12 Cielo sereno

Il Primo ministro ricevette il Comitato d’emergenza nel suo studio privato, al primo piano del n. 10 di Downing Street. Per quanto avesse insistito perché la cosa fosse tenuta nascosta, egli era stato a letto per due giorni. Il suo medico aveva diagnosticato asma cardiaca, una maniera buona come un’altra per descrivere i disturbi dei quali soffrivano tutti coloro che avevano passato la mezza età, man mano che la respirazione diveniva sempre più difficile. La notizia del miracolo della Dawnay in Azaran aveva infatti raggiunto Whitehall, ma i suoi effetti non si avvertivano ancora.

Malgrado ciò, il Premier insistette nel volersi alzare per salutare il ministro della Scienza ed Osborne, quando arrivarono.

«Sono contento che ce l’abbiate fatta,» disse con un soffio di voce, «le cose vanno ancora molto male?»

«Un vero incubo, signore,» disse il ministro. «Tutto il territorio basso, al di là di Hammersmith, è allagato; le strade sono sott’acqua.» Cominciò a tossire.

«Non è certo una buona cosa per noi, quest’affare,» disse il Primo ministro. «Saremo i primi a soccombere. Il che risolverà forse molti problemi politici. Avremo presto il più giovane Gabinetto che la storia ricordi, detto dei Sopravvissuti.»

Il ministro della Scienza cercò di emettere una risata di cortesia. «Una cosa molto preoccupante, signore, è che l’aeroporto di Londra è inutilizzabile a causa dell’allagamento. Quello di Gatwick è fuori uso da qualche tempo, naturalmente. E l’aviazione civile non conta troppo su quello di Hurn. Gradirei molto che con la sua autorità lei facesse sgomberare dalla R.A.F. quello di Lyneham, per gli atterraggi di prima necessità. Mettendoci almeno due elicòtteri che siano sempre pronti a volare direttamente qui da noi. Hyde Park è ancora abbastanza libero, malgrado i centri di assistenza ed i posti di pronto soccorso.»

«Questo vuol dire che ha delle altre novità, Bertie.» disse il Primo ministro. «Mi farebbe piacere se riuscisse qualche volta a controllare la sua tendenza a drammatizzare.»

«Abbiamo raccolto un segnale dall’Azaran, signore,» si interpose Osborne. «Il professor Neilson è in viaggio. Lui e la professoressa Dawnay hanno tolto il potere a un certo signor Kaufmann, che crediamo entrasse per qualcosa nella faccenda della mancata sorveglianza a Thorness.»

«Proprio così, Osborne,» disse il Primo ministro con un sorriso divertito. Era una vecchia ferita, ormai, e, come altre vecchie ferite di Osborne, stava guarendo e cominciava ad essere dimenticata. Da allora, Osborne aveva fatto ben di più che redimersi. «Thorness, già. Ma l’antibatterio?»

«Ne porta la massima quantità possibile, signore. Non molto, a causa delle difficoltà di volo di questi giorni, ma abbastanza da distribuirne a circa un migliaio di centri per la coltura.»

«Attraverso l’organizzazione internazionale?»

«Sì,» disse il ministro della Scienza. «Posso dire, signor Primo ministro, che la volontà di collaborare si è dimostrata eccezionale. Il Giappone ha suggerito di mandare in alto mare tutte le navi cisterna che sono in giro nei vari oceani per prendere in mezzo correnti marine come la Gulf Stream. L’Unione Sovietica ha messo completamente a disposizione cinque stabilimenti chimici statali. Il cinquanta per cento delle raffinerie di petrolio degli Stati Uniti sono già state pulite e preparate ad accogliere i rifornimenti. Qui da noi, la Royal Engineers crede di poter ottenere che per sabato tutti i gasometri della costa siano preparati. Tutte le fattorie centrali del latte e gli impianti petroliferi manderanno le loro autocisterne nei vari centri che indicheremo.»

«Bene,» disse in un soffio il Primo ministro. «Speriamo, caro ragazzo, che tutto ciò arrivi in tempo per qualcuno di noi. Naturalmente, vorrete parlare con Neilson, appena arriverà. Dopo che lo avrete fatto, mandatelo da queste parti. Credo che vorrò discutere con lui i suoi piani. Poi bisognerà trasmettere un comunicato; la gente ha bisogno di qualche parola di incoraggiamento e di speranza.»


Ma soltanto la notte seguente il Primo ministro si sentì autorizzato a dire al mondo che la speranza stava tornando. Per tutte le ventiquattro ore precedenti, c’era stata un’attività frenetica. Le mille provette attive che Neilson portò parvero pateticamente scarse, quando cominciò la distribuzione. Un centinaio di esse furono prima di tutto distribuite ai centri preparati per la coltura. Per risparmiare tempo, i chimici che dovevano occuparsene furono brevemente ragguagliati a voce da Neilson. Vennero quindi preparate delle istruzioni in più lingue, mentre le radio militari si mettevano in contatto con tutte le nazioni interessate per comunicare i dettagli sui campioni e la loro probabile ora d’arrivo.

La R.A.F. e la United States Air Force si occuparono del trasporto. Un pezzo di storia fu scritto ex novo quando un jet U.S.A. a lunga autonomia arrivò in ricognizione all’aeroporto di Mosca, con tutti i caccia sovietici che gli giravano intorno in segno di benvenuto e di vittoria.

Per un atto di riconoscenza verso l’uomo quasi sconosciuto che aveva preso sulle proprie spalle la responsabilità ufficiale di salvare il mondo, il Primo ministro insistette sul fatto che il comunicato alla radio cominciasse con una dichiarazione del presidente dell’Azaran.

Il collegamento risultò debole e poco chiaro, ma fu ascoltato quasi in tutto il mondo.

«Per molti secoli noi dell’Azaran siamo stati considerati un popolo arretrato,» disse la voce tenue e cantante del presidente. «Ma adesso, se potremo portare la salvezza al resto del mondo, questo sarà il nostro privilegio e la nostra gioia. Già nel nostro paese il tempo sta migliorando, e l’aria soddisfa di nuovo i polmoni. Questo beneficio, noi preghiamo e crediamo, si diffonderà tra tutti i popoli colpiti della terra.»

Un operatore della stazione radio, dimostrando di essere pieno di risorse, aveva poi messo un disco con l’inno azaranita. Le note lamentose e discordanti si levarono, e quindi svanirono.

Fu allora che il Primo ministro fece il suo storico comunicato da Londra. «Un nuovo tipo di batterio sintetizzato da poco, che abbiamo ricevuto dall’Azaran, può essere il mezzo per allontanare la sciagura che si è abbattuta sulla razza umana. Con l’aiuto degli scienziati, nelle cui mani è ora il nostro destino, i governi di tutte le nazioni stanno facendo tutto quello che possono. Già, nel Regno Unito, colture di questo antibatterio vengono allevate e pompate nel mare. I primi rifornimenti sono ormai giunti ai laboratori delle nazioni sorelle, in questa crociata contro l’annientamento del mondo. Altri ancora arriveranno dall’Azaran e verranno distribuiti con tutta la rapidità che è umanamente possibile. Noi speriamo che, attraverso uno sforzo concentrato, in ogni parte del globo, il contenuto del mare cambierà, e sarà di nuovo possibile respirare la nostra aria naturale.»

Il Primo ministro si abbandonò sullo schienale della sedia, esausto. Parlare era stato per lui un grande sforzo, ed egli si riposò mentre veniva trasmessa la traduzione del suo discorso nelle cinque lingue in uso presso le Nazioni Unite. Quindi chiese la sua macchina. Si volse ai funzionari che gli si erano radunati intorno e parlò con una voce che era poco più di un sussurro. «Mi piacerebbe controllare, signori, se le promesse che ho fatto sono ragionevoli. Mi dicono che c’è una coltura giù, ai docks di Londra.»

Una macchina della polizia scortò la limousine del Primo ministro attraverso la città oscurata, al di là della Torre di Londra. Si fece strada tra mucchi di detriti, aggirando parecchie strade chiuse da barricate, finché arrivò ad un vecchio edificio miserabile.

Cadeva una pioggerella fitta, una specie di sosta nell’interminabile serie di uragani e tempeste. Due uomini in impermeabile stavano in piedi vicino all’acqua, guardandone un altro dentro una lancia della polizia. Sussultarono quando riconobbero il Primo ministro nel signore curvo ed anziano alle loro spalle.

«Stiamo controllando la quantità dell’azoto, signore,» spiegò uno di loro. «L’antibatterio è stato pompato in queste acque sei ore fa.»

«E come funziona?» domandò il Primo ministro.

«Bene, signore. Venga a vedere.»

Alla luce del faro della lancia di polizia, la sporca acqua del fiume appariva scura e morta. Ma, mentre la stavano fissando, videro formarsi una bolla che scoppiò subito. Proprio vicino ad essa, ne scoppiarono altre due.

«Sta succedendo su tutto il fiume, signore. S’è potuto vedere nelle ultime due o tre ore. È l’azoto che viene liberato, mentre il nuovo batterio uccide il vecchio.»

Un’altra macchina arrivò sul molo. Osborne, avvertito dal segretario privato del Primo ministro, aveva portato su! luogo Neilson. Il Premier lo salutò silenziosamente, alzando una mano.

«Spero che la cura non sia peggiore del malanno,» disse all’americano.

Questi scosse il capo. «No, signore. L’antibatterio non sopravvive alle condizioni che crea. La professoressa Dawnay ha controllato questo fatto fino in fondo. Esso ha soltanto un nemico e una risorsa di cibo: il batterio nato a Thorness. Una volta che ne abbia esaurita la scorta, si indebolisce e muore.»

«Proprio come un antibiotico distrugge i germi e poi viene distrutto esso stesso,» si intromise Osborne.

«Eccetto che in questo caso noi riteniamo la sua distruzione più completa…»

Il Primo ministro interruppe Neilson con un altro sorriso.

«Vedo che lo tiene sotto controllo.»

Si fermò ancora un poco, a guardare le bolle che andavano e venivano. «Grazie a Dio, grazie a Dio!» mormorò, rientrando nella sua automobile.


Le condizioni dell’Azaran erano completamente trasformate, a ventiquattro ore dall’arrivo di Neilson in Inghilterra. Aerei di una dozzina di nazioni vi avevano portato scienziati e tecnici per aiutare la Dawnay ed organizzare i trasporti e le comunicazioni. Fu anche mandato un rinforzo di truppe delle Nazioni Unite, ma il desiderio del presidente era che si entrasse nell’Azaran soltanto in caso di una minaccia da parte della Intel. La Dawnay si era procurata una completa libertà.

Ma l’intera mole della Intel stava crollando silenziosamente fino alle sue basi. La NKVD, l’Interpol e l’FBI, lavorando di conserva sul rapporto che Neilson aveva portato a Londra, avevano scoperto e chiuso gli uffici principali di Vienna, Zurigo ed Hong-Kong, ed i nomi che erano stati trovati causarono parecchia costernazione in una dozzina di magistrature. Per un accordo generale tra le maggiori potenze, non furono fatte pressioni per obbligare a dimissioni o arresti, ma tutte le licenze di commercio della società furono ritirate. Si ebbero un paio di suicidi e tutta una serie di dimissioni per motivi di salute, appena notati nel vasto dramma del mondo che si riprendeva dal caos, e quelli che non furono raggiunti furono presto ridotti alla più completa inazione, rimasti come erano con una quantità di uffici commerciali vuoti sparsi nel mondo, senza credenziali né lavoro, e milioni inutili e non reclamati in salvo nelle banche svizzere. Nell’Azaran, la fabbrica principale per la produzione dell’antibatterio ed il calcolatore che l’aveva creata furono lasciati rispettivamente nelle mani di Madeleine Dawnay e di John Fleming, suo socio, che erano diventati personaggi famosi in tutto il mondo, nello spazio di una notte.

L’atmosfera di superefficienza e la costante adulazione dedicata alla Dawnay ed a lui stesso, repelleva a Fleming. Non desiderava aver parte in tutto questo; né, in effetti, c’era per lui qualcosa di utile da fare. Evitava i gruppi vivaci ed entusiasti che si riunivano nei bar improvvisati; rifiutò tutti gli inviti ai ricevimenti che furono subito organizzati a Baleb.

Subito dopo aver visto Kaufmann nelle mani dell’Interpol, Fleming ebbe un’esperienza che credette di non poter dimenticare mai più. Aveva raccolto le poche cose di Abu, nella scrivania del suo ufficio, ed era andato al villaggio di Lemka, ben felice che un funzionario del presidente fosse già andato a portare la notizia della morte di Abu a sua moglie.

C’era molto silenzio nel cortile rovinato della casa. Del bucato, su di una corda, fluttuava nel vento. La culla del bambino stava all’ombra di un muro scrostato. Una spirale di fumo spariva nel cielo, uscendo da alcune fascine su di un fornello improvvisato. Fleming chiamò verso la casa, ed attese fino a che Lemka non apparve sulla soglia in ombra della porta, al rumore dei passi sull’impiantito.

«Sono venuto per dire…» cominciò Fleming.

«Non mi dica che le dispiace,» lo interruppe lei, andando verso la biancheria con il viso rivolto altrove. «E non mi dica che non è stata colpa sua.»

«Io non volevo coinvolgere suo marito,» mormorò lui.

Lemka si volse con rabbia. «Ci ha coinvolto tutti.»

«Io gli volevo bene, sa. Molto. Sono venuto per vedere se c’è qualcosa che posso fare,» implorò lui.

Lemka stava lottando con le lacrime. «Ha fatto abbastanza; ha salvato il mondo — dalla sua stessa follia. E così adesso pensa che tutto vada bene. Come potete voi — tutti voi — essere così arroganti? Voi non credete in Dio. Non accettate la vita come un suo dono. La volete cambiare, perché ritenete di essere più grandi di Dio.»

«Ma io ho soltanto cercato di fermare…» La voce di Fleming morì.

«Ha cercato, e noi abbiamo sofferto. La ragazza — la sua ragazza, aveva ragione quando diceva che lei ci ha condannato. Perché non torna ad ascoltarla?»

«Sta morendo.»

«Ha ucciso anche lei?» Lemka lo fissò con più compassione che odio. Fleming non riuscì a rispondere. Depose il piccolo pacco con le cose di Abu ai piedi della culla, e se ne andò.

Quando fu di nuovo al campo, scivolò come un intruso verso il suo bungalow per una strada secondaria. Prese dei fogli stampati dal calcolatore ed alcuni calcoli da un cassetto e cominciò a studiarli.

Li aveva messi da parte quando la Dawnay si era rifiutata di aiutarlo, perché sentiva di non poterli risolvere da solo. Semplicemente, non ne sapeva abbastanza di biochimica. Per un periodo che gli era sembrato lungo come una vita, aveva evitato la stanza di André, perché non aveva più il coraggio di guardare in faccia la sua lenta agonia, e, ormai, aveva rinunciato all’idea che Madeleine avesse il tempo, l’energia o la voglia di mettersi ad aiutarlo.

