9 Depressione

Osborne guardò dal finestrino del treno la confusione di Londra. Il suo braccio sinistro era ancora appeso al collo, per evitare lo sforzo dei muscoli pettorali, che il gunman di Kaufmann aveva colpito. Per il resto non stava troppo male, la stessa ferita principale stava rapidamente guarendo.

Se lui si era salvato miracolosamente, altrettanto era successo per Londra. I danni dell’uragano notturno non erano gravi come aveva creduto, da quanto si poteva vedere dal treno, che si muoveva lentamente. Le antenne della televisione erano piegate in modo grottesco e su una quantità di tetti si aprivano come sbadigli i buchi dai quali erano stati strappati i comignoli. Osborne era schiacciato contro il vetro dalla pressione degli altri passeggeri che stavano in piedi. Il viaggio da casa sua, e cioè da Orpington, aveva già preso più di due ore. Ma non poteva lamentarsi se il treno era lento, dato che non era nemmeno segnato sull’orario. Con tutte le linee elettriche a terra o fuori uso, funzionavano soltanto i motori diesel dei treni provenienti dalla costa. Il suo stava andando avanti tra fermate e partenze continue, passando di binario in binario con segnalazioni a mano.

Essendo un uomo prudente, Osborne si era alzato molto presto, perché sapeva che dopo una notte come quella passata, il viaggio sarebbe stato difficile. Ma ora cominciava a preoccuparsi. La riunione al Ministero era stata fissata per le 10 e 30. Tutti gli altri, che vivevano nei dintorni di Whitehall, sarebbero di certo stati puntuali.

Il treno si fermò per dieci minuti a sud del fiume. Osborne vide la centrale elettrica di Battersea, grande e solida come sempre, con il solito pennacchio di fumo bianco che, uscendo dalla ciminiera, veniva soffiato via da ventate improvvise. Quasi impercettibilmente, ripartirono e continuarono ad avanzare. Più avanti, le segnalazioni elettriche erano in funzione ed il treno entrò lentamente dentro la stazione di Charing Cross. Subito gli altoparlanti cominciarono ad avvertire che dal tetto cadevano vetri rotti, ma furono ignorati dalla ressa dei viaggiatori che cambiavano treno, e che, esasperati, si spingevano verso le uscite.

Fuori, nello Strand, la vita sembrava abbastanza normale. Un grande cartello pubblicitario era caduto, ma il traffico continuava, seppure rallentato. Al centro di Trafalgar Square era stato fatto un recinto con delle corde. Nelson guardava ancora tutta Londra dalla sua colonna ma, evidentemente, le autorità avevano preferito prendere delle precauzioni.

Osborne arrivò a Whitehall. Qualche asse era inchiodata dove le finestre erano state staccate dal vento, ma non c’era altro. Il Big Ben se ne stava intatto, proclamando che erano le 10 e 21. Osborne affrettò il passo; sarebbe arrivato appena in tempo.

Quando giunse, il ministro era già nel suo ufficio. Borbottò un saluto indifferente, e tornò alla sua lettura. «Neilson ha mandato ad avvertire che arriverà puntuale,» disse, senza alzare gli occhi.

L’americano arrivò un attimo dopo. Osborne rinunciò ad un saluto troppo caloroso, vedendo la fascia nera che portava al braccio. Neilson sembrava più vecchio; la morte del figlio lo aveva colpito duramente.

Senza nessun preliminare, il ministro dette inizio al colloquio. «Non abbiamo tempo o motivo di fare delle formalità,» disse, «il professor Neilson vuole il tuo aiuto, Osborne.» Fece una pausa, e li guardò in modo enigmatico. «Dato che Neilson è al corrente, a proposito della tua posizione nel disastro di Thorness, non ti dispiacerà se vi faccio riferimento. Per semplificare le cose, ti dirò subito che l’inchiesta è interrotta. Era del tutto inutile, con i due testimoni principali — Fleming e la ragazza — che mancavano. Così, per adesso levati quell’affare di mente. Ora ci troviamo in quello che può essere definito un caso di emergenza nazionale. È stata messa insieme una commissione internazionale con a capo il professor Neilson, ed abbiamo bisogno di qualcuno che ne tenga la segreteria.»

«Preferiremmo lei,» disse Neilson. La sua voce era innaturalmente rauca e forte.

Osborne si volse verso di lui. «Lo sente anche lei, vero?» domandò, «il vento?»

Neilson annuì. «È piuttosto generale, e peggiore sulle colline.»

«Stanno evacuando le Highlands,» disse il ministro, «non lo abbiamo ancora annunciato, ma fa parte di un piano generale. L’aria, alla minima altezza, sta diventando troppo rarefatta perché si possa respirarla.»

Neilson si alzò e si diresse verso una tavola, sulla quale era stata aperta una mappa meteorologica tenuta ferma da spilli che segnavano le posizioni. «Le Alpi ed i Pirenei sono già spopolati,» disse; «vorrebbe venire qui, per favore, signor ministro, e anche lei, Osborne? Vorrei mostrarvi quello che ho potuto accertare finora.»

