Per un lungo momento che parve interminabile ci fu un’oscurità completa, impenetrabile, accompagnata da un silenzio nel quale taceva perfino il ronzio soffocato dell’impianto di aerazione. Poi una luce fievole apparve al centro della pista, illuminando il viso del comico che era la principale attrazione dello spettacolo. L’attore biascicò, con una buffa voce nasale che era evidentemente artefatta:
«Il prossimo suono che sentirete sarà quello delle… Trombe del Giudizio!» Ridacchiò, e continuò, in tono fermo, «State seduti al vostro posto, amici, e conservate la calma… e aggrappatevi bene al vostro portafoglio… alcuni camerieri sono parenti della direzione. Questa è soltanto un’esercitazione. In ogni caso, sopra di noi ci sono trenta metri buoni di cemento… e una montagna d’ipoteche che è molto più spessa del cemento. E adesso, cercate di entrare nello spirito giusto per il prossimo atto… che è il mio… e per aiutarvi a fare questo, la casa offre da bere a tutti!» Fece un passo avanti, e chiamò a gran voce, «Gertie! Tira su quella roba che non siamo riusciti a rifilare al veglione di Capodanno!»
Don sentì allentarsi la tensione, nel locale, e scoprì a sua volta di respirare più agevolmente. Fu perciò doppiamente sorpreso, quando una mano gli strinse con forza il polso.
«Zitto!» gli mormorò all’orecchio il dottor Jefferson.
Don si lasciò guidare dalla mano nell’oscurità. Il dottore, apparentemente, conosceva, o ricordava, la disposizione del locale; uscirono dalla sala senza urtare dei tavolini e con un solo urto, leggero e privo d’importanza, con una persona nascosta nel buio. Don ebbe l’impressione di percorrere un lungo corridoio, nero come il carbone, poi gli sembrò di girare un angolo… e a questo punto si fermò.
«Ma è impossibile uscire, signore,» disse una voce, vicino a Don. «Non si può, in questo momento.» Il dottor Jefferson parlò a bassa voce, in un bisbiglio che Don non riuscì a tradurre in parole. Si udì un fruscio; Don immaginò che fosse il suono di una banconota passata da una mano all’altra. Il dottor Jefferson e Don si mossero di nuovo, varcarono una porta, e svoltarono immediatamente a sinistra.
Proseguirono lungo la nuova galleria… Don fu sicuro di trovarsi nella galleria pubblica, che si trovava proprio all’esterno del ristorante, benché al buio sembrasse spostata di novanta gradi. Il dottor Jefferson continuava a tenerlo per il polso, trascinandolo dietro di sé, senza parlare. Svoltarono di nuovo, e scesero alcuni gradini.
C’erano delle altre persone intorno, anche se non molte. A un certo punto, qualcuno afferrò Don, nel buio; il giovane si dibatté istintivamente, disperatamente, e colpì con un pugno violento qualcosa di cedevole e tiepido, che lanciò un grugnito soffocato. Jefferson, semplicemente, affrettò il passo.
Il dottore si fermò, finalmente, e parve cercare qualcosa a tentoni nel buio. Dalle tenebre uscì un grido femminile. Jefferson batté subito in ritirata, fece qualche metro e si fermò di nuovo.
«Ecco,» disse, finalmente. «Sali.» Spinse Don davanti a sé, e fece posare la mano del giovane su qualcosa; Don cercò a tentoni, e decise che doveva trattarsi di un tassi automatico, con il ‘tetto’ aperto. Salì a bordo, e il dottor Jefferson lo imitò, abbassando subito dopo il ‘tetto’. «Ora possiamo parlare,» disse l’uomo più anziano, con calma. «Qualcuno ci ha preceduti a bordo di quell’altro, ma dalla parte del corpo che ho sentito esposta non credo che si trattasse di un tentativo di fuga. In ogni caso, non possiamo andare da nessuna parte, finché non ritornerà l’energia.»
Don si rese bruscamente conto di tremare per l’emozione. Quando gli parve di essersi sufficientemente calmato per potere parlare, disse:
«Dottore… si tratta davvero di un attacco?»
«Permettimi di esprimere forti dubbi,» rispose l’uomo. «Si tratta quasi certamente di un attacco simulato… di un’esercitazione. Almeno lo spero. Però ci ha dato la possibilità di filarcela elegantemente, senza dare nell’occhio… una possibilità che cercavo.»
Don rifletté su queste parole. Jefferson proseguì:
«Di che cosa ti preoccupi? Del conto? Ho un credito aperto, in quel locale.»
Don non aveva pensato neppure per un momento che la loro fuga fosse stata causata dal desiderio di non pagare il conto. Lo disse, e aggiunse:
«Lei pensava a quell’agente della sicurezza che mi è parso di riconoscere?»
«Disgraziatamente.»
«Ma… credo che sia stato uno sbaglio. Oh, sembrava proprio lo stesso uomo, certo, ma non capisco come gli sia stato umanamente possibile seguirmi, anche se ha preso il tassi successivo. Ricordo perfettamente che, almeno una volta, il mio tassi si è trovato da solo su di un ascensore. Questo dimostra che non poteva essere lo stesso agente. E se era proprio lui, deve essere stato un caso; non mi stava cercando.»
«Forse cercava me.»
«Uh?»
«Lascia perdere. In quanto alla «impossibilità» di averti seguito… Don, tu sai come funzionano questi tassi automatici?»
«Be’… sì, in generale.»
«Se quell’agente della sicurezza voleva seguirti, non aveva alcun bisogno di prendere il tassi successivo. Doveva semplicemente chiamare la centrale, e riferire il numero del tuo tassi. Il numero sarebbe stato trasmesso immediatamente al cervello elettronico centrale che regola il traffico dei mezzi pubblici. A meno che tu non avessi raggiunto la tua destinazione prima dell’allarme, gli agenti avrebbero potuto leggere nella macchina il preciso codice del tuo luogo di arrivo. Tu hai formato il codice alla partenza. E dopo pochi istanti un altro agente della sicurezza si sarebbe trovato sul luogo del tuo arrivo. E così di seguito. Nel momento stesso in cui io ho chiamato un tassi, secondo questa teoria, il mio circuito sarebbe già stato sotto sorveglianza, come pure il tassi che ha risposto alla mia chiamata. Di conseguenza, il primo agente è già seduto all’interno del Retrobottega e si sta godendo lo spettacolo, prima che noi arriviamo. Questo è stato il loro unico errore… e cioè servirsi di un uomo che tu avevi già visto… ma possiamo scusarli, perché attualmente sono pieni di lavoro!»
«Ma perché prendersela proprio con me? Anche se mi credono, uh, sleale, non sono importante fino a questo punto.»
Il dottor Jefferson esitò, e poi disse:
«Don, non so per quanto tempo potremo parlare. Per il momento possiamo parlare liberamente, perché la sospensione dell’energia blocca loro come blocca noi. Ma non appena l’energia sarà ritornata, non potremo più parlare, e io ho molte cose da dire. Quando sarà tornata l’energia, non potremo dire una parola neppure qui.»
«Perché?»
«Il pubblico non dovrebbe saperlo, ma ciascuno dei tassi ha un microfono sistemato all’interno. La frequenza di controllo del tassi può percepire e ritrasmettere le modulazioni sonore del discorso umano senza che questo interferisca nei circuiti elettronici. Così, non appena sarà tornata l’energia, non saremo più al sicuro. Sì, lo so; è una cosa vergognosa. Non ho osato parlare nel ristorante, anche quando l’orchestra stava suonando. Avrebbero potuto piazzare nelle nostre vicinanze un microfono a isolamento acustico.
«E ora, ascoltami attentamente. Noi dobbiamo assolutamente rintracciare quel pacco che io ti ho spedito… non c’è altra scelta! Voglio che tu lo consegni a tuo padre… o meglio, quello che c’è dentro al pacco. Punto numero due: tu devi salire su quell’astronave-traghetto domattina, a ogni costo, anche se cadesse il cielo. Punto numero tre: stanotte non resterai a casa mia, dopotutto. Dolente, ma credo che sia meglio così. Numero quattro: quando tornerà l’energia, andremo un po’ in giro, come se volessimo visitare la città, senza parlare di niente in particolare, e senza mai menzionare dei nomi. Dopo un poco, farò in modo di fermarci vicino a una cabina pubblica, dalla quale potrai chiamare l’Hilton. Se il pacco è arrivato là, ci saluteremo, tu ritornerai alla stazione, prenderai le valige, e andrai subito in albergo, dove ti registrerai e ritirerai la posta. Domattina prenderai l’astronave, e lascerai definitivamente la Terra. Non devi chiamarmi. Neppure per un saluto. Hai capito bene tutto?»
«Uh, credo di sì, signore.» Don aspettò un momento, e poi non riuscì a trattenersi, «Ma perché? Forse parlo a sproposito, però mi sembra che dovrei sapere per quale motivo lo facciamo.»
«Che cosa vuoi sapere?»
«Be’… cosa c’è nel pacco?»
«Lo vedrai. Potrai aprirlo, esaminarlo, e decidere da solo. Se decidi di non consegnarlo a tuo padre, puoi farlo; la decisione spetta a te. In quanto al resto… quali sono le tue convinzioni politiche, Don?»
«Be’… non è facile dirlo, signore.»
«Uhm… nemmeno le mie erano chiare, quando avevo la tua età. Mettiamola così: sei disposto ad assecondare i tuoi genitori, almeno per il momento? Fino a quando non ti sarai formato un’opinione precisa?»
«Be’, certo!»
«Non ti è parso un po’ strano che tua madre insistesse tanto, perché tu venissi a trovarmi? Non è il momento per essere educati… So benissimo che un giovane che arriva nella grande città non va a trovare delle persone più o meno estranee per sua decisione. Ho avuto anch’io la tua età; anche se sono sempre stato un ragazzo di città, e, come posso dire, i costumi sono diversi da quelli della scuola-fattoria… ma non importa. Be’, in ogni caso… tua madre pensava certamente che fosse importante venirmi a trovare. Vero?»
«Penso di sì.»
«Vogliamo lasciare le cose a questo punto? Tu non puoi dire quello che non sai… e non potrai metterti nei guai.»
Don rifletté su quelle parole. Le parole del dottore parevano sensate, eppure era chiaramente contrario al buonsenso accettare di fare qualcosa di misterioso, senza conoscere i motivi e la situazione. D’altra parte, se lui avesse ricevuto semplicemente il pacco, lo avrebbe certamente consegnato ai suoi genitori, senza neppure pensarci troppo. La situazione era cambiata, ma la realtà restava.
Stava per fare delle altre domande, quando le luci tornarono, e la piccola automobile cominciò a ronzare. Il dottor Jefferson disse:
«Ecco qua; si va, finalmente!» si piegò sulla tastiera di comando, e formò rapidamente un codice di destinazione. Il tassi automatico si mosse. Don fece per parlare, ma il dottore scosse il capo.
L’automobile percorse numerose gallerie, scese una rampa e si fermò in una grande piazza sotterranea. Il dottor Jefferson pagò l’importo della corsa, e guidò Don attraverso la piazza, fino a un ascensore per pedoni. La piazza era gremita di gente, e si poteva avvertire la tensione frenetica di tutti, a causa dell’allarme d’incursione spaziale, anche se era stata solo una simulazione. Furono costretti ad aprirsi la strada a spintoni, attraverso una massa di persone radunate intorno a un gigantesco teleschermo pubblico, situato proprio al centro della piazza. Don fu lieto di salire a bordo dell’ascensore, benché la vasta piattaforma fosse anch’essa gremita di gente.
L’immediata destinazione di Jefferson fu un’altra fermata di tassi, in una piazza molti livelli più in alto. Salirono su un tassi, e si allontanarono; questo nuovo veicolo li condusse per diversi minuti attraverso la città, poi si fermarono, percorsero un breve tragitto, e salirono su un altro tassi. Don era completamente confuso, a questo punto, e non avrebbe più saputo dire dov’era il nord, dov’era il sud, oppure l’alto, il basso, l’est e l’ovest. Il dottore guardò il suo orologio, quando scesero dall’ultimo tassi, e disse:
«Abbiamo già passato il tempo a sufficienza. Qui, guarda.» Indicò una cabina videofonica che si trovava vicinissima.
Don entrò nella cabina, e chiamò l’Hilton. Era arrivata posta per lui? No, non era arrivata. Allora spiegò che non era registrato all’albergo, ma che aveva dato il recapito in vista del suo arrivo; l’impiegato controllò di nuovo. No… dolente, signore.
Don uscì dalla cabina, e disse al dottor Jefferson la notizia. Il dottore si mordicchiò il labbro.
«Figliolo, ho commesso un gravissimo errore di giudizio.» Si guardò intorno; nelle vicinanze non c’era nessuno. «E ho sprecato del tempo prezioso.»
«Posso fare qualcosa, signore?»
«Eh? Sì, penso di sì… ne sono certo.» Fece un’altra pausa, immerso nelle proprie riflessioni. «Torneremo nel mio appartamento. Dobbiamo farlo. Ma non rimarremo là. Troveremo qualche altro albergo… non l’Hilton… e ho paura che dovremo lavorare per tutta la notte. Te la senti?»
«Oh, certamente!»
«Io ho delle pillole antisonno; potranno servirci. Ascolta, Don, qualunque cosa succeda, tu dovrai assolutamente salire a bordo di quell’astronave, domani mattina. Capito?»
Don assentì. Lui intendeva prendere l’astronave in ogni caso, e non riusciva a scorgere alcun motivo per non farlo. Intimamente, cominciava a domandarsi se il dottor Jefferson fosse completamente a posto di cervello.
«Bene. Andremo a piedi; non è lontano.»
Mezzo miglio di galleria e una discesa a bordo di una piattaforma-ascensore li condussero all’appartamento. Quando svoltarono nella galleria che ospitava la porta dell’appartamento di Jefferson, l’uomo guardò dappertutto, furtivamente; la galleria era deserta. Attraversarono in fretta e raggiunsero la porta. Il dottore lo precedette. Aprì la porta. Due sconosciuti erano seduti tranquillamente nel soggiorno. Ciascuno occupava una poltrona posta lateralmente, rispetto alla porta.
Jefferson guardò i due uomini, e disse:
«Buonasera, signori,» e si rivolse al suo ospite. «Buonanotte, Don. È stato un piacere rivederti, e ti prego di ricordarmi ai tuoi genitori.» Strinse la mano di Don, e con fermezza lo condusse verso la porta.
I due uomini si alzarono in piedi. Uno di loro disse:
«Lei ha impiegato molto tempo per arrivare a casa, dottore.»
«Avevo dimenticato l’appuntamento, signori. E ora, addio, Don… non voglio che tu faccia tardi.»
L’ultima frase fu accompagnata da una maggiore pressione sulla mano di Don. Il ragazzo rispose:
«Uh… buonanotte, dottore. E grazie di tutto.»
Si voltò, avviandosi verso la porta, ma l’uomo che aveva parlato si spostò rapidamente, mettendosi tra Don e la porta.
«Un attimo solo, per favore.»
Fu il dottor Jefferson a rispondere, immediatamente:
«Davvero, signori, non c’è alcun motivo di trattenere questo ragazzo. Lasciamolo andare, in modo che ci sia possibile discutere dei nostri affari.»
L’uomo non rispose direttamente, ma chiamò:
«Elkins! King!» Altri due uomini comparvero sulla soglia di un’altra camera dell’appartamento. L’uomo che pareva il capo disse loro, «Portate il ragazzo in camera da letto. Chiudete la porta.»
«Vieni con noi, giovanotto.»
Don, che aveva tenuto la bocca chiusa e aveva cercato di decifrare il senso di quei nuovi, incomprensibili avvenimenti fatti di confusione e disorganizzazione, a questo punto perse la pazienza. Era sempre stato un carattere impulsivo… e testardo. Ormai il fatto che quegli uomini appartenessero al servizio di sicurezza governativo era per lui qualcosa di più di un sospetto, anche se i poliziotti non indossavano l’uniforme… ma la sua educazione non aveva mai sottolineato l’esistenza di una possibilità secondo la quale i cittadini onesti avessero qualcosa da temere dalla legge.
«Aspettate un momento!» protestò. «Io non vado da nessuna parte. Che razza d’idea è questa?»
L’uomo che gli aveva detto di seguirlo si avvicinò, e gli prese il braccio. Don, con uno scrollone, si liberò dal contatto indesiderato. Il capo bloccò ogni ulteriore azione da parte dei suoi uomini, facendo un gesto appena abbozzato.
«Don Harvey…»
«Uh? Sì.»
«Potrei offrirti un certo numero di risposte a questa domanda. Una è questa…» Fece brillare per un momento un distintivo nel palmo della mano. «…ma potrebbe trattarsi di un falso. O, se avessi tempo da perdere, e voglia di perderlo, potrei soddisfare la tua curiosità esibendo un buon numero di pezzi di carta firmati e timbrati di tutto punto, tutti perfetti, legali, autorevoli, e firmati da nomi molto importanti.» Don notò che la voce dell’uomo era gentile, quasi raffinata, e la scelta delle parole indicava una persona di notevole cultura. «Ma si dà il caso che io sia stanco, e abbia fretta, e non voglia prendermi il fastidio di giocare con un ragazzo curioso. Così, cerchiamo di stabilire un punto fermo: noi qui siamo in quattro, e tutti armati. Così… vuoi seguire questi due uomini pacificamente, senza domande, o preferisci essere pestato un poco, e poi trascinato via a forza?»
Don fu sul punto di rispondere per le rime, perché ancora non gli era chiaro che quella non era la scuola, e non si trattava di una delle solite bravate tra studenti. Il dottor Jefferson s’intromise frettolosamente nella conversazione:
«Fa’ come ti chiedono, Donald!»
Don chiuse la bocca, e seguì uno dei due subalterni nel corridoio. L’uomo lo condusse nella camera da letto, e chiuse la porta.
«Siediti,» gli disse, in tono gentile. Don non si mosse. Il suo guardiano si avvicinò, gli appoggiò la mano sul petto, e spinse. Fu una spinta forte. Don si mise a sedere.
L’uomo sfiorò un pulsante, sul pannello di comando del letto, facendo sollevare il letto in posizione di lettura, poi si distese tranquillamente su di esso. Parve scivolare nel sonno, ma ogni volta che Don guardava da quella parte, gli occhi dell’uomo sostenevano il suo sguardo, vigili e freddi. Don tese le orecchie, cercando di sentire quello che stava accadendo nel soggiorno, ma avrebbe potuto risparmiarsi la fatica; la camera, essendo una camera da letto, era completamente antiacustica.
Così Don restò seduto dov’era, indeciso e nervoso, cercando di ricavare una linea sensata dalle cose incredibili che gli erano accadute. Era tutto assurdo, inverosimile. Ricordò, quasi con incredulità, che non erano passati lunghi secoli dal giorno in cui lui e Sonno avevano iniziato la scalata della Fossa del Viaggiatore; sobbalzò, si rese conto che quell’evento aveva avuto luogo soltanto al mattino dello stesso giorno. Si domandò che cosa stesse facendo Sonno in quel momento, e se quel furfantello avido sentisse la sua mancanza.
Probabilmente no, ammise tra sé, malinconicamente.
Lanciò un’occhiata di sbieco al guardiano, domandandosi se, rannicchiandosi bene, portando i piedi sotto il corpo, cercando di fare leva con essi, gli fosse stato possibile…
Il guardiano scosse il capo.
«Non farlo,» ammonì.
«Non devo fare cosa?»
«Non tentare di saltarmi addosso. Potresti costringermi ad agire, e allora potresti farti male… seriamente.» L’uomo, apparentemente, ritornò a dormire.
Don scivolò in uno stato di apatia. Anche se fosse riuscito a sorprendere quel poliziotto, se avesse potuto perfino eliminarlo, metterlo a dormire per qualche tempo, o legarlo… ce n’erano altri tre, là fuori, tra lui e la porta. E se anche fosse riuscito a sfuggire a quei tre? Una città straniera, gigantesca, complessa oltre ogni misura, nella quale loro avevano organizzato tutto, tenevano tutto sotto controllo… dove avrebbe potuto fuggire?
Un giorno, alla fattoria, aveva visto il gatto della stalla che giocava con un topolino. Aveva osservato lo spettacolo per un momento, affascinato, anche se le sue simpatie erano andate tutte al topolino; aveva indugiato provando una dose incontrollabile di ammirazione per il felino, prima di farsi avanti e di liberare la povera bestiola dalla sua infelice posizione. Il gatto non aveva permesso al topo di allontanarsi neppure una volta oltre la portata delle sue zampe vellutate, e aveva proseguito quel gioco, sornione, socchiudendo soddisfatto gli occhi come solo i gatti felici sanno fare. E adesso lui, Donald Harvey, era il topo…
«Su, in piedi!»
Don balzò in piedi, sobbalzando, e faticando a identificare l’ambiente nel quale si trovava, e la situazione.
«Vorrei avere la tua coscienza tranquilla,» disse il guardiano, in tono ammirato. «È veramente un dono di natura essere capaci di dormire in qualsiasi situazione. Vieni; il capo ti vuole.»
Don precedette il suo custode nel soggiorno; là non c’era nessuno, a eccezione del compagno dell’uomo che lo aveva custodito. Don si voltò, e disse:
«Dov’è il dottor Jefferson?»
«Non importa,» replicò il guardiano. «Il tenente detesta aspettare.» Si avviò alla porta.
Don restò dov’era. Il secondo guardiano, con aria molto casuale, lo prese per un braccio; Don sentì un dolore lancinante all’altezza della spalla, e si affrettò ad assecondare i desideri dei poliziotti.
Fuori, nella galleria, c’era un’automobile a guida manuale, assai più grande dai tassi automatici. Il secondo poliziotto s’infilò al posto di guida; l’altro spinse Don nel compartimento passeggeri. Don sedette, e fece per voltarsi… e scoprì di non poterlo fare. Era incapace perfino di alzare le mani. Ogni tentativo di muoversi, di fare qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse sedere e respirare, era frustrato da un peso che pareva quello di decine e decine di pesanti coperte.
«Non farti cattivo sangue,» consigliò il poliziotto. «Potresti farti male, cercando di combattere questo campo. E non ti servirebbe a niente.»
Don volle controllare la veridicità delle affermazioni dell’altro. Qualunque fosse la natura di quello strano legame, più egli faceva forza per spezzarlo, più strettamente si sentiva legato. D’altra parte, quando si rilassava e si metteva quieto, non ne avvertiva neppure la presenza.
«Dove mi state portando?» domandò.
«Non lo sai? Alla direzione cittadina dell’I.B.I., naturalmente.»
«Perché? Io non ho fatto niente!»
«In questo caso, non dovrai restarci per molto.»
L’automobile si fermò all’interno di un grande salone nel quale erano parcheggiati molti veicoli; i tre scesero e camminarono fino a una porta, di fronte alla quale si fermarono; Don ebbe la netta sensazione di essere esaminato. Dopo un breve intervallo, la porta si aprì; ed essi entrarono.