La Dawnay ora era installata nell’edificio degli uffici, al centro di una rete di collegamenti rapidamente improvvisati via radio e telegrafo, e dirigeva e consigliava tutti gli scienziati in lotta, in ogni parte del mondo. Non sapeva nemmeno come ce la facesse, né se dormisse qualche volta; non la vedeva mai.

Rimase seduto nella sua piccola stanza, fissando abbattuto la massa delle cifre. Quindi aperse una bottiglia di whisky, e ricominciò a tentare di trovare nell’ammasso di cifre un nesso qualsiasi. Era quasi mezzanotte, quando si avviò, un poco malfermo sulle gambe, verso il laboratorio, attraverso il campo deserto.

Essendo terminati gli esperimenti, i grandi recipienti che erano serviti per la coltura erano stati trasportati nell’edificio degli uffici, dove c’era posto abbastanza per il reggimento di assistenti che ora la Dawnay poteva dirigere. Il laboratorio dove tutto era cominciato era vuoto e senza vita. Cercò a tentoni un interruttore; la luce si accese. Quasi dovunque l’elettricità era stata rimessa in funzione il giorno precedente.

Comprendendo a malapena da quali recessi del suo cervello o ricordi dei suoi giorni di studente venivano, o quanto fossero ispirati dal whisky puro, Fleming cominciò ad accorgersi che la soluzione di cui aveva bisogno cominciava a delinearsi nel suo cervello. In modo lento e faticoso, ed anche un tantino ubriaco, cominciò a ricavare una sintesi chimica dalla massa di numeri che aveva scritto.

Le sue esperienze di lavoro riuscirono appena a mantenerlo nel giusto, ma presto dovette rendersi conto con dolore che i meccanismi più comuni ed ordinari della chimica pratica erano al di là delle sue capacità. Gli mancava pazienza e precisione; ma l’ostinazione ed il ricordo degli occhi compassionevoli di Lemka lo spinsero avanti. Non si accorse che il sole del mattino aveva offuscato la luce delle lampade, né che la porta veniva aperta.

«Che razza di disordine!» disse la voce della Dawnay. «Guarda il mio laboratorio! Cosa diavolo credi di star facendo?»

Fleming si lasciò cadere dall’alto sgabello davanti al banco e si stirò.

«Ciao, Madeleine,» disse. «Ho cercato di sintetizzare questa cosa per André. La maggior parte degli anelli della catena sembrano essersi riuniti. Ma i vari collegamenti minori non funzionano neanche un po’.»

La Dawnay scorse con occhio esperto i calcoli di lui, in mezzo alle carte sparse dovunque, sul banco e sulle sedie. «Non mi sorprende,» disse, «sei riuscito a fare un magnifico pasticcio. È meglio che lasci fare a me.»

«Credevo che non avessi tempo. Credevo che fossi troppo occupata a mettere a posto il mondo.»

Madeleine ignorò la battuta, continuando a guardare le equazioni.

«Ammettiamo,» disse lentamente, «che se c’è una deficienza chimica nel suo sangue o nelle ghiandole endocrine deve pure esistere una compensazione chimica, però non sappiamo se le cose stanno così.»

«Ma deve essere così, non è vero?» suggerì lui. «Il nostro capo elettronico lo ha detto.»

Madeleine rifletté un poco. «Perché vuoi farlo, John?» chiese. «Tu hai sempre avuto paura di lei, l’hai sempre voluta togliere di mezzo.»

«Ma adesso voglio che viva.»

Madeleine lo fissò pensierosa, mentre un leggero sorriso le sfiorava gli angoli delle labbra. «Forse perché tu sei uno scienziato e vuoi sapere che cosa conteneva realmente il messaggio? Non riesci a sopportare il fatto che la Gamboul lo sapeva e tu no? È questa la vera ragione, vero?»

«Hai veramente delle buffe idee e vecchie idee,» sorrise lui.

«Forse,» rispose Madeleine, «forse.» Prese un camice da un gancio alla parete. «Vai a fare colazione, John. Poi torna qui. Ho del lavoro da farti fare.»


Lavorarono insieme, collaborando in modo perfetto e del tutto istintivo, ed evitando accuratamente qualsiasi discussione di tipo morale o emozionale. Erano come nemici costretti a vivere nella stessa cella. Non parlarono di niente altro che non fosse l’enorme complicazione del lavoro e, per dieci giorni ed altrettante notti, andarono avanti. Le notizie sul miglioramento della situazione mondiale e sulla pressione barometrica, i bollettini meteorologici che riferivano una diminuzione nella violenza del vento venivano da loro appena notati, e subito dimenticati.

A causa dei propri timori di fallimento, Madeleine non aveva nemmeno detto a Fleming che, ancora prima di aver controllato il risultato del suo lavoro, aveva già cominciato a fare le iniezioni ad André. L’etica professionale non la preoccupava, ora. La vita di André si avvicinava sempre di più alla fine, in ogni caso.

Fleming continuava ad evitare la stanza della ragazza malata. Diceva a se stesso che non l’avrebbe vista fino a che non avesse potuto darle un poco di speranza. Sapeva che Madeleine la visitava regolarmente, ma si tratteneva deliberatamente dal domandarle come stesse.