I due uomini si misero al fianco dell’americano. «La pressione atmosferica sta rapidamente abbassandosi qui intorno,» passò la mano, in una larga curva, dalle Shetlands a Brittany, «come pure in tutti gli altri luoghi dove abbiamo navi meteorologiche e posti di controllo della Marina che siano in grado di fare dei rilievi accurati. In altre parole, la pressione è più bassa sul mare, nel nord Atlantico e nel Mediterraneo. Le indicazioni sono meno gravi per l’Oceano Indiano e per il Pacifico, ma non del tutto negative. Naturalmente, l’aria si sposta per compensazione dalla terra, ed è per questo che si hanno tutte le tempeste e quest’atmosfera sottile.»

«Che cosa vuole che faccia?» domandò Osborne.

«Se ti senti perfettamente bene,» si interpose il ministro. «Non avrai qualche fastidio per la ferita?»

«Sto bene, signor ministro.»

«Bene,» disse Neilson, «ora, come potrà immaginare, i dati che ho potuto raccogliere sono troppo vaghi, troppo sporadici. Vogliamo invece tutte le notizie possibili, raccolte con cura ed analizzate. Tutto ciò richiede una certa organizzazione.»

Il ministro andò verso Osborne e gli mise una mano sulla spalla. «Con questa spiacevole faccenda del sabotaggio che ti pende sul capo, quelli della Sicurezza sono piuttosto contrari al fatto che tu continui ad avere acceso a — be’, mi capisci, vecchio mio? Ma possiamo facilitarti in questo lavoro del clima, e salvare la faccia a tutti. Un po’ specioso, ma pratico.»

Osborne fece un sorriso storto. Ma, prima che potesse dire qualcosa, Neilson aveva cominciato a spiegare quello che voleva. «Dobbiamo fare un lavoro a ritroso su tutte le registrazioni meteorologiche delle ultime cinque o sei settimane. Il suo Ministero dell’Aeronautica ha già procurato alcuni dati preliminari. Per me non c’è dubbio che questa pressione anormalmente bassa sia cominciata in un’area precisa.»

Il ministro tornò verso la mappa. «Ed io ritengo che tu possa indovinare in quale, Osborne,» disse. «È stato qui.» Posò l’indice in mezzo ad un gruppo di spirali. Di fianco al suo dito, le lineette intermittenti della zona di mare chiusa al traffico tagliavano l’area ad oriente: in direzione della rampa di lancio di Thorness. Osborne non fu sorpreso; c’era una specie di fatalità in tutta la faccenda.

«E così, adesso hai un’idea dei canali nei quali il tuo lavoro può immetterti,» disse il ministro con aria rassegnata. «Ma vorrei pregarti con una certa insistenza di rimanere oggettivo. Per un bel po’ di tempo, il tuo lavoro sarà soltanto quello di organizzare un sistema di raccolta dei dati da tutti i paesi. Quelli delle N.U., a New York, hanno proposto un accordo generale per collaborare con il comitato. Non ti verranno detti dei niet o dei non.»

Una violenta folata di vento avvolse l’edificio, gemendo contro le finestre di acciaio che non cedevano. Improvvisamente cessò, come era cominciata. In qualche punto della strada sottostante, dei vetri caddero tintinnando. «La cosa più importante è la rapidità,» disse il ministro.

Per il resto della giornata, Osborne e Neilson lavorarono a rendere possibile un minimo di organizzazione. Si trattava, in gran parte, di istruire tutti i dipendenti e di allacciare le comunicazioni. Quelli del servizio meteorologico, a Bracknell, avrebbero fornito le informazioni. Installarono anche un ponte radio. Le linee normali non erano più abbastanza sicure.

Prima che la notte primaverile cadesse sulla città, il vento aveva cominciato ad aumentare di nuovo. C’erano tutti i segni premonitori di una prossima tempesta, molto più violenta di quella della notte precedente. Osborne rinunciò ad ogni idea di tornare a casa.

Neilson se ne tornò in albergo per cenare, ed Osborne rimase solo. Decise di prendersi un poco di tempo per riposare e riflettere. Il modo in cui ogni nazione, grande o piccola che fosse, aveva espresso la propria ansia di collaborare, era incoraggiante e stimolante. C’era soltanto una piccola macchia, nella lunga lista dei paesi che si erano offerti per aiutare. Ad Osborne pareva strano che, di fronte ad un simile pericolo di fenomeni naturali, la politica interna fosse tenuta ancora in una considerazione così gelosa, nell’Azaran.

Prese il microfono e chiese del funzionario di turno alle comunicazioni nella sezione per il Medio Oriente del Foreign Office. Risposero subito, ma si sentiva male. Il vento aveva scelto proprio quel momento per mettersi a fischiare pazzamente. Osborne dovette urlare la sua richiesta, mentre lo sforzo gli toglieva il fiato.

La risposta giunse ugualmente faticata: «Cercheremo, signore, ma le cose sono complicate. Le linee di comunicazione sono andate al diavolo e sulla radio non si può più contare. Saremo fortunati se riusciremo a mandare un messaggio fuori dalla nostra sede, stanotte, figuriamoci una comunicazione intercontinentale. E, come saprà, signore, laggiù c’è stato un rovesciamento. L’Azaran si è ufficialmente tagliato fuori da tutto.» Un fracasso di vetri rotti sommerse le ultime parole. «La finestra si è staccata,» gridò la voce. «Dio, che notte!»


Il pomeriggio era avanzato, quando Fleming si alzò dal letto e andò a fare la doccia. Una specie di letargia lo stava insidiosamente vincendo, rendendogli possibile lo stare per ore senza far niente, a volte senza nemmeno pensare.

Non credeva certo che Abu avrebbe avuto qualche successo nel cercare di procurargli un colloquio con la Gamboul e ancora meno nel riuscire a stabilire cosa le avrebbe potuto dire, se lo avesse ottenuto. Comunque, nella frustrazione di quel tipo di vita, aveva continuato a fare scommesse con se stesso fin da quando Abu se ne era andato, convincendosi che nei prossimi dieci minuti, o nei dieci minuti che li avrebbero seguiti, sarebbe arrivata una chiamata.

Naturalmente, non era successo. Rinfrescato dalla doccia nel corpo, se non nello spirito, andò verso l’edificio del calcolatore. André era seduta davanti al banco dei controlli, e Kaufmann stava accanto a lei. La ragazza aveva un aspetto impressionante. Fleming ebbe un attimo di esitazione, quando le passò vicino, ma, non essendo stato notato, continuò a camminare per il corridoio.

La stampatrice di uscita era all’opera, ed Abu stava studiando le cifre che ne uscivano.

«Non ho potuto fare nulla,» disse l’arabo senza guardarlo, «e ora sono sospettato anch’io.»

Fleming si chinò, fingendo di leggere i numeri. «Non credo che ci sia nulla che qualcuno di noi possa fare… oltre ad avvertire la gente.»

Abu strappò la striscia ormai completa e si raddrizzò. «Vada a casa mia questa sera,» sussurrò, «cerchi di evitare le sentinelle. Io non posso venire. Sono sorvegliato. Lemka le dirà.»

Prima che Fleming potesse fargli altre domande, Abu se ne era andato rapidamente verso l’ufficio dell’archivio. Fleming seguì con aria pensosa la sua ritirata.

La Dawnay arrivò dall’altra parte del corridoio. «Ho visto attraverso la porta a vetri Abu Zeki che cospirava con te,» disse, «e perciò mi sono tenuta indietro. Di che si trattava?»

«Non lo so,» ammise Fleming, «forse di una trappola; ha visto la Gamboul stamattina. Oppure potrebbe trattarsi anche di una caccia all’anitra selvatica. Ma tanto vale buttarsi nella mischia. E quale bella novità porti tu?»

«Ho capito cosa sono le bestioline.»

«Cosa sono?»

«Un batterio sintetizzato artificialmente. Se sapessimo come agisce, avremmo un’idea delle cose che ci minacciano.»

«Forse André?…» Fleming esitò.

La Dawnay sorrise tristemente. «Ci ho provato. Dice che il calcolatore non può essere utile; non sa niente del batterio.»

Si incamminarono verso la porta, per allontanarsi da una sentinella che si era fermata vicino a loro. «Ormai sono ridotto ad attaccarmi ad ogni speranza. Perciò, tanto vale che provi ad entrare nella trappola del nostro amico Abu, se così è.»

Madeleine gli afferrò il braccio. «Stai attento, John,» lo supplicò, «se tu vai via…»

«Io torno sempre a galla,» ghignò lui.

Uscire dal campo non fu facile. Fleming dovette aspettare che fosse diventato scuro, e non era sicuro del posto dove Abu aveva detto di aver lasciato la macchina. Ma fu aiutato dal tempo; il vento, dopo aver soffiato qualche violenta folata carica di sabbia durante la giornata, si era trasformato in una vera tempesta. Le sentinelle si erano tutte rifugiate dietro i pilastri e i muri dei fabbricati, al riparo dalla sabbia che turbinava.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità del cielo senza luna, poco dopo che fu uscito dal campo, arrivando nella zona dei servizi. L’automobile di Abu era parcheggiata in mezzo a molte altre. La chiave dell’avviamento era infilata nel cruscotto, come Zeki aveva promesso. Egli mise in moto e si mosse non troppo velocemente, per non insospettire qualche sentinella.

Seguire la strada fu difficilissimo. Si rammaricò di non aver preso nota più attentamente della zona, durante il viaggio del fine-settimana. Per due volte uscì di strada a causa di colpi di vento particolarmente violenti, mentre dense nubi di sabbia lo colpivano; ma la piccola macchina italiana a motore posteriore era l’ideale per quel tipo di terreno. Arrivò alla casa di Abu in un paio di ore.

La porta si aprì in uno spiraglio, al suo colpo di nocche. Fleming si fece riconoscere e Lemka gli disse di entrare alla svelta.

Una donna anziana in costume arabo era seduta in un angolo. Si tirò il velo sulla parte inferiore del volto, ma i suoi occhi rimasero cordiali. Sulle ginocchia, teneva un bambino.

Fleming lo guardò. «Suo figlio?» domandò a Lemka.

«Sì, si chiama Jan,» rispose lei orgogliosamente. «Il professor Neilson è stato il suo padrino. Lei ha figli?»

«No.» Si sentiva goffo, con questa giovane donna così franca e diretta.

«Vorrebbe un po’ di caffè?» domandò Lemka, poi parlò in arabo alla madre. La vecchia depose il bambino nella culla e andò in cucina.

«Di cosa si tratta?» domandò Fleming quando si furono seduti, Lemka vicino alla culla, che dondolava piano. «Abu non ha potuto dirmi nulla.»

«Sono stata io a dirgli di farla venire,» disse Lemka tranquillamente. «Vede, io ho un cugino che è operatore radio sugli aerei da trasporto della Intel. È sulla linea europea.»

«Volano ancora laggiù?»

Ella annuì. «È difficile, ma riescono a passare. Potrebbe essere di qualche aiuto, se la mettesse in contatto con gli scienziati inglesi? Mio cugino non potrebbe portare messaggi. Tutto l’equipaggio è perquisito prima di partire. Ma mi ha promesso che tenterà.»

Fleming divenne pensieroso; sembrava proprio una trappola.

«E perché lo farebbe?» domandò.

La madre di Lemka entrò con il caffè, lo versò in due tazze e si allontanò silenziosamente, sedendosi sul pavimento nell’angolo opposto. Lemka la guardò, poi guardò suo figlio. «Lo farebbe per me, per la famiglia; per il piccolo Jan.»

Era una risposta semplice, umana — di quel genere di valore umano che mancava in quel mondo da incubo. Fleming le credette.

«Va a Londra? Bene; cosa potrebbe portare, una lettera?»

Lemka annuì. «È pericoloso, sa. Le persone vengono messe in prigione per simili cose, a volte perfino uccise.»

«La ringrazio,» fu tutto quello che Fleming trovò da dire, «domanderò alla professoressa Dawnay cosa si può mettere di utile nel messaggio.» Si alzò per andarsene.

Lemka gli si avvicinò. «Che cosa succederà?» sussurrò.

Fleming scostò la tendina della minuscola finestra. Riparata dalla roccia a picco, l’aria era limpida e senza sabbia, e le stelle brillavano nella volta scura del cielo come una miriade di punti luminosi.

«Ci sono due cose,» egli disse, per metà a se stesso; «la prima è che quell’intelligenza di lassù, in Andromeda, che ha mandato il messaggio, voleva prendere contatto con qualsiasi forma di vita avesse trovato nella galassia — in una specie di modo evangelico.» Guardò verso Lemka e sorrise. «Si ricorda cosa abbiamo detto di san Paolo?»

Lemka annuì.

«L’intelligenza è una specie di missionario nello spazio,» continuò lui; «quando trova una vita che risponde, la converte, la conquista. Lo ha tentato prima, forse, durante parecchie migliaia di anni, in mondi diversi — forse con successo — ed ora ha fatto la prova qui, attraverso la ragazza Andromeda, per ciò che essa chiama il nostro bene. Questa è una cosa.»

«E l’altra?»

«Quando essa trova un intelletto che le è ostile, lo distrugge, e, se può, lo sostituisce con qualcosa di diverso. Questo è quello che sta accadendo adesso, perché noi l’abbiamo combattuta. O, piuttosto, perché io l’ho combattuta. Ed ho perso.» La voce gli mancò. «Ecco perché, Lemka, dovrà dire che ho condannato l’intera razza umana.»

«Non ancora,» mormorò lei.

«Non ancora, forse,» annuì Fleming; «c’è anche la possibilità che la professoressa Dawnay abbia qualcosa per suo cugino.»

Era mattina presto quando Fleming tornò al campo. Entrò apertamente attraverso il cancello principale, sotto i riflettori, salutando cordialmente con la mano la sentinella. L’uomo gli sorrise di rimando. Era chiaro che, per quanto riguardava gli occidentali, le guardie erano state istruite a fermarli se tentavano di uscire, ma non se stavano entrando.

Fleming aspettò fino che il lavoro fu cominciato nel campo, prima di andare dalla Dawnay. Qualsiasi cosa avrebbero messo nel messaggio, doveva essere limpida, fattuale, e comportare qualcosa di più di una richiesta di aiuto.

Nel laboratorio, con la Dawnay, c’era Abu Zeki. Sembrò sollevato nel vedere Fleming, ma non disse nulla.

La Dawnay era chinata sopra un grande recipiente di metallo, che, aveva fatto installare sotto la lunga finestra bassa. Il coperchio di vetro era stato abbassato e parecchi tubi di gomma e fili elettrici passavano attraverso fori sigillati. Erano tutti collegati a strumenti di registrazione, uno dei quali Fleming riconobbe essere un barografo. Sul fondo del recipiente c’erano due o tre centimetri di un fluido opaco.

