CAPITOLO XIII I MANGIANEBBIA

«Non stare lì impalato. Muoviti o sparo!» ordinò la voce.

«Va bene, va bene,» rispose luì, con voce spenta, e si fece avanti, tenendo le mani in alto, sopra la testa. Pochi passi in avanti gli permisero finalmente di scorgere nella nebbia una figura umana; qualche altro passo, e riuscì a distinguere un soldato, con un corto fucile portatile puntato su di lui. Aveva gli occhi coperti da un paio di occhiali protettivi, enormi lenti scure che lo facevano sembrare un mostro improbabile, un insetto alieno giunto dalle remote profondità degli spazi siderali.

Il soldato intimò a Don di fermarsi a pochi passi da lui, e lo fece voltare lentamente. Quando Don si voltò, dopo avere descritto il giro completo che il soldato aveva chiesto, questi sollevò gli occhiali sulla fronte, mostrando degli occhi azzurri bonari. Abbassò il fucile.

«Amico, sei ridotto proprio male,» fu il suo commento. «Si può sapere che cosa hai fatto, in nome dell’Uovo?»

Fu solo in quel momento che Don si rese conto che il soldato non indossava la divisa verde a chiazze della Federazione, ma l’uniforme marrone rossiccio delle Forze di Superficie della Repubblica di Venere.

L’ufficiale comandante del soldato, un certo tenente Busby, cercò di sottoporre Don a un interrogatorio nella cucina della fattoria che si trovava all’interno del recinto, ma si accorse molto rapidamente che il prigioniero non era in condizione tale da permettere un interrogatorio. Perciò consegnò Don alla moglie del padrone della fattoria, che gli diede del cibo, gli procurò un bagno caldo, e cercò di sottoporlo a una cura medica di emergenza. Molto più tardi, nel pomeriggio, Don, molto più calmo, rinfrescato, e con le chiazze rosse lasciate dalle sanguisughe del fango medicate, finalmente poté spiegare il motivo della sua presenza in quel luogo, e la storia delle sue vicissitudini.

Busby ascoltò fino in fondo la sua storia, e alla fine annuì brevemente:

«Accetto la tua storia sulla parola, soprattutto perché è quasi inconcepibile che una spia della Federazione possa essere stata dove sei stato tu, vestita come tu eri vestito, e nelle condizioni in cui ti abbiamo trovato.» Continuò a interrogarlo, con grande ricchezza di particolari, su quello che aveva visto a Nuova Londra, sul numero di soldati federali presenti nella città, almeno secondo una valutazione approssimativa, sul tipo delle loro armi, e così via. Disgraziatamente, Don non poté dirgli molto. Recitò la «Legge di Emergenza Numero Uno», cercando di ricordarla parola per parola.

Busby annuì.

«L’abbiamo ascoltata, attraverso la radio di Padron Wong.» Indicò con il pollice un angolo della stanza. Per qualche momento, rifletté, socchiudendo gli occhi. «Sono stati furbi; si sono ispirati al commodoro Higgins, e hanno sfruttato con molta furbizia questa ispirazione. Non hanno bombardato le nostre città; si sono limitati a bombardare le nostre astronavi… poi sono sbarcati, e hanno bruciato le nostre case, scacciandoci dalle città.»

«Ci rimangono delle astronavi?» domandò Don.

«Non lo so. Ne dubito… ma non ha importanza.»

«Uh?»

«Perché sono stati troppo furbi; hanno voluto strafare. Non rimane più nulla che essi possano farci; d’ora in poi, dovranno combattere la nebbia. E noi mangianebbia conosciamo questo pianeta assai meglio di loro.»

Don ottenne il permesso di riposare, per tutto il resto del giorno, e per tutta la notte seguente. Ascoltando le chiacchiere dei soldati, arrivò alla conclusione che Busby non era, semplicemente, un ottimista; la situazione non era completamente disperata. Era certamente molto brutta; questo bisognava ammetterlo, e nessuno lo negava; per quello che si sapeva, tutte le astronavi dell’Alta Guardia erano state distrutte. La Valchiria, il Nautilus e l’Adonis erano state distrutte, questo lo si sapeva per certo dai rapporti giunti nelle ultime ore di vita delle città, e con esse erano stati colpiti il commodoro Higgins, e la maggior parte dei suoi uomini. Non si era saputo nulla dell’Alta Marea… e questo non significava nulla; le poche informazioni che avevano erano composte, in parti uguali, di voci e di propaganda ufficiale della Federazione.

