CAPITOLO XVIII IL «LITTLE DAVID»

Don spalancò la bocca, e fu incapace di richiuderla. Bisognava dire, a suo credito, che, pur pensandoci, lui non aveva mai preso in seria considerazione l’idea; non era sufficientemente presuntuoso per credere che gli sarebbe stato permesso di partecipare al viaggio, semplicemente per esaudire i suoi desideri personali, in quel viaggio.

Phipps continuò:

«Francamente, le faccio questa offerta per liberarmi di lei, per metterla in frigorifero, al sicuro dagli inquisitori della Federazione, fino a quando non avrà più importanza quello che lei sa o non sa. Ma sono convinto di poter giustificare la scelta, anche spassionatamente. Desideriamo addestrare tutti gli uomini che il Little David potrà trasportare in questo viaggio… per formare un nucleo di ufficiali per le astronavi future. Però la mia scelta è limitata… quasi tutti i componenti del nostro gruppo, qui su Venere, sono vecchi, per lo meno troppo vecchi per iniziare una nuova carriera di viaggiatori spaziali, oppure sono dei giovani geni miopi e dal torace ridottissimo, adatti solo per il lavoro di laboratorio. Lei è giovane, è sano, i suoi riflessi sono rapidi… lo so a mie spese!… e fin dall’infanzia lei è avvezzo allo spazio. È nato nello spazio, e vi ha trascorso una parte notevole della sua vita. Certo, lei non è tino spaziale qualificato, per quanto riguarda il lavoro di bordo… ma questo non ha troppa importanza, perché le astronavi che verranno saranno nuove per tutti. Signor Harvey, le piacerebbe andare su Marte… e ritornare dal pianeta rosso come il ‘capitano Harvey’, comandante di un’astronave tutta sua… un’astronave abbastanza forte da colpire quei vermi della Federazione che sono in orbita intorno a Venere?

«O per lo meno, ritornare da Marte come secondo ufficiale,» si corresse Phipps, riflettendo che a bordo di un’astronave biposto ben difficilmente Don avrebbe potuto occupare una posizione inferiore.

Se l’idea gli piaceva? Era fantastica, stupenda, superiore a ogni volo più audace della sua immaginazione! Per poco Don non soffocò, tanto era il suo desiderio di accettare in fretta. Ma poi, quasi subito, fu colpito da un pensiero raggelante; e Phipps si accorse, dalla sua espressione, che c’era qualcosa che non andava.

«Che le succede?» domandò freddamente Phipps, fissandolo con occhi penetranti. «Ha paura?»

«Paura?» Don parve infastidito da quell’osservazione. «Ma certo che avrò paura… ho avuto paura tante volte, ormai, che ho superato la paura di avere paura. Non è questo l’inconveniente.»

«E allora cos’è? Parli!»

«Si tratta di una cosa molto semplice… che lei ha evidentemente trascurato. Io sono ancora in servizio attivo. Non posso andarmene per i fatti miei, a una distanza di cento milioni di miglia e più. dal mio posto di combattimento. Parlando in termini tecnici, questa verrebbe definita ‘diserzione’. E lei conosce il dispositivo militare. Quando riusciranno a mettermi le mani addosso, probabilmente prima mi impiccheranno, e poi cominceranno a fare delle domande.»

Phipps si rilassò visibilmente.

«Oh. Forse questo problema può essere risolto. Lasci che sia io a preoccuparmene.»


Effettivamente, il problema poteva essere risolto. Fu solo tre giorni più tardi che Don ricevette dei nuovi ordini, questa volta scritti, recapitati attraverso sistemi incredibilmente tortuosi e complessi, che, avendo combattuto a sua volta la guerriglia, lui poteva soltanto immaginare. Gli ordini erano così concepiti:


Per: HARVEY, Donald J., Sergente-Specialista 1/c

Via: Canali militari.


1. Con i presenti ordini lei viene assegnato al servizio speciale temporaneo, di durata indefinita.

2. Per esplicare questo servizio lei dovrà viaggiare come e quanto le sarà necessario.

3. Questi ordini le vengono impartiti per gli alti interessi della Repubblica. Quando, a suo giudizio, il suo servizio sarà stato completato, dovrà presentarsi a rapporto alla più vicina autorità competente, e chiedere di essere fornito di mezzi di trasporto che le permettano di presentarsi a rapporto personalmente dal Capo di Stato Maggiore.

4. Per la durata di questo servizio lei viene promosso al grado di sottotenente.

J. S. Busby, Colonnello di Brigata

Per il Generale Comandante


Prima Convalida:

1. Recapito (via corriere)

Henry Marsten, Capitano

Comandante 16a Compagnia di Combattimento

Gondola-trasportata


Unita agli ordini da una graffetta metallica c’era una breve nota scritta, a mano, che diceva:


P.S. Caro «Tenente»,

Questi sono gli ordini più stupidi che io abbia mai dovuto convalidare. Cosa diavolo stai facendo? Hai sposato un’ereditiera dragonessa? O hai sorpreso un Pezzo Grosso che rubava marmellata? In ogni caso, divertiti… e buona caccia!

Marsten.


Don s’infilò gli ordini e il biglietto in tasca. Di quando in quando, infilava là mano in tasca, e li toccava. C’erano sempre.


I giorni passarono lentamente; la linea tratteggiata si avvicinava sempre di più a Marte; e l’intero gruppo fu pervaso da un nervosismo sempre crescente. Un’altra data era stata affissa nella mensa, la data entro la quale il Little David doveva essere pronto… se volevano arrivare in tempo.

Il calendario segnava esattamente quella scadenza improrogabile, il giorno in cui il traghetto-incrociatore vide finalmente salire a bordo il suo equipaggio. Venti minuti prima del decollo, Don era ancora nello studio di Sir Isaac, mentre il suo bagaglio (esiguo com’era) si trovava già a bordo. Dire addio a Sir Isaac, scoprì Don, era assai più difficile di quanto avesse immaginato. La sua mente non era ingombra di concetti psicologici, quali ‘immagine paterna’ e cose simili; si rendeva semplicemente conto che quel drago costituiva tutta la famiglia che lui aveva, assai più della remotissima coppia che viveva sul pianeta che era la sua destinazione.

Fu quasi sollevato, quando uno sguardo all’orologio gli disse che era quasi tardi.

«Devo scappare,» disse. «Diciannove miniati.»

«Sì, mio caro Donald. La tua razza dalla vita troppo breve deve sempre vivere in una fretta frenetica.»

«Be’… arrivederci.»

«Addio, Nebbia-Sulle-Acque.»

Si fermò, non appena fu uscito dalla porta dello studio di Sir Isaac, per soffiarsi il naso e ricomporsi. Isobel uscì, improvvisamente, da dietro una massiccia colonna.

«Don… volevo salutarti.»

«Uh? Certo, certo… ma non vieni a vedere il decollo?»

«No.»

«Be’, come vuoi, ma devo sbrigarmi, nonna.»

«Ti ho detto mille volte di smettere di chiamarmi ‘nonna’!»

«Così hai barato, a proposito della tua età. E così adesso sei legata a quel gioco… nonna.»

«Don, bestione ostinato che non sei altro! Don… torna indietro, hai capito? Hai capito bene?»

«Be’, certo! Torneremo presto.»

«Guarda di farlo davvero! Non sei abbastanza furbo da cavartela da solo. Hai bisogno di qualcuno che si occupi di te. Be’… cielo aperto!» Lo afferrò per le orecchie, e lo baciò sulle labbra, in fretta, e poi corse via.

Don la seguì con lo sguardo, passandosi la mano sulla bocca. Le ragazze, rifletté, erano molto più strane dei draghi. Probabilmente erano una razza completamente diversa. Si affrettò, lungo i corridoi e le gallerie, verso il punta del decollo. L’intera colonia pareva radunata in quel luogo, e lui fu l’ultimo dell’equipaggio ad arrivare, guadagnandosi così un’occhiata omicida da parte del capitano Rhodes, comandante del Little David. Rhodes, che era stato un tempo nell’Interplanet, e ora faceva parte della Media Guardia, era comparso tre giorni prima; non era stato propenso a parlare, e aveva passato tutto il tempo con Conrad. Don si toccò la testa, e si domandò se Rhodes portava degli ordini bizzarri come i suoi.

Il Little David era stato trascinato su uno spazio aperto, dove era posato. Non era necessaria una catapulta di lancio, per il decollo; ed era una fortuna, perché non ce n’erano a disposizione. Le tre catapulte di lancio per traghetti esistenti su Venere erano tutte nelle mani delle forze della Federazione. Il traghetto era stato nascosto da uno schermo di arbusti; adesso gli arbusti erano stati tagliati, dando al futuro incrociatore cielo aperto, spazio per decollare.

Don guardò l’incrociatore, pensando che somigliava più a una impastatrice di cemento di dimensioni abnormi e insolitamente sgraziata che a un incrociatore siderale. I moncherini delle ali rimosse sporgevano sconsolatamente a prua e a poppa. Il muso a punta era stato staccato, e sostituito da una speciale apparecchiatura radar. Portava delle cicatrici, qua e là, dove i saldatori avevano compiuto delle modifiche frettolose; nessuno aveva avuto il tempo di curare le forme, di levigare, ripulire, raffinare, rimediando alle cicatrici dopo l’intervento chirurgico.

Gli ugelli dei razzi erano stati rimossi, e lo spazio occupato in precedenza dai serbatoi di combustibile liquido ora conteneva una pila atomica, mentre la maggior parte di quello che era stato lo spazio per i passeggeri era occupato adesