10 Vortice

Il quadrimotore scese sul campo, fece una curva, e quindi si fermò. Trolley elettrici avanzarono per scaricare il cargo. I membri dell’equipaggio, stanchi per il volo da Londra, durante il quale non avevano mai fatto scalo, né raggiunto i duemila metri d’altezza, continuamente sbattuti dal vento senza sosta, scesero la scaletta e si avviarono verso gli uffici. Un arabo in uniforme ed un europeo con l’elmetto li salutarono con indifferenza, mentre il capitano porgeva le carte di bordo, L’europeo le scorse e le passò all’arabo, quindi stese la grossa mano per prendere i documenti personali dell’equipaggio. Lasciò subito passare il capitano, ma, dopo aver guardato i due uomini che stavano davanti a lui, riabbassò il capo sulle carte.

«Chi è questo?» chiese in tedesco. I due membri dell’equipaggio lo fissarono con l’aria di non capire. Quello ripeté la domanda in cattivo arabo.

Yusel, il cugino di Lemka e il più giovane dei due, sorrise accattivante. «Il mio secondo ufficiale di rotta. Lui non capire arabo o altra lingua usata prima.»

L’uomo della Intel si accigliò. «Non mi è stato notificato nessun cambiamento nell’ordine dell’equipaggio. Perché ha portato con sé un secondo ufficiale di rotta?»

Yusel spiegò. «Per abituarsi con rotta. Dobbiamo volare tanto basso. Su non c’è pressione di aria.»

Non del tutto soddisfatto, l’uomo della Intel rilesse i documenti. Non trovandovi appigli, li gettò attraverso il tavolo. Yusel li raccolse, e guidò il suo compagno attraverso le stanze dell’equipaggio, dove entrambi si tolsero le uniformi. Il suo compagno era Neilson.

«Il peggio è passato,» gli disse Yusel, «ora la porterò alla casa di mia cugina. Là sarà al sicuro. Suo marito, il dottor Abu Zeki, si metterà in contatto con lei appena potrà.»

Neilson annuì. «Più presto è, meglio è.»

Yusel lo portò alla casa di Abu, quindi ritornò a Baleb. Era già tardo pomeriggio, quando entrò nel ristorante, ma dovette aspettare un’ora perché suo cugino arrivasse. Quando giunse, Abu Zeki aveva l’aria furtiva di un uomo che sa di essere sorvegliato. Sottovoce, davanti a due bottiglie di coca-cola fatta nel paese, Yusel lo informò dell’arrivo di Neilson.

«Vuole vedere il professor Fleming e la professoressa Dawnay,» terminò.

Abu Zeki si guardò intorno ansiosamente, scrutando il piccolo caffè vuoto. «Non so se potranno venir via tutti e due,» disse, «ma gliene parlerò.»

Appena ebbe saputo che Neilson padre era in salvo e nell’Azaran, Fleming decise di rinunciare ad essere prudente e di andare a vederlo. Disse alla Dawnay di tenersi pronta a partire appena fosse scuro, se voleva correre il rischio di venire anche lei.

Il tempo fu d’aiuto. Una violenta tempesta scoppiò proprio al tramonto con lunghi lampi e brevi raffiche di pioggia, che colpivano le case e la sabbia turbinante. Le sentinelle si rifugiarono tremanti e spaventate in tutti i ripari che poterono trovare. Fleming e la Dawnay si avventurarono sotto un diluvio di pioggia, senza che nessuno li fermasse.

Il viaggio fu spaventoso. La piccola automobile slittava sullo spesso strato di fango, fatto di sabbia del deserto. Ma la pioggia era caduta solo in una zona e, dopo quaranta minuti, correvano su terreno asciutto, mentre la tempesta li accompagnava con l’eco dei tuoni ed il riverbero continuo dei lampi.

Fleming provò un senso di sollievo irragionevole, quando Lemka aprì la porta, vedendo Neilson in piedi dietro di lei. Il saluto silenzioso dell’americano, il modo nel quale gli afferrò la mano, erano assurdamente tranquillizzanti.

Per la Dawnay, Neilson era qualcuno che significava un raggio di quella speranza della quale rifiutava di ammettere l’esistenza, e tuttavia non era sicura di capire perché fosse venuto. Sedettero entrambi in silenzio, trattenendo la propria eccitazione, mentre il grande uomo tranquillo mangiava nel suo modo metodico un grappolo d’uva, raccontando quello che era successo a Londra. Per la prima volta, sentirono che Osborne era sopravvissuto alle rivoltellate nella loro prigione di campagna, e che Neilson stesso era stato chiamato perché «cercasse di sondare questa storia del clima,» come disse lui — e come anche gli altri avessero sommato due più due, trovando che la fonte di tutto era stata Thorness. A quel punto si erano fermati senza poter andare avanti, fino a che non ebbero ricevuto il messaggio della Dawnay.

«C’è davvero qualche speranza?» chiese Neilson.

«Tanta quanto un granello di sabbia nel deserto.»

Madeleine spostò il piccolo vassoio sul quale Lemka aveva messo la cena di Neilson, e sparse sul tavolo il fascio di carte che si era portata dietro, nascondendolo sotto la cintura del vestito.

Cercò con impazienza di lisciarne le spiegazzature. «Questa è la maggior parte delle cifre per le eliche di DNA,» cominciò. «Il calcolatore ha messo insieme un’analisi che credo lei sarà d’accordo con me nel riconoscere fattibile. Per quello che posso giudicare io, si tratta, potenzialmente, di un batterio. Ma la struttura molecolare è una cosa. Ottenere i componenti e riuscire a sintetizzarli è un’altra; questo, però, potrebbe forse creare l’antibatterio di cui abbiamo bisogno.»

Neilson studiò i numeri. «E questo è il lavoro della macchina costruita da Jan?»

Madeleine annuì.

«Non posso fare a meno di domandarmi…» Un tremito smorzò la sua voce.

Fleming sedeva accanto alla culla, rigirando con aria assente un giocattolo sospeso dall’alto per il divertimento del bambino. «Che cosa sarebbe successo se suo figlio fosse rimasto,» terminò.

Neilson si volse verso di lui. «Gli hanno sparato a sangue freddo,» disse, «davanti ai nostri occhi. Se trovassi quell’uomo…»

«Non posso dirle chi ha premuto il grilletto,» disse Fleming, «ma so chi gli ha detto di farlo. Un uomo che si chiama Kaufmann, e che ’bada a noi’ qui dentro.»

«Mi piacerebbe conoscerlo,» disse Neilson.

«Forse sarà possibile.»

La Dawnay cominciò a raccogliere le carte. «Almeno la morte di suo figlio è stata rapida,» disse con compassione, «il che è meglio di quello che accadrà a noi. Se questo non funziona.» Ricacciò le carte sotto la cintura della gonna. «Dovrebbe venirne fuori molto di più, se soltanto la ragazza riuscisse ad occuparsene.»

«Come sta?» chiese Neilson.

La Dawnay abbassò gli occhi sul bambino; era sveglio e sorrideva alla vista di tante facce intorno a lui. «Ha un tipo di vita artificiale,» mormorò, «non come…» si volse di scattò, allontanandosi dalla culla. «C’è qualche elemento costitutivo che manca, nel suo sangue. Qualcosa che io non sapevo, e di cui il calcolatore non ha tenuto conto.»

«Non può ottenere un aiuto per sé, dalla macchina?» chiese Neilson.

«Non c’è tempo,» rispose Fleming, «avrebbe potuto farlo, suppongo, ma c’era questo lavoro per l’antibatterio. Ha scelto di prodigarsi per questo…»

Neilson fissò Fleming pensosamente. «È una decisione difficile,» disse.

Fleming fece una pausa per accendere una sigaretta. Aspirò profondamente. «Sì,» disse alla fine, «una decisione difficile, come dice lei.»

Si alzò, allontanandosi dagli altri. Si avvicinò alla finestra, e guardò fuori, nella notte. In fretta, per allentare la tensione, la Dawnay cominciò a domandare a Neilson se volesse delle copie dei dati del calcolatore. Neilson scosse il capo. L’unica cosa utile, spiegò, sarebbe stata una provetta dell’antibatterio. «Se la ragazza riuscirà a completare l’analisi,» disse, ma Fleming lo interruppe.

«Silenzio!» esclamò; lo guardarono. «Sta venendo Lemka.»

Lemka, che era rimasta di vedetta sulla strada, stava infatti arrivando di corsa, attraverso il cortile della casa. Sentirono il rumore dei suoi sandali sul rozzo impiantito.

«Siamo sorvegliati ininterrottamente,» disse la Dawnay, «ma stanotte pensavamo di essere sfuggiti.»

Lemka si precipitò nella stanza, con gli occhi spalancati per l’eccitazione. «Stanno venendo,» esclamò, «soldati. Un camion intero!»

Tutti rimasero immobili per qualche secondo. Poi la Dawnay afferrò le carte che aveva infilato nella cintura e le mise in mano a Lemka. «Nasconda queste,» disse, «suo marito potrà riprenderle più tardi e restituircele.»

Lemka le prese, volgendosi poi verso Neilson: «La stanza di mia madre,» disse con voce ferma, «non entreranno là.»

«Spero che lei abbia ragione,» disse lui, e la seguì sorridendo.

Fu bussato alla porta, non molto violentemente né con troppo rumore. Lemka uscì dalla stanza della madre ed aprì la porta. Un caporale la salutò e le parlò in arabo; dietro di lui c’erano due soldati, con i fucili ancora appesi alla spalla.

«Dice di essere venuto a prendere lei ed il professor Fleming,» tradusse Lemka, indirizzandosi alla Dawnay.

«Dica loro che veniamo subito,» rispose la Dawnay, con quello che sperò essere un sorriso gioviale, ma anche naturale. «Andrà tutto bene; così, non si preoccupi. Ma dovrà trovare un posto più sicuro per il professor Neilson. Ci terremo in contatto in qualche modo.»

Lemka stese la mano, afferrando affettuosamente quella di Madeleine. «Mio cugino troverà qualche cosa. Ora sarà meglio che non parliamo più, altrimenti i soldati si insospettiranno.»

Uno dei soldati insistette per andare nella piccola macchina di Zeki, ed il caporale fece segno a Fleming di rimanere dietro il camion. Il tempo era un poco migliorato, il vento soffiava forte ma regolare.

Al campo, l’edificio del calcolatore brillava di luci. Due soldati si staccarono dagli altri ed accompagnarono Fleming e la Dawnay nell’interno. Kaufmann era seduto alla scrivania di uno degli uffici, con il volto ridotto ad una maschera di rabbia compressa. Abu gli stava al fianco con aria impacciata.

«Allora, che cos’è questa storia?» ringhiò il tedesco appena furono entrati. «Perché eravate fuori senza il permesso?»

«Il permesso di chi?» domandò la Dawnay, «e perché un permesso per visitare degli amici — la famiglia di un collega?»

Kaufmann cercò di sostenere il suo sguardo ma non ci riuscì. «Sapete che non è ritenuto opportuno farvi uscire senza una scorta,» scoppiò.

Fleming fece un passo avanti, a pugni chiusi. «Adesso mi stia a sentire, gauleiter teutonico…» cominciò, ma Abu Zeki gli si mise di fronte. «Hanno mandato a prendervi perché era urgente. La ragazza ha avuto un collasso mentre stava lavorando agli schermi.»

«André?» Fleming era già sulla porta. «Vado da lei,» gridò verso gli altri.

«È grave?» domandò la Dawnay ad Abu.

«È molto debole,» rispose lui, «ma l’uscita ha emesso un’altra serie di dati, prima che si sentisse male.» Prese dal tavolo un mucchio di fogli e li diede alla Dawnay.

Kaufmann si schiarì la gola. «Sarete sorvegliati di più, in futuro,» li avvertì, ma sembrava incerto e preoccupato. «Quanto è importante per noi quella ragazza?»

«Praticamente quanto la vostra sopravvivenza. Non vivrete a lungo se lei non riuscirà a terminare questo.» Madeleine sopportava a fatica di parlare con il tedesco, ma, quando vide la paura nei suoi occhi, si rese conto per la prima volta che non era invulnerabile e che su di lui si sarebbe potuta fare qualche pressione. «Così, per l’amor del cielo — e per lei stesso, cerchi di non interferire con noi più di quanto deve.»

Il tedesco la guardò pieno di dubbio; quindi se ne andò senza parlare.


L’angolo dell’infermeria dove stava André era buio. L’infermiera, seduta accanto al letto vicino ad una luce schermata, si alzò in piedi quando Fleming entrò senza rumore. Cominciò a protestare per l’intrusione.

«È tutto a posto,» disse lui, «non la sveglierò, voglio soltanto vederla.»

La ragazza sospirò annoiata, e lo accompagnò verso il letto. Appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, Fleming riuscì a scorgere la forma del corpo emaciato di André sotto il leggero copriletto. I capelli e la testa erano una macchia imprecisa sul bianco del guanciale. Si chinò e vide che gli occhi di lei erano aperti e lo stavano guardando.

«Avrei dovuto essere qui con te,» sussurrò, carezzandole delicatamente i capelli. Le sue dita le toccarono la fronte; era fredda ed umida.

