Il peso dell’accelerazione non era peggiore di quello subito il giorno prima, a bordo dell’Espresso di Santa Fé, ma la spinta iniziale durò per più di cinque minuti, minuti che parvero lunghe ore interminabili. Quando ebbero superato la velocità del suono, il compartimento fu relativamente silenzioso. Don compì un enorme sforzo, e riuscì a girare un poco la testa.
La mastodontica mole di ‘Sir Isaac Newton’ era appiattita sul ponte, e la visione portò a Don l’immagine sgradevole di una lucertola schiacciata su una strada di campagna. Gli occhi a peduncolo erano flosci, cascanti come asparagi avvizziti. La creatura pareva morta.
Don lottò per trovare un po’ di fiato, e chiamò:
«Si sente bene?»
Il venusiano non si mosse. L’apparecchio voder era coperto dalle pieghe flosce del suo enorme collo; pareva improbabile che i suoi tentacoli riuscissero a sfiorare delicatamente i tasti, come era necessario; anche se fosse stato libero, il drago non pareva in condizioni di comunicare. In ogni caso, non rispose neppure nella sua lingua sibilante.
Don avrebbe voluto avvicinarsi a lui, ma era immobilizzato dalla tremenda gravità del decollo come il giocatore di rugby che si trova sotto tutti gli altri in una mischia. Con un nuovo sforzo, riportò la testa nella posizione precedente, in modo da poter respirare con minore sofferenza, e aspettò.
Quando la potenza del decollo fu diminuita, il suo stomaco diede un balzo di protesta, poi si quietò; o l’iniezione antivomito aveva funzionato, o lui aveva recuperato il suo vecchio equilibrio spaziale… a meno che le due cose non si fossero unite. Senza attendere il permesso della sala di comando, rapidamente slegò le cinghie, e si avvicinò al venusiano. Si mosse nell’aria, appoggiandosi con una mano alle fasce d’acciaio che tenevano stretto il suo compagno.
Il drago non era più appiattito sul ponte; solo i semicerchi d’acciaio gli impedivano ora di galleggiare nell’aria, nel compartimento. Dietro di lui, la grande coda si agitava floscia, sfiorando le grandi piastre interne dell’astronave e spezzando piccoli supporti sporgenti qua e là.
I peduncoli alla sommità dei quali si aprivano gli occhi della creatura erano ancora inerti, e ogni occhio era coperto da una sottile pellicola. Il drago si muoveva semplicemente allo stesso modo in cui un tronco galleggiante si muove nell’acqua; nulla mostrava che egli fosse vivo. Don strinse il pugno, e lo batté sul cranio piatto della creatura.
«Mi sente? Sta bene?»
Riuscì soltanto ad ammaccarsi la mano; Sir Isaac non rispose. Don rimase dov’era per un momento, domandandosi cosa avrebbe dovuto fare ora. Era certo che il suo nuovo amico si trovasse in cattive condizioni, ma l’addestramento in primo soccorsa non si estendeva agli pseudo-sauriani di Venere. Cercò di frugare nei lontani ricordi dell’infanzia, cercò di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa.
Lo stesso ufficiale di bordo che era venuto a visitarli prima del decollo apparve sul portello del compartimento, galleggiando a testa in ‘giù’. Nello spazio non esistevano alto e basso, soprattutto in regime di caduta libera.
«Tutto a posto, su questo ponte?» domandò con aria annoiata, poiché si trattava di una pura formalità, e fece per passare oltre.
«No!» gridò Don. «C’è un caso di choc da decollo.»
«Uh?» l’ufficiale entrò nel compartimento, e guardò l’altro passeggero. Lanciò una breve serie d’imprecazioni, nel colorito linguaggio degli spaziali, e assunse un’aria preoccupata. «Si tratta di una cosa superiore alle mie conoscenze; è la prima volta che trasporto un coso simile. Come diavolo si può praticare la respirazione artificiale a un coso grosso come questo?»
«Non è possibile,» rispose Don. «I suoi polmoni sono completamente racchiusi nella corazza toracica.»
«Sembra morto. Direi che ha smesso di respirare.»
Un ricordo si affacciò alla superficie della memoria di Don; il ragazzo si aggrappò a esso.
«Ha una sigaretta, per caso?»
«Eh? Non mi faccia perdere tempo. E poi, la lampada rossa è ancora spenta.»
«Lei non capisce,» insisté Don. «Se ha una sigaretta, l’accenda. Può soffiare del fumo in direzione della piastra-narice del drago, e controllare così se respira o no.»
«Oh. Be’, forse è una buona idea.» Lo spaziale estrasse una sigaretta e l’accese.
«Ma faccia attenzione,» lo avvertì Don. «Non possono sopportare la nicotina. Una sola boccata, e poi la spenga subito.»
«Forse non è un’idea così buona,» obiettò l’ufficiale di bordo. «Senta, ma lei non sarà per caso un colono di Venere?»
Don esitò, poi rispose:
«Io sono un cittadino della Federazione.»
L’idea di discutere di politica in quel momento non sembrava brillante. Si avvicinò al mento del drago, puntò i piedi contro le piastre del ponte, e spinse, esponendo così la piastra-narice del venusiano, che si trovava sotto la testa della creatura, tra le pieghe del collo. Se non fossero stati in caduta libera, e l’assenza di gravità non avesse reso senza peso l’enorme massa del sauriano, Don non sarebbe mai riuscito nell’impresa.
L’uomo soffiò del fumo verso l’apertura così esposta. Il fumo si agitò, scostandosi, poi una piccola parte entrò nell’apertura; il drago era ancora vivo.
Vivo? Anche troppo. Tutti i peduncoli oculari scattarono come molle, rizzandosi in piena attenzione; il drago alzò il mento, portando con esso Don, e poi starnutì. Quella specie di esplosione colpì Don a mezz’aria, e il ragazzo cominciò a roteare su se stesso, come un satellite artificiale impazzito. Finalmente, dopo qualche istante di quella penosa situazione, Don riuscì ad afferrare uno dei supporti di caduta libera.
L’ufficiale di bordo si stava massaggiando un polso.
«Accidenti a lui, mi ha raggiunto,» si lamentò. «Non ho intenzione di riprovarci. Be’, penso che stia benissimo.»
Sir Isaac sibilò in tono lamentoso; Don gli rispose. Lo spaziale lo guardò:
«Lei sa pronunciare quella specie di linguaggio?»
«Un po’.»
«Be’, allora gli dica di usare la scatola. Io non capisco niente.»
Don disse:
«Sir Isaac… vuole usare il voder?»
Il venusiano cercò di obbedire. I suoi tentacoli si agitarono, trovarono i tasti della cassetta della voce artificiale, e li toccarono. Non uscì alcun suono. Il drago girò un occhio verso Don, e sibilò una serie di frasi.
«È spiacente di dover dire che lo spirito della macchina è partito,» tradusse Don.
L’ufficiale di bordo sospirò.
«Certe volte mi chiedo per quale motivo ho lasciato la drogheria di famiglia e ho voluto prendere le vie dello spazio. Be’, se riusciamo a staccare la macchina, andrò a vedere se ‘Scintilla’ riesce ad aggiustarla.»
«Lasci fare a me,» disse Don, e cercò d’infilarsi nello spazio tra la testa del drago e il ponte. La cassetta del voder, scoprì, era assicurata a quattro anelli infilati come orecchini nelle piastre della ‘pelle’ del venusiano. Don non riuscì a scoprire la combinazione di apertura; i tentacoli del drago sfiorarono gentilmente la mano del ragazzo, la spostarono con delicatezza, staccarono la cassetta, e la porsero a Don. Don uscì dall’incomoda posizione, e consegnò lo strumento all’ufficiale.
«Sembra che ci abbia dormito sopra,» fu il suo commento.
«Un bel pasticcio,» ammise l’altro. «Be’, gli dica che farò in modo che sia riparata al più presto possibile… e che sono felice che il decollo non lo abbia fatto star male.»
«Può dirglielo lei; capisce benissimo l’inglese.»
«Eh? Oh, certo, certo.» Si mise di fronte al venusiano, che immediatamente fece partire una lunga serie di sibili. «Che cosa dice?»
Don ascoltò attentamente.
«Dice che lui apprezza i suoi gentili auguri, ma che è dolente di doversi dichiarare in disaccordo; non sta affatto bene. Dice che ha urgente necessità di…» Don si interruppe, e parve perplesso, poi sibilò l’equivalente venusiano di, ‘Può ripetere, per favore?’
Sir Isaac gli rispose; e Don proseguì.
«Dice che ha bisogno solo di un po’ di sciroppo di zucchero.»
«Eh?»
«Ha detto così.»
«Che io sia… quanto?»
Ci fu un nuovo scambio di sibili; Don rispose:
«Uh, dice che ne ha bisogno almeno di un quarto di… non è possibile tradurre esattamente, non c’è equivalente, si tratta di un quantitativo più o meno pari a mezzo barile, direi.»
«Lei intende dire che vuole mezzo barile di zucchero liquido?»
«No, no, un quarto di questo quantitativo… un ottavo di barile. A quanto può equivalere, in galloni?»
«Non ci provo neanche, senza un calcolatore; sono confuso. Non so neppure se ne abbiamo, a bordo». Sir Isaac pronunciò subito una serie di frenetici sibili. «Ma se non ne abbiamo, lo farò preparare al cuoco. Gli dica di stare calmo e di resistere, nel frattempo.» Lanciò un’occhiataccia al drago, e poi girò i tacchi e uscì galleggiando dal compartimento.
Don si aggrappò a una delle cinghie di acciaio, e domandò:
«Come si sente, adesso?»
Il drago rispose, in tono di scusa, indicando che per il momento sentiva il bisogno di ritornare nell’uovo. Don tacque, e aspettò.
Il comandante in persona si presentò a curare il passeggero malato. L’astronave, essendo in libera traiettoria verso la stazione spaziale orbitante intorno alla Terra, non richiedeva la sua presenza nella sala di comando fino a dopo mezzogiorno, tempo di Nuova Chicago; così il comandante era libero di muoversi per l’astronave. Arrivò in compagnia del medico di bordo, e seguito da un uomo che trasportava un contenitore metallico.
I due si misero a discutere davanti al drago, dapprima ignorando la presenza di Don. Però nessuno di loro conosceva il linguaggio pigolante della tribù del drago; così furono costretti a ricorrere a Don. Attraverso il suo giovane interprete, Sir Isaac insisté di nuovo sul fatto che la soluzione di zucchero gli era necessaria, come stimolante. Il comandante assunse un’aria preoccupata.
«Ho letto da qualche parte che lo zucchero li fa ubriacare, come noi ci ubriachiamo con l’alcool. Una questione di reazioni chimiche.»
Don tradusse di nuovo la risposta del venusiano; quella che Sir Isaac aveva chiesto era semplicemente una dose terapeutica.
Il comandante si rivolse all’ufficiale medico. «Cosa ne dice, dottore?»
Il dottore fissò il raccordo del ponte, con aria meditabonda.
«Comandante, questa situazione è al di fuori dei miei doveri professionali come lo sarebbe danzare sulle punte.»
«Accidenti, amico, io le ho chiesto un’opinione ufficiale!»
L’ufficiale medico fissò cupamente il comandante.
«Benissimo, signore… direi che, se il passeggero morisse, dopo che lei gli ha rifiutato quanto le è stato chiesto, la situazione sarebbe molto, molto spiacevole.»
Il comandante si morse il labbro.
«Come lei dice, signore. Ma che mi possano assegnare ai servizi di terra, se io voglio che un drago ubriaco vada avanti e indietro per la mia astronave, come un ciclone. Gli somministri la dose.»
«Io, signore?»
«Lei, signore.»
Essendo l’astronave in caduta libera, era del tutto impossibile versare lo sciroppo e lasciare che il venusiano lo leccasse, né la creatura era attrezzata fisicamente per usare quella specie di poppatoi che gli esseri umani utilizzavano in caduta libera. Ma questo era stato previsto; il contenitore nel quale lo sciroppo era stato versato era del tipo usato nella cucina di bordo per trattenere liquidi o caffè in caduta libera. C’era una pompa a mano, e un corto tubo che poteva essere collegato a qualsiasi posizione desiderata.
Fu deciso in pieno accordo con Sir Isaac, di sistemare l’estremità del tubo il più in fondo possibile alla gola del drago. Ma nessuno parve ansioso di assumersi il lavoro. Dato per certo che il Draco Veneris Wilsonii è una razza civile, infilare testa e spalle tra quelle file di denti aguzzi pareva comunque un invito a una grave rottura nelle relazioni con l’estero.
Don si offrì volontario per il lavoro, e si pentì, quando la sua offerta venne gioiosamente accettata dallo stato maggiore di bordo. Aveva piena fiducia in Sir Isaac, ma ricordava che a volte Sonno gli aveva pestato il piede, del tutto inavvertitamente, pur adorandolo. Sperò che il drago non avesse del disgraziati riflessi involontari; un cadavere, generalmente, non prova nessuna soddisfazione nel ricevere delle scuse.
Mentre teneva l’estremità del tubo saldamente nella posizione indicata, Don tratteneva il respiro, e ringraziò più volte mentalmente la provvidenza per avere fatto quell’iniezione antivomito. L’alito del drago non era fetido come a volte capitava nei suoi colleghi, ma non si trattava neppure di un ambiente profumato. Finito il lavoro, Don ritornò sul ponte con testa e spalle, pronunciando mentalmente una lunga serie di ringraziamenti allo stesso, sconosciuto protettore degli astronauti in difficoltà.
Sir Isaac li ringraziò tutti, per mezzo di Don, e assicurò che ora si sarebbe ripreso con grande prontezza. Nel bel mezzo del suo sibilare, parve addormentarsi di colpo. Il medico di bordo sollevò un peduncolo oculare, e vi accostò una lampadina.
«Credo che la sostanza gli abbia fatto effetto. Lasciamolo in pace, e preghiamo il cielo che tutto finisca bene. Getti ardenti!»
Se ne andarono tutti, piuttosto in fretta. Don squadrò ben bene il suo amico, decise che era inutile starsene là con lui, e seguì gli ufficiali. Il compartimento non aveva un oblò; e lui desiderava dare almeno una buona occhiata alla Terra, mentre l’astronave si trovava ancora nelle vicinanze del corpo planetario. Trovò quel che cercava verso prua, a tre ponti di distanza.
Erano ancora appena a quindicimila miglia dalla Terra; Don fu costretto a pigiarsi vicino alla superficie lucida dell’oblò-schermo, per vedere l’intero pianeta in una sola volta. Dovette ammettere che si trattava di un mondo veramente bello; e per un istante, provò una certa nostalgia, all’idea di lasciarlo. Un globo sospeso là, nel cielo di velluto nero, incrostato di stelle luminose, piccole come capocchie di spillo, inondato dai raggi del sole che lo rendevano luminoso tanto da far dolere gli occhi, era così bello da togliere il respiro.