La media Guardia doveva essere riuscita a salvare qualcuno dei suoi apparecchi; poteva averli nascosti nella boscaglia, ma l’utilità, in quel momento, di un traghetto stratosferico che esigeva delle postazioni di lancio fisse, era a dir poco discutibile. In quanto alle Forze di Superficie, almeno la metà dei componenti era stata catturata, o uccisa, nella Base dell’Isola Buchanan, e nelle guarnigioni più piccole del territorio. Mentre i soldati superstiti venivano rilasciati dai campi di concentramento, i soli ufficiali ancora liberi erano come il tenente Busby, cioè coloro che erano stati impegnati in qualche servizio distaccato nel momento in cui era venuto l’attacco. L’unità di Busby aveva formato il personale di una postazione radar, sufficientemente lontana da Nuova Londra; il tenente era riuscito a salvare la sua unità abbandonando la postazione, che ormai era stata inutile.

Il governo civile della giovanissima repubblica era sparito, naturalmente; quasi tutti i suoi esponenti erano stati catturati. Il comando organizzato delle forze armate aveva a sua volta cessato di agire; lo stato maggiore al completo, e tutti gli alti gradi dell’organizzazione militare, erano stati catturati durante l’attacco iniziale. Questo sollevava una questione che aveva incuriosito, e reso perplesso, Don; Busby non agiva come se i suoi generali comandanti fossero stati assenti; continuava a comportarsi come se egli fosse stato sempre il comandante di un’unità di un’organizzazione militare attiva, con compiti e funzioni chiaramente definiti. Lo spirito di corpo era alto, tra i suoi uomini; tutti parevano aspettarsi mesi, probabilmente anni, di guerra nella giungla, di guerriglia fatta di rapide sortite, imboscate e sabotaggi contro le forze della Federazione; ma tutti parevano ugualmente aspettarsi la vittoria finale, prima o poi, inevitabilmente, con assoluta certezza.

Uno dei soldati spiegò questo punto di vista in poche parole, durante una conversazione con Don:

«Non possono prenderci. Noi conosciamo queste paludi, queste giungle, questi acquitrini; loro no. Non saranno capaci di allontanarsi dieci miglia dalla città, anche con tutte le loro apparecchiature… imbarcazioni con radar e apparecchi di comunicazione e segnalazione. E di notte, noi ci infiltreremo tra le loro linee, e taglieremo loro la gola… per poi uscircene di nuovo, altrettanto silenziosamente, altrettanto imprendibili, per andare a fare colazione. Non permetteremo loro di sollevare una tonnellata di minerale radioattivo dalla superficie di questo pianeta, né una sola oncia di droghe. Renderemo il compito così costoso, in denari e vite umane, che alla fine verrà loro la nausea, non potranno più restare qui… e se ne torneranno a casa loro.»

Don annuì.

«Non ne potranno più di combattere la nebbia, come dice il tenente Busby.»

«Busby?»

«Uh? Il tenente Busby… il tuo comandante.»

«Ah, si chiama così? Non l’avevo afferrato.» Il viso di Don mostrò un vivo sbalordimento. Il soldato proseguì, «Vedi, sono arrivato qui soltanto stamattina. Sono stato lasciato libero, insieme agli altri mangiafango della Base, e stavo tornando a casa con la coda tra le gambe, sentendomi più giù del fango di palude. Mi sono fermato qui, sperando di ottenere un pasto da Wong, e ho trovato qui il tenente… Busby, hai detto?… con un reparto in funzione. Mi ha subito richiamato in servizio, prendendomi nel suo reparto. Sai cosa ti dico… mi ha ridato quella forza che mi era sparita, e mi ha restituito un po’ di spirito. Non trovi?»

