei è?…» disse di nuovo ad André.

«Siamo quello che si dice comunemente ’soltanto amici,’ nel senso piuttosto antiquato e più esatto della parola,» disse Fleming. «Il suo nome è André, solamente André.»

«Prego, si sieda, ma petite,» disse gentilmente la donna ad André. «Spero che non sia troppo stanca per il viaggio, e che sia stata trattata bene.»

«Non particolarmente,» rispose per lei Fleming.

«Mi dispiace,» disse la Gamboul in tono formale, «vi abbiamo portato qui perché riteniamo che potremmo esserci utili reciprocamente. Voi state sfuggendo il governo britannico, e qui non potranno prendervi. Questo è un paese chiuso; non c’è estradizione.»

«Questa è la sua versione sull’aiuto che voi dareste a noi. E se adesso ci spiegasse in che modo ci obbligherete ad aiutarvi?»

Lo scatto di nervi che stava per coglierla fu frenato dall’arrivo di Salim.

L’ex ambasciatore indossava un’uniforme perfettamente tagliata, con due file di medaglie sul petto. Era chiaro che trovava la vita molto piacevole.

«Ah! Professor Fleming,» esclamò, facendo lampeggiare i denti bianchissimi e stendendo la mano. Fleming gli volse le spalle. Niente affatto impressionato, Salim andò verso André. «E lei è la signorina…»

«André,» disse Janine.

«Soltanto André?»

La Gamboul si strinse nelle spalle. «Oui. Così dice il loquace professor Fleming.»

Salim strinse una delle mani di André tra le sue. «Incantato,» mormorò con aria estasiata.

André sorrise un poco. «Lieta di conoscerla,» disse educatamente.

Salim lasciò la sua mano e si gettò su di una sedia, stendendo le lunghe gambe negli stivali lucidi e senza macchia. «Bene,» disse, «ed ora, le spiegazioni. Noi siamo, professor Fleming, una nazione nuova. Se si eccettua il nostro petrolio, siamo sottosviluppati. Da duemila anni, da quando, cioè, eravamo una provincia con tutti i suoi diritti, sotto l’antico impero persiano di Serse, non siamo stati più altro che uno stato schiavo di altri popoli. Ora che siamo indipendenti, abbiamo bisogno di aiuto.»

«Andate in giro ad elemosinare aiuto in un curioso modo,» disse Fleming.

Salim agitò in maniera espressiva le mani. «In quale altro modo avremmo potuto avervi? La Intel ha congelato qui una grande parte del suo capitale, sotto forma di sviluppo industriale e di ricerca. Come governo ospitante, ne trarremo dei benefici. Abbiamo ingaggiato una quantità di persone — scienziati — progressisti e brillanti.»

«Raccogliendoli nello stesso modo?» domandò Fleming.

«In modi diversi. Una volta che sono qui, trovano che vale la pena. Li trattiamo bene. Di solito, non desiderano andarsene.»

«Hanno qualche possibilità di scegliere?»

«Beviamo qualcosa,» interruppe Janine Gamboul. Salim annuì, e tirò il cordone di un campanello.

«Lei è un fisico, professor Fleming,» essa continuò, «ed un matematico specializzato in fisica delle basse temperature.»

«Qualche volta,» acconsentì Fleming.

Salim ordinò al cameriere che era apparso con un vassoio carico di bottiglie di poggiarlo su un tavolo. «Che cosa prendi, Janine?» domandò. «Avevamo un altro giovane scienziato che lavorava qui — Neilson… Cosa vuole bere la signorina? Del whisky, o qualcosa di più leggero?»

«Tutto ciò è molto poco mussulmano da parte sua,» disse Fleming con un lieve sorriso, indicando il vassoio.

Salim si girò verso di lui lentamente e seriamente. «Sono un uomo moderno,» disse senza affettazione, e si volse di nuovo.

«In tal caso,» rispose Fleming, «André vorrebbe del succo di frutta che non sia corretto. Io prenderò uno scotch, liscio.» Fleming fissò il dorso impassibile di lui. «E così, Jan Neilson è stato qui? Suppongo che il vostro Intelligence Service sapesse che Jan, Dennis Bridger ed io siamo stati al Massachusetts Institute of Technology per un breve periodo di lavoro… le cose cominciano a quadrare, ora…»

Salim porse a Fleming e ad André i loro bicchieri. Prese poi ad occuparsi delle bibite per la Gamboul e per sé. «Avevamo una grande opinione di Neilson; era molto intelligente.» La sua voce suonava staccata, come se stesse leggendone la scheda.

«Morto?» domandò Fleming.

Salim si volse di nuovo verso di lui e lo fissò con calma. «Neilson si è occupato di tutta l’organizzazione pratica del nostro progetto principale di ricerca. Ma non è riuscito a completarlo. Anche se fosse rimasto, mi sembra che fosse arrivato ad un vicolo cieco.» Guardò con aria pensosa il ghiaccio che galleggiava nel suo bicchiere. «E così, naturalmente, abbiamo dovuto cercare un uomo migliore.»

«Per fare cosa?» Fleming si accorse che le mani gli tremavano di rabbia e paura.

Salim gli andò vicino. «Lei ha lavorato al calcolatore di Thorness. Anche noi ne abbiamo uno.»

«Di che genere?» chiese Fleming, temendo la risposta.

La Gamboul scoppiò in una breve risata. «Dovrebbe saperlo, professor Fleming. È il suo defunto collega, il professor Dennis Bridger, che ha fatto il progetto. L’altro suo defunto collega Neilson lo ha costruito.»

Fleming dovette lottare per mantenersi calmo. «Credo che voi non sappiate veramente cosa avete tra le mani. Questo è il miglior consiglio che posso darvi: fatelo saltare in aria.»

«Come lei ha fatto saltare l’altro?» Gli occhi di Janine Gamboul scintillavano di trionfo e divertimento. «Non credo che qui avrete la stessa possibilità.»

«Come sapete che noi, che io…»

Essa attese un poco prima di rispondere, assaporando il piacere del colpo che gli avrebbe dato. «Ce lo ha detto la professoressa Dawnay.»

«La Dawnay!» Fleming non poté far altro che guardarla.

«È venuta qui di sua spontanea volontà,» si interpose Salim. «Con la signora professoressa e con lei, crediamo veramente di essere ormai a posto. Il calcolatore costruito da Neilson sarà la base di tutta l’attrezzatura tecnologica che l’organizzazione di Mam’selle Gamboul ha impiantato qui.»

Andò verso la feritoia della finestra e guardò fuori. Il brusio della folla faceva un accompagnamento ineguale agli altoparlanti che ancora rumoreggiavano.

«Quella gente lì fuori sta uscendo da un lungo sonno,» disse Salim con sincerità. «Lei è un uomo di idee aperte, Fleming. Li aiuterà a svegliarsi ed a prendere il loro posto nel mondo moderno.»

«Dov’è Madeleine Dawnay?» domandò Fleming.

«Alla stazione di ricerche della Intel,» spiegò il colonnello, «dove sarà portato anche lei. È un posto molto comodo, al livello delle migliori compagnie petrolifere. Saremo poveri, ma non siamo barbari.» Si drizzò orgogliosamente. «Tuttavia devo farle notare che non è in una posizione tale da rifiutare di collaborare.» Fissò pensosamente André, che sedeva silenziosa, nella più completa stupefazione, guardandoli alternativamente mentre parlavano.

«Terremo qui la signorina per assicurarci la sua collaborazione.»

Fleming balzò in piedi. «No!»

Salim esitò. Guardò la Gamboul, che annuì. «Va bene,» disse, «lasceremo che la signorina stia con lei.»

Janine Gamboul depose il suo bicchiere vuoto. «Abbiamo chiacchierato abbastanza. Ora li porto alla stazione di ricerca,» disse a Salim. «La macchina mi sta aspettando.»


Quando Fleming, con la mano sotto il gomito di André, passò attraverso le porte a molla del fabbricato del calcolatore, che la Gamboul teneva aperte, si arrestò di scatto, come colpito allo stomaco. L’ingresso era stranamente identico a quello di Thorness, se si eccettua che la guardia vestita in kaki, all’interno, aveva un volto scuro, invece di’ quello rosa e gioviale delle sentinelle che egli aveva imparato a conoscere così bene in Scozia.

Anche l’aria era la stessa — con la stessa mancanza di vita a causa del perfetto condizionamento. Oltre la porta verniciata di grigio, entrando nella sezione del calcolatore, la somiglianza si accentuava. C’era l’odore indefinibile e pesante dell’elettricità, il brontolio diffuso di una miriade di circuiti attivi, e la personalità inumana di una stanza costruita interamente con pannelli di controllo.

E là, pochi passi più avanti, c’era la macchina — la rettangolare massa familiare dei pannelli d’acciaio, con la consolle dei comandi e gli schermi a raggi catodici.

Egli avanzò lentamente, sempre tenendo il braccio di André. Parecchi giovani arabi stavano lavorando intorno alla macchina. In un modo inusitato e molto straniero, essi ricordavano i tecnici inglesi che aveva guidato due anni prima a Thorness. Parlavano perfino in inglese tra loro, come se quella fosse la lingua naturale della scienza.

La Gamboul ne chiamò uno.

«Questo è Abu Zeki,» disse, «il professor Fleming.»

Gli occhi di Abu Zeki brillarono di piacere. Aveva l’aria di essere un giovane sensibile e simpatico, con delicati lineamenti arabi, ed un taglio corto e moderno di capelli, di tipo americano, che gli conferiva un curioso aspetto da beat-generation. Anche lui era, ovviamente, un «uomo moderno.» «Come sta, signore?» disse. «Naturalmente ho sentito parlare molto di lei. Sarò il suo assistente più anziano. Spero solo di poterle essere utile; comunque, potrò passare le sue istruzioni agli altri.» Dette uno sguardo orgoglioso al pannello dei comandi. «Faremo grandi cose, con questo.»

«Lei lo crede, vero?» disse Fleming quietamente.

«Le mostrerò tutto,» li interruppe la Gamboul, e li guidò lungo gli interminabili fasci di fili.

Sapeva notevolmente bene cosa fare. Era in grado di identificare ogni sezione dell’enorme macchina, per quanto Fleming avesse notato che si trattava soltanto di una conoscenza di seconda mano, da profano che si preoccupa di quali cose vengano fatte, invece che di come sono fatte. La disposizione dell’ingresso e dell’uscita era leggermente diversa da quello che aveva costruito a Thorness, ma l’enorme memoria ed i suoi circuiti erano fondamentalmente gli stessi.

Ritornarono nel largo corridoio di fronte all’unità di controllo. «La costruzione è stata finita qualche tempo fa. Era stata anche completamente programmata. Ma non è accaduto nulla. Ecco perché abbiamo bisogno di lei. Pensa che possa presentare qualche problema per quello che riguarda l’operatività?»

«Probabilmente no,» ammise Fleming. «La disposizione è diversa solo superficialmente. Ma nella sua essenza è identica.» Rise senza allegria. «Dovrebbe essere così. È stato costruito con le istruzioni date nello stesso messaggio. Sa cosa è accaduto al lavoro fatto a Thorness?»

La Gamboul si strinse nelle spalle. «Non ci interessa sapere cosa sia andato male laggiù. Vogliamo solo che vada bene questo. Vogliamo costruire un centro di produzione che sia insuperato nel mondo e libero da ogni interferenza — politica, o di qualunque altro genere. Questa macchina sarà il cervello della Intel.»

Fleming si sentiva ipnotizzato dalla calma minacciosa che lo circondava. Era terrificato dall’idea di dover rivedere ancora una volta quella sinistra sezione che rendeva questo calcolatore diverso da qualsiasi altro cervello costruito dall’uomo — con i suoi pesanti bracci di ottone, affondati nelle loro guaine isolanti di plastica.

Si volse ad Abu, che gli era rimasto deferentemente al fianco. «Dov’è l’uscita del vostro alto voltaggio?»

Janine Gamboul lo guardò sospettosamente. «Perché lo domanda? A che scopo?»

«Ci sono due cavi ad alta tensione estranei al pannello dei controlli; o, almeno, dovrebbero esserci.»

Abu annuì. «C’erano, sì,» disse, «li abbiamo portati nel compartimento finale; non capivamo a cosa servissero.» Li guidò in un passaggio, e fece scorrere senza rumore il pannello grigio sugli scivoli. Fleming guardava le forme di metallo dall’aspetto inoffensivo. Ricordi odiosi si affollavano nella sua mente. Si volse verso André, ma, con suo sollievo, gli sembrò tranquilla e totalmente priva di interesse.

«Il professor Neilson era dell’opinione cbe servissero ad una comunicazione sensoriale — in questo caso visiva — con i circuiti della memoria,» disse Abu, «in modo che l’operatore potesse mettersi in contatto diretto con i relay della calcolatrice positiva del calcolatore. Fece in modo che si potesse fare visivamente, attraverso questo schermo,» accennò verso una batteria di schermi a raggi catodici che erano allineati al di sopra dei bracci.

«Ora ricordo!»

Fleming si volse al suono della voce di André.

I suoi occhi brillavano per l’eccitazione. Fleming si sentì improvvisamente depresso; sembrava che le cose si muovessero senza rimorso ed inevitabilmente, libere da ogni controllo.

Si avvicinò ad André. «Sai cosa è questo?» le sussurrò. «È la cosa dalla quale stavamo fuggendo.»