La linea dell’aurora si era spostata nel Pacifico, oltre le Hawaii, e tutto il continente nordamericano brillava nel sole, esposto al suo sguardo. Il Nord-Ovest del Pacifico era oscurato da grandi nubi di tempesta, ma il Centro-Ovest era chiaro, nitido, e tutto il Sud-Ovest era come cristallo aperto ai suoi sguardi. Poteva distinguere il luogo in cui sorgeva Nuova Chicago con estrema facilità; poteva distinguere il Grand Canyon, e da quel punto l’immaginazione dipingeva i luoghi conosciuti, le colline e i passi e le pianure dove la fattoria si trovava. Era certo che, con un piccolo telescopio, avrebbe potuto distinguere perfettamente i luoghi della sua adolescenza.
Era la stessa visione che doveva essersi presentata ad Harriman… agli albori del volo spaziale, prima della fondazione di Luna City. Un grande pianeta immerso nella luce del sole, al centro di un universo nero e stellato, un’isola calda dalle verdi colline… un nodo di commozione gli strinse la gola. Lui aveva vissuto laggiù, su quel pianeta, e il ricordo era ancora vivo; anche se era nato nello spazio e aveva conosciuto le paludi di Venere e le distese bianche della Luna, e i rossi deserti di Marte erano un concetto familiare, quel mondo verde e azzurro aveva qualcosa che faceva stringere il cuore di chi lo lasciava. Ma lui lo stava lasciando, ora. Le stelle erano davanti a lui, e la Luna, e Marte.
Con un sospiro, finalmente, lasciò il suo posto, e voltò le spalle alle dolci, verdi colline della Terra. Stava affondando nella dolce malinconia di una blanda nostagia, e i commenti di alcuni altri passeggeri cominciavano ad annoiarlo… non le sciocchezze allegre, i gridolini di meraviglia dei turisti, ma le osservazioni saccenti di quelli che si proclamavano veterani degli spazi, e che erano al loro secondo viaggio nell’infinito. Scuotendo il capo, si avviò verso il suo compartimento.
Fu sorpreso, nell’udire il suo nome. Si voltò, e vide che l’ufficiale di bordo che aveva incontrato precedentemente stava galleggiando nell’aria, e veniva nella sua direzione. L’ufficiale aveva con sé il voder di Sir Isaac.
«A quanto sembra, lei è in buoni rapporti con quel coccodrillo troppo ammaestrato che divide il suo compartimento; che ne direbbe di portargli questo?»
«Be’, certamente.»
«L’ufficiale radio dice che ha bisogno di una revisione completa, ma per lo meno adesso potrà funzionare di nuovo.» Don accettò il meccanismo, e si diresse verso poppa. Il drago pareva addormentato, poi un occhio tremolò, gli fece un cenno, e Sir Isaac sibilò un saluto.
«Ho qui la sua voce artificiale,» gli disse Don. «Vuole che la metta a posto io?»
Sir Isaac, con estrema cortesia, rifiutò l’offerta. Don porse lo strumento ai tentacoli e il drago adattò il voder al suo corpo. Poi passò la punta dei tentacoli sui tasti, per controllare il funzionamento, producendo dei suoni che somigliavano allo starnazzare di un branco di anatre spaventate. Soddisfatto, il drago cominciò a parlare in inglese:
«Sono arricchito dal debito che lei ha posto sopra di me,» dichiarò.
«Non è stato nulla,» rispose Don. «Mi sono imbattuto nel secondo a poca distanza da qui, e lui mi ha chiesto di portarlo a lei.»
«Non mi riferisco a questa voce artificiale, ma al suo pronto soccorso quando io ero nel dolore e in pericolo. Senza il suo rapido ingegno, senza il suo desiderio di dividere il fango con uno straniero del quale mai prima d’ora aveva provato l’amicizia, e… inoltre… senza la sua conoscenza della vera lingua avrei potuto perdere la possibilità di raggiungere la morte felice.»
«Shucks!» rispose Don, sentendosi un po’ più rosso in viso. «È stato un piacere.» Notò che le parole del drago erano più lente e un po’ strascicate, come se i tentacoli mancassero dell’abituale destrezza. Inoltre, il linguaggio di Sir Isaac era più pedante che mai, e aveva un accento ancor più britannico… il voder aspirava la pronuncia con liberalità, e trasformava le ‘z’ in ‘f’ secondo la più nobile tradizione dell’antica Londra; Don fu sicuro che il terrestre che aveva insegnato a parlare a Sir Isaac doveva essere nato a poca distanza dal Big Ben e dalla Torre di Londra.
Notò anche che il suo amico pareva indeciso sull’occhio da usare per osservarlo. Continuava a dimenare un peduncolo dopo l’altro in direzione di Don, come se ne cercasse uno che gli permettesse di mettere meglio a fuoco l’immagine. Don si domandò se per caso Sir Isaac non avesse sopravvalutato l’entità più appropriata di una dose terapeutica.
«Mi permetta,» continuò il venusiano, sempre con poderosa dignità, «Di giudicare io stesso il valore del servigio che mi ha reso.» Cambiò argomento, «Quella parola ‘shucks’… non riesco a riconoscere l’uso che lei ne ha fatto. Si tratta forse di bucce di piante?»