E la Dawnay, notando il lento miglioramento della sua paziente, non osava credere di essere riuscita. Solamente quando venne il medico, e le ebbe fatto un prolungato e positivo esame dei riflessi muscolari, cominciò ad ammettere anche con se stessa che il quasi impossibile era avvenuto.

Fu la stessa André che chiarì la situazione. «Sto meglio,» mormorò una mattina, mentre aspettava un’altra iniezione, «lei mi ha salvato la vita.»

«Ti sei salvata da te,» disse affettuosamente la Dawnay, «con John ed il lavoro del calcolatore.»

«Che cosa farà lui adesso, se io… riesco a sopravvivere?» domandò André.

«Non lo so.» La Dawnay se lo era chiesto tante volte, che aveva cominciato ad aspettare e temere questa domanda. «John è diviso. Una parte di lui vuole continuare come prima, l’altra è spaventata. Siamo tutti così; ma la paura non ci impedisce completamente di andare avanti.»

«Ed io dovrei restare per andare avanti?»

«Per molto di più. Qui, sulla nostra piccola terra accogliente, eravamo abituati a pensare di essere protetti dall’esterno semplicemente dalla distanza. Adesso vediamo che l’intelligenza — una pura, forte intelligenza — riesce a valicare abissi di spazio ed a minacciarci.»

«Pensa ancora a me come ad una minaccia dal di fuori?»

«No,» rispose Madeleine, «io non lo penso.»

André sorrise. «Grazie per questo. Non potrei vederlo presto?»

«Sei abbastanza forte per alzarti, adesso,» annuì la Dawnay, «lui dovrebbe vederti. Sì,» continuò dopo una pausa, «andremo da lui insieme appena potrai camminare.»


Una sera della settimana seguente, Fleming tornò alla macchina. In parte per acquietare la propria coscienza, ed in parte perché aveva bisogno di un aiuto non tecnico, aveva invitato Yusel a lavorare al calcolatore. Lo stipendio era buono, il che sarebbe servito ad aiutare Lemka ed il bambino.

Quando la Dawnay entrò, l’arabo si scusò e la lasciò sola con Fleming.

«John,» disse lei, «André è qui.»

Fleming la guardò stupefatto.

«Dove?»

«Fuori.» Sorrise un po’ ironica alla meraviglia di lui.

«La cura ha funzionato, John; ce l’abbiamo fatta. Adesso sta bene.»

Per un attimo, pensò che Fleming non avrebbe risposto affatto. Ma poi lo sentì dire con voce addolorata: «E perché non me lo hai detto prima?»

«Non ero sicura di stare procedendo nella direzione giusta.»

Fleming la fissò incredulo. «E così, ora l’hai riparata. E la prima cosa che fai è di riportarla qui — alla macchina! È tutto così semplice, così previsto, come se ci fossimo abituati.» Volse il viso accigliato. «Ma come potremo andare avanti a competere con lei ed il calcolatore?»

«Questo dipende da te,» replicò Madeleine. «Io non ti posso aiutare. Il mio lavoro è finito; vado a casa domani.»

«Non puoi!» esclamò John.

«Tu volevi che guarisse,» gli rammentò lei, ma Fleming la fissò e fu come se, attraverso Madeleine, vedesse un fantasma.

«Ma non puoi lasciarmi così,» implorò, «non con lei qui!»

Madeleine non l’aveva mai visto chiedere aiuto prima di allora. «Sta’ a sentire, John,» disse gentilmente, «non sei un bambino che si nasconde dietro le vesti della madre. E suppongo che tu sia uno scienziato. André non ha mai usato di te o di me. Siamo stati noi che abbiamo messo sottosopra il mondo. Ed è stata André che lo ha salvato.» Si avviò verso la porta, avvicinandosi alla ragazza che aspettava. «Ti vedrò ancora, prima di andarmene.»

André si avvicinò a Fleming camminando svelta, fermandosi davanti a lui sorridente, come una scolaretta felice. Era ancora sottile e pallida, ed i suoi occhi sembravano ancora enormi sopra gli zigomi alti e magri; ma non aveva più l’aspetto malato. Era viva e vibrante, ed aveva acquistato una bellezza in certo modo più delicata, che lo commosse a dispetto di se stesso.

«Non posso credere che tu stia così,» disse.

«Non sei contento?»

«Certo che lo sono…»

«Hai paura di me?»

«Soltanto quando sei una bambola meccanica, una marionetta.»

Le sue guance si soffusero di rossore, e André scostò con una mano i capelli dal volto. «E tu non lo sei? Tu pensi a te stesso ancora come ad una creatura divina ed unica. Ci sono tremila milioni di persone come te soltanto su questa terra. E sono — siamo — tutte marionette che ballano appese a fili.»

«E allora balliamo.» John rimase con le mani in tasca, immobile.

«Io farò tutto quanto mi chiederai,» disse lei. «Tutto quello che so è che non possiamo prendere strade separate.»

Fleming tirò una mano fuori della tasca e carezzò quella di lei. «Allora andiamocene da qui,» disse. Si volse a guardare la massa grigia del calcolatore. «Dopo che l’avremo distrutto. Lo faremo veramente bene, questa volta. Poi ce ne andremo in qualche posto pieno di pace, come quell’isola con quel tipo — come diavolo si chiamava — Preen.»

«Va bene,» disse André, «faremo come vorrai. Te l’ho detto tante volte. Ma ci hai pensato? Ci hai pensato veramente? Credi che ci sarà permesso di vivere in pace più di quanto non sia stato permesso a Preen? L’unico posto tranquillo per noi è questo. Se noi lo accettiamo, e la sua protezione, accetteremo quello che è stato previsto.»

«Previsto! Di nuovo questa dannata parola. E cosa è stato previsto?»

«Quello che vorrai. Sarà fatto qui e nel resto del mondo.»

«Temo di non essere tagliato per fare il dittatore.»

«L’unico tipo possibile di dittatore è qualcuno che non sia tagliato per farlo,» disse lei, «qualcuno che sappia.»

«Che sappia cosa?»

«Ti farò vedere quello che avevo mostrato alla Gamboul,» disse André, «stai vicino a me.»

Obbediente, John rimase accanto al pannello e mise in fase gli interruttori, mentre lei controllava i numeri. André si sedette, attenta e piena di aspettativa, con la propria mano su quella di lui.

Il calcolatore cominciò a ronzare. I relay entrarono in azione, lo schermo si illuminò. Come in un film che viene messo a fuoco, le ombre divennero più piccole e più precise, ed acquistarono una forma ed una prospettiva.

«Sembra la Luna,» mormorò Fleming, «montagne morte, valli piene di polvere.»

«Non è la Luna,» sussurrò André, senza staccare gli occhi dallo schermo; «è il pianeta dal quale è giunto il messaggio.»

«Vuoi dire che ci stanno mostrando loro stessi?» Fleming fissò le ombre ed i riflessi bizzarri. «L’illuminazione è completamente diversa.»

«A causa della sua sorgente,» spiegò lei, «il loro sole è azzurro.»

Si concentrò sullo schermo, e l’immagine cominciò a muoversi. Lo scenario si spostava orizzontalmente, ad una velocità sempre crescente, fino a che il quadro divenne una macchia di luce incandescente. Poi la scena rallentò, e rimase di nuovo immobile. Era un’immobilità terribile, quella che si vedeva ora, la rigidità assoluta di un’età senza tempo.

Un’enorme pianura si stendeva sul fondo, dove si confondeva con il cielo oscuro. Più avanti, sul terreno, giacevano mostruose forme allungate, disposte a caso ed apparentemente mezzo sepolte sotto la superficie dall’aspetto morbido e polveroso del terreno.

Fleming sentì che il mento cominciava a tremargli. «Dio mio,» sussurrò, «che cosa sono?»

«Sono loro,» disse André, «quelli che lo hanno mandato. Quelli ai quali si suppone che io sia simile.»

«Ma sono senza vita!» si corresse, «sono immobili.»

André annuì, con gli occhi spalancati e fissi sullo schermo.

«Naturalmente,» disse, «dei cervelli veramente grandi non possono muoversi più di questo calcolatore. Non ne hanno bisogno.»

«La loro superficie sembra solida. Come riescono a vedere?»

«Gli occhi sarebbero inutili. La luce azzurra distruggerebbe qualsiasi tessuto o fibra nervosa del tipo che conoscete voi. Essi vedono con altri mezzi, esattamente come, del resto, hanno anche gli altri sensi diversi da quelli che la gente…» esitò un attimo «…la gente come noi ha sviluppato.»

L’immagine cominciò a rompersi. Delle sezioni se ne staccarono e sparirono dallo schermo. Molto presto, tutto fu cancellato. Rapidamente, ogni cosa scomparve.

«È tutto qui?» Fleming si sentiva come se fosse stato privato di qualcosa.

André volse il viso verso di lui; era lucido di sudore, gli occhi apparivano enormi, le pupille dilatate. «Sì,» sorrise, «è tutto qui. Quelli sono loro. Volevano che vedessimo il loro pianeta. Credevano che sarebbe stato sufficiente. Forse come avvertimento. Forse a mostrare quello che il tempo porterà, e in che modo sopravvivere. Come potremo fare la stessa cosa anche noi.»

Fleming dette un’altra occhiata allo schermo scuro. Per lui quelle forme pietrificate rimanevano chiare e precise nella loro immobilità dietro il vetro. «No,» disse.

«Ti sembra dunque tanto peggio della razza umana?» gli domandò lei, «che vive e si riproduce e lavora e lotta per puro istinto animale? È così che sono tutti gli esseri umani — animali che occupano l’intero loro tempo a lottare per l’esistenza ed a mantenere vivi i loro corpi. E quando la terra diventa troppo affollata c’è un olocausto ed i sopravvissuti ricominciano il ciclo, mentre il cervello non si sviluppa mai.»

«Ah no?»

«Non veramente. Non abbastanza rapidamente. Nel tempo che la terra impiegherà a diventare inadatta per la vita, la razza umana continuerà ad essere composta di piccoli animali in lotta e che muoiono.»