Madeleine lo salutò distratta. «Niente da fare con André,» disse, continuando a lavorare sulle note prese dagli strumenti di registrazione. «Ha cercato di aiutare, credo, ma non ha abbastanza forza per fare il necessario. Però, sono riuscita ad avere alcuni dei dati che volevo per merito di Abu.»

«Trovato niente?» domandò Fleming.

«Non molto; ma so quello che fa.» Tolse una provetta attaccata verticalmente, con la bocca al di sotto di uno dei tubi che uscivano dal recipiente. «Assorbe l’azoto. Se ne trova meno del tre per cento in questo campione di aria proprio sopra la superficie dell’acqua. Toglie anche un poco di ossigeno, non molto… ma vedi tu stesso.»

Andò verso un mobile schedario, e ne trasse un pacco di carte disordinate. «Da’ soltanto un’occhiata a queste formule, vuoi, John? E dimmi se hai visto qualcosa di simile prima d’ora.»

Egli studiò in silenzio i dati. «Ho già detto che mi sembravano familiari; ed è ancora così.» Rese le carte.

«È un’altra sintesi,» mormorò Madeleine.

Fleming parve molto allarmato. «Non un altro inizio?» esclamò.

«No,» lo rassicurò lei, «abbiamo percorso all’indietro una lunga strada, per arrivare a questo. Ieri sera stavo lavorando su roba conosciuta. Era venuta fuori dal calcolatore di Thorness — oh, almeno un anno fa, quando ho cominciato la sintesi del DNA.»

«Fa parte di quello?» chiese Fleming a voce bassa, «del programma che ha costruito la ragazza?»

«No, è apparso del tutto separatamente.» La Dawnay pareva molto sicura. «Mi è servito come base per un esperimento; era necessario farlo, davvero; allora eravamo ad uno stadio in cui si stava ancora brancolando nel buio.» Andò verso il grande recipiente e guardò con aria disperata il liquido fermo ed opaco sul fondo.

«In pratica avevo creato alcuni di questi batteri.»

«E che cosa ne è stato?»

Madeleine rispose con sforzo evidente. «Sembravano innocui e privi di utilità. Un altro fallimento. Li tenni per un’intera settimana nelle provette. Non morirono, ma non si svilupparono. Soltanto, si moltiplicarono. Così vuotammo le provette e le sterilizzammo.»

Fleming sussultò. «Non ti rendi conto?…»

«Certo che mi rendo conto,» disse lei con voce tagliente, «i batteri furono buttati nel lavandino, scesero per i tubi, arrivarono nelle fognature, e di là al mare.»

«Il che è esattamente quanto quella maledetta macchina voleva che accadesse! Ma non potevano essere più di un’oncia o due, non possono essersi diffusi in questo modo…»

«Non è impossibile,» disse lei, «ho cercato di ricordare più o meno il periodo in cui abbandonai quell’esperimento. Naturalmente è un dato del tutto accademico; ma sono certa che si tratta almeno di un anno fa. Con questo recipiente che abbiamo messo qui, ho potuto calcolare la velocità di riproduzione. È fantastica. Nessun virus o batterio fino ad ora conosciuto si riproduce con un ritmo paragonabile a questo. Ed ora la base di partenza è molto più vasta. Puoi immaginare il tipo di progressione, adesso che ha invaso tutti i mari principali.»

«E quanto ci vorrà,» chiese Fleming, «per…»

Madeleine lo guardò. «Forse un altro anno; probabilmente di meno. L’acqua di tutti gli oceani avrà raggiunto allora il massimo di saturazione.»

Fleming studiò il grafico appeso alla parete, che registrava ora per ora l’azoto contenuto nell’aria al di sopra del recipiente. «Non fa nient’altro oltre ad assorbire l’azoto ed un poco di ossigeno?» domandò.

«Nient’altro, per quanto sono riuscita a scoprire io,» rispose lei, «ma, normalmente, il mare assorbe l’azoto molto, molto lentamente. Il plancton e così via. Qualsiasi impianto per la composizione dei concimi artificiali ne consuma, in una settimana, quanto il mare ne assorbe in un anno. Ma non ha importanza. Ce n’è in abbondanza. Questi batteri, però, potrebbero facilmente assorbire tutto l’azoto che c’è nell’atmosfera terrestre; ed è, infatti, quello che sta accadendo adesso. Un abbassamento della pressione atmosferica. Alla fine non vi sarà più azoto, e quindi nemmeno piante. Quando la pressione scenderà al punto più basso della scala, non ci sarà più modo, per noi, di assorbire ossigeno, e perciò non vi saranno più animali.»

«A meno che…» cominciò Fleming.

«Non ci sono a meno che.»

Fleming guardò Abu Zeki, che era rimasto silenzioso in attesa sul fondo della stanza.

«Madeleine,» disse, «grazie ad Abu Zeki abbiamo la possibilità di mandare una lettera a Londra.»

La Dawnay non si mostrò molto interessata. «Per dire cosa?»

«Quello che sta succedendo.»