Il luogo sprigionava un inconfondibile odore di burocrazia. Percorsero un lunghissimo corridoio, nel quale si aprivano lunghe, interminabili teorie di uffici pieni d’impiegati, di scrivanie, di transdittafoni, e di elaboratori di schede che ronzavano vigorosamente. Un ascensore li portò a un altro livello; uscirono, percorrendo un altro dedalo di corridoi asettici, lucidi e impersonali, e si fermarono davanti alla porta di un ufficio.
«Dentro,» disse il primo poliziotto. Don entrò; la porta scorrevole si chiuse alle sue spalle, lasciando fuori i due guardiani.
«Siediti, Don.» Era il capo del gruppo dei quattro uomini, ora nell’uniforme di ufficiale della sicurezza, seduto dietro una scrivania a ferro di cavallo.
Don disse:
«Dov’è il dottor Jefferson? Cosa gli avete fatto?»
«Siediti, ho detto.» Don non si mosse; il tenente proseguì, «Perché vuoi procurarti dei guai? Sai dove ti trovi; sai che potrei costringerti a fare quel che desidero, in qualsiasi maniera mi possa convenire… e alcune di queste maniere sono sufficientemente spiacevoli. Vorresti metterti a sedere, per favore, risparmiando fastidi a entrambi?»
Don si mise a sedere, e immediatamente disse:
«Voglio vedere un avvocato.»
Il tenente scosse il capo con estrema lentezza, e il suo aspetto era quello di un professore stanco e gentile.
«Ragazzo mio, tu hai letto troppi romanzi romantici. Ora, se avessi invece studiato la dinamica della storia, ti renderesti conto che la logica del legalitarismo si alterna con la logica della forza, in un disegno che dipende dalle caratteristiche della civiltà. Ogni civiltà evoca la propria logica fondamentale. Mi segui?»
Don esitò: e l’altro proseguì:
«Non importa. Il fatto è che la tua richiesta di un avvocato giunge con circa duecento anni di ritardo per avere qualche significato. I verbalismi rimangono distanziati dai fatti. Malgrado ciò, tu avrai un avvocato… o un lecca-lecca, quello tra i due che preferisci… non appena avrò terminato d’interrogarti. Se fossi in te, sceglierei il lecca-lecca. È più nutriente.»
«Non dirò una sola parola, senza un avvocato,» rispose Don, con fermezza.
«No? Come mi dispiace. Don, nel preparare il programma del nostro colloquio, ho riservato undici minuti per le idiozie. Ormai ne hai già consumati quattro… no; cinque. Quando gli undici minuti saranno passati, e tu comincerai a sputare i denti, uno per uno, ricordati che non lo farò con malizia; non ho alcun motivo di astio nei tuoi confronti. Ora, a proposito della faccenda che hai detto prima… il fatto che tu possa o non possa parlare; ci sono diversi metodi per fare parlare un uomo, e ciascun metodo ha i suoi appassionati, che sono pronti a giurare sulla sua validità. Le droghe, per esempio… ossido di nitro, scopolamina, pentothal di sodio, per non menzionare alcune delle più recenti, più sottili, e relativamente atossiche, che sono state realizzate. Perfino gli etilici sono stati usati, con grande successo, da funzionali del servizio segreto. Io non amo le droghe, colpiscono direttamente l’intelletto, e ingombrano un interrogatorio di una quantità di dati che non m’interessano, né mi sono utili. Ti sorprenderebbe sapere quanto pattume si può accumulare nel cervello di un uomo, Don, se tu fossi costretto ad ascoltarlo… come vi sono costretto io.
«E poi c’è l’ipnosi, con le sue molte varianti. C’è anche la stimolazione artificiale di un bisogno insopprimibile, come nel caso di un’assuefazione alla morfina. Finalmente, c’è la forza più antiquata… il dolore. Be’, io conosco un artista… credo che in questo momento si trovi nell’edificio… che può interrogare con successo anche il caso più recalcitrante, nel tempo minimo e servendosi solo delle mani nude. Poi, naturalmente, in questa categoria, c’è l’antichissima variazione, nella quale la forza, o il dolore, non vengono applicati alla persona interrogata ma a una seconda persona che la prima non può vedere soffrire, come una moglie, un figlio, o una figlia. Fra parentesi, questo metodo parrebbe difficile da usare su di te, poiché i tuoi unici parenti non si trovano su questo pianeta.» L’ufficiale della sicurezza lanciò un’occhiata all’orologio, e aggiunse, «Solo trenta secondi d’idiozie ancora a disposizione, Don. Vogliamo cominciare?»
«Uh? Aspetti un momento! È stato lei a consumare tutto il tempo; io non ho detto neanche una parola.»
