6 Ciclone

Fleming osservava con diffidenza la trasformazione che era avvenuta in André. Lo stato di semiletargia e l’innocenza infantile erano scomparsi. Essa appariva attenta ed avida di attività; e, tuttavia, non sembrava eccitata. Fleming sapeva che il cambiamento era dovuto al calcolatore, ma questa André era diversa dal robot di Thorness: il cambiamento era indefinibile, eppure c’era.

Si sentiva, comunque, un poco confortato dalla franchezza e dalla fiducia che la ragazza dimostrava sempre per lui. Ci pensò tutta la notte, sdraiato sul letto stretto ma comodo, passeggiando per la piccola e linda stanza ad aria condizionata, che gli era stata assegnata. Al mattino aveva deciso; se voleva dimenticare la maledizione che sentiva nella macchina, doveva in qualche maniera cercare di farla funzionare a modo proprio. Questo era quanto aveva deciso di fare: la macchina era l’unico alleato possibile contro i suoi rapitori. Tuttavia, non avrebbe potuto imbrogliarla, se funzionava per mezzo di André; non poteva ingannare lei. Avrebbe dovuto arrangiarsi e cercare di avere come alleata anche la ragazza. Quella mattina le disse tutto ciò che pensava.

Quando ebbe finito, André rise gaiamente. «È molto facile,» disse con sicurezza, «dobbiamo dirle quello che deve fare.»

Fleming non condivideva questa sicurezza. «Non vedo, in pratica, quale sistema usare.»

André divenne pensierosa. «Credo che i fatti stiano così: la vera complessità sta nelle sezioni dei calcoli e della memoria. La memoria è enorme. Ma, quando un calcolo è stato fatto, deve presentarsi, per la valutazione, in una forma molto semplice.»

«Vuoi dire come il bilancio in forma abbreviata, che le società fanno alla fine dell’anno, riassume tutte le complesse attività di un intero anno di traffici?»

Essa annuì. «Credo che sia proprio così. E se il bilancio è truccato…»

«Ci sono! I circuiti logici agiscono come azionisti che leggano il rapporto sul bilancio. Sulla base di quello che vi trovano, decidono la futura politica dell’azienda.»

Fleming si accigliò. «Ma sono sicurissimo, purtroppo, che il nostro rapporto sul bilancio, prodotto dalla sezione della memoria del calcolatore, è già stato bellamente manomesso attraverso il programma formulato dal messaggio originale, quello di Andromeda. E così i circuiti di scelta eseguiranno i loro ordini, non i nostri.»

«A meno che noi non li cambiamo.»

Fleming si alzò e prese a passeggiare per la stanza. «I nostri cambiamenti non sarebbero che degli impoverimenti. Il glorioso risultato non sarebbe che una macchina calcolatrice. Né nemica, né alleata. Non avrebbe significato e nemmeno scopo.»

«Ma lo scopo potremmo darglielo noi,» disse André insistente, «uno scopo che possiamo comunicarle; o, almeno, che io possa comunicarle. Posso farlo, John.»

«Ne avevo il sospetto; ecco perché ho tentato di tenerti lontana dalla macchina.»

«Non puoi,» disse la ragazza tranquillamente, «è il motivo per il quale io… io sono qui.» Tese una mano e carezzò quella di lui.

«Se vuoi usare il calcolatore, ti dovrai fidare di me.»

Egli si volse e la fissò, cercando di guardarla in fondo agli occhi. «Credo che andrò a fare un giretto per il campo,» disse all’improvviso, «tu vai a riposare, non sei ancora a posto. E non pensare troppo a tutto questo.»

Fleming passò oltre la sentinella, e prese a passeggiare su e giù per lo spiazzo di terreno sabbioso ed arido che si stendeva intorno ai fabbricati. Poi si diresse verso la casa della Dawnay.

Madeleine era circondata da carte geografiche del paese, e prendeva appunti su alcuni fattori geologici. Sembrò lieta di lasciare il lavoro e di mettersi a chiacchierare.

Fleming le disse della fiducia di André, e come invece egli fosse convinto che la ragazza avrebbe avuto una grande delusione; questo calcolatore l’avrebbe dominata come l’altro.

Madeleine lo guardò pensierosa. «Non la penso così, John,» disse. «No, a meno che tu non la lasci sotto l’influenza della macchina. Se ti dimostrerai ostile e sospettoso, ti alienerai André. Tu hai costruito dei legami, tra te e lei… normali legami emozionali. E questo influenza molto.»

Egli guardò da un’altra parte. «Quello che voglio sapere, Madeleine, è cosa le sta accadendo…. fisicamente, intendo.»