Ella non si volse a guardarlo; sembrava ipnotizzata, i suoi occhi erano fissi sul pannello dei controlli. «Non avere paura,» mormorò. Fleming non riuscì a capire a chi parlasse.

Si girò di scatto verso la Gamboul. «Fate saltare in aria tutto. Subito.»

Janine guardò André, poi Fleming. Cominciò a sorridere, senza nascondere il proprio disprezzo. «Distruggerlo?» esclamò, «lo controlleremo, invece.» Il suo tono era cambiato. «Ora vi condurrò ai vostri quartieri. Sono molto comodi. La vostra vecchia collega è molto ansiosa di rivedervi; la professoressa Dawnay, voglio dire.»

Li guidò fuori del fabbricato del calcolatore, nel caldo soffocante. Immediatamente, un soldato venne loro incontro e, obbedendo ad alcune parole dette in arabo dalla Gamboul, scortò Fleming e André verso una fila di bungalow, ombreggiati da pochi alberi di palme. André sembrava ancora assorta, e camminava senza parlare.

Madeleine Dawnay stava seduta su una sedia a sdraio, in mezzo ad un piccolo prato di erba bruciacchiata. Il suo volto era già abbronzato, tuttavia aveva un aspetto cupo e malaticcio nei suoi abiti tropicali. Li salutò entrambi con gioia sincera.

«Mia cara,» disse, prendendo entrambe le mani di André tra le sue, «sono così felice di vederti. La cameriera ha già avuto tutte le istruzioni necessarie per aver cura di te.» Si volse verso John: «E così, sei qui.»

Fleming non si perse in saluti. «Sono qui perché mi hanno praticamente rapito,» disse tranquillamente, «e non cercherò di scappare subito soltanto a causa di quello che mi hanno fatto vedere. Ma per quanto riguarda te, Madeleine, che io sia dannato se riesco a capire come puoi lavorare volontariamente per questa gente.»

La Dawnay preferì non offendersi. «Non serve a nulla appiccicare loro delle etichette, mio caro. Le circostanze sono così diverse. Devo riconoscere che, all’inizio, mi ero allarmata. Ho il sospetto che Salim mi abbia drogata, a Londra. Ma non so perché.»

«Per sapere dove ero io. Eri l’unica persona alla quale l’avevo detto, e sono arrivati subito dopo.»

Madeleine tacque, profondamente colpita. «Mi dispiace,» disse poi con voce avvilita, «non ne avevo idea.»

«Come ti hanno avuto?» domandò Fleming.

«Chiedendomelo correttamente. Hanno un interessantissimo problema per ciò che riguarda l’agricoltura. Vogliono diventare autosufficienti nella produzione del cibo. Hanno tentato con tutti i soliti modi di fertilizzare i terreni aridi. Ma presto si sono resi conto di aver bisogno di un sistema veramente nuovo e completamente scientifico. Io spero — credo — di poterli aiutare.»

La fede priva di interrogativi che nutriva nella bontà della scienza lo aveva sempre preoccupato. Il loro semplice cameratismo aveva subito una dura scossa, quando Madeleine si era rifiutata di scorgere dei rischi nei primi successi del suo esperimento sulla sintesi vitale. Anche ora, sembrava trascinata dallo stesso entusiasmo irriflessivo.

«Madeleine,» le disse Fleming gentilmente, «se riusciremo ad andarcene da questo posto prima di essere improvvisamente ammazzati, io potrò almeno avvertire…»

La Dawnay dette un’occhiata ad André, che sedeva silenziosa accanto a loro, immersa nelle sue fantasticherie, sotto l’ombra variegata dalle palme. «Chi potrai avvertire, John?» domandò. «Chi ti ascolterà ora che sanno quello che hai fatto a Thorness?»

«E allora dovremmo restare qui e continuare a lavorare per questa lurida cosa?» domandò lui amaramente.

Ella si accigliò. «Il mio lavoro non è sporco. Sto solo cercando di aiutare della gente, dei comuni mortali, una buona parte dei quali, in questo momento, muore di fame. Forse Salim è un uomo senza pietà, ma i suoi motivi sono buoni. Vuole fare qualcosa per il suo paese.»