Debolissima, la sua voce lo raggiunse, lenta ed esitante. «Ho fatto quello che volevate. Adesso la professoressa Dawnay ha tutto quello che le serve.»

Il cervello di lui seguiva appena le parole della ragazza. «Avrei dovuto essere qui con te,» disse di nuovo.

Trovò la sua mano; giaceva senza vita ed innaturalmente piegata sulla coperta. Le dita di Fleming cercarono il battito del polso. Non riuscì a scoprirlo.

«Sono finita,» sussurrò André, indovinando il gesto di lui.

Fleming ritrasse la mano. «No, non lo sei,» disse ad alta voce. «Abbiamo ancora un sistema o due da usare. C’è qui Neilson. Il padre dell’uomo che ha costruito il calcolatore. Mi ha fatto capire le cose che si sarebbero dovute fare subito. Che noi avremmo dovuto fare. Bisogna che la macchina aiuti anche te, come ha fatto per noi.»

Si rialzò. «Affidati a me,» le ordinò, «lo hai fatto prima d’ora. Questa notte dormirai. Domani verrò per te; ti porterò al calcolatore. Sì, lo so,» esclamò interrompendo il suo tentativo di protestare. «Sei debole; hai avuto un collasso questa sera. Ma io starò con te e ti aiuterò.»

Non credeva veramente di poter fare qualcosa, ma sperava che André riguadagnasse un poco di forza con il suo ottimismo. La ragazza si mosse, come per rilassarsi e mettersi più comoda. Le sue palpebre si abbassarono e poi si chiusero; il suo volto assunse la calma del sonno naturale.

Fleming andò alla porta, facendo cenno all’infermiera di seguirlo. Quando furono fuori, le parlò con calma, raccomandandole di non spaventarsi e non tradirli. «Siamo tutti in pericolo,» spiegò, «e la sua paziente sta cercando di salvarci. Ma tocca a noi salvare lei. Abbia fiducia in me, ed io lo farò.»

A malincuore, la ragazza fece cenno di aver capito. Fleming desiderò di poter convincere se stesso con altrettanta facilità.

Dormì poco, quella notte, ma rimase sdraiato cercando di preparare un nuovo piano d’azione per il poco tempo che era rimasto. Quando si fece giorno, si alzò ed eseguì con deliberata lentezza tutte le operazioni mattiniere, doccia, rasatura e colazione, per dare ad André la possibilità di sfruttare ogni prezioso secondo di riposo dopo il collasso della notte precedente. Tuttavia, arrivò in anticipo. Le sentinelle assonnate, rassegnate ad aspettare un altro paio di ore prima che fosse dato loro il cambio, lo guardarono stancamente quando, accompagnato dall’infermiera, spinse la sedia a rotelle di André verso l’edificio del calcolatore.

Dopo il vento forte ed ancora tempestoso che c’era fuori, l’aria, all’interno, sembrava pesante e priva di vita. Malgrado il condizionamento, l’aroma dei sigari di Kaufmann aleggiava ancora. Fleming temette quasi che apparisse all’improvviso, per sapere cosa stesse succedendo. Ma gli uffici erano vuoti. Probabilmente, il tedesco aveva gironzolato lì intorno riflettendo. Fleming sperava che quel poco di coscienza che gli restava si fosse messa al lavoro.

André non aveva detto nulla, quando era andato a prenderla. Se non fosse stato per un sorriso, in risposta al suo saluto, avrebbe potuto sembrare in trance. Dopo aver mandato via l’infermiera ed aver fatto sedere André di fronte allo schermo, Fleming si rassegnò all’idea di cercare soltanto di istillare la propria convinzione nella mente della ragazza, senza pretendere da lei nessuna reazione.

Così fu. Le disse quello che la Dawnay riteneva non funzionasse nella sua costituzione, e come entrambi si sentissero colpevoli di tutto questo. Fece un quadro poco realistico e ottimista di ciò che la vita avrebbe potuto essere, se la ragazza avesse potuto aiutare Madeleine a salvarla. Verso la fine del discorso, simulò perfino qualcosa di simile all’ira, sfidandola a provare il suo potere.

André sedeva con la testa bassa e le mani abbandonate senza forza in grembo. Solo il raro battere delle palpebre provava che era sveglia e che ascoltava. Dopo un poco, Fleming smise di parlare, non sapendo più cosa dire. Vide che André tentava di tirarsi su. Una mano fu sollevata con terribile lentezza verso il pannello dei controlli. La macchina cominciò a borbottare piano. Un punto luminoso piccolo come una capocchia di spillo apparve sullo schermo; impallidì, quindi si espanse. Fleming si allontanò fino alla parete opposta, senza toglierle gli occhi di dosso. Quindi si fermò, pieno di tensione, immobile, continuando a fissarla. L’impossibile stava succedendo.

Dopo qualche tempo, si sentì tirare per la manica. Abu stava accanto a lui, con aria confusa e piena d’attesa. Fleming scosse la testa in direzione dell’ufficio, e vi si diressero silenziosamente.

«Che c’è?» cominciò Abu, «André è…»

«Credo,» disse Fleming, non sapendo, in realtà, cosa Abu avesse voluto dire. Distoglieva di controvoglia la sua attenzione dalla ragazza. «Che novità ci sono da voi?»

«Sono andato a casa dopo mezzanotte,» disse Abu, «sono dovuto passare per il posto di guardia. Ma ho avuto l’impressione che l’ufficiale pensasse che io potevo uscire senza scorta. Mio cugino Yusel era arrivato a casa proprio prima di me. Abbiamo messo il professor Neilson in un posto dov’è abbastanza al sicuro: una grotta in alto, sopra il tempio, proprio dove si trova lo strapiombo. Ci starà abbastanza comodo, dato che non deve muoversi troppo. È stato difficile per lui arrivarci. L’aria, lassù, sta diventando più rada, come Yusel dice che in Inghilterra è già anche al livello del mare.»

«Ha da mangiare e da bere?»

Abu annuì. «Lemka o sua madre andranno da lui regolarmente.»

Fleming fece un cenno soddisfatto con la testa. «È generoso da parte di tutti voi,» mormorò.

«Il giovane dottor Neilson è stato gentile con me,» disse Abu, «noi lo amavamo molto.»

Entrambi si interruppero improvvisamente. La stampatrice di uscita aveva cominciato a lavorare. I pensieri di Fleming corsero immediatamente ad André. «Chiami l’infermiera perché la porti subito a letto,» ordinò. Andò verso la ragazza e le mise un braccio intorno alle spalle. «Bene!» disse, «adesso riposa… e chiudi.»

Strappò la striscia di carta che usciva dalla fenditura e scorse rapidamente le cifre che la coprivano. I dettagli significavano poco, per lui, ma il significato generale era abbastanza chiaro. Riguardava gli elementi costitutivi del plasma. Ancora per dieci minuti stette a guardare le altre cifre che uscivano. Finalmente, il motore si fermò, e il calcolatore rimase in silenzio.


La Dawnay stava lavorando al banco del laboratorio, in mezzo al suo solito incredibile armamentario di apparecchi dall’aria arrangiata. Fleming le buttò davanti i fogli presi.

«E questi cosa sono?» domandò lei, continuando a fissare un fluido che gocciolava attraverso un filtro. «Altre formule per i batteri?»

«No,» disse Fleming, «formule per Andromeda.»

Madeleine smise di lavorare e lo guardò interrogativa. «Chi le ha programmate?»

«Lei stessa. Io l’ho più o meno forzata. Per quello che posso giudicare, è una progressione di cifre che stanno per gli elementi costitutivi chimici che mancano nel suo sangue. Mettila in termini chimici, e potremo darglieli.»

Madeleine prese il foglio e si lasciò cadere su una sedia. «Ci vorrebbero settimane di lavoro,» mormorò, scorrendo con gli occhi i dati, «ed io ho queste altre cose più importanti.» Agitò impotente la mano in direzione dell’ammasso di storte e provette che era sul banco.

«Che André ci ha permesso di fare,» le ricordò Fleming.

Madeleine sembrò esasperata dall’implicito rimprovero. «Cerchiamo di capirci, John,» cominciò in tono agitato. «Per prima cosa, sei stato contrario al fatto che io la creassi. Poi hai voluto che la uccidessi appena era stata fatta. Poi hai preteso che fosse tenuta lontana dal calcolatore. E adesso…»

«Voglio che viva.»

«E noialtri?» domandò lei. «Vuoi che noi viviamo? Quante cose credi che io possa sobbarcarmi? Le mie energie sono limitate. Sono sola e completamente sfinita. A volte ho l’impressione che il cervello mi vada in acqua.» Cercò di riprendersi e gli sorrise. «Credi forse che non cercherei di salvarla, se potessi? Ma tutti gli altri sono milioni, John, e la loro vita è in pericolo. Non so nemmeno se tutto ciò funzionerà. Comunque, a parte questo, anche se andrà bene, dovrò riuscire a farne in tempo una grande quantità.»