Don si sforzò di spiegare quanto e quanto poco ‘shucks’ potesse significare. Il drago rifletté sulle complicazioni verbali, e formò sui tasti una risposta.
«Io credo di aver ottenuto una porzione di nuova comprensione. Il contenuto semantico di questa parola è emotivo e variabile, invece che essere ordinato e descrittivo. Il suo referente è lo stato dello spirito di chi la usa?»
«Proprio così,» disse Don, soddisfatto. «Significa esattamente quel che lei vuole che significhi. Dipende dalla maniera in cui lo dice.»
«Shucks,» disse il drago, a tìtolo sperimentale. «Shucks. Mi sembra di cominciare a percepirne la sostanza. Una parola deliziosa. Shucks.» Continuò, «Le sottili mutazioni del parlare devono essere apprese dai vivi che se ne servono. Forse potrò ricambiare il favore, aiutandola ad acquisire qualche piccola saggezza in più nella sua già grande padronanza della parola del mio popolo? Shucks.»
Questo confermò il sospetto di Don, secondo il quale il suo modo di sibilare era diventato così selvaggio da poter essere usato da un venditore ambulante, per annunciare il prezzo della sua merce, ma non per comunicare regolarmente a un livello civilizzato.
«Apprezzerei certamente la possibilità di migliorare,» rispose. «Non ho avuto occasione per molti anni di parlare la ‘vera lingua’… da quando ero bambino. Essa mi è stata insegnata da uno storico, che lavorava con mio padre sulle rovine di (una breve serie di sibili). Forse lei lo conosce? Il suo nome è ‘Professor Charles Darwin’.» Don aggiunse la versione sibilata, o meglio, autentica, del nome dello studioso venusiano.
«Lei mi domanda se io conosco (una serie di sibili)? Egli è mio fratello; sua nonna, nove generazioni prima di lui, e mia nonna sette generazioni prima di me, furono lo stesso uovo. Shucks!» Aggiunse, «Una persona erudita, per essere così giovane.»
Don rimase un po’ sconcertato nell’udire che il «Professor Darwin» veniva descritto come «un giovane»; da bambino, aveva classificato lui e le rovine più o meno della stessa età. Ora fu costretto a ricordare che Sir Isaac poteva vedere le cose da un punto di vista diverso.
«Be’, ma questo è magnifico!» rispose. «Mi chiedo se lei non abbia conosciuto anche i miei genitori… il professor Jonas Harvey, e la dottoressa Cynthia Harvey?»
Il drago puntò tutti gli occhi su di lui. Si trattava della massima manifestazione di sorpresa, per un drago.
«Lei è il loro uovo? Non ho mai avuto l’onore di incontrarli, ma tutte le persone civili conoscono loro e il loro lavoro. Ora non sono più sorpreso della sua eccellenza. Shucks!»
Don provò una mescolanza d’imbarazzo e di piacere. Non sapendo cosa dire, suggerì a Sir Isaac di erudirlo un poco nella ‘vera lingua’, un suggerimento che il drago accettò con evidente piacere. Erano ancora impegnatissimi nel lavoro, quando il segnale di allarme suonò, e una voce che veniva dalla sala di comando annunciò:
«Assicurarsi le cinture per l’accelerazione! Prepararsi all’appuntamento orbitale!»
Don posò le mani sul fianco corazzato del suo amico, e con una lieve spinta ritornò alla sua cuccetta. Si fermò là, e disse:
«Non c’è pericolo che si senta male, ora?»
Il drago produsse un suono che a Don parve l’equivalente venusiano di un rutto di soddisfazione, e la voce artificiale annunciò:
«Ne sono certo. Questa volta sono fortificato.»
«Lo spero. Senta… non vorrà schiacciare di nuovo il suo voder. Vuole che lo prenda in custodia io?»
«Se è disposto, ne sarò lieto, grazie.»
Don ritornò accanto alla mastodontica creatura, prese il voder, e lo legò saldamente al mucchio dei suoi bagagli. Ebbe appena il tempo di allacciare le cinture di sicurezza, quando il primo impatto dell’accelerazione li colpì. Questa volta non fu una prova così spiacevole, e furono diverse gravità in meno di quelle del decollo dalla Terra, e la durata fu minore, perche l’astronave non si stava liberando dalla potente forza di attrazione del pianeta, ma stava semplicemente regolando la traiettoria… modificando l’estremità dell’orbita ellittica, il Cammino della Gloria poteva adattare perfettamente la sua traiettoria all’orbita circolare di Circum-Terra, la stazione di transito sospesa nello spazio, vero incrocio tra la Terra e tutti i mondi colonizzati, che era la loro destinazione.
Il comandante diede una lunga spinta d’accelerazione, aspettò, poi accese i razzi per altre due volte, a brevi intervalli… senza trovare necessario, notò Don, di invertire la rotta e azionare i razzi di prua. Il giovane annuì tra sé, esprimendo la propria approvazione. Quello era un buon modo di pilotare una nave spaziale… il comandante conosceva bene i suoi vettori. La sirena interna ululò, e una voce cantilenante disse:
«Contatto! Potete slacciare le cinture. Prepararsi allo sbarco.»
