CAPITOLO IX OMBRE NELLA NOTTE

Prima che la serata finisse, il compito di lavare i piatti in cambio della cena diventò una sistemazione fissa. Il salario era basso… Don calcolò che gli sarebbe occorsa all’incirca l’eternità, per risparmiare la somma necessaria per spedire il radiogramma ai suoi genitori… ma includeva tre pasti al giorno, della superlativa cucina di Charlie. E lo stesso Charlie, malgrado la sua rudezza, pareva una brava persona. Il cinese espresse una opinione complicata, ed estremamente sprezzante, di Johnny Ling, usando la stessa lingua franca colorita e infinitamente espressiva e piccante che aveva usato per commentare le imprese dei vieni-sopra. Inoltre, negò qualsiasi parentela con Ling, attribuendo a Ling molte altre parentele che erano chiaramente improbabili, se non del tutto contro natura.

Quando l’ultimo avventore fu uscito, e l’ultimo piatto fu asciugato, Charlie preparò un giaciglio per Don, sul pavimento del locale sul retro nel quale Don aveva cenato. Quando Don si spogliò, e s’infilò nel letto, ricordò che avrebbe dovuto telefonare all’ufficio della sicurezza dell’astroporto, per informare le autorità del suo indirizzo. Domani sarebbe stato lo stesso, pensò, assonnato; e comunque, il ristorante non aveva un telefono.

Si svegliò nel buio, avvertendo un senso di oppressione. Per un terribile momento, pensò che qualcuno lo tenesse fermo, e stesse cercando di derubarlo. Quando si svegliò del tutto, capì dove si trovava, e cosa provocava il senso di oppressione… dei vieni-sopra. Ce n’erano due a letto con lui; uno gli si era infilato sotto la schiena, e teneva il muso premuto tra le sue scapole; l’altro era accovacciato in grembo a Don, come in un cucchiaio. Entrambi stavano russando sommessamente. Qualcuno aveva senza dubbio lasciata aperta una porta per un momento, e i due vieni-sopra erano riusciti a intrufolarsi nel ristorante.

Don ridacchiò, tra sé. Era impossibile arrabbiarsi con quelle creaturine affettuose. Grattò la creatura davanti a lui tra le corna, e disse:

«Sentite, ragazzi, questo è il mio letto. Adesso scendete subito, prima che ricorra alle maniere forti.»

Entrambi belarono, e si strinsero ancor più a lui. Don si alzò, li prese entrambi per un orecchio, e li scacciò fuori della tenda.

«E adesso, restate fuori!»

Tornarono a infilarsi nel letto prima di lui.


Fu svegliato da un guaito di terrore vicinissimo al suo orecchio. I pochi istanti che seguirono furono terribilmente confusi. Don si rizzò di scatto a sedere, mormorò, «Fate silenzio!», e fece per accarezzare il suo compagno di letto, quando sentì il polso stretto da una mano… non le piccole zampe a quattro dita di un vieni-sopra, ma una mano umana.

Scalciò selvaggiamente, e urtò qualcosa. Ci fu un grugnito, si udirono dei guaiti ancor più terrorizzati, e il ticchettare di piccoli zoccoli su un pavimento nudo. Scalciò di nuovo, e per poco non si fece male; la mano lo lasciò andare.

Alzandosi in piedi, Don indietreggiò. Si udirono dei rumori di lotta, vicino a lui, e molti altri belati, assai più forti. I suoni si spensero quando lui stava ancora cercando di guardare nella fitta oscurità, per scoprire quel che era accaduto. Poi apparve una luce, accecante, ed egli vide Charlie in piedi sulla porta, con indosso una vestaglia a grandi pieghe e in mano un enorme coltello da cucina scintillante e affilatissimo.

«Che ti succede?» domandò Charlie.

Don fece del suo meglio per dare una spiegazione, ma vieni-sopra, sogni, e mani che lo afferravano nelle tenebre, erano troppo mescolati per assumere un senso.

«Tu hai mangiato troppo tardi, stanotte,» decise Charlie. Malgrado ciò, ispezionò il locale, seguito da Don.

Quando il cinese arrivò davanti a una finestra il cui paletto era stato spezzato, non disse niente, ma andò immediatamente a ispezionare il registratore di cassa e la cassaforte. Apparentemente, né l’uno né l’altra erano stati forzati. Charlie sostituì il paletto spezzato, inchiodò un’altra sbarra di legno alla finestra, spinse i vieni-sopra fuori, nella notte, e disse a Don:

«Torna a dormire.»

Poi il cinese ritornò nella sua stanza.

Don cercò di obbedire, ma impiegò molto tempo prima di riuscire a riprendere sonno. Il suo denaro e l’anello c’erano ancora. Infilò di nuovo l’anello al dito, e si addormentò con il pugno stretto.

Il mattino dopo, Don ebbe tutto il tempo per riflettere, nell’affrontare un’inesauribile pila di piatti sporchi. I suoi pensieri si concentravano intorno all’anello. Non lo portava al dito; non solo non desiderava immergerlo troppo spesso nell’acqua calda, ma adesso non desiderava più metterlo in mostra… per lo meno, quando ciò poteva essere evitato.

Era possibile che al ladro interessasse più l’anello del denaro? Pareva impossibile… un oggettino che valeva mezzo credito, e che poteva essere acquistato in qualsiasi bancarella di souvenir! O forse cinque crediti, si corresse, là su Venere, dove ogni cosa era estremamente costosa. Dieci, al massimo.

Ma cominciava ad avere dei dubbi, e a porsi delle domande; troppe persone avevano mostrato d’interessarsi a quell’anello. Cercò di passare in rassegna, mentalmente, gli eventi che avevano riguardato in qualche modo l’anello. Interpretando in quel senso la situazione, doveva rivedere diverse idee… a pensarci, il dottor Jefferson aveva rischiato la morte… era morto… solo per assicurarsi che l’anello giungesse su Marte. Lo aveva pensato all’inizio… ma si trattava di una congettura assurda, e proprio per questo lui aveva concluso in base a quella che era parsa una logica rigorosa che non l’anello, ma la carta nella quale l’anello era stato avvolto, avrebbe dovuto raggiungere i suoi genitori. Quella conclusione aveva ricevuto una conferma, quando l’I.B.I. l’aveva perquisito, e aveva confiscato la carta.

E se per un istante lui avesse preso in considerazione la folle possibilità che lo stesso anello fosse importante? Anche in questo caso, com’era possibile che qualcuno, su Venere, cercasse quell’anello? Lui era appena sbarcato; non aveva neppure saputo, al momento della partenza dalla Terra, che sarebbe stato Venere il pianeta di arrivo.

Certo, avrebbero potuto esistere diversi modi per fare precedere la notizia del suo arrivo al suo sbarco su Venere; ma Don non li prese neppure in considerazione. Inoltre, gli era immensamente difficile pensare che qualcuno avrebbe potuto prendersi tanti fastidi solo per lui.

Ma Don possedeva una qualità altamente sviluppata: l’ostinazione. Di fronte all’acquaio e all’inesauribile pila di piatti sporchi, egli giurò solennemente che lui e l’anello sarebbero giunti fino a Marte, insieme, e che una volta arrivati sul pianeta rosso, lui avrebbe consegnato l’anello a suo padre, come gli aveva chiesto il dottor Jefferson.

Il lavoro rallentò un poco a metà pomeriggio; Don riuscì a finire la pila dei piatti. Si asciugò le mani, e disse a Charlie.

«Voglio andare in centro, per un po’.»

«Che ti succede? Sei pigro?»

«Stanotte lavoriamo, no?»

«Certo che lavoriamo. Credi che questa sia una sala da tè?»

«D’accordo, io lavoro al mattino e alla sera… così mi prendo un po’ di tempo libero nel pomeriggio. Lei ha piatti puliti a sufficienza per durarle ore e ore.»

Charlie si strinse nelle spalle, e gli voltò le spalle. Don uscì dal ristorante.

Attraversando il fango e le folle che gremivano le strade, risalì Strada Buchanan fino al Palazzo dell’I.T. T. Nel salone esterno c’erano numerosi clienti, ma quasi tutti si servivano dei telefoni automatici, o stavano facendo la coda davanti alle cabine, in attesa del loro turno. Isobel Costello era dietro la scrivania, e non pareva troppo occupata, benché stesse chiacchierando con un soldato. Don andò all’estremità opposta del balcone, e aspettò che la ragazza fosse libera.

Dopo qualche tempo, lei riuscì a liberarsi del soldato intraprendente, e si avvicinò a Don.

«Be’, se questo non è il mio piccolo nei guai! Come se la cava, figliolo? È riuscito a cambiare il suo denaro?»

«No, la banca non l’ha accettato. Immagino che farà meglio a restituirmi il radiogramma.»

«Non c’è fretta; Marte è ancora in congiunzione. Forse troverà una miniera di uranio e diventerà ricco nel frattempo.»

Don rise, con un po’ d’amarezza.

«Non è molto probabile!» Le spiegò quello che faceva, e dove.

Lei annuì.

«Potrebbe fare di peggio. Il vecchio Charlie è un tipo a posto. Ma quella è una brutta parte della città, Don. Faccia attenzione, specialmente quando è buio.»

«Farò attenzione. Isobel, mi farebbe un piacere?»

«Se non è impossibile, illegale, o scandaloso… sì.»

Don estrasse di tasca l’anello.

«Potrebbe custodire lei questo, per me? Tenerlo al sicuro, finché non le chiederò di restituirmelo?»

Lei lo prese, lo sollevò e lo guardò attentamente.

«Attenta!» disse Don, in fretta. «Non lo tenga in vista.»

«Uh?»

«Non voglio che nessuno sappia che l’ha lei. Lo faccia sparire.»

«Be’…» Lei gli voltò le spalle; quando tornò a voltarsi, l’anello era scomparso. «Cos’è tutto questo mistero, Don?»

«Vorrei saperlo.»

«Eh?»

«Non posso dirle niente di più. Voglio soltanto tenere al sicuro l’anello. Qualcuno sta cercando di rubarmelo.»

«Ma… senta, questo anello le appartiene?»

«Sì. Non posso dirle altro.»

Isobel lo guardò in viso, attentamente.

«D’accordo, Don. Ne avrò cura io.»

«Grazie.»

«Nessun problema… almeno lo spero. Senta… torni qui presto. Voglio farle conoscere il direttore.»

«D’accordo, tornerò presto.»

Lei si allontanò, per occuparsi di un cliente. Don aspettò nella sala, fino a quando una cabina telefonica non fu libera, e poi comunicò il suo indirizzo all’ufficiale della sicurezza dell’astroporto. Fatto questo, ritornò ai suoi piatti.

Verso mezzanotte, centinaia di piatti più tardi, Charlie salutò l’ultimo avventore, e chiuse ermeticamente la porta di strada. Consumarono insieme una cena che non avevano avuto il tempo di consumare prima, il cinese con i bastoncini, Don con forchetta e coltello. Don scoprì di essere stanco, addirittura quasi troppo stanco per mangiare.

«Charlie,» domandò, «Come ha fatto a mandare avanti questo locale, senza aiuto?»

«Avevo due aiutanti. Si sono arruolati entrambi. I ragazzi non vogliono più lavorare, di questi tempi; sanno pensare solo a giocare ai soldati.»

«Così io lavoro per due, eh? Meglio assumere un altro ragazzo, altrimenti potrei decidere di arruolarmi anch’io.»

«Il lavoro ti fa bene.»

«Forse. Certamente, lei prende molto sul serio questo consiglio; non ho mai visto lavorare nessuno come lei.»

Charlie si appoggiò allo schienale della sedia, e arrotolò una sigaretta, con una manciata della ‘erba pazza’ indigena, le foglioline conciate di una pianta bruna.

«Mentre lavoro, penso che un giorno tornerò a casa. Avrò un piccolo giardino, circondato da un muro alto. Tra i rami di un albero, ci sarà un uccellino che canterà solo per me.» Indicò con la mano il fumo soffocante e le pareti umide e spoglie del ristorante. «Mentre lavoro, mentre preparo il cibo, io non vedo tutto questo. Vedo il mio piccolo giardino.»

«Oh.»