«Se non cambieranno?»

André annuì. «Il cervello dallo spazio potrà guidarci, e noi potremo guidare gli altri. Almeno fin quando riusciremo a mantenere l’autorità che ci dà.»

«E ad imporre quello che vuole farci essere al resto del mondo?»

«Noi possiamo solamente cominciare ad indicare una possibile via,» rispose André, «passeranno milioni di anni prima che la terra…»

«Non ne abbiamo il diritto,» disse Fleming.

«Di usare la conoscenza che abbiamo di quello che potrebbe accadere?»

Discussero a lungo, ma, alla fine, André disse: «E va bene, allora hai deciso davvero? Hai deciso che vuoi distruggere tutto questo?» Agitò espressivamente una mano verso la macchina.

«Sì,» disse Fleming fermo, «ho deciso.» André si alzò e andò verso uno degli archivi. Dal fondo di un cassetto trasse un piccolo rotolo di pellicola e glielo porse. «Che cosa è?» domandò lui, rifiutandosi di toccarlo. «È un rotolo di negativi da immettere. Stampa lo zero su tutta intera la sezione della memoria. Il calcolatore non ha la volontà per fermarlo, adesso. Metti dentro questo film, e, in pochi minuti, non vi sarà più che un ammasso di metallo e vetro.»

Fleming la seguì alla consolle di programmazione. Rimase a guardarla mentre faceva scivolare la pellicola nell’ingresso e faceva scattare la chiusura imbottita. I suoi occhi si levarono verso il bottone rosso sulla consolle dei controlli. Stava per muovere la mano verso di esso per premerlo, quando André, cortese ma ferma, fece schioccare le dita.

«Preferirei che non fossi tu a fare questo,» disse. «Vedi, io so che è uno sbaglio. E preferirei che non fosse tuo.»

Fleming lasciò ricadere il braccio e si allontanò dal pannello. André si chinò sulla consolle di funzionamento e cominciò a scrivere qualcosa sul blocco attaccato da un lato.

«Lasceremo un biglietto,» spiegò, «ma per chi?»

Fleming sogghignò soddisfatto. «Per Yusel.»

«Sì,» disse lei, «per Yusel. Lui metterà in moto il motore della stampatrice d’ingresso del tutto innocentemente, quando vedrà questo.» In grandi lettere a stampatello, scrisse il nome di Yusel. «Adesso portami via, per favore,» sussurrò, «se è quello che vuoi veramente.»

John non si mosse, mentre André gli si avvicinava. Poi, chinando appena la testa, la baciò sulla bocca.

Quando sentì le labbra piene e calde di lei contro le proprie, sentì improvvisamente quanto fosse completa l’umanità della ragazza. Tutta la paura e la tensione dei mesi passati lo abbandonarono, e, per la prima volta, si sentì solo con la donna che voleva.

Allontanò delicatamente la sua bocca da quella di lei, la respinse per tutta la lunghezza del braccio e le sorrise. Quando André gli sorrise di rimando, i pannelli grigi del calcolatore divennero ombre confuse e senza importanza. Fleming rise forte e prese una mano di lei tra le sue.

«Adesso andiamo via. Posso prendere la macchina di Kaufmann. C’è un posto che ti vorrei far vedere.»

André lo seguì senza fare domande. Fuori era scuro e faceva freddo. Il vento era soltanto la brezza notturna del deserto. Nessuna nuvola macchiava la serenità della pallida e pacifica luce di una luna quasi piena.

Nella macchina, André si rannicchiò contro di lui. Fleming guidò diritto per la strada che aveva per lui tanti ricordi. Quando si cominciò ad avvicinare alle montagne, lasciò la strada, non desiderando svegliare la gente del villaggio dove viveva Lemka. Fermò quindi la macchina all’ombra di un grande masso.

Mano nella mano, si arrampicarono per un sentiero da capre, dirigendosi verso la massa bianca delle rovine del tempio. L’aria divenne fredda; entrambi respiravano affannosamente per lo sforzo mentre il loro sangue affluiva al viso e alle mani.

In silenzio, Fleming si arrestò quando i suoi piedi toccarono la grande scalinata di pietra che conduceva al porticato cadente. Tenne saldamente la mano di André, obbligandola a fermarsi.

«Perché sei venuto qui?» sussurrò lei.

«Per respirare,» disse lui, gettando il capo all’indietro, ed inspirando profondamente.

Anche André guardò verso l’alto, la volta del cielo che diventava più scura verso la cresta delle colline, dove la luce della luna arrivava più debole. La Stella Polare luccicava lassù come un punto brillante. Non lontana da essa, un’altra stella tremolava.

«Beta di Cassiopea, è il suo nome,» disse Fleming, sapendo che le loro menti erano talmente all’unisono che sicuramente non c’era bisogno di domandarle se stesse guardando dalla stessa parte. «Un altro suo nome più grazioso è: La Signora della Sedia. Riesci a vederne la forma?»

André rise. «No, non ci riesco.» Continuò a guardare verso l’alto. «Ma adesso so perché mi hai portata qui. Quella luce tra la Stella Polare e la tua Signora della Sedia.»