Don restituì il voder a Sir Isaac, poi dovette separarsi dal drago, perché ancora una volta il venusiano dovette essere portato via attraverso la stiva. Don sibilò un saluto, e poi si diresse verso prua, portando i suoi bagagli, per uscire attraverso il condotto pressurizzato di sbarco per i passeggeri.
Circum-Terra era una grande massa confusa nel cielo. Era stata costruita, ricostruita, nuove sezioni erano state aggiunte, e numerose modifiche erano state fatte nel corso degli anni, per una buona dozzina di motivi diversi… stazione di osservazione meteorologica, osservatorio astronomico, stazione di classificazione delle meteore, relé televisivo, stazione di controllo per missili teleguidati, laboratorio di fisica immerso in un invidiabile, autentico vuoto, e libero da ogni tensione gravitazionale, laboratorio per esperimenti biologici perfettamente e naturalmente sterile… questi erano solo alcuni degli usi che erano stati fatti di Circum-Terra, ma ce n’erano moltissimi altri.
Ma sopra ogni altra cosa si trattava di una stazione di transito per merci e passeggeri nello spazio siderale, il luogo nel quale le astronavi adatte per brevi distanze e fornite di alettoni che partivano dalla Terra incontravano gli incrociatori siderali che viaggiavano tra i pianeti. A questo scopo la stazione conteneva grandi serbatoi di rifornimento, officine meccaniche ed elettroniche, ‘telai spaziali’ di riparazione che potevano ricevere gli incrociatori più grandi e i traghetti cosmici più piccoli, e un cilindro rotante, pressurizzato… «Goddard Hotel»… che offriva gravità artificiale e atmosfera terrestre ai passeggeri e al personale residente di Circum-Terra.
Goddard Hotel sporgeva dal fianco di Circum-Terra come la ruota di un carro da un mucchio di rottami. Il mozzo intorno al quale girava passava per il centro e si protendeva nello spazio. Era a questo mozzo che un’astronave collegava il tubo pressurizzato, quando scaricava o caricava degli esseri umani. Fatto questo, grandi braccia metalliche spostavano l’astronave fino al boccaporto delle merci, uno dei tanti nel corpo maggiore, e non rotante, della stazione siderale. Quando il Cammino della Gloria stabilì il contatto, c’erano altre tre astronavi in sosta a Circum-Terra, la Valchiria, sulla quale era stato prenotato il passaggio per Marte di Don Harvey, il Nautilus, appena giunto da Venere, e sul quale Sir Isaac si aspettava di ritornare a casa, e l’Alta Marea, il traghetto lunare che si alternava sulla rotta Terra-Luna con la sorella Bassa Marea.
I due incrociatori e il traghetto lunare erano già collegati al corpo principale della stazione; il Cammino della Gloria era fermo accanto al mozzo della ruota, e cominciò immediatamente a scaricare i passeggeri. Don aspettò il suo turno pazientemente, e poi, spingendo avanti il proprio corpo grazie agli anelli metallici appositi, e trascinando dietro di sé i bagagli, si fece avanti, ben presto trovandosi all’interno del Goddard Hotel, ma ancora senza peso, come in caduta libera, nel mozzo cilindrico del Goddard.
Un uomo che indossava la tuta della stazione spaziale guidò Don, e la dozzina di passeggeri che erano con lui, fino a un punto situato quasi al centro del mozzo, dove una grande piattaforma mobile bloccava ogni ulteriore progresso. La porta circolare era aperta e girava molto lentamente, muovendosi insieme al corpo rotante vero e proprio del Goddard.
«Entrate,» ordinò l’uomo. «Fate attenzione a tenere i piedi puntati verso il pavimento.»
Don entrò con gli altri, e scoprì che l’interno della piattaforma era cubico. Una parete portava una scritta in grandi lettere: PAVIMENTO. Don trovò un anello, e si spostò nell’aria, in modo che, non appena fosse stato applicato il peso, i suoi piedi si sarebbero trovati sul pavimento. La piattaforma, in realtà un vero e proprio veicolo, non appena l’uomo in tuta fu salito a bordo, cominciò a muoversi verso il bordo.
Dapprima non ci fu alcun senso di peso, per lo meno non in direzione del ‘pavimento’. Don provò un senso di stordimento, quando l’incremento della rotazione gli fece ronzare l’orecchio. Sapeva di essere stato a bordo di quel veicolo, per metà ascensore e per metà automobile, già un’altra volta, quando aveva avuto undici anni ed era stato diretto alla Terra, per iniziare la scuola e la sua nuova vita laggiù; ma il ricordo era rimasto sepolto per tanti anni, e Don aveva dimenticato tutti gli aspetti spiacevoli dell’esperienza.
Ben presto l’ascensore si fermò; il pavimento diventò il pavimento vero e proprio, benché la gravità fosse ancora inferiore a quella terrestre, e la sensazione di disagio svanì. L’operatore aprì la porta scorrevole e gridò:
«Discesa!»