Si chinò in avanti e gli porse i fogli, ma Fleming tenne le mani in tasca, rifiutando di prenderli; Madeleine li lasciò cadere a terra.

John si chinò a raccoglierli e li mise ordinatamente su di un angolo vuoto del banco. «Dovresti parlare alla Gamboul,» disse tranquillamente, «non vuole vedermi e non si fida più di Abu. Ma forse ascolterà te. Se potessi persuaderla a concederci una maggiore libertà e più aiuti da fuori…»

La Dawnay sembrava assorta nei suoi pensieri. «Non so, veramente non so…» mormorò.

Senza il minimo segno di preavviso, vi fu uno scoppio terribile di tuono. Il fabbricato ne fu scosso e tutti gli apparecchi sul banco vibrarono tintinnando. Subito, appena il fracasso morì, si alzò l’urlo del vento.

«Persino la Gamboul dovrebbe capire che questa storia del tempo non è una cosa possibile da manovrare, e che non fa parte del suo dannato programma,» osservò Fleming, quando il rumore fu cessato.

«Va bene,» disse Madeleine, «cercherò di spiegarglielo.»


Fino alla mattina dopo, non fu certo se avrebbero ottenuto il colloquio. Quindi la Gamboul mandò alla Dawnay l’ordine di presentarsi alla sua residenza privata, che una volta era appartenuta al colonnello Salim. Da quello che si diceva, la Gamboul andava molto raramente, ormai, al palazzo presidenziale, evitando persino di fare rapporto sulle normali attività del paese. Il presidente era tenuto virtualmente prigioniero. Ma non sembrava che se ne preoccupasse troppo: era malato. La rarefazione dell’atmosfera — relativamente leggera — stava già colpendo le persone più anziane. Il presidente soffriva di una bronchite.

L’ex residenza di Salim appariva trascurata e rovinata. Aveva subito alcuni danni minori durante un temporale; nessuno si era dato la pena di spazzare via i detriti. Le alte palme che erano vissute nel cortile interno per più di cinquant’anni, erano state spezzate dal vento.

Una sentinella armata scortò la Dawnay all’ufficio della Gamboul. Vide immediatamente e con sorpresa quanto fosse cambiata la donna. Tutta la sensualità sembrava essere sparita dalla sua faccia, che era diventata più bella in un modo selvaggio ed affascinante; ora c’era qualcosa di fanatico nello sguardo dei suoi brillanti occhi neri, l’espressione di un essere posseduto e invasato in modo terrificante.

Si comportò in maniera inaspettatamente amichevole, chiedendo cosa potesse fare. «Ha tutto quello che le serve per il suo lavoro?» domandò.

«Per il suo, non per il mio,» la corresse Madeleine. Poi, senza preamboli, le fece un conciso ed esatto rapporto sulle cause dell’innaturale cambiamento del clima.

La Gamboul ascoltò tranquillamente, senza interrompere. Poi andò alla finestra e guardò fuori, al di sopra della città, verso la massa dei cumuli scuri sul deserto.

Rimase silenziosa per qualche attimo, dopo che la Dawnay ebbe finito.

«E come moriremo?» chiese, tornando verso la propria scrivania e sedendosi. La Dawnay glielo spiegò.

La Gamboul agitò espressivamente una mano. «Questo non era il senso del messaggio!» protestò. «Non era stabilito che accadesse. Ogni cosa era chiara e logica. Quello che ho visto era… desolazione — ma non così. E c’era anche il potere.»

«Che cosa le avevano detto che doveva fare?» chiese Madeleine prontamente.

La mente di Janine vagava lontana, rivivendo quella notte davanti allo schermo del calcolatore. «Governare,» mormorò, «tutti sanno che così deve essere, ma nessuno vuole fare uno sforzo reale. Qualcuno ci ha provato…»

«Chi? Hitler? Napoleone?» suggerì la Dawnay.

La Gamboul non sembrò offesa. «Sì,» disse, «ma non erano abbastanza intelligenti; o, piuttosto, non avevano l’aiuto dell’intelligenza di lassù. Sarà necessario sacrificare quasi tutto. Ma non in questo modo! Non ora! Non siamo pronti!»

«Quanto potere ha?» domandò la Dawnay.

«Abbastanza, qui. Ma questo era soltanto il principio.»