«Quello che hai potuto vedere tu stesso. Una specie di deterioramento del controllo muscolare. La farò esaminare, se vuoi. Ma se si tratta, come sospetto, di una qualche deficienza motoria nel suo sistema nervoso, non possiamo farci niente.»

«Dio mio,» disse Fleming aspramente, «povera bambina.» Rimase silenzioso per un momento. «Potrebbe rientrare nel programma del quale André fa parte: toglierla di mezzo appena il lavoro sarà stato fatto.»

«C’è anche la possibilità che dipenda da un mio errore,» disse la Dawnay. «L’ho fatta io… evidentemente con una possibilità di deterioramento insita nella sua costituzione.» Cercò di controllarsi e sorrise. «Veramente non hai scelta, John. Dovrai fidarti di lei, come lei si è fidata di te, durante tutti questi ultimi tempi. Lascia che alteri il calcolatore nel modo che ritiene migliore e lasciala lavorare con esso.» Rapidamente, piegò la testa sulle sue carte, in modo che lui non potesse vedere le lacrime, così poco usuali per lei. «Da quello che ho potuto vedere del suo tono muscolare, non durerà a lungo. Lascia che i suoi ultimi giorni siano felici ed utili a qualcosa. Forse riuscirà persino a tirarti fuori di qui.»


Fleming andò a trovare André nella sua stanza linda, piccola, e con l’aria condizionata come la sua. Era seduta, e stava mangiando il suo pasto su di un vassoio. Fu molto spaventato, sia dal modo in cui la ragazza parlava del suo lavoro, quanto dalla difficoltà che evidentemente trovava nel portare il cibo alla bocca; ma si sentì sollevato dal fatto che il suo modo di parlare non fosse diventato ancora sconnesso. L’indebolimento non aveva colpito i muscoli vocali né, grazie al cielo, il cervello.

Quando ebbe finito di mangiare, egli le prese il braccio, e si incamminarono verso l’edificio del calcolatore. Malgrado che il sentiero fosse molto liscio, André inciampò due o tre volte.

Appena fu davanti al pannello del calcolatore, André sembrò riguadagnare tutte le sue forze. Automaticamente, assunse il controllo della macchina, che si risvegliò all’istante, mentre il ticchettio dei relay faceva da accompagnamento al solito basso mormorio ininterrotto. Presto gli oscillografi cominciarono a pulsare, e sullo schermo principale apparvero delle forme coerenti.

Fleming si era fermato in fondo alla stanza con Abu Zeki, e fissava André seduta davanti alla consolle dei controlli, con il capo alzato a guardare lo schermo che era sopra di lei. Finalmente, la ragazza, con aria soddisfatta, voltò verso di loro la sedia girevole sorridendo trionfante.

«È fatta,» disse, «il calcolatore è operativo.»

Abu si volse incredulo a Fleming. «È vero? Questa ragazza lo ha fatto, professore? In pochi minuti?»

Fleming lo spinse nel suo ufficio, e sedette di fronte a lui. «Le devo chiedere di accettare come fatti reali le cose che ora le dirò. La ragazza è in grado di comunicare con il calcolatore, raccogliendone le onde elettromagnetiche, interpretandole, e ritrasmettendo i suoi ordini nello stesso modo.» Fece una pausa. «Non mi crede, naturalmente?»

«Forse devo crederle, ma non la capisco,» confessò Abu. A Fleming piaceva il giovane scienziato arabo; emanavano da lui onestà ed un senso di interiore decoro. Era convinto che un simile uomo potesse essere un alleato. Gli disse, quindi, come André fosse un essere fabbricato dall’uomo, costruito allo scopo di creare un legame con il calcolatore, anche se questa non era stata l’intenzione dei suoi mentori umani.

Abu ascoltò con attenzione, ma poi protestò educatamente, insistendo sul fatto che il sistema di comunicazione tra la ragazza e la macchina rimaneva inesplicabile.

«Mi ascolti,» disse Fleming, «noi abbiamo occhi, orecchie e naso, perché sono gli strumenti migliori per raccogliere le informazioni nel nostro tipo di mondo. Ma questi non sono gli unici sensi che possediamo, nemmeno la gente comune come lei e me. Vi sono altri sensi che non abbiamo sviluppato, ed altri che abbiamo lasciato atrofizzare. La ragazza ha un senso che a noi manca, ed è quello che usa in questo caso. Per dare informazioni alla macchina e per riceverne.»

«E come intende usarlo?» chiese Abu.

Fleming si strinse nelle spalle. «Lo sa il cielo, Zeki, lo sa solo il cielo.»

Entrambi sussultarono, ad un leggero suono proveniente dalla porta. Non si erano accorti che André l’aveva aperta, ed era entrata silenziosamente.

«Come volete che lo usi?» domandò la ragazza.