«È inutile.» Si strinse nelle spalle. «Però va bene, se tu vuoi. Sarà comunque un gesto, anche se troppo tardi.» Si chinò di nuovo sul recipiente, guardando il fluido. «La ragazza aveva ragione,» disse, «il calcolatore ha creato la vita. Questa volta, però, ha anche fatto la morte. Per quello che ci riguarda c’è scritta la parola FINE — laggiù, nell’acqua.»

«Li avvertiremo lo stesso,» disse Fleming. «Il cugino di Lemka è pronto a correre il rischio. Devi essere breve, ma metterci dentro tutto quello che sai.» La sua voce era decisa e scosse un poco la Dawnay, rompendo la sua apatia. «Va bene, John,» gli rispose.

Abu sorrise. «Aspetterò fino a che la relazione sia finita, professoressa,» disse, «poi andrò in città per il pranzo. È quello che faccio sempre. Mio cugino va allo stesso ristorante.»

Fleming si mosse verso la porta. «Buona fortuna a tutti e due,» disse, con giovialità forzata. «Forse potremo rivederci qui stasera stessa?»


Uscì nel vento caldo, dirigendosi verso la sua abitazione. Gli faceva piacere essere di nuovo solo; era difficile, per lui, fare la parte dell’ottimista. E poi voleva del tempo per riflettere. Aveva sempre riflettuto meglio in solitudine, con una bottiglia di whisky al fianco.

Mandò a chiedere una nuova bottiglia. Il cameriere tornò dopo cinque minuti; la Intel non lesinava i comfort fisici, come droga spirituale e mentale per i suoi prigionieri.

Saltò la cena, e così si trovò ad essere leggermente ubriaco, quando tornò al laboratorio. Il vento soffiava violento come sempre, e la notte era già scesa. Non c’era stato nemmeno il solito breve crepuscolo. Abu si trovava già con la Dawnay. «Ho visto mio cugino,» disse a Fleming, «ha preso il messaggio. Non so, naturalmente, come è andata all’aeroporto, ma ho sentito che l’aereo è partito in orario. Proprio un’ora fa.»

Fleming lo ringraziò. «Forse non passerà, forse all’altro capo sarà ignorato, o, anche se non lo sarà, non sappiamo cosa potranno fare, se accetteranno di studiarlo. Sarebbero obbligati a credere una quantità di roba dura da ingoiare.» Incrociò le braccia. «Così, di fatto, siamo sempre soli. Il che significa che abbiamo bisogno della ragazza. Vada all’infermeria, Abu, e dica all’infermiera di portarla qui.»

«Ora?» chiese Abu pieno di dubbio.

«Ora,» ripeté Fleming. «Kaufmann la tira fuori dal letto tutte le volte che vuole fatto un lavoro al calcolatore. L’infermiera deve obbedire, povera ragazza.»

«Che cosa ti proponi di fare con lei?» chiese la Dawnay con aria di disapprovazione.

«Usarla come un’alleata.»

«Non accetterà la parte. E, in ogni caso, è troppo debole.»

«Dovrà provarci, non ti pare? È l’unica cosa che abbiamo. Se il calcolatore di Thorness ha creato un batterio, deve poter fare anche un antibatterio. Io non sono esperto in questo campo, Madeleine, ma mi pare che questo sia un fatto sicuro, in biologia, no?»

«Conosci per caso un’altra bestiaccia che agisca obbedientemente nella direzione opposta?» domandò Madeleine.

«Il calcolatore la conoscerà.» Fleming non raccolse il sarcasmo. «Mi rendo conto che non è lo stesso calcolatore, ma è pure riuscito a ricostruire la formula per quello originale e, comunque, André ed io lo abbiamo fatto funzionare. Possiamo farlo di nuovo per ottenere un antidoto.»

Prima che la Dawnay rispondesse, Abu rientrò. Si fermò accanto alla porta, tenendola aperta, mentre l’infermiera spingeva dentro André sulla sua sedia a rotelle. Fleming era abituato a trovare la ragazza ogni volta più debole, ogni volta più simile ad un’ombra. Ma non era abituato al modo in cui ora lo stava fissando, con occhi pieni di rancore.

«Benissimo, infermiera,» disse, senza guardare André, «la lasci qui. La chiameremo quando sarà ora di riportarla indietro.»

La ragazza rimase ferma. «Non dovrebbe stare qui, signore; l’avevo appena messa a dormire.»

Abu si intromise. «La prego, stia tranquilla, è tutto regolare.»

L’infermiera aggiustò la coperta intorno alle gambe di André e se ne andò a malincuore. Appena la porta si fu richiusa, Andromeda chiese perché l’avessero fatta chiamare; la sua voce era poco più che un sussurro, e così rotta che si capiva con difficoltà.

«Abbiamo bisogno di un’altra formula del calcolatore,» spiegò Fleming, «un altro batterio o forse un virus. Dovrebbe uccidere il primo e funzionare nel modo opposto. Dovrebbe liberare l’azoto contenuto nell’acqua.»

«E dovrebbe riprodursi con maggiore rapidità dell’altro batterio,» aggiunse la Dawnay; «si tratta di un altro caso molto complicato di biosintesi, di un altro processo che crei la vita. È per questo che ho bisogno della formula.»