«Potrebbe ancora esserlo,» disse Madeleine. Si rendeva conto, adesso, che c’era un mezzo per fare leva sulla paura e sull’ambizione di quella donna.

La Gamboul si volse di scatto verso di lei. «Cosa intende dire?» chiese.

«È possibile,» disse la Dawnay, «che riusciamo a trovare un sistema per salvare l’atmosfera. Non è molto probabile, ma c’è qualche possibilità. Abbiamo avuto un aiuto dal calcolatore con una formula che sembra essere un antibatterio. Forse riusciremo a sintetizzarla. Ma ho bisogno di aiuto e di equipaggiamento. Se ci riusciremo, dovremo produrlo in grandi quantità, e pomparlo nel mare e su tutto il mondo.»

La Gamboul le dette un’occhiata sospettosa. «E come potrà produrne tanto?»

Accuratamente, la Dawnay le spiegò che una volta creato il siero, esso si sarebbe riprodotto naturalmente, probabilmente con un ritmo più veloce dei batteri che erano già nel mare. «Una volta iniziata la coltura in grande, potremo mandarne dei campioni in tutti gli altri paesi, dove i vari laboratori riuscirebbero di sicuro a produrne simultaneamente.»

La Gamboul dette in una risata. Non era un suono gradevole, perché non c’era un’ombra di gioia in essa, ma soltanto una sfrenata esultanza. «Lo faremo,» disse, «ma non permetteremo agli altri governi di cooperare. La Intel costruirà tutti gli impianti di cui lei ha bisogno. La Intel metterà in vendita il siero al suo giusto prezzo. E questo ci darà il potere che mi è stato promesso. Fa parte del messaggio, dopotutto. Io non avevo capito. Ora il mondo sarà nostro, nelle nostre mani.»

La Dawnay si alzò in piedi, fissandola. «Non sarà suo!» sentì di stare gridando, troppo profondamente colpita per accorgersi del rischio che correva. «Lei è una pazza! Questo non fa parte del piano.»

Ma la Gamboul non sembrò notarla; la fissò semplicemente con occhi scintillanti, e le parlò come se fosse stata un servo venuto a ricevere ordini.

«Faccia richiesta di tutto l’equipaggiamento del quale ha bisogno, professoressa. Le assicuro che non ci saranno restrizioni, su questo.»


Un proiettore portatile era stato installato nella Cabinet Room, al n. 10 di Downing Street. Il Primo ministro, pochi colleghi anziani — incluso il ministro della Scienza ed Osborne — sedevano da un lato della tavola, guardando lo schermo.

Il Primo ministro alzò una mano. «Basta così,» disse stancamente. «Accendete le luci, volete?» La scena di una palude desolata, su quelli che erano stati i campi più fertili dell’Olanda, svanì dallo schermo.

«Il punto è questo, signore: possiamo trasmetterlo sui canali della televisione?» chiese il segretario di stato.

«Perché no?» disse il Premier, «della gente che riesce a sopportare tutte queste cose, può anche vederle. Forse proveranno pure una specie di tragico conforto, nel notare che l’Europa sta ancora peggio di noi. Ad ogni modo, non lo vedranno in molti. Dubito che un decimo del paese abbia ancora l’elettricità.»

Schiacciò il tabacco nella pipa, poi la posò. Fumare era diventato quasi impossibile, con la difficoltà che c’era a respirare. «Nessuna notizia di Neilson?» domandò.

«Non ancora, signore,» rispose Osborne, «ma c’è un altro rapporto della professoressa Dawnay, arrivato con un volo della Intel. È un messaggio tecnico, che il direttore delle ricerche scientifiche sta studiando. Ma, riassunto alla meglio, dice che il batterio è una creatura biochimica, creata dal calcolatore di Thorness.»

«E la professoressa sta facendo qualcosa?»

«Scrive che vi sta lavorando sopra, signore. Noi speriamo che riesca a dare un indirizzo a Neilson, in modo che lui possa aiutarla.»

«Non potrebbe questo aviatore arabo — o quel che diavolo è — far rientrare Neilson, una volta che ci siano dei fatti precisi sui quali lavorare?»

Osborne tossì con deferenza. «Temo che i calcoli dovranno essere fatti laggiù, signore; il calcolatore lo hanno loro.»

Il Primo ministro gli lanciò un’occhiata penetrante. «Grazie per avermelo ricordato,» ribatté con insolita secchezza. «E che ne è dei guardiani del calcolatore, quel tipo — Fleming — e della ragazza?»

«Sono tutti e due laggiù, signore,» rispose il ministro della Scienza, «li tengono prigionieri.»

Il Primo ministro si alzò e passeggiò fino al fondo della lunga tavola. «Forse è ora che ci muoviamo anche noi,» disse tranquillamente. «Questa non è una questione come Suez; potremmo avere l’appoggio di altre basi…»

Il ministro della Scienza si mosse, a disagio. «I miei esperti hanno cercato già di valutare questa eventualità, signore. Il loro consiglio è di non farlo. Capirà, signore, che il calcolatore…»

«… ha costruito per loro lo stesso genere di mezzi di difesa che aveva fatto per noi,» finì per lui il Primo ministro. «E così sarà più opportuno appellarsi ai loro sentimenti migliori, non è vero?»

«Sì, signore,» mormorò il ministro della Scienza.

«Non è davvero una gran politica, non le pare?» disse il Premier, «ma dubito che noi — o l’opposizione stessa — riusciremo a trovarne una migliore. Cercherò quelli dello spionaggio perché preparino qualcosa per la B.B.C. Suppongo che ci sia rimasta ancora una qualche stazione che possa trasmetterlo?»

«Daventry funziona ancora, signore,» disse il ministro della Scienza, «c’è l’esercito con un gruppo autogeno. Possiamo benissimo raggiungere l’Azaran sulle onde corte.»


Il bollettino speciale fu trasmesso in inglese ed in arabo ad intervalli di un’ora, durante tutta la notte. Gran parte della prima trasmissione riuscì a giungere nell’Azaran. Dopo di che, per ordine personale della Gamboul, venne disturbata. La Gamboul aveva chiamato Kaufmann nel proprio ufficio, perché ne ascoltasse una registrazione su nastro. Il tedesco sedeva impassibile, mentre il nastro scorreva.

«Qui è Londra, che parla al governo ed alla popolazione dell’Azaran,» cominciò la voce lontana, coperta dai disturbi. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Il continente Europa è stato devastato. Il mondo intero è tormentato da una serie di cataclismi naturali, che hanno cominciato a colpire anche il vostro paese. L’aria che respiriamo viene risucchiata dal mare. Fra poche settimane, milioni di noi moriranno; a meno che, attraverso sforzi enormi, tutto ciò non possa essere fermato. Diecine di migliaia di persone stanno già morendo. Il nostro paese è stato duramente colpito. I tre quarti dell’Olanda sono inondati. Venezia è stata quasi tutta distrutta da un maremoto. Le città di Rouen, Amburgo e Düsseldorf non esistono più.»

«Düsseldorf.» Kaufmann ripeté la parola, mentre i muscoli della sua faccia si stiravano.

La Gamboul lo ignorò, continuando ad ascoltare il nastro. «In questo momento, violente tempeste stanno tormentando l’Atlantico e si dirigono verso l’Europa. Abbiamo bisogno del vostro aiuto, per fermare il corso degli eventi.»

La voce fu soffocata da un gran numero di rumori. La Gamboul fermò il nastro. «A questo punto abbiamo cominciato a disturbarlo,» spiegò.

«Ciò che voglio capire da lei, Kaufmann, è in che modo siano venuti a sapere che noi c’entriamo per qualcosa.»

Kaufmann la guardò senza espressione. «Düsseldorf,» ripeté, «era la mia città. Il mio vecchio padre…»

«Si suppone che dovremmo avere un buon servizio di sicurezza,» ribatté secca la Gamboul. «E ne è incaricato lei, Herr Kaufmann.»

Kaufmann sembrò destarsi da un sogno. «Abbiamo fatto del nostro meglio,» disse con aria ostinata.

La Gamboul si strinse nelle spalle. «Ormai non ha importanza. Appena la Dawnay avrà la nuova coltura di batteri, qui saremo in salvo. Dopo di che, li faremo avere anche agli altri — alle nostre condizioni.»

«E intanto,» disse il tedesco lentamente, «il resto del mondo dovrà aspettare e morire? A lei non importa? E crede che anche agli altri non importi?»

La Gamboul non si accorse dell’odio con cui l’uomo la fissava. «Il mondo dovrà aspettare,» ribatté, «io sola so quello che va fatto. Gli altri non lo sanno.»

Kaufmann la stava sempre guardando fissamente. Alla fine, Janine cominciò a sentirsi un poco a disagio, sotto quello sguardo.

«Ricordi, Herr Kaufmann,» disse, «lei ed io non siamo gli altri.»

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