Ma non attese la loro risposta. Con passi esitanti, che divenivano più veloci mentre si avvicinava alla macchina, tornò verso il pannello dei controlli.

Appena Zeki ebbe digerito le informazioni dategli da Fleming, divenne immediatamente ansioso di usarle. Pur essendo un ragazzo come tanti altri dell’Azaran, Abu era stato più fortunato per il fatto che suo padre lavorava agli impianti petroliferi. La compagnia, in quel periodo, aveva offerto molte facilitazioni per rendere possibile l’educazione dei figli degli operai. Abu ne aveva profittato. Un insegnante inglese dotato di immaginazione si era reso conto delle possibilità del ragazzo e lo aveva aiutato, occupandosi di lui nel tempo libero.

Quando Abu aveva sedici anni, era cominciato il nuovo regime e il presidente idealista aveva subito annunciato un programma di borse di studio. Abu Zeki si trovò ad essere tra i primi venti giovani selezionati; egli era, in realtà, l’unico vero successo del piano scolastico.

Naturalmente, Abu serbava riconoscenza di tutto ciò. Ed era anche molto patriottico. La possibilità di lavorare alla costruzione di un calcolatore che avrebbe superato tutti quelli esistenti nel mondo, lo aveva entusiasmato. La presenza di alcuni europei a dirigere le sue attività gli era sembrata assolutamente normale. Gli era stato detto che la Intel aveva la responsabilità dell’impresa. Cosa fosse la Intel, egli non lo sapeva e non gli importava di saperlo. La cosa più importante era che si trattava di un progetto azaranita per il miglioramento del paese. Abu era convinto non solo del fatto che la sua carriera si sarebbe presentata piena di fortuna e di promesse, ma anche che lavorare per assicurare quella stessa vita al suo piccolo figlio era una cosa ancora più bella.

Per queste ragioni era stato colto dalla disperazione, quando il calcolatore non aveva funzionato, sentendo anche di poter essere in qualche modo biasimato per la scomparsa di Neilson. Ma ormai tutto era passato. Collaborando con questo cinico e tuttavia amabile inglese — e con la sua amica — a produrre qualche straordinario e meraviglioso giocattolo scientifico, avrebbe ripagato la fiducia che il presidente aveva riposto in lui.

Da uno schedario nell’ufficio dell’archivio, Abu prese parecchi fogli coperti di calcoli. Gli erano stati dati dalla Dawnay perché li facesse elaborare dal calcolatore. Ma, fino ad allora, non c’era stato altro da fare se non archiviarli, fino a che la macchina non avesse cominciato ad operare. Disse a Fleming di cosa si trattava. «Li dia alla ragazza,» rispose stancamente quello, «e lasci che essa immetta i dati a modo suo.»

Abu consegnò i fogli coperti di cifre ad André, e tornò in ufficio, cercando di occuparsi di qualcosa. Si immerse in copie ciclostilate ed in diagrammi di circuiti. Ma il suo cervello non registrava nessun dettaglio. Si sforzava di lavorare, mentre, in realtà, riusciva solo ad ascoltare ansiosamente il rapido ticchettio della macchina.

Dopo venti minuti il motore della stampatrice di uscita cominciò a frusciare, e la luce del circuito brillò rossa. Dalla feritoia cominciò ad uscire la striscia forata, con il suo movimento lento verso la sinistra, e lo scatto improvviso a destra, mentre, linea dopo linea, le equazioni venivano stampate.

Abu guardava affascinato, continuando a leggere le cifre sulla carta in movimento. Il motore si spense infine con uno sbuffo, e la luce del circuito si spense. I calcoli erano stati completati. Strappò la striscia di carta, e corse da Fleming, nell’ufficio dell’archivio.

«I calcoli della professoressa Dawnay,» disse Abu, «questo è il risultato per aver solo dato i fogli alla signorina André. È proprio straordinario.»

Si diresse verso un altro schedario, chiuso a chiave. Prese una grossa cartella piena di carte, vi frugò dentro, ed uscì di nuovo per darle ad André. Mentre tornava indietro, la stampatrice di uscita aveva già ricominciato a lavorare.

Fleming, ancora appoggiato al tavolo e tutto preso dai suoi pensieri, lo guardò pigramente. «Ancora altra roba,» disse, «che cos’è?»

Abu non si voltò. «Temo di non essere autorizzato a dirglielo, professor Fleming.»

«Insomma!» Fleming fece una pausa, cercando di frenare la propria rabbia. «Perché pensa che io stia qui? Per essere sotto sorveglianza, o cosa?»

«Mi dispiace,» disse con sincerità Abu, «ma io ho degli ordini.»