Don mosse i primi passi all’interno di un vasto compartimento, portando con sé i bagagli. Il compartimento era già affollato da una buona metà dei passeggeri dell’astronave. Don si guardò intorno, alla ricerca del suo amico drago, poi ricordò che l’astronave avrebbe dovuto essere trasferita a un portello di accesso merci, prima che il venusiano avesse potuto sbarcare. Don posò i bagagli sul pavimento, e sedette sopra di essi.
La folla, per chissà quale motivo, pareva inquieta. Don sentì una voce di donna che diceva, accanto a lui:
«È veramente incredibile! Siamo qui almeno da mezz’ora, e sembra che nessuno si sia accorto che siamo arrivati. Questo passa ogni limite!»
Un uomo rispose:
«Abbi pazienza, Martha.»
«Abbi pazienza, dice lui! Ma che bravo! C’è solo una porta di uscita da questo posto, ed è chiusa… e se ci fosse un incendio?»
«Be’, cara, dove penseresti di fuggire, in questo caso? Fuori non c’è nulla, all’infuori di un vuoto nel quale galleggiano delle molecole estremamente rarefatte.»
La donna squittì:
«Oh! Avremmo dovuto andarcene alle Bermude, come volevo io!»
«Come volevi tu, cara?»
«Non essere così meschino!»
Un altro gruppo di passeggeri fu scaricato dall’ascensore, e poi un altro ancora; l’astronave era vuota. Dopo molti minuti di brontolii, durante i quali perfino Don cominciò a meravigliarsi delle carenze nel servizio, l’unica porta — oltre a quella dell’ascensore — si aprì. Invece di un albergatore ansioso di compiacere i suoi ospiti, apparvero tre uomini in uniforme. Gli uomini che erano ai lati del terzo portavano al fianco delle pistole a ‘paralisi di massa’, le stesse che venivano usate per domare le sommosse; il terzo uomo aveva semplicemente una pistola infilata nella fondina. Quest’ultimo individuo fece un passo avanti, piantò i piedi sul pavimento, e posò i pugni sui fianchi.
«Attenzione! Fate silenzio, tutti quanti!»
Ottenne il silenzio richiesto; la sua voce aveva quella sonorità di comando alla quale tutte le folle di tutti i tempi obbediscono senza pensare. Egli proseguì:
«Io sono il sergente McMasters della Prima Squadra di Assalto dell’Alta Guardia della Repubblica di Venere. Il mio ufficiale comandante mi ha mandato qui a informarvi dell’attuale situazione.»
Ci fu un altro breve momento di silenzio, poi un crescente mormorio di sorpresa, di allarme, d’incredulità, e d’indignazione, che ben presto diventò un vero e proprio tumulto.
«Fate silenzio!» gridò il sergente. «E prendete le cose con calma. Non sarà fatto alcun male a nessuno… se obbedirete agli ordini.» Fece una breve pausa, e continuò, «La Repubblica si è impadronita di questa stazione spaziale, e tutti gli occupanti vengono evacuati. Voi terricoli sarete rispediti sulla Terra immediatamente. Quei passeggeri che sono diretti a Venere, essendone cittadini, saranno trasportati in patria… dopo avere superato il nostro controllo di fedeltà. E adesso, cominciamo a mettere ordine.»
Un ometto grasso e nervoso si fece largo tra la piccola folla.
«Lei si rende conto, signore, di quello che sta dicendo? ‘Repubblica di Venere’ dei miei stivali. Questa è pirateria!»
«Ritorna in fila, grassone.»
«Lei non può fare questo. Esigo di parlare con il suo ufficiale comandante.»
«Grassone,» disse il sergente, lentamente. «Torna al tuo posto, prima di ricevere un calcio nello stomaco.» L’uomo arrossì come un papavero, parve soffocare, poi si affrettò a ritornare al suo posto tra la folla.
Il sergente continuò:
«Coloro che sono diretti a Venere formino una fila qui, davanti alla porta. Preparate le vostre carte d’identità e i certificati di nascita.»
I passeggeri, fino a quel momento un gruppo amichevole di compagni di viaggio, si divisero in due campi ostili. Qualcuno gridò, «Viva la Repubblica!», un grido che fu seguito dall’inconfondibile rumore di un violento pugno contro una massa di carne. Una delle guardie si affrettò ad aprirsi un varco tra la folla, per arrestare i disordini. Il sergente sfoderò la pistola, e disse, con voce annoiata:
«Niente politica, per favore. Andiamo avanti con il nostro lavoro.»
In un modo o nell’altro, la fila fu formata. Il secondo della fila era l’uomo che aveva inneggiato alla nuova nazione. Quando presentò i suoi documenti al sergente, disse:
«Questo è un grande giorno! È tutta la vita che lo aspetto!»
«Lo stesso vale per tutti,» rispose il sergente. «Va bene… da quella porta, per l’esame di lealtà. Un altro!»
Don era impegnato a cercare di calmarsi, e a mettere un po’ d’ordine nei pensieri che parevano girare, girare, senza permettergli di comprendere qualcosa di chiaro. E infine fu costretto ad ammettere che era arrivato il momento, che questa era la guerra, la guerra che lui aveva creduto impossibile. Nessuna città era stata bombardata, non ancora… ma quel luogo e quel momento erano il Fort Sumter di una nuova guerra; era abbastanza intelligente da rendersene conto. Per vedere quel che gli stava davanti agli occhi, non aveva bisogno di vedersi minacciato dalla punta di uno stivale nello stomaco.