André aveva ascoltato con intensità impressionante, guardando dall’uno all’altro e pendendo da ogni parola.

«Ma perché?» protestò.

Fleming perse il controllo. «Per l’amor di Dio!» gridò. La Dawnay mormorò una parola di avvertimento e, con una certa difficoltà, egli si calmò. Quindi, inginocchiandosi accanto ad André, lentamente e pazientemente le spiegò come i batteri esistenti stessero cambiando il clima del mondo e rendendo impossibile agli uomini di respirare, come primo passo verso una totale distruzione della vita. «È per questo che abbiamo bisogno solamente di un altro piccolo batterio da allevare in grande quantità, per contrattaccarlo,» terminò.

Ancora una volta, ella scosse il capo. «Non è possibile,» sussurrò.

«Ascolta,» disse Fleming con aria convincente, «se ha potuto farne di una specie, ne può fare anche di un’altra, e salvare tutti noi.»

I suoi grandi occhi si fissarono in quelli di lui. Impercettibilmente, persero un poco della loro durezza ed ostilità. «Salvarvi?» cercò di dire ad alta voce. «Ed io?» Tentò di muovere le mani dal grembo per portarle al viso. Lo sforzo eccessivo la costrinse ad appoggiarsi all’indietro.

«Se ne trovassi la forza, dovresti provarci.» Era la Dawnay che la pregava, ora.

«Non lo so,» scosse debolmente la testa. «Prenderebbe troppo tempo.»

Fleming guardò al di sopra della testa di André, verso Madeleine. «È vero?» mormorò.

Involontariamente, questa dette un’occhiata alla ragazza. «Non so,» disse, «André è…» si trattenne in tempo. «Se intendi dire che prenderebbe troppo tempo il necessario lavoro di laboratorio, è un’altra questione. Ci sono ancora ventiquattro ore in ognuno dei giorni che ci restano — anche se non si sa quanti saranno — ed a me non piace dormire troppo.»

Entrambi guardarono di nuovo André. Due persone che insistevano per farle fare qualcosa che sembrava impossibile. L’ombra di un sorriso sfiorò le sue labbra, ed ella annuì.

Fleming si volse verso Abu: «Chiami l’infermiera per farla rimettere a letto,» disse, «è l’unico alleato che abbiamo, povera bambina… Dica anche a quella ragazza che la porti alle nove di domani mattina al calcolatore. Cerchi di spiegarle che non siamo dei sadici. Le dica quanto sia necessario tutto ciò. Può anche spaventarla un poco, e farle sapere che pure lei morirà, se questo fallisce.»

La persuasione — o l’intimidazione — di Abu funzionò. L’infermiera condusse obbedientemente la carrozzina di André nell’edificio del calcolatore, poco dopo le nove, il giorno seguente. La ragazza disse quindi che André era troppo debole per muoversi, e che avrebbe dovuto lavorare all’interpretazione dello schermo rimanendo sulla sedia a rotelle.

Soltanto Fleming era presente. La Dawnay aveva troppo poche speranze per avere voglia di stare a guardare ed Abu era rimasto nell’ufficio principale, in modo da poterli avvertire se si fosse avvicinato Kaufmann o la misteriosamente silenziosa Gamboul. Una cosa che avrebbe dovuto sembrare molto inquietante, a Fleming, se non fosse stato unicamente preoccupato del problema principale, era il modo in cui la Intel pareva lasciarli liberi di occuparsi delle loro cose.

Con una certa esitazione, André mise le mani sul pannello dei controlli. Il calcolatore era entrato in attività emettendo il solito brontolio, appena ella era arrivata nel corridoio, ma lo schermo si era illuminato molto lentamente. Le immagini che vi si vedevano erano velate e, persino quando Fleming tirò le tende della finestra, le figure rimasero quasi indistinguibili. Vide, però, André che alzava il capo verso lo schermo; la vide aggrapparsi ai comandi, come se questi potessero infonderle un supplemento di forza. Il suo sforzo di concentrarsi era patetico. Un attimo dopo, lasciò la presa. Il corpo si abbandonò, la testa le cadde in avanti. Cominciò a parlare in modo confuso, mentre i singhiozzi le scuotevano le spalle.

Fleming si chinò su di lei. «Non riesco a seguirli,» la udì dire, «portatemi via di qui.» Poi, come parlando a se stessa: «Non voglio morire.»

L’infermiera si avvicinò, spingendo Fleming da parte. «Ha fatto abbastanza, anzi troppo; non potete chiederle…» Bruscamente, afferrò la sedia ed allontanò André dallo schermo.

Fleming non si mosse affatto. «André,» disse con calma, «nessuno di noi vuole morire, ma toccherà a tutti, a meno che qualche miracolo non ricrei l’aria sul mare.»