Fleming lo guardò in faccia. «Che cosa le ha dato?» domandò di nuovo. Ma Abu lo fissò, di rimando, con cortese ostinazione.

«Si tratta di un lavoro che la signorina Gamboul desidera sia fatto. Non sono autorizzato a discuterlo.»

«E allora io lo fermerò.»

«Temo che non potrà farlo, professor Fleming.»

Fece un cenno alla più vicina sentinella, che li fissava con sonnolenta curiosità. Fleming girò sui tacchi e se ne andò a gran passi.

Subito fuori dell’ufficio, vide un’altra sentinella che si sporgeva da una finestra, riparandosi gli occhi dal sole. All’improvviso, fece un passo indietro e scattò sull’attenti.

Fleming guardò il campo, e vide Janine Gamboul che camminava al fianco di un anziano signore con la barba, parlando svelta e vivace. Abu, che lo aveva seguito, si fermò al suo fianco.

«Chi è quello che sta con l’affascinante Gamboul?» domandò Fleming.

«È il nostro presidente,» gli occhi di Abu scintillavano d’orgoglio; «deve essere stato a visitare il laboratorio della professoressa Dawnay. Il suo assistente mi ha detto che la professoressa sta lavorando a qualcosa di completamente nuovo: una membrana protettiva che impedisca all’acqua di evaporare dal suolo, lasciando però passare le molecole dell’ossigeno e dell’azoto, in modo che il terreno possa respirare. È un’idea meravigliosa; farà fiorire il deserto.»

«E non c’è dubbio che vi farà anche fare un salto avanti.» Fleming accennò con la testa alle strisce prese dal calcolatore, che Abu teneva ancora in mano.

«Mi domando se il presidente verrà anche qui,» disse Abu, pieno di speranza.

Ma il presidente non lo fece; dette solo un’occhiata verso il calcolatore; la Gamboul disse qualcosa. Egli annuì, e scomparve in direzione del quartier generale.


La siesta del pomeriggio aveva addormentato la città, quando la Gamboul andò in macchina alla residenza di Salim. Lo trovò che oziava sul balcone di pietra, guardando la piazza tranquilla e la distesa dei tetti sbiaditi, sotto pochi minareti che si stagliavano con le loro forme scure sulla foschia luminosa. Il colonnello era in uniforme, l’abito che preferiva.

Janine si tolse il cappello dall’ampia falda e si diresse verso il tavolino dove si trovavano le bottiglie e il secchiello del ghiaccio. Salim non si disturbò ad alzarsi. «Hai fatto il tuo lavoro?» chiese.

«Ho portato quel vecchio sciocco in giro per tutto lo stabilimento,» rispose lei, occupata a mescolare il liquido nel suo bicchiere; «questo lo terrà tranquillo per un po’. È rimasto molto impressionato da quella donna, la Dawnay. Naturalmente,» dette in una piccola risata dura, «non l’ho portato nel fabbricato del calcolatore, malgrado che avesse proprio chiesto cosa ci fosse lì dentro.»

Sorseggiò la bevanda, accigliandosi un poco nel vedere che Salim non faceva nemmeno lo sforzo di offrirle una sedia. «Vado dentro,» disse, «è più fresco e forse c’è un posto per sedersi.»

Egli si alzò pigramente in piedi e la seguì attraverso la tenda di perline colorate nella stanza spaziosa che usava come ufficio. Appesa ad una parete, vi era una carta dettagliata dell’Azaran. Bandierine di vari colori erano appuntate con spilli qua e là. La Gamboul le fissò con pigra curiosità, poi si stese su di un sofà. Stava cominciando a stancarsi di Salim.

Lui le venne vicino, guardandole il corpo nel sottile abito troppo stretto. «Chi è la ragazza che avete portato con Fleming?» domandò.

La Gamboul scosse le spalle. «Non lo so. Abu sostiene che è straordinariamente intelligente. Il rapporto di Kaufmann diceva soltanto che è in qualche modo collegata al calcolatore di Thorness. Usavano una quantità di donne, laggiù. La Dawnay, per esempio. Kaufmann pensa che la ragazza abbia avuto a che fare con la distruzione della macchina, e che Fleming stia cercando di proteggerla. Probabilmente sono amanti.»

Salim sembrò irritato. «Falla sorvegliare attentamente,» ordinò, «non vogliamo correre il rischio di un sabotaggio. E sarà bene che tu riesca a tirare fuori da Fleming chi è in realtà quella ragazza. Sono sicuro che puoi riuscirci.»

Ella gli sorrise, passandosi la mano sul fianco e sulla coscia. «Non credo di andare a genio al professor Fleming.» Poi, come se l’argomento la annoiasse, si alzò e andò verso la carta.

«Che cos’è questo nuovo giuoco con le bandierine?»

Salim infilò i pollici nel cinturone e si mise, massiccio e sicuro, di fronte alla mappa. «Le bandierine segnano le truppe sulle quali si può contare. Più o meno, un battaglione di fanteria qui, a Baleb, ed uno squadrone di carri armati. Alcune unità motorizzate alle frontiere, ed il grande quartier militare di Quattara. Ed anche la maggior parte delle unità dell’aviazione.»

«E per fare cosa?» domandò lei.

«Per sostenermi. Sostenerci.» Salim si corresse. «Il calcolatore deve essere al sicuro. Appartiene alla Intel, e la Intel ha avuto la concessione dal presidente. Ma io non sono ancora il presidente.»

La Gamboul lo studiò per un poco. «È questo che vuoi?» chiese.

Salim tornò verso il balcone, e guardò la città. I suoi occhi si sollevarono verso il bel palazzo antico che si levava su di una leggera altura, alla sua destra. «Il presidente è un uomo debole,» mormorò, «un uomo stanco. Ha combattuto per l’indipendenza, ed ora è convinto di poter riposare. Potrebbe venire influenzato da… qualsiasi chiacchierone di idee liberali.»

La Gamboul gli si era avvicinata, e con il corpo toccava quello di lui. «Come per esempio quella donna, la Dawnay?» suggerì.

«La Dawnay?» L’idea sembrò apparirgli nuova e non preoccupante. «Chiunque potrebbe persuaderlo ad interferire con il vostro lavoro e, allora, tu ed io ne perderemmo il controllo. Dobbiamo prepararci a questa eventualità. Perché credi che sia tornato qui?»

«Stai organizzando un coup d’état!» esclamò Janine, con sorpresa ed ammirazione nella voce; «ed io non lo sapevo.»

Salim si volse e le mise le mani sulle spalle. «Sei con me, non è vero, Janine?»

Ella si avvicinò ancora, fino a che il suo corpo premette fortemente contro quello di lui. «Credevo che lo sapessi,» sussurrò; «quando sarà?»

Salim guardò oltre la spalla di lei, verso i tetti. «Per gli arabi il tempo è solo un servitore. Quando sarà il momento giusto agirò. Forse fra due giorni, una settimana; non di più.»


A causa delle insistenti richieste di Fleming, Madeleine Dawnay chiese che un dottore venisse a visitare André. L’efficiente e perfetta organizzazione della Intel fece sapere loro che entro ventiquattro ore avrebbero avuto un neurologo al campo.

Arrivò il mattino seguente; era un arabo, che accennò con diffidenza alla Dawnay di aver preso la laurea in neurochirurgia alla Radcliffe Infirmary di Oxford e di aver continuato i suoi studi al Johns Hopkins.

L’esame che fece ad André fu lungo e completo ed impressionò Madeleine.

Quando la professoressa aprì la porta della linda e piccola infermeria, alla quale era stato bussato, trovò Fleming. «Non puoi vederla,» disse, uscendo con lui sulla veranda. «Il dottore è ancora occupato; sta facendole una puntura lombare per controllare il liquido spinale. Ma la sua prima diagnosi è molto simile alla nostra. Il sistema muscolare va sempre peggio. Forse qualche ghiandola non funziona, oppure il suo sistema nervoso è diverso dal nostro ed ha bisogno di un nutrimento di sangue che c’era quando è stata costituita, ma ora è esaurito.»

«Vuoi dire che non c’era nell’originale?» suggerì lui.

La Dawnay si strinse nelle spalle. «Non viene prodotto ora,» disse brevemente.

«Potremmo sintetizzarlo?»

«Non saprei da dove cominciare. Se fossi a casa potrei domandare aiuti e consigli…»

«E allora, che cosa succederà?» domandò Fleming duramente.

«André perderà l’uso della muscolatura in modo progressivo. Prima lo si noterà maggiormente per i muscoli degli arti, ma un giorno o l’altro si tratterà di quelli del torace, e poi il cuore.» Si volse a guardare la porta chiusa. «Questo è quanto il dottore le sta ora spiegando. Gli ho chiesto io di farlo.» La sua calma si spezzò d’un tratto. «Sono stata io, io che l’ho fatta! Per farla soffrire così!»

Fleming le afferrò il braccio. «Madeleine. Non l’hai fatto volontariamente. Non pensi a me? Chi è stato a cominciare tutto con il progetto del calcolatore? Chi le ha impedito di morire più o meno in pace in quella caverna?»

La Dawnay non rispose; continuava a fissare la porta chiusa. In quel momento ne uscì il medico. Li guardò un attimo, poi volse gli occhi altrove e si avviò verso l’uscita dei visitatori.

«Dovrebbe essere curata in modo più adeguato; portata via.»