Prima di andare a dormire, quella sera… nella stalla di Padron Wong, con due dozzine di soldati… Don aveva scoperto che quasi tutti i presenti non facevano parte del reparto originario di Busby, che era stato di soli cinque uomini, tutti tecnici elettronici. Gli altri erano degli sbandati, ora inquadrati in un plotone di guerriglia. Fino a quel momento, pochi erano armati; compensavano questa mancanza con la ricostruzione del loro morale, precipitato disastrosamente al momento dell’attacco federale.

Prima di addormentarsi, Don aveva preso una decisione. Sarebbe andato immediatamente a cercare il tenente Busby, ma decise che era una cattiva idea quella di disturbare l’ufficiale a un’ora così tarda della notte. Si svegliò, il mattino dopo, e scoprì che i soldati non c’erano più. Uscì di corsa, trovò la signora Wong intenta a dare da mangiare ai polli, e fu indirizzato da lei alla riva. Laggiù Busby stava organizzando lo spostamento del suo reparto. Don corse nella direzione dell’ufficiale.

«Tenente! Posso dirle una cosa?»

Busby si voltò, spazientito.

«Sono occupato.»

«Un momento solo… la prego!»

«Be’, parla.»

«Solo questo… dove posso andare ad arruolarmi?»

Busby corrugò la fronte. Don continuò precipitosamente la sua spiegazione, insistendo sul fatto che lui aveva tentato di arruolarsi, quando era arrivato l’attacco.

«Se tu intendevi arruolarti, direi che avresti dovuto farlo già da molto tempo. Comunque, da quello che mi hai raccontato, so che hai vissuto per gran parte della tua vita sulla Terra. Non sei uno di noi.»

«Sì, invece!»

«Secondo me, tu sei un ragazzo con la testa piena di idee romantiche. Non hai neppure l’età per votare.»

«Ho l’età per combattere, però.»

«Cosa sai fare?»

«Uh, be’, sono un ottimo tiratore, per lo meno con un fucile o una pistola.»

«E che altro sai fare?»

Don rifletté rapidamente; non gli era mai venuta in mente l’idea che ai soldati si richiedesse qualcosa di più della disposizione a essere soldati. Cavalcare? Lassù non significava nulla.

«Bene, io parlo la ‘vera lingua’… me la cavo discretamente.»

«Questo è utile… abbiamo bisogno di uomini che sappiano vezzeggiare i draghi. E che altro sai fare?»

Don pensò al fatto di essere riuscito a evadere dal campo di concentramento, fuggendo attraverso gli acquitrini senza rimanere ucciso… ma il tenente questo lo sapeva; semplicemente, l’impresa dimostrava che lui era realmente un mangianebbia, malgrado la confusione delle sue origini e della sua educazione. Decise che Busby non sarebbe stato interessato a conoscere nei particolari l’addestramento ricevuto alla scuola-fattoria.

«Be’, posso lavare i piatti.»

Busby fece un breve sorriso, malgrado il cipiglio.

«Questa è senza dubbio una virtù da soldato. Malgrado ciò, Harvey, dubito che tu sia adatto. Vedi, questo non è fare il soldato in pace… non si tratta di sfilare in parata, con uniformi e bandiere, facendosi bello davanti a tutti. Vivremo nelle boscaglie e tra gli acquitrini, ci sostenteremo con quello che riusciremo a trovare nel territorio, ed è sommamente improbabile che riceviamo una paga, né ora, né mai. Questo significa essere affamati, sporchi, in continuo movimento, in continuo allarme. Non si rischia soltanto di venire uccisi in combattimento; se vieni preso, sarai bruciato per tradimento.»

«Sì, signore. Questo me lo sono immaginato, pensandoci, stanotte.»

«E vuoi ancora arruolarti?»

«Sì, signore.»

«Alza la mano destra.»

Don obbedì. Busby continuò:

«Tu giuri solennemente di sostenere e difendere la Costituzione della Repubblica di Venere contro tutti i nemici, interni e stranieri; e di servire fedelmente nelle forze armate della Repubblica, per tutta la durata di questo stato di emergenza, finché non sarai congedato da un’autorità competente; e giuri di obbedire agli ordini legali degli ufficiali superiori posti al di sopra di te?»

Don fece un profondo sospiro.

«Lo giuro.»

«Molto bene, soldato… sali a bordo della barca.»

«Sì, signore!»


Dopo quel giorno, ci furono molte, moltissime circostanze nelle quali Don si pentì amaramente di essersi arruolato… ma questo è capitato in tutti i tempi, a ogni uomo che si sia offerto volontario per il servizio militare. Ma a parte queste circostanze, nella maggior parte del tempo fu ragionevolmente soddisfatto, benché in tutta sincerità avrebbe negato questo… acquistò un considerevole talento per il più comune dei passatempi di tutti i soldati, un continuo brontolare sulla guerra, sul tempo, sul cibo, sul fango, sulla stupidità dell’alto comando. Il vecchio soldato può usare questo antico, convenzionale e innocuo florilegio di arte letteraria come sostituto soddisfacente della ricreazione, e perfino del riposo, delle donne e del cibo.

Apprese i metodi della guerriglia… infiltrarsi nelle linee nemiche senza fare rumore, colpire silenziosamente, e svanire di nuovo nel buio e nella nebbia, prima che l’allarme potesse essere lanciato. Quelli che riuscirono a imparare quei metodi sopravvissero… quelli che non vi riuscirono, morirono. Don riuscì a sopravvivere. Imparò altre cose… a dormire per dieci minuti, quando si presentava l’occasione, a svegliarsi completamente, e silenziosamente, al minimo tocco o al suono più impercettibile, a trascorrere senza dormire una notte intera, o due notti… o perfino tre. Acquistò delle linee profonde intorno alla bocca, linee che lo invecchiavano ben al di sopra dei suoi anni, e una cicatrice bianca, nodosa sul braccio sinistro.

Non restò a lungo con Busby, ma fu trasferito a una compagnia di fanteria con gondole che operava tra CuiCui e Nuova Londra. Il corpo si era battezzato, orgogliosamente, «Gli Scorridori di Marsten»; Don occupò il posto di interprete di ‘vera lingua’ del suo reparto. Benché quasi tutti i coloni fossero capaci di sibilare qualche frase della lingua dei draghi… o, più generalmente, fossero in grado di capire un poco la lingua, quello che era sufficiente per comprare e vendere… erano pochissimi coloro in grado di usarla come strumento di colloquio. Don, benché negli anni trascorsi sulla Terra non avesse avuto alcuna occasione di fare pratica, aveva imparato la lingua da bambino, e quella lingua gli era stata insegnata bene, da un drago che si era interessato personalmente a lui. Ed entrambi i suoi genitori usavano la ‘vera lingua’ con la stessa disinvoltura ostentata nel parlare in inglese; Don era stato istruito in quell’arte in virtù della pratica quotidiana di casa, che era durata fino a quando lui non aveva compiuto undici anni, ed era stato portato sulla Terra.

I draghi erano di enorme utilità per i partigiani impegnati nella lunga, logorante guerra di resistenza; benché essi non fossero belligeranti, le loro simpatie erano tutte per i coloniali… o, per essere più esatti, essi disprezzavano profondamente i soldati della Federazione. I coloniali erano riusciti a fare di Venere la loro patria, perché erano riusciti ad andare d’accordo con i draghi… un’illuminata politica di tornaconto personale, istituita dallo stesso Cyrus Buchanan. Per un essere umano nato su Venere non c’era neppure un’ombra di dubbio sul fatto che esistesse un’altra razza… quella dei draghi… intelligente, ricca e civile almeno quanto la propria. Ma per la stragrande maggioranza dei soldati della Federazione, nuovi per il pianeta, i draghi erano semplicemente degli animali orribili, infidi e rozzi, incapaci di parlare e che si davano un sacco d’arie, arrogandosi dei privilegi che nessun animale aveva il diritto di reclamare.

Questo orientamento non era a livello conscio; si trattava principalmente di uno stato d’animo, di un atteggiamento che affondava le sue radici nell’inconscio… e per questo invincibile, profondo, inevitabile. Nessun ordine emanato dall’Alto Comando alle truppe della Federazione, nessuna misura disciplinare, per quanto rigorosa, nessuna punizione, anche fisica, per le violazioni, poteva affrontare il problema fondamentale con qualche speranza di successo. Si trattava di qualcosa di più forte e di meno ragionato di qualsiasi problema razziale analogo mai esistito sulla Terra… bianchi contro negri, gentili contro ebrei, romani contro barbari, o qualsiasi altro esempio di cui la storia offrisse il ricordo.