La ragazza alzò la testa con sforzo. «Voi morirete insieme. Io morirò sola.» Fleming le prese le mani per confortarla, ma André lo allontanò con il braccio. «Non mi toccare,» disse, «devo sembrarti orribile…»

«No!» disse Fleming intensamente, «mi sei sempre sembrata bellissima. Fino da quando… da quando siamo fuggiti da Thorness. Ma cerca di pensare, te ne prego. Solo tu puoi salvarci ora. Io non so nemmeno cosa stia facendo questa macchina adesso. Il potere è ancora nelle mani della Gamboul?» Indicò la massa del calcolatore davanti a loro e André annuì con la testa. «Allora perché non viene mai qui?»

André rimase un attimo in silenzio, radunando le proprie forze. «Non ne ha bisogno. Ha già visto il messaggio. Il calcolatore l’ha messa sulla strada giusta. Non tornerà indietro. Né verrà qui. Non ha bisogno di niente altro. Io non ho potuto mostrarle più niente. Ormai riesco appena a vederlo.» I suoi occhi si levarono interrogativi verso lo schermo vuoto. «Tornerò quando avrò riposato.»

Senza chiederne il permesso, l’infermiera cominciò a spingere via la sedia a rotelle. Questa volta, Fleming non la fermò. Le guardò scomparire attraverso la porta principale e, per un intero minuto, rimase dov’era, nel silenzio dell’edificio deserto.

Improvvisamente, sussultò. La stampatrice di uscita stava funzionando. Ticchettava rapidamente, poi si fermò. Ricominciò di nuovo. Questa volta i tasti si muovevano più lentamente, ma non si fermarono. Egli andò alla sezione ed afferrò la striscia corta di carta già stampata.

«Piuttosto intricato,» decise dopo averlo scorso, «ma sembrano comunque già adesso dei dati biologici di qualche tipo.» Andò a dirlo alla Dawnay. Era una cosa molto normale, questa analisi preliminare. Ma, nelle sue inferenze, appariva tremenda. Dimostrava che, dopotutto, André voleva aiutare, e che la Dawnay avrebbe ancora potuto compiere il miracolo, se ce ne fosse stato il tempo.

Quando fu fuori, la furia del vento lo investì, facendolo vacillare. Cominciò ad avanzare faticosamente e non ricavava sollievo dall’aria che inspirava. Con la testa bassa ed il corpo piegato contro la forza soffocante del vento, avanzò in mezzo a turbini di sabbia fuori della porta del laboratorio. Il suo zelo ed il suo ottimismo se ne erano andati. Il tempo era qualcosa che non si poteva comprare.


A circa cinquemila chilometri di distanza, l’alba sorgeva su una Londra colpita dal disastro. Pochi poliziotti con l’elmetto si tenevano nel mezzo delle strade più larghe, ben lontani dai fabbricati. Di tanto in tanto, lo scampanellio di un’ambulanza passava attraverso l’ululato del vento. Qualche luce illuminava debolmente il primo piano del Ministero della Scienza, uscendo dalle poche finestre che non erano state strappate dall’uragano e chiuse con tavole.

La luce grigia dell’alba accentuava l’aria sfinita dei quattro uomini seduti intorno ad un tavolo in disordine. Per parecchie ore non erano riusciti a farsi venire un’idea costruttiva. La discussione si era quindi trasformata in litigio, in un futile atteggiamento ipercritico delle menti troppo stanche.

Neilson, uomo di solito tranquillo e buon collaboratore, era stato il primo a cedere all’esasperazione, quando Osborne ed il segretario del Primo ministro si erano ingolfati in una interminabile discussione sulle responsabilità dei vari dipartimenti e della finanza a proposito dell’allargamento delle attività, stabilito la sera prima.

«Avete un talento straordinario, qui,» disse, «per impantanarvi in problemi burocratici mentre sta succedendo il finimondo.»

«Siamo stanchi, professor Neilson,» ribatté seccamente il ministro, «e stiamo solo facendo quello che ci sembra necessario.»

«Mi dispiace,» disse Neilson.

Il segretario del Primo ministro cercò una sigaretta, trovò il pacchetto vuoto e, dopo averlo appallottolato, lo gettò in un angolo. «Non c’è più energia elettrica in metà del paese, e l’altra metà è sott’acqua, o coperta di neve, o buttata giù dall’uragano. La gente sta morendo più rapidamente di quanto l’esercito impieghi a seppellirla. Se lei potesse almeno darci una specie di previsione della durata di tutto ciò…»

Neilson era sul punto di rispondere, quando un segretario entrò e si diresse in punta di piedi verso Osborne.

«Un messaggio urgente per lei, signore,» disse, «portato da un corriere dall’aeroporto di Londra.»

Osborne prese la busta gialla e la strappò. Con deliberata lentezza, spiegò la carta leggera e lesse.

Quando ebbe finito, alzò gli occhi. «Viene dall’Azaran,» disse, «da parte di Madeleine Dawnay.» La porse al ministro.

«Voi due fareste meglio a vedere questa roba insieme,» disse il ministro al segretario del Primo ministro ed a Neilson. «Si risparmierà del tempo. S’intende che il Gabinetto deve essere immediatamente informato.» Attese impazientemente mentre i due uomini leggevano il messaggio. «Qualche proposta, Neilson?» chiese poi.

Neilson annuì. «Può farmi andare in Azaran… oggi stesso?» chiese.

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