La Dawnay dette in una risata senza allegria. «Mi pare di vederli, mentre le danno il permesso di andarsene di qui. È lei che ha risolto la mia formula per la coltivazione del deserto; essi sanno quanto può essere utile. Ci saranno molte altre cose che dovrà fare per loro.»

«C’è già un’altra cosa,» disse lui, rammentando quello che Abu Zeki gli aveva detto nell’ufficio,

«Che cosa?»

«Non lo so con esattezza,» rispose Fleming in tono pensieroso, «spero solo che ciò che credo sia sbagliato.»

Come per contraddirlo, sei bombardieri a reazione sfrecciarono improvvisamente nel cielo, alzandosi rapidissimi dall’aeroporto. Li fissarono fino a che non furono divenuti dei punti nell’azzurro della volta abbagliante. La Dawnay si asciugò gli occhi. «Sarà meglio che io parli con il dottore, John. Tu va’ a dire qualcosa ad André. Sii gentile con lei.»

Fleming bussò leggermente alla porta di André, aspettando una risposta e quasi temendo di entrare. Venne ad aprirgli una graziosa e minuta infermiera araba, che silenziosamente si fece da parte per permettergli di entrare.

André era seduta contro l’austera spalliera di metallo del letto, e indossava una vestaglia. I fiori a colori vivaci della stoffa accentuavano il suo estremo pallore. Stava appoggiata all’indietro, con il capo piegato da un lato, in modo che i lunghi capelli biondi le coprivano quasi una guancia. Fleming indovinò che aveva pianto.

L’infermiera portò una piccola sedia dura, e Fleming sedette.

«André; Andromeda,» mormorò. «Può esserci qualche soluzione.» Vide i capelli di lei muoversi leggermente, mentre scuoteva la testa. «Abbiamo fatto tante cose insieme,» insistette lui.

Mise delicatamente la punta delle dita sotto il mento di lei, e le voltò il viso. Ella reagì debolmente, allontanandolo e coprendosi il volto con le mani. «No!» supplicò, «credi che io voglia morire? Credi che sia bello sapere che sto facendo quello che voi volete? Distruggendo la mia esistenza proprio come voi avete distrutta quella del calcolatore?»

Queste parole lo ferirono crudelmente. «Non è quello che voglio io,» disse, cercando di controllare la propria voce. «Io sono terrorizzato per te. E addolorato di quello che ho fatto. Voglio solo portarti via di qui, e fare tutto quello che serve.»

«Via?» ripeté André con meraviglia. «Ma perché? Ho fatto quello che ha domandato la Dawnay; ora ha i suoi dati. E ho fatto anche quello che mi hai chiesto tu; ho cambiato i circuiti logici del calcolatore…»

La sua voce morì. Fleming provò una fitta di vera paura; sapeva che era stata sul punto di dire di più.

Le si avvicinò. «Cos’altro hai fatto, André? Cos’altro? Sii franca, almeno con me.»

I modi di lei cambiarono. Mosse il capo, scostando i capelli dal volto. Tentò di sorridere. «Ho capito qual è lo scopo del messaggio che ci è venuto da lassù.»

Fleming si sforzò di vincere la sensazione di terrore primordiale che gli faceva battere violentemente il sangue alle tempie.

«Hai capito cosa?» sussurrò.

«È difficile da spiegare,» disse lei con difficoltà, «non sono una buona traduttrice. Ma so che va tutto bene. Dobbiamo metterci nelle mani della gente che ci proteggerà.»

Fleming lasciò che queste parole lo penetrassero fino in fondo, lottando contro l’idea di aver perso ancora una battaglia. Nella sua eccessiva sicurezza, aveva creduto di aver persuaso André a fare quello che lui riteneva giusto ed a rendere il calcolatore suo schiavo. E invece la ragazza stava tranquillamente affermando di voler obbedire «la gente che può proteggerci.» Gente, la chiamava lei — questa intelligenza al di là dello spazio-tempo dell’universo — come se fossero i suoi fratelli.

Prima che egli potesse trovare delle parole, André si alzò a sedere con un sorriso fiducioso, a dispetto della difficoltà che le costava muoversi.

«Ora che ho visto il messaggio, capisco,» disse. «Voi siete spaventati perché sapete soltanto che il calcolatore può avere del potere su noi tutti; e non sapete perché lo ha.»

«Sei tu la ragione dei miei timori,» disse lui, «ora che il calcolatore è stato indottrinato, l’unico modo che il messaggio ha per farsi strada è attraverso di te. Ecco perché te ne voglio allontanare. Devi vivere in pace finché potrai!»