Fleming prese una sigaretta dalla scatola che un soldato aveva posto silenziosamente sul tavolino, accanto alla sua sedia, insieme a del succo di frutta ghiacciato. Il servizio, come aveva promesso la Gamboul, era eccellente. Accese la sigaretta e rimase pensosamente a fissare il fumo che saliva in spirali dall’estremità accesa. «C’è una sola possibilità,» disse alla fine, «è probabile che io riesca a rimettere a posto i circuiti con molta facilità; Neilson ha fatto naturalmente un lavoro piuttosto buono, e il giovane Abu Zeki conosce la sua materia. Il calcolatore funzionerà, ma dipenderà in parte dalle informazioni che vi metteremo dentro. Se riuscissi a fargli credere che sto per lui…»

Fece una pausa per bere un sorso della sua bibita. «Questo è stato il mio sbaglio, l’altra volta. Lo avevo attaccato, e non ero realmente in grado di vincere. Ma se io darò ai circuiti della sua memoria l’informazione che essi — la Intel e Co. — sono in realtà contro di lui, i suoi processi logici troveranno di sicuro qualcosa per sconfiggerli.»

«Forse distruggendoli… o distruggendo l’intero paese?» suggerì la Dawnay.

Fleming annuì. «Sarebbe comunque meglio dell’altra alternativa. E cioè che il calcolatore detti legge a tutti attraverso la Gamboul, Salim e quegli altri mascalzoni per i quali lavorano.»

La Dawnay fissò pensosamente André, che se ne stava immobile in un vago dormiveglia. Aveva un aspetto, così abbandonata, molto grazioso e femminile.

«E la ragazza?» domandò.

«Io ho smesso di pensare a lei come a qualcuno di — be’ — non di questo pianeta. È virtualmente un normale pezzo di chimica umana. Il pericolo subentra quando la macchina se ne impadronisce e la usa. Voglio che questo cessi, qualsiasi cosa mi tocchi fare. Devo riconoscere che ormai le voglio molto bene.»

«Non avere per questo l’aria così mesta!» rise la Dawnay.

Egli dette un’occhiata ad André per assicurarsi che non stesse cercando di ascoltare. «C’è di più. I suoi coordinamenti se ne stanno andando. Passa troppo tempo come la vedi ora. E quando si muove, è goffa, come se fosse diventata leggermente spastica. Al principio ho pensato che si trattasse dello shock, o degli effetti postumi della sua esperienza, o delle conseguenze fisiche delle sue ferite. Ma sta peggiorando. C’è qualcosa di errato, nel modo in cui è stata fatta.»

«Vuoi dire che ho sbagliato qualcosa…»

«Non necessariamente tu,» la rassicurò lui. «Ci può essere stato qualcosa di errato anche nella programmazione dei calcoli.»

Smise di parlare. André aprì gli occhi, si stirò pigramente e si alzò a sedere. «Che sole meraviglioso,» disse sorridendo.

Si mosse con qualche incertezza fuori dell’ombra, e cominciò a guardarsi intorno. Fleming e la Dawnay la videro dirigersi verso la porta dell’edificio del calcolatore. La sentinella, che oziava appoggiata al muro, fece un passo avanti, rifletté un attimo, quindi la lasciò passare.

Fleming saltò su dalla sua sedia. «Perché non la fermano?» Fece l’atto di muoversi, ma la Dawnay alzò una mano per fermarlo. «Starà benissimo.»

«Con quello?» esclamò Fleming. «Sei matta.»

«Non sono matta. Lasciala stare lì.»

Riluttante, Fleming si rimise a sedere. Aspettarono pieni di tensione e di timore, mentre i minuti scorrevano.

All’improvviso, il confuso brontolio vibrato che giungeva ininterrottamente dall’edificio divenne più forte e cominciò ad essere accompagnato da un ticchettio ritmico.

«Che diavolo è?» gridò Fleming, balzando in piedi.

L’esclamazione della Dawnay: «È il calcolatore, sta funzionando!» non fu necessaria. Entrambi corsero verso la porta e si precipitarono nel corridoio. Abu Zeki veniva correndo verso di loro.

«Cosa è successo?»

«Non saprei, professor Fleming,» rispose Abu Zeki, «è entrata quella ragazza, si è guardata intorno, e poi si è seduta davanti al pannello di controllo, nell’unità degli schermi.»

Fleming lo spinse da parte. Sullo schermo principale vibravano ondeggianti strisce di luce; folli figure geometriche apparivano improvvisamente, svanivano, e cambiavano di forma. Seduta sulla sedia davanti al pannello stava André.

«André,» chiamò Fleming, arrestandosi per una forza che non riusciva a capire, ma che sembrava paralizzargli le gambe. La ragazza non si voltò. «Andromeda!» urlò lui.

Molto lentamente, essa volse la testa. Il suo volto pallido era illuminato dalla gioia.

«Mi parla!» gridò. «Mi sta parlando!»

«Oh, Dio mio,» gemette Fleming.

Abu tossicchiò. «Devo andare ad informare Mam’selle Gamboul di quello che è accaduto,» disse.

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