Si rese conto, provando un brivido, che dopotutto era riuscito a fuggire appena in tempo. La Valchiria poteva essere l’ultima astronave diretta a Marte dalla Terra, per molto, moltissimo tempo. Con la stazione di transito nelle mani dei ribelli, forse sarebbe passati anni, prima che un nuovo incrociatore siderale fosse partito per il pianeta rosso.
Il sergente non aveva detto nulla, fino a quel momento, che riguardasse i passeggeri diretti a Marte; Don si disse che, naturalmente, il primo compito del sergente era quello di dividere i cittadini dei due stati belligeranti. Decise che la cosa migliore da farsi era tenere la bocca chiusa, e aspettare.
Nella fila ci fu un’interruzione. Don sentì dire al sergente:
«Amico, lei si è messo nella fila sbagliata. Lei deve ritornare sulla Terra.»
L’uomo al quale il sergente si era rivolto disse:
«No, no! Dia un’occhiata ai miei documenti; io sono un emigrante, e vado su Venere.»
«Lei ha deciso di emigrare con un po’ di ritardo. La situazione è cambiata.»
«Perché? Sicuro, so che è cambiata. Mi dichiaro in favore di Venere.»
Il sergente si grattò il mento, pensieroso.
«Questo non era stato previsto. Atkinson! Lascia passare quest’uomo; sarà il tenente a decidere.»
Quando ebbe finito di esaminare il gruppo che intendeva andare su Venere, il sergente si avvicinò a un microfono situato nella parete, il microfono di un intercom.
«Jim? Qui Mac, dalla sala dei ricevimenti. Hanno già fatto uscire il drago? No? Be’, fammi sapere quando il Cammino sarà di nuovo al portello di carico; voglio caricare subito.» Si rivolse alla piccola folla. «Benissimo, voi terricoli… ci sarà un po’ di ritardo, così ho deciso di trasferirvi in un’altra sala, dove aspetterete di essere rispediti sulla Terra.»
«Un momento, sergente!» esclamò un passeggero.
«Sì? Che cosa vuole?»
«Dove devono aspettare i passeggeri per la Luna?»
«Uh? Il servizio è sospeso. Lei tornerà sulla Terra.»
«Andiamo, sergente, cerchi di essere ragionevole. A me la politica non interessa minimamente; non m’importa sapere chi amministra questa stazione. Ma io ho degli affari urgenti sulla Luna. È essenziale che io raggiunga Luna City al più presto. Un ritardo mi costerebbe milioni!»
Il sergente lo fissò, spalancando gli occhi. Rimase pensieroso per qualche istante, e poi disse:
«Sì, è proprio un peccato. Vede, fratello, in vita mia non ho avuto mai in tasca nemmeno un biglietto da mille; l’idea di perdere milioni mi terrorizza.» I suoi modi ebbero un mutamento repentino. «Mi stia a sentire, pezzo d’idiota, le è mai capitato di pensare a quello che una bomba potrebbe fare alla cupola di Luna City o di Tycho City? E adesso allineatevi, tutti quanti, in fila per due!»
Don ascoltò queste parole con crescente inquietudine. Eppure, il sergente non aveva detto ancora niente a proposito di Marte. Si mise in fila, ma all’ultimo posto. Quando la fine della fila raggiunse la porta, si fermò.
«Muoviti, ragazzo,» disse il sergente.
«Io non torno sulla Terra,» gli disse Don.
«Uh?»
«Io sono diretto a Marte… devo partire con la Valchiria.»
«Oh, capisco. Cioè, tu dovevi partire per Marte… adesso tornerai sulla Terra, a bordo del Cammino della Gloria.»
Con ostinazione, Don disse:
«Guardi, signore, io devo andare su Marte. Lassù ci sono i miei genitori; mi aspettano.»
Il sergente scosse il capo.
«Ragazzo mio, mi dispiace per te. Davvero mi dispiace. Ma la Valchiria non andrà su Marte.»
«Come?»
«È stata requisita, e adesso è un incrociatore da battaglia dell’Alta Flotta. Partirà per Venere. Così penso che per te sia meglio tornare sulla Terra. Lo so, è brutto che tu non possa raggiungere i tuoi genitori, ma questa è la guerra; non guarda in faccia nessuno.»
Don respirò lentamente, e si costrinse a contare fino a dieci.
«Io non torno sulla Terra. Aspetterò qui, fino a quando un’astronave non partirà per Marte. Non mi muovo.»
Il sergente sospirò.
«Se decidi di fare questo, dovrai stare seduto su una meteora, nell’attesa.»
«Uh? Cosa intende dire?»
«Perché,» disse il sergente, lentamente, «Pochi minuti dopo la nostra partenza, qui ci sarà soltanto una grande nube radioattiva. Hai voglia di recitare una parte da protagonista in un contatore Geiger?»