Ella scosse il capo. «Tu pensi che sia maledetto,» protestò, «non è vero. Ci sta procurando una soluzione, un potere. Se dovrete sopravvivere, avrete bisogno di questo potere. Tutto quello che sta accadendo nel paese è solo il sintomo di quello che sta succedendo nel mondo. Non è importante. Possiamo togliere tutto dalle loro mani e farne l’uso che vogliamo!»

Fleming si meravigliò della sua fede ed ebbe paura della sua sicurezza; sembrava che André stesse commiserando la sua immaginazione tanto limitata.

All’improvviso, ricadde sul letto. Il suo entusiasmo si era spento; ora restava solo una fragile ragazza molto spaventata. «Tutto questo mi esaurisce,» mormorò, «consuma ogni mia forza. Mi ucciderà ancora più presto di quello che credete.»

«E allora non te ne preoccupare!»

André passò stancamente il braccio sopra la testa, afferrando la spalliera. «Non posso,» disse, «ho qualcosa da fare prima di morire. Ma non posso farlo da sola.» Il suo labbro inferiore tremò, ed ella cominciò a piangere.

Fleming si inginocchiò accanto a lei e le pose protettivo un braccio intorno alla vita. «Se posso aiutarti… se ti fidi di me, me lo devi dire. Con parole… con parole semplici, qual è il senso del messaggio?»

Per qualche minuto, ella giacque con gli occhi chiusi; Fleming non interruppe il suo riposo. Poi André ebbe un leggero brivido e cercò di muoversi. Egli la aiutò a mettersi seduta.

«Mi devi portare al pannello dei controlli,» disse la ragazza, «non credo che saprei spiegarmi con delle parole. Ma posso farti vedere.»

Fleming la aiutò ad alzarsi e la sostenne, mentre compiva con passi incerti e tremanti la breve strada verso il fabbricato del calcolatore. Una volta dentro, sembrò, come sempre, ritrovare un’energia nascosta. Non ebbe bisogno di aiuto, per sedere di fronte agli schermi. Quasi immediatamente, la macchina entrò in funzione, mentre lo schermo principale si copriva delle solite forme ondeggianti, che la stampatrice di uscita mutava in cifre.

Fleming era dietro di lei, mentre guardava attenta la forma che non smetteva di cambiare. «È un’informazione ad alta velocità tra i gruppi di equazioni che contengono il vero messaggio,» disse André; «parla del pianeta dal quale giungono i dati.»

Fleming fissò lo schermo. Riusciva a identificare le forme ondeggianti che erano la versione elettronica delle cifre, ma l’apparire occasionale di macchie geometriche di luce, che talvolta intervenivano, era per lui privo di significato. Aveva sempre creduto che si trattasse del normale disturbo ricevuto dalle cellule sensibili al selenio delle correnti disperse nell’intelaiatura della macchina.

«Cosa significa tutta questa confusione per te?» domandò.

Gli occhi di André non lasciarono lo schermo, quando cominciò a spiegare. «Che è già passato attraverso tutto ciò. Che sa quello che dovrà succedere, quello che è già successo ad altri pianeti, dove l’intelligenza si era sviluppata solo fino al punto della vostra. Voi ripetete interminabilmente una forma, fino a che essa non si autodistrugge.»

«Oppure il mondo diventa troppo rovente e ci pensa lui?» suggerì Fleming.

André annuì. «La vita di una creatura biologica comincia in modo molto semplice.» Parlava lentamente, come se stesse riferendo, semplificata, una complicata massa di informazioni. «Ma dopo poche migliaia di secoli, tutto diviene così complesso, che l’animale umano non può più lottare alla pari. Avviene un disastro — a volte una guerra — e l’intero fabbricato cade in pezzi. Milioni di persone vengono uccise o muoiono. Sopravvivono pochissimi.»

«Che ricominciano,» terminò Fleming per lei.

Ella si volse sulla sedia girevole, per guardarlo dritto negli occhi. «Fra circa centotrenta anni, a partire da ora, ci sarà una guerra. La vostra civiltà verrà distrutta. Tutto è esattamente prevedibile. Perciò anche il periodo che passerà prima che vi riprendiate può essere calcolato. Si aggirerà sui mille anni. Poi il ciclo si ripeterà. A meno che non avvenga qualcosa di meglio.»

«Ed è avvenuto su qualche pianeta di Andromeda?»

«Sì,» rispose lei, «la specie ha cambiato, si è adattata in tempo. Ora è in grado di intervenire per la gente della Terra.»

Fleming dovette distogliere gli occhi da lei, distoglierli dallo schermo abbagliante, con le sue forme in movimento sempre più rapido. Si sentiva colpito ogni volta che lei parlava della «gente della Terra» come se fosse una creatura ad essa estranea.