Perfino gli ufficiali che emanavano gli ordini non potevano percepire nella maniera corretta la questione; perché neppure loro erano nati su Venere. Perfino il più alto consigliere politico del governatore, lo scaltro e abile Stanley Bankfield, poteva realmente afferrare il concetto secondo il quale non ci si ingraziava un drago semplicemente (per usare una parafrasi) accarezzando il drago in questione sulla testa, e parlandogli dall’alto in basso (naturalmente questo in senso pratico sarebbe stato impossibile; ma si trattava in senso figurato, dell’atteggiamento tipico perfino nei più intelligenti e preparati dei terrestri).

Due gravi incidenti avevano dato l’avvio alla situazione, due incidenti avvenuti nello stesso giorno del primo attacco federale; a Nuova Londra, un drago… lo stesso che Don aveva visto di fronte all’edificio del Times, intento a leggere i bollettini… era stato, non ucciso, ma gravemente danneggiato da un lanciafiamme; quel drago era stato il socio occulto della banca locale, e un azionista di quasi tutti i più importanti depositi di torio. Ancora peggio, a CuiCui un drago era stato ucciso… da un razzo; per pura sfortuna, quel drago aveva avuto la bocca aperta, e il proiettile vi era entrato. E quel drago sfortunato era stato un parente collaterale dei discendenti del Grande Uovo. Non è prudente, né utile, assumere un atteggiamento antagonistico nei confronti di creature altamente intelligenti, ciascuna delle quali equivale fisicamente a, diciamo, tre rinoceronti di medie dimensioni. Malgrado ciò, i draghi non erano entrati direttamente nel conflitto, poiché la nostra idea convenzionale di guerra non fa parte della loro civiltà. Essi raggiungono i loro scopi operando attraverso mezzi assai diversi dai nostri.


Quando, nel corso del suo lavoro, Don si trovò obbligato a parlare a un drago, spesso domandò se quel particolare cittadino della nazione dei draghi conoscesse o meno il suo amico ‘Sir Isaac’… usando per questi interrogatori, naturalmente, il vero nome di ‘Sir Isaac’. Scoprì che coloro che non potevano dichiarare una conoscenza personale, almeno lo conoscevano di nome; e scoprì, anche, che dichiarando di essere conoscente del drago, il suo prestigio personale veniva notevolmente accresciuto. Ma non cercò di inviare alcun messaggio a ‘Sir Isaac’; non c’era più alcuna occasione per farlo… non aveva bisogno di tentare di arrangiare un trasferimento in un’Alta Guardia che non esisteva più.

Cercò senza soste, ripetutamente, di scoprire quello che era accaduto a Isobel Costello… attraverso i profughi, attraverso i draghi, e attraverso i sempre più numerosi combattenti dell’esercito clandestino di resistenza, che potevano muoversi abbastanza liberamente da un punto all’altro del territorio. Malgrado tutti i suoi sforzi, non riuscì a trovarla. Una volta, gli dissero che era stata rinchiusa nel campo di concentramento di Promontorio Est; qualcun altro gli disse che la ragazza e suo padre erano stati deportati sulla Terra… ma non poté trovare conferma a queste voci. Così, con un senso di vuoto, di dolore, sospettò che Isobel Costello fosse stata uccisa durante il primo attacco della Federazione.

Il suo dolore era per Isobel… non per l’anello che le aveva lasciato in custodia. Aveva cercato di indovinare cosa potesse esserci, in quell’anello, di tanto importante da fare inseguire lui, Don Harvey, da un pianeta all’altro, e da renderlo così prezioso agli occhi dell’I.B.I. e perfino dello scaltro signor Bankfield. Non era riuscito a trovare una risposta plausibile, e aveva raggiunto la conclusione secondo la quale Bankfield, malgrado tutti i suoi atteggiamenti da superuomo, aveva commesso un errore; la cosa importante doveva essere stata la carta che aveva avvolto l’anello, ma l’I.B.I. era stata troppo stupida per immaginare il trucco e trovare una soluzione. Dopo qualche tempo, cessò totalmente di pensare alla faccenda; l’anello non c’era più, e quel che era stato era stato.

Dopotutto, apparteneva al passato.

In quanto ai suoi genitori che si trovavano su Marte… certo, certo, un giorno! Un giorno, quando la guerra fosse finita, e le astronavi avessero ripreso le loro rotte nel silenzio dello spazio, tra i pianeti… ora c’erano le paludi e gli acquitrini, gli arbusti e le boscaglie, le notti profonde e gli attacchi e le lunghe marce di trasferimento con l’acqua fino al ginocchio, e le sanguisughe del fango che si aggrappavano alla carne, e producevano piaghe infette… lo spazio era nascosto dietro una coltre di nubi, e non esisteva più qualcosa di simile a Circum-Terra, e Marte era lontano milioni e milioni di chilometri… sarebbe venuto il suo turno, al momento giusto, ma ora perché doveva rodersi per la preoccupazione, quando sapeva che per il momento non c’erano possibilità?

La sua compagnia si trovava, in quel periodo, disseminata sugli isolotti dell’arcipelago, a sud-sud-ovest di Nuova Londra; da tre giorni i soldati erano accampati su quattro degli isolotti, e si trattava della sosta più lunga che mai avessero fatto in un posto solo. Il continuo spostamento era una delle anni migliori a disposizione dell’esercito di resistenza.

Essendo assegnato al quartier generale, Don si trovava sulla stessa isola nella quale il capitano Marsten aveva fissato la sua residenza, e, in quel momento, era tranquillamente disteso sulla sua amaca, che aveva teso tra due tronchi, al centro di una macchia di alberi di palude.

La staffetta del quartier generale della compagnia lo trovò in quella posizione, e lo strappò bruscamente al meritato riposo… restandosene a buona distanza, e limitandosi a scuotere con forza la corda dell’amaca. Don si svegliò bruscamente e completamente, e come per magia un coltello gli balenò in mano.

«Calma!» lo avvertì la staffetta. «Il Vecchio vuole vederti.»

Don fece un suggerimento rettorico, e piuttosto scurrile, sull’uso che il capitano avrebbe dovuto fare dei suoi ordini, e scese silenziosamente dall’amaca, posando i piedi sul suolo umido. Indugiò per un momento, per arrotolare l’amaca e infilarsela in tasca… essa pesava soltanto poche decine di grammi, ed era stata pagata alla Federazione con un notevole saldo di danni e vite umane, quando Don se ne era impadronito. L’amaca veniva usata da Don con estrema prudenza; il precedente proprietario l’aveva usata con imprudenza, e ora non ne aveva più bisogno. Prima di muoversi, Don prese anche le sue armi.

Il comandante della compagnia era seduto a un tavolo da campo, sotto una tettoia naturale di foglie. Don si fermò davanti a lui, e aspettò. Finalmente Marsten sollevò il capo, e disse:

«C’è un lavoro speciale per te, Harvey. Devi partire immediatamente.»

«Un cambiamento nei piani?»

«No, tu non farai parte dell’incursione di questa notte. Un alto papavero dei draghi vuole un interprete. Tu dovrai andare da lui. Immediatamente.»

Don rifletté su quanto gli era stato detto.

«Accidenti, capitano, non vedevo l’ora che arrivasse l’assalto di questa notte. Posso partire domani… a quella gente il tempo non interessa in modo particolare; sono pazienti.»

«Basta così, soldato. Da questo momento, ti pongo in congedo; secondo il messaggio ricevuto dal quartier generale, probabilmente starai via per un bel po’ di tempo.»

Don sollevò il capo, e fissò il suo comandante con attenzione:

«Se mi viene dato l’ordine di partire, non si tratta di congedo; ma di servizio distaccato.»

«In fondo al cuore, tu sei un avvocato da mensa, Harvey.»

«Sì, signore.»

«Consegna le tue armi, e togliti i gradi; la prima parte del viaggio la farai come un garzone di una risaia in cerca di lavoro. Larsen ti trasporterà in barca. È tutto.»

«Sissignore.» Don si voltò, ma prima di andarsene aggiunse, «Buona caccia per stanotte, capitano.»

Marsten sorrise, per la prima volta:

«Grazie, Don.»

La prima parte del viaggio fu fatta attraverso un labirinto di canali così stretti e tortuosi che gli apparecchi elettronici di visione non potevano vedere più in là di quanto vedesse l’occhio umano. Don dormì per quasi tutto il tragitto, con la testa appoggiata a un sacco di semi di frumento locale. Non si preoccupava del lavoro che lo aspettava… senza dubbio l’ufficiale al quale lui doveva fare da interprete, chiunque fosse, si sarebbe presentato all’appuntamento, e gli avrebbe dato istruzioni sul da farsi.

Nelle prime ore del pomeriggio successivo, essi raggiunsero i bordi del Grande Mare del Sud, e Don fu trasferito a bordo di un ‘Vagone pazzo’, definizione che si applicava sia all’imbarcazione che all’equipaggio… un piatto disco fornito di jets, largo circa cinque metri, guidato da due giovani estroversi che non temevano né l’uomo né il fango. La parte superiore della barca era coperta da un basso cono levigato di metallo, il cui scopo era quello di riflettere le onde radar orizzontali, deviandole verso l’alto, o viceversa. Non poteva proteggere da un’osservazione dal cielo, da quella posizione a forma di cono, come il riflettore, dove il riflesso sarebbe rimbalzato direttamente alle stazioni di origine… ma in ogni caso, la barca si affidava soprattutto alla velocità.

Don rimase sdraiato sul fondo dell’imbarcazione, aggrappandosi alle apposite maniglie, e riflettendo sui superiori vantaggi del volo a bordo di razzi, mentre il ‘vagone pazzo’ rollava e scivolava e ondeggiava sulla superficie del mare. Cercò di non riflettere su quel che sarebbe accaduto se l’imbarcazione lanciata alla massima velocità avesse urtato un tronco galleggiante, o uno dei più grossi cittadini delle acque. Coprirono circa trecento chilometri in poco meno di due ore, poi l’imbarcazione, scivolando sull’acqua placida, rallentò, e si fermò.

«Fine della corsa,» annunciò il capitano. «Preparate i vostri bagagli. Pronti all’ispezione. Donne e bambini usino l’ascensore centrale.» Il coperchio antiradar si alzò.

Don si alzò in piedi, e scoprì di avere le gambe che tremavano.

«Dove siamo?»

«Dragonville-Sul-Fango. Laggiù c’è il tuo comitato di benvenuto. Attento a dove metti i piedi.»

Don cercò di vedere qualcosa, attraverso la fitta coltre di nebbia. Le parole del capitano del ‘vagone pazzo’ non parevano completamente scherzose. Gli sembrò di vedere un buon numero di draghi fermi sulla spiaggia. Scavalcò il bordo dell’imbarcazione, si trovò immerso nella fanghiglia fin quasi alla sommità degli stivali, e finalmente, percorrendo qualche passo, salì su di un terreno più solido. Dietro di lui, il ‘vagone pazzo’ abbassò il coperchio, e partì immediatamente come un proiettile, sparendo alla vista mentre ancora stava accelerando.

’Almeno, avrebbero potuto farmi un cenno di saluto’, brontolò tra sé Don, scontento come ogni buon soldato, e girando le spalle al mare nebbioso, si rivolse ai draghi.

La situazione non era come l’aveva prevista, e Don cominciava a provare una notevole perplessità. A quanto pareva, non c’erano esseri umani, nelle vicinanze, e lui non aveva ricevuto istruzioni di alcun genere. Si domandò se per caso l’ufficiale, o la personalità del governo clandestino, che si era aspettato di trovare ad accoglierlo, non fosse stato vittima di qualche incidente… avrebbe già dovuto trovarsi in quel luogo, e quando, in guerra, qualcuno non si presentava a un appuntamento, non c’erano molte alternative ottimistiche da prendere in considerazione, per dare una spiegazione.

I draghi erano sette, e si stavano muovendo verso di lui. Li guardò, e sibilò un cortese saluto, riflettendo sul fatto che tutti i draghi si assomigliavano, ed era un’ardua impresa distinguerli l’uno dall’altro. Poi il drago che si trovava proprio al centro dei sette gli parlò, in un accento inconfondibilmente albionico, un accento che Don non avrebbe mai dimenticato.

«Donald, mio caro ragazzo! Come sono felice di vederla qui! Shucks!»

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