«Cerco di risparmiare il denaro per tornare a casa.» Charlie aspirò furiosamente il fumo della sigaretta. «Io tornerò a casa… o vi torneranno le mie ossa.»

Don capiva quel che l’uomo voleva dire; aveva sentito parlare di «denaro delle ossa», durante l’adolescenza. Tutti gli emigranti cinesi facevano progetti per tornare a casa; spesso, troppo spesso, era soltanto un pacchetto di ceneri e ossa che compiva il lungo viaggio di ritorno. I cinesi più giovani, nati su Venere, ridevano dell’idea; per loro Venere era la casa e la patria, e la Cina era soltanto una favola troppo gonfiata.

Decise di raccontare a Charlie le sue disavventure, e lo fece, tralasciando solo di menzionare l’anello, e tutti gli eventi collegati a esso.

«Così, vede, io sono ansioso di arrivare su Marte, proprio come lei è ansioso di tornare a casa sua, in Cina.»

«Marte è lontano. Si trova al termine di una lunga strada. E quella strada è ancora più lontana oggi.»

«Sì… ma io devo arrivarci.»

Charlie finì la sua sigaretta di ‘erba pazza’, e si alzò in piedi.

«Tu resta con il vecchio Charlie. Lavora sodo, e io ti farò dividere i profitti. Un giorno o l’altro, questa idiozia della guerra finirà… e allora partiremo entrambi.» Gli voltò le spalle. «Buonanotte.»

«Buonanotte.» Questa volta Don andò a controllare personalmente, per assicurarsi che nessun vieni-sopra fosse riuscito a infilarsi nel locale, e poi si ritirò nel suo cubicolo. Si addormentò quasi subito, e sognò di scalare interminabili montagne di piatti sporchi, che scintillavano rossigni perché Marte stava sorgendo, dietro di essi, un globo sanguigno nel cielo, sempre lontano.

Don era fortunato ad avere un cubicolo, in un ristorante economico, come alloggio; la città era talmente colma di gente che quasi scoppiava. Anche prima della crisi politica che l’aveva trasformata nella capitale di una nuova nazione, Nuova Londra era stata una città affollata, un centro di mercato in una regione di centinaia di migliaia di chilometri quadrati di territorio abbandonato e ostile, principale astroporto del pianeta. L’embargo de facto dei trasporti interplanetari causato dallo scoppio della guerra con il pianeta madre avrebbe prima o poi consumato il grasso superfluo che circondava la città, ma per il momento l’unico effetto era stato quello di riversare nella città gli spaziali rimasti bloccati al suolo, spaziali che giravano per le strade e cercavano di assaggiare i divertimenti e gli svaghi che la città era in grado di offrire.

Gli spaziali venivano a malapena notati; gli uomini politici erano molto più numerosi. Sull’Isola del Governatore, separata da Isola Centrale da un corso d’acqua stagnante, una fangosa laguna, gli Stati Generali della nuova repubblica erano in sessione continua; vicino, in quella che era stata la residenza del governatore, il Generale Plenipotenziario, il suo capo di Stato, e i ministri del governo, si disputavano furiosamente le competenze, le decisioni sui problemi spaziali, e il sottogoverno. Una burocrazia in continua crescita, come i fungoidi che si alimentavano nell’umida atmosfera del pianeta, si stava già riversando su tutta Isola Centrale, e traboccava sull’Isola Sud, sul Promontorio Est, e sull’isola di Tombstone, disputandosi accanitamente gli alloggi e gli edifici migliori, e facendo salire gli affitti alle stelle. Nell’ondata di statisti e di parlamentari eletti, giungevano anche… assai più numerosi… gli spruzzi e la schiuma del sottogoverno, piccoli burocrati che lavoravano e assistenti speciali che non lavoravano affatto, salvatori del mondo, uomini in possesso di Rivelazioni e Messaggi, favorevoli e contrari, uomini che affermavano di parlare a nome dei draghi locali, ma che non erano mai riusciti a imparare neppure i rudimenti del linguaggio sibilato, e draghi che erano perfettamente in grado di parlare per proprio conto… e usavano questa facoltà con grande liberalità.

Malgrado tutto, l’Isola del Governatore non si inabissò sotto questo carico.

A nord della città, sull’Isola di Buchanan, un’altra città stava nascendo e si gonfiava a dismisura… i campi di addestramento della Media Guardia e delle Forze di Superficie. Nel corso delle riunioni degli Stati Generali, l’opposizione protestò violentemente, dichiarando che la presenza di campi militari di addestramento nella capitale della nazione era un invito al suicidio nazionale, poiché una bomba all’idrogeno avrebbe potuto cancellare sia il governo che la maggior parte delle forze armate venusiane., ma ciononostante nessuno aveva fatto nulla per risolvere il problema. La maggioranza aveva obiettato che era necessario offrire agli uomini qualche possibilità di svago e ricreazione; se il territorio di addestramento fosse stato spostato nella boscaglia, o nelle paludi dell’interno, gli uomini avrebbero disertato, per tornarsene alle fattorie e alle miniere.

In realtà, erano stati molti i disertori. Nel frattempo, Nuova Londra brulicava di soldati. Il Ristorante Due Mondi era stracolmo dalla prima mattina a notte inoltrata. Il vecchio Charlie lasciava la cucina solo per accudire al registratore di cassa. Le mani di Don erano gonfie e rovinate per il continuo contatto con l’acqua calda e i detersivi. Negli intervalli, accudiva al boiler dell’acqua calda, che si trovava sul retro della cucina, usando dei rami oleosi che venivano portati da un drago chiamato ‘Daisy’ (ma maschio, malgrado il nome scelto). Un riscaldamento elettrico dell’acqua sarebbe stato più economico; l’energia elettrica era un sottoprodotto quasi gratuito della pila atomica che sorgeva a ovest della città… ma l’equipaggiamento per usare l’energia elettrica era costosissimo ed era quasi impossibile procurarselo, nella situazione attuale.

Nuova Londra era piena di simili contrasti di frontiera. Le sue strade fangose, non lastricate, erano illuminate, qua e là, dall’energia atomica. I traghetti aerei a razzi la collegavano con le altre città umane, ma entro i confini della città i trasporti erano limitati al cavallo di San Francesco e alle gondole che sostituivano i tassi automatici e i tubi di comunicazione… alcune gondole erano a motore, ma in maggioranza venivano guidate dalla forza dei muscoli umani.

Non erano contrasti sorprendenti; dopotutto, Venere era ancora un mondo di frontiera. I ‘coccodrilli’ anfibi, che venivano usati per comunicare con regioni distanti, erano solitamente di proprietà delle grandi fattorie e delle miniere; le città offrivano maggiori garanzie di libertà all’individuo, che nelle fattorie poteva ancora essere venduto come schiavo, ma davano anche minori agevolazioni.

Nuova Londra era brutta, scomoda, e incompiuta, ma era comunque stimolante. A Don piaceva il disordinato, eroico tumulto della città, gli piaceva molto di più dell’asettico lusso di Nuova Chicago, dove ogni cosa era programmata, coltivata, sfruttata per adattarsi ai gusti umani del superfluo. Nuova Londra era viva come una cesta piena di cuccioli, e vitale come un pugno sul mento. Nell’aria c’era il senso di cose nuove che stavano per accadere, di nuove speranze, di nuovi problemi…

Dopo una settimana trascorsa nel ristorante, Don ebbe la sensazione di avere passato là tutta la vita. Inoltre, l’esperienza non era sgradevole. Oh, certo, il lavoro era molto e duro, e lui era sempre deciso ad andare su Marte… prima o poi… ma nel frattempo lui mangiava magnificamente, dormiva in un luogo privato e sicuro, e aveva le mani occupate… e c’erano sempre gli avventori, con i quali si poteva parlare e discutere… spaziali, soldati delle guardie, uomini politici di infimo piano, che non potevano permettersi di mangiare in ristoranti migliori. Il locale era un circolo di discussione politica, la sede della cronaca cittadina, e la reggia dei pettegolezzi; le voci mormorate sopra i piatti squisiti di Charlie diventavano spesso i titoli cubitali del Times di Nuova Londra del giorno dopo.

Don utilizzò il precedente della pausa pomeridiana, che diventò una consuetudine, anche se non aveva affari da concludere in centro. Se Isobel non era troppo occupata, l’accompagnava in un localino dall’altra parte della strada, dove le offriva una coca-cola; in fondo, la ragazza era sempre la sua unica amica, al di fuori del ristorante. I due giovani parlavano spesso di molte cose; cominciarono a darsi del tu, confidenzialmente, e quelle pause pomeridiane erano un’esperienza che Don trovava sempre più piacevole e distensiva. In una di queste occasioni, Isobel gli disse:

«No… vieni dentro. Voglio presentarti il direttore.»

«Eh?»

«A proposito del tuo radiogramma.»

«Oh, sì… ne avevo avuto l’intenzione, Isobel, ma ormai è inutile. Non ho i soldi. Aspetterò un’altra settimana, e chiederò un prestito al vecchio Charlie. Sai, non può sostituirmi molto facilmente; credo che abbia intenzione di mantenermi in schiavitù perenne. Se gli chiedo un prestito, forse me lo farà, facendomi firmare un contratto.»

«Non devi fare niente di simile… tu devi trovare un lavoro migliore, non appena potrai. Vieni dentro.»

Aprì lo sportello del bancone, e lo condusse all’interno di un ufficio sul retro; quando furono là, Isobel lo presentò a un uomo di mezza età, dall’aria preoccupata.

«Questo è Don Harvey, il ragazzo di cui ti parlavo.»

L’uomo più anziano gli strinse la mano.

«Oh, sì… a proposito di un messaggio per Marte… almeno mi è parso di capire questo, da quanto mi ha detto mia figlia.»

Don si rivolse a Isobel.

«Figlia? Non mi avevi detto che il direttore era tuo padre.»

«Tu non me l’hai chiesto.»

«Ma… non importa. Lieto di conoscerla, signore.»

«Il piacere è mio. E adesso, a proposito di quel messaggio…»

«Non so per quale motivo Isobel mi abbia portato qui. Non posso pagarlo. Possiedo solo del denaro della Federazione.»

Il signor Costello si esaminò le unghie, e apparve in difficoltà.

«Signor Harvey, secondo i regolamenti io dovrei esigere un pagamento in contanti, per i messaggi interplanetari. Sarei più che lieto di accettare il suo denaro federale. Ma non posso; è contro la legge.» Fissò il soffitto, con aria pensierosa. «Naturalmente, c’è il mercato nero di valuta federale…»

Don fece un sorriso amaro.

«Già, l’ho scoperto anch’io. Ma il quindici, o perfino il venti per cento, sono un tasso troppo esiguo. Anche così, non riuscirei a pagare il mio radiogramma.»

«Venti per cento! Ma il tasso corrente è del sessanta per cento.»

«Davvero? Immagino di avere avuto l’aria di un allocco.»

«Non importa. Non le stavo suggerendo di rivolgersi al mercato nero. In primo luogo… signor Harvey, io mi trovo nella bizzarra posizione di rappresentare una corporazione della Federazione che non è stata espropriata, ma sono fedele alla Repubblica. Se lei uscisse di qui, e ritornasse tra qualche tempo con del denaro della Repubblica, invece che con banconote della Federazione, mi limiterei semplicemente a chiamare la polizia.»

«Oh, papà, tu non faresti mai una cosa simile!»

«Zitta, Isobel. In secondo luogo, non è bene, per un giovane, trattare simili affari. È pericoloso.» Fece una pausa. «Ma forse potremo escogitare qualcosa. Suo padre sarebbe disposto a pagare il messaggio, vero?»

«Oh, certamente!»

«Ma io non posso spedire un messaggio con tassa a carico del destinatario. Benissimo; mi compili una tratta a vista su suo padre, per l’importo; sono pronto ad accettarla come pagamento.»

Invece di rispondere immediatamente, Don rifletté sulla proposta. Pareva la stessa cosa che spedire un messaggio con tassa a carico del destinatario… cosa che lui era prontissimo a fare… ma cominciare a fare debiti a nome di suo padre, e senza che lui lo sapesse, non gli piaceva affatto.

«Ascolti, signor Costello, non le sarà possibile incassare una tratta, in ogni caso, con maggiore rapidità; perché invece non accetta un mio pagherò, che le salderò al più presto possibile? Non è meglio?»

«Sì e no. La sua cambiale equivarrebbe, semplicemente, a farle ottenere un servizio interplanetario a credito… esattamente quello che il regolamento proibisce. D’altra parte, una tratta su suo padre è un documento commerciale tecnicamente impeccabile, equivalente a una somma in contanti, anche se io non posso incassarla subito. Certo, una differenza da avvocato spaziale… ma si tratta precisamente della differenza tra quello che io posso e non posso fare, per tutelare gli affari della corporazione.»

«Grazie,» disse Don, lentamente. «Ma credo che aspetterò un poco. Forse potrò farmi prestare il denaro altrove.»

Il signor Costello guardò prima Don poi Isobel, e si strinse nelle spalle, con aria d’impotenza.

«Oh, mi dia il suo pagherò,» disse, spazientito. «Lo intesti a me, non alla compagnia. Potrà pagarmelo quando le sarà possibile.» Guardò di nuovo sua figlia, che stava sorridendo con aria d’approvazione.

Don compilò la cambiale. Quando Isobel e lui furono usciti, fuori della portata del padre della ragazza, Don disse:

«Sai, tuo padre ha fatto una cosa enormemente generosa.»

«Bah!» rispose lei. «Questo dimostra semplicemente fino a qual punto il padre di una ragazza può arrivare, per non rovinare le possibilità di sua figlia.»

«Uh? Cosa intendi dire?».

Lei gli sorrise.

«Niente. Niente di niente. Nonna Isobel ti stava prendendo in giro. Non prendermi mai sul serio.»

Anche Don le sorrise.

«E allora, dove ti posso portare? Andiamo dall’Olandese, a bere una coca?»

«Sei stato tu a convincermi.»

Quando fu di ritorno al ristorante, Don trovò, oltre all’inevitabile montagna di piatti da lavare, una discussione surriscaldata intorno alla legge sull’arruolamento obbligatorio che era in discussione agli Stati Generali. Rizzò subito le orecchie; se arrivava la chiamata alle armi, lui sarebbe stato una preda sicura, e voleva precedere gli arruolatori, presentandosi volontario per l’Alta Guardia. Il consiglio di McMasters sull’«unico sistema per arrivare su Marte» gli era rimasto in mente.

Quasi tutte le opinioni parevano in favore della coscrizione, né Don poteva fare delle obiezioni; gli pareva una decisione ragionevole, anche se lui ne avrebbe fatto le spese, con tutti gli altri giovani della sua età. Un ometto silenzioso ascoltò gli altri fino in fondo, poi si schiarì la voce:

«Non ci sarà nessuna coscrizione,» annunciò.

L’ultimo che aveva parlato, un co-pilota che portava ancora il triplice globo sul colletto, rispose:

«Eh? Cosa ne sa lei, piccoletto?»

«Un bel po’. Mi permetta di presentarmi… senatore Ollendorf della Provincia di CuiCui. In primo luogo, noi non abbiamo bisogno di una coscrizione; la natura della nostra disputa con la Federazione non è tale da richiedere l’impiego di un grande esercito. In secondo luogo, la nostra popolazione non ha il temperamento per adattarsi a una simile decisione. In virtù del drastico processo d’immigrazione selettiva, noi abbiamo, qui su Venere, una nazione di individualisti convinti, quasi al margine dell’anarchia. Nessuno sarà disposto ad accettare l’arruolamento forzato. In terzo luogo, i contribuenti non daranno alcun supporto a un esercito di massa; già adesso abbiamo più volontari che denaro per sostentarli. E in ultimo luogo, io e i miei colleghi bocceremo la proposta, in sede di votazione, in misura di tre contro uno.»

«Piccoletto,» si lamentò il co-pilota, «Ma perché diavolo si è disturbato a elencare le prime tre ragioni?»

«Stavo semplicemente esercitandomi nel discorso che intendo fare domani,» si scusò il senatore. «E ora, signore, poiché lei è un così acceso sostenitore della coscrizione, vuole dirmi, per favore, perché non si è arruolato nell’Alta Guardia? È evidente che lei è un uomo qualificato.»

«Be’, glielo dirò, proprio come lei mi ha detto i suoi motivi. Prima di tutto, io non sono un coloniale, così non è una guerra che mi riguardi. Secondo di tutto, questa è la mia prima vacanza, dal giorno in cui hanno escluso dal servizio le astronavi del tipo Cometa. E terzo, mi sono arruolato ieri, e mi sto bevendo il denaro ricevuto all’arruolamento, prima di presentarmi a rapporto. Questo la soddisfa, senatore?»

«Completamente, signore! Posso offrirle un buon bicchiere?»

«Il vecchio Charlie serve soltanto caffè… dovrebbe saperlo. Bene, prenda una tazza e ci dica cosa stanno cucinando nell’Isola del Governatore. Ci dia i dati dall’interno.»

Don tenne le orecchie bene aperte, e la bocca (come al solito) chiusa. Tra le altre cose, apprese per quale motivo la «guerra» non produceva azioni militari… all’infuori della distruzione di Circum-Terra. Non si trattava solo della distanza che, variando dai trenta milioni ai centocinquanta milioni di miglia rendeva, per dirla in tono blando, abbastanza scomode le comunicazioni militari; l’elemento più importante pareva la paura di una ritorsione, che aveva apparentemente prodotto una situazione di stallo.

Un sergente tecnico della Media Guardia spiegò la situazione a chiunque volesse ascoltarlo:

«Adesso vogliono tenere tutti svegli per metà della notte, con gli allarmi d’incursione dallo spazio. Scemenze! La Terra non attaccherà… i cervelloni che governano la Federazione sono più furbi. La guerra è finita.»

«Perché lei pensa che la Terra non attaccherà?» domandò Don, rompendo il suo abituale silenzio. «A me sembra che noi siamo dei bersagli fermi, qui, come anatre di legno.»

«Certo che lo siamo. Una bomba, e faranno saltare questa pozza di fango dalla palude. Lo stesso per Buchanan. Lo stesso per Città CuiCui. E cosa diavolo otterrebbero, con questo?»

«Non lo so, ma non mi piace l’idea di venire preso a bersaglio da una bomba atomica.»

«Ma non c’è alcun pericolo! Serviti del cervello, amico. Bombardandoci, spazzerebbero via un’infinità di bottegai, e un sacco di uomini politici… e non toccherebbero neppure le regioni dell’interno. La Repubblica di Venere sarebbe più forte che mai… perché questi tre punti sono gli unici bersagli adatti ai bombardamenti, su tutto questo pianeta nebbioso. E dopo, che cosa succederebbe?»

«È lei che racconta; me lo dica.»

«Una buona dose di ritorsione, ecco cosa accadrebbe… con tutte quelle bombe che il commodoro Higgins ha portato via da Circum-Terra. Ci siamo impadroniti di alcuni dei loro incrociatori più veloci, e avremmo i più succolenti bersagli della storia, per esercitarci nel tiro a segno. Tutto quello che vogliamo, da Detroit a Bolivar… acciaierie, centrali di alimentazioni, pile atomiche, fabbriche. Non correranno mai il rischio di pestarci i piedi, quando sanno che siamo prontissimi a colpirli in pieno ventre. Cerchiamo di essere logici!» Il sergente posò la sua tazza, e si guardò intorno, con aria di trionfo.

Un uomo dai modi tranquilli che si trovava in fondo al bancone aveva ascoltato la discussione. Scelse quel momento per dire, a bassa voce:

«Sì… ma come fa lei a sapere che gli uomini forti della Federazione useranno la logica?»

Il sergente parve sorpreso.

«Eh? Oh, andiamo! La guerra è finita, glielo dico io. Dovremmo tornarcene tutti a casa. Io ho quaranta acri delle migliori risaie del pianeta; qualcuno dovrà curare il raccolto, no? E invece, me ne sto qui seduto, a scaldarmi il sedere, giocando all’incursione spaziale così, per esercitarmi. Il governo dovrebbe fare qualcosa.»

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