«Sì,» disse lui, mettendole un braccio protettore intorno alle spalle.

«Andromeda,» sussurrò la ragazza, «la mia madrina.»

«Il posto dove stanno loro, le creature senza movimento, senza occhi; con il solo cervello.» Volse di proposito il capo. «Non ha senso. Pensa alla macchina che ci hanno fatto costruire a Thorness. Ricordi quello che ti ha fatto? Alle tue mani?»

André annuì. «Lo ricordo. Ma se si fosse trattato di qualcosa di molto ragionevole, molto saggio, ti saresti opposto lo stesso?» Lo vide scuotere la testa. «Quindi saresti veramente caduto sotto il suo fascino. Tu e chiunque altro. Proprio come mademoiselle Gamboul.»

«Suppongo di sì.»

«E allora, di cosa hai paura? Rendendola macchina brutale e crudele loro ti hanno obbligato a prenderne il controllo tu stesso. È per questo che abbiamo cambiato i circuiti logici nel modello dell’Azaran. E anche quello era preordinato. Tutto era prevedibile.»

«Anche il microbo dell’azoto?»

«Naturalmente. È successo perché si potesse essere assolutamente sicuri che il controllo sarebbe passato ad altri. Che le decisioni non sarebbero state solo quelle della macchina.»

Fleming era quasi convinto. «Ma perché correre il rischio tanto da vicino? Quasi ci ha tolto di mezzo tutti.»

«Quello è stato un errore di calcolo.»

«Non lasciarti prendere in giro,» sogghignò lui, «quella cosa non ha mai fatto errori.»

«Ne hanno fatto soltanto uno; non avevano fatto i conti con qualcuno come te. Non avevano mai pensato che il primo calcolatore sarebbe stato distrutto, ma solo che ne avrebbero cambiato i circuiti logici. Se tu non avessi fatto quello che hai fatto quella notte, in Scozia, i batteri marini sarebbero stati eliminati molto prima.»

«Ma non ne hai nessuna prova,» protestò lui debolmente.

«Però lo so bene,» disse piano André. «So che hai distrutto l’unico mezzo che c’era per salvare tutto. Almeno questo era quello che sarebbe accaduto, se il tuo amico Bridger non avesse venduto il progetto alla Intel.»

John rise, entusiasta. «Il vecchio caro Dennis!» esclamò, «lo dovrebbero mettere in una tomba nell’abbazia di Westminster.» Si volse verso di lei e le mise le mani sulle spalle. «E tu, qual era il tuo scopo? Di impiantarlo qui in una posizione di potere assoluto?»

«No, il mio scopo era quello di trovare qualcuno che capisse come bisognava usarlo.» Giocherellò con i bottoni della giacca di lui. «Tu non ti saresti fidato di me. Eppure… tu aspettavi la vittoria di un nuovo sapere.»

Improvvisamente, si allontanò da lui.

«Questo è tutto, John. E dipende da te, ora.»

«E tu?» chiese lui, rimanendo fermo.

«Anch’io dipendo da te.»

«Ma che cosa sei, tu?»

André si avvicinò di nuovo. «Carne e sangue,» disse felice, «la mistura della Dawnay.»

Fleming mise le mani intorno al volto di lei e lo volse, in modo che i raggi della luna lo illuminassero in pieno. «È la cosa più simile al miracolo che io abbia mai visto.»

Tornarono indietro, scendendo per il sentiero di montagna con la mano nella mano. «Ricordo la notte che arrivò il messaggio,» disse Fleming pensieroso; «io avevo cominciato a borbottare qualcosa su un Nuovo Rinascimento. Ero un poco ubriaco. Il vecchio Bridger non era entusiasta della cosa come me. Disse: quando tutti i muri sono caduti, bisogna trovare qualche altra cosa per appoggiarsi.»

Il suo braccio scivolò intorno alla vita di lei, e la attirò vicino. «Sarà meglio che io mi abitui ad appoggiarmi a te, no?»

André sorrise, ma non sembrava del tutto soddisfatta.

«E il messaggio?» chiese.

Avevano raggiunto la pianura e Fleming affrettò il passo, prendendola di nuovo per mano e spingendola avanti a sé, mentre camminava a grandi passi verso la macchina.

«Dove stiamo andando adesso?» domandò André.

Fleming si volse a guardarla e scoppiò di nuovo in una risata rumorosa.

«A salvarlo!» gridò, così forte che le colline rimandarono l’eco. «Abbiamo appena il tempo di arrivare prima che Yusel cominci a lavorare. Il Nuovo Rinascimento comincia giusto fra un’ora, se arriviamo in tempo.»

Spinse la ragazza nell’automobile. Dopo averle girato intorno per raggiungere il sedile di guida, si fermò un attimo a guardare il cielo, che già impallidiva, in una falsa alba. Le stelle cominciavano a scomparire. Tra la Stella Polare e la Signora della Sedia, riuscì a scorgere ancora, pallidissima, la luce tremolante della galassia di Andromeda, al di là dell’immensità dello spazio.


FINE

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