«Non ho tempo per essere equo. Spiacente. Comunque,» proseguì, «L’apparente obiezione all’ultimo metodo non si applica nel tuo caso. Durante il breve periodo nel quale sei rimasto incosciente, nell’appartamento del dottor Jefferson, siamo riusciti a determinare l’esistenza di una… persona… che si adatta alle nostre esigenze. Tu parlerai subito, per non vedere soffrire questa… persona.»
«Uh?»
«Un cavallino chiamato ‘Sonno’.»
L’insinuazione lo prese alla sprovvista; Don non aveva capito, fino a quel momento, quale fosse l’obiettivo dell’accurata costruzione verbale del poliziotto. Il giovane rimase paralizzato, stordito. L’uomo si affrettò a proseguire:
«Se proprio insisti, possiamo aggiornare il nostro incontro per due o tre ore, e così farò portare qui il tuo cavallo con un trasporto speciale. Potrebbe trattarsi di un esperimento interessante, poiché non credo che il metodo sia mai stato usato prima d’oggi con un cavallo. È noto che il loro udito è piuttosto sensibile. D’altra parte, mi sento costretto a dirti che, se ci prenderemo il disturbo di farlo venire qui a bordo di un razzo, certamente non ci sobbarcheremo la spesa e la fatica di rimandarlo alla sua fattoria, ma lo manderemo direttamente nei mattatoi, dove verrà ucciso. I cavalli sono un anacronismo notevole a Nuova Chicago, non trovi?»
La testa di Don stava girando troppo vorticosamente per riuscire a formare qualche pensiero preciso, o perfino per seguire tutte le orribili implicazioni di quel discorso, o comunque per dare una risposta. Finalmente, riuscì a esclamare, raucamente:
«Non può fare questo! Non è possibile!»
«Il tempo è scaduto, Don.» Il poliziotto lo fissò con aria gentile, somigliando sempre di più a un tranquillo professore di scuola. «Come vedi, ci sono numerose risposte alla tua prima domanda. La psicologia umana è bizzarra; esiste sempre un oggetto affettivo, o una compensazione di un soggetto affettivo. Ciascuno di noi deve sentirsi legato a qualcuno, o a qualcosa… si tratti di una persona, di un luogo, di una casa, o di un animale. Saresti sorpreso nello scoprire quali strane direzioni può assumere questo desiderio di legarsi emotivamente, soprattutto nei giovani. Be’, non c’è altro da dire, mi sembra.»
Don fece un profondo sospiro, e si arrese.
«Continui,» disse, cupamente. «Faccia pure le sue domande.»
Il tenente prese dalla scrivania una bobina microfilmata, la inserì in un proiettore, il cui schermo si trovava di fronte al poliziotto, invisibile a Don.
«Dimmi il tuo nome, per favore.»
«Donald James Harvey.»
«E il tuo nome venusiano?»
Don emise una breve serie di sibili.
«Nebbia sulle Acque.»
«Dove sei nato?»
«A bordo della Verso l’Infinito, in traiettoria tra la Luna e Ganimede.» Le domande proseguirono, una fiumana apparentemente inarrestabile. L’inquisitore apparentemente possedeva già tutte le risposte, proiettate sullo schermo di fronte a lui; un paio di volte, fece approfondire o correggere a Don qualche punto trascurabile. Dopo avere passato in rassegna l’intera vita passata del ragazzo, egli chiese a Don di fornirgli un resoconto particolareggiato degli eventi che erano iniziati nel momento in cui aveva ricevuto il messaggio dei suoi genitori, con l’ordine di salire a bordo della Valchiria, con direzione Marte.
L’unica cosa che Don tralasciò fu quanto il dottor Jefferson aveva detto a proposito del pacco. Aspettò nervosamente, pensando di ricevere da un momento all’altra qualche secca domanda sull’argomento. Ma se l’ufficiale della sicurezza era al corrente dell’esistenza del pacco, egli non tradì in alcun modo questa sua conoscenza.
«Il dottor Jefferson pareva convinto che quel cosiddetto agente della sicurezza lo stesse seguendo? O stesse seguendo te?»
«Non lo so. Non credo che il dottore lo sapesse.»
«’Il perverso fugge quando nessuno lo insegue’,» citò il tenente. «Dimmi esattamente cosa hai fatto, dopo avere lasciato il Retrobottega.»
«Quell’uomo mi stava davvero seguendo?» domandò Don. «Ma santo cielo, io non avevo mai visto quel drago prima di quel momento; io stavo solo passando il tempo, visto che dovevo attendere, cercando di essere cortese.»
«Sono certo che queste fossero le tue intenzioni. Ma sono io a fare le domande. Procedi.»