Andò fino in fondo al passaggio che correva per tutta la lunghezza del calcolatore poi tornò indietro. Il caldo soffocante lo avvolse, malgrado il condizionamento dell’aria. Alla fine si decise.

«Va bene,» disse fermo, «cerchiamo di imparare qualcosa da lui. Cerchiamo di capire quello che possiamo, e di dirlo poi alla gente, in modo che possa decidere quello che è meglio fare.»

André ebbe un gesto d’impazienza. «Questo non è abbastanza,» disse, «dobbiamo avere il potere; è così che va usato il messaggio che ci deve aiutare. Non per distruggere la gente quaggiù, ma per aiutarla; e, alla fine, saranno loro stessi a darci il potere. È stato tutto calcolato.»

La diretta semplicità della sua fede lo esasperava; sapeva che era un sentimento troppo forte perché lui potesse distruggerlo. Ciononostante, decise di combatterlo.

«Tutti i dittatori della storia hanno sempre usato questo argomento… e cioè di forzare la gente a compiere delle azioni per il suo stesso bene. Ed ora mi toccherebbe accettare di aiutare una volontà che arriva da qualche parte di Andromeda, usando la Intel, o questa gente dell’Azaran, o qualsiasi piccolo, lurido emissario ubriaco di potere, che voi sceglierete. È ridicolo!»

«Questi sono soltanto i mezzi,» disse lei, «quello che è importante è il fine.»

Fleming batté il pugno sul piano del banco di controllo, facendola sobbalzare.

«No!» gridò, «l’ho combattuto a Thorness, ed ho combattuto anche te, all’inizio, — perché penso che il mondo debba essere libero di fare da solo i suoi errori, o di salvarsi.» La fissò con un misto di rimorso e di furia. «È per questo che mi sono fidato di te, lasciando che te ne occupassi.»

«Ho fatto solo quello che era logico.»

«Avrei dovuto lasciarti… lasciarti morire,» mormorò Fleming.

André si volse verso il banco. Lo schermo era divenuto scuro, ed il suo rivestimento di alluminio grigio e senza vita. «Morirò molto presto comunque,» disse.

Tutti i timori che aveva per lei tornarono di colpo. Non poté far altro che rimanerle vicino, mettendole una mano sulla spalla. Nessuno dei due si mosse. Poi, Fleming udì la stampatrice di uscita che ticchettava di nuovo rapidamente.

Corse verso di essa e lesse i numeri apparsi sulla striscia che usciva lentamente. Quelle equazioni gli erano terribilmente familiari, lo riportavano ad un pomeriggio del periodo di Thorness, più di due anni prima.

Ipnotizzato, continuava a leggere il torrente di cifre che non finiva di uscire. Si accorse appena che André gli si era avvicinata, rimanendo in piedi dietro di lui.

«Che cosa è questo?» domandò Fleming.

«I calcoli basilari per un missile antimissile,» disse la ragazza, con voce naturale. «Certo ricorderai il progetto di Thorness. A questo sono state apportate poche modifiche minori.»

Fleming si girò di scatto verso di lei. «Perché hai programmato la macchina per fare questo?»

«Abu Zeki voleva i calcoli,» disse lei, «hanno bisogno di mezzi di difesa. Fa tutto parte del piano.»

Fleming strappò la carta dalla feritoia e la appallottolò nella mano. «Per l’amor di Dio, fermalo,» la supplicò, «non ti ho salvato perché lavorassi per loro, obbedendo ad ogni lurido ordine che ti danno. Tu hai ancora la libertà di scegliere quello che farai.»

La risposta di André fu coperta dal fracasso di alcuni jet che ululavano passando veloci sul campo.

«Che cosa?» domandò Fleming, quando il rumore fu finito.

«Ho detto che è troppo tardi,» disse lei, «ho già scelto. È tutto già cominciato.»

Fleming si volse, e si avviò rapidamente per il corridoio verso la porta principale. Il luminoso calore lo colpì sul viso, mentre correva attraverso il terreno vuoto tra i fabbricati.

I cancelli del campo erano chiusi. Davanti ad essi stava un piccolo carro armato. Sulla strada principale, un convoglio di autocarri dell’esercito rombava, correndo veloce verso Baleb.

Lentamente, egli tornò verso la zona delle abitazioni, sperando di trovare la Dawnay. Aveva un terribile bisogno di qualche essere normale, in mezzo a tutta quella follia.

La Dawnay non era nella sua stanza, così andò nel laboratorio. Una ragazza araba, avvolta in un camice bianco, era curva su un microscopio.

«La professoressa Dawnay?» disse, in risposta ad una sua domanda. «Non è qui, è andata dal presidente mezz’ora fa. Adesso,» aggiunse con calma, «c’è la rivoluzione.»

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