«Be’, abbiamo cambiato due volte tassi… o forse tre volte. Non so dove siamo andati; non conosco la città, e a un certo punto sono rimasto completamente confuso; non avrei saputo distinguere una galleria dall’altra. Ma alla fine siamo ritornati nella galleria dove si trova l’appartamento del dottor Jefferson.» Omise di menzionare la chiamata fatta all’Hilton; anche questa volta, se l’inquisitore era al corrente dell’omissione, non ne diede alcun segno.
Il tenente disse:
«Be’, questo apparentemente ci porta al momento attuale.» Spense il proiettore, e si appoggiò allo schienale della sedia, guardando nel nulla per qualche minuto. «Figliolo, non c’è alcun dubbio, nella mia mente, se non per il fatto che tu sia potenzialmente sleale.»
«Perché dice questo?»
«Lascia perdere le formule di cortesia. Non c’è nulla, nella tua educazione e nell’ambiente nel quale sei nato e vissuto, che ti possa rendere fondamentalmente leale alla Terra. Ma non c’è da preoccuparsi troppo di questo; una persona nella mia posizione deve essere pratica. Tu intendi partire per Marte, domattina?»
«Ci può scommettere!»
«Bene. Non vedo come tu possa essere rimasto coinvolto in troppi intrighi, alla tua età, soprattutto essendo isolato in quella scuola-fattoria. Quel tipo di istruzione prepara per la vita sugli altri pianeti, in una civiltà in espansione… ma tende anche a isolare la personalità, rallentandone un poco l’evoluzione in altri campi. Dipende dal tipo di società; la nostra è una società in parte pionieristica, e per avere dei buoni pionieri, i giovani devono conoscere molte cose che non lasciano tempo per altre cose. Perciò, questo ti esclude da qualche intrigo più complesso. Ma non appena sei arrivato in città, sei capitato in cattiva compagnia. Non perdere quell’astronave; se domattina sarai ancora qui, sarò costretto a rivedere le mie opinioni.»
Il tenente si alzò, imitato da Don.
«Certo che prenderò quell’astronave!» ammise Don, di cuore, e poi si interruppe. «A meno che…»
«A meno che cosa?» domandò seccamente il tenente.
«Be’, hanno trattenuto il mio biglietto, in attesa di un permesso dalla sicurezza,» disse Don, balbettando quasi.
«L’hanno trattenuto, eh? Una faccenda di normale prassi; me ne occuperò io, non preoccuparti. Ora puoi andare. Cielo aperto!»
Don non diede la risposta convenzionale. L’uomo disse:
«Non fare lo stupido, e non essere risentito con me. Sarebbe stato più semplice pestarti a sangue, e poi interrogarti, senza disturbarsi con tutte queste cortesie. Ma io non l’ho fatto; vedi, anch’io ho un figlio che ha circa la tua età. E non ho mai avuto l’intenzione di fare del male al tuo cavallo… anch’io adoro i cavalli. Sono nato in campagna, vedi. Nessun rancore?»
«Uh, penso di no.»
Il tenente gli tese la mano; Don l’accettò… scoprì di trovare perfino simpatico quell’uomo. Decise di arrischiare un’ultima domanda:
«Posso salutare il dottor Jefferson?»
L’espressione del tenente cambiò.
«Ho paura di no.»
«Perché? Lo farei sotto la sua sorveglianza, no?»
L’ufficiale esitò.
«Non c’è motivo per cui non debba dirtelo. Il dottor Jefferson era un uomo molto malato. Ha subito una grande emozione, si è scaldato troppo, ha avuto un attacco ed è morto per collasso cardiaco, poche ore fa.»
Don non riuscì a trovare una risposta appropriata, e si limitò a spalancare occhi e bocca, attonito.
«Fatti coraggio!» disse il tenente, seccamente. «Prima o poi, succede a tutti.» Premette un pulsante sulla scrivania; un poliziotto entrò, e gli fu detto di accompagnare fuori Don. Il giovane fu condotto per un’altra strada, diversa da quella che aveva fatto all’inizio, ma era troppo stordito per accorgersene; la visione di lunghissimi, complessi corridoi lucidi e scintillanti era intorno a lui, come una grande ragnatela di metallo e di vetro che lo avviluppava. Il dottor Jefferson… morto? Gli sembrava impossibile. Un uomo così pieno di vita, così evidentemente innamorato della vita… Fu lasciato in una grande galleria pubblica, e stava ancora riflettendo sulla rivelazione.
Improvvisamente, ricordò una frase che aveva udito a scuola, dal professore di biologia:
«In ultima analisi, tutti i tipi di morte possono venire classificati come collasso cardiaco… il cuore si ferma e tu sei morto, qualunque ne sia stata la causa.»
Don sollevò la mano destra, e la fissò, come se fosse stata estranea al suo corpo. Avrebbe cercato di lavarsela il più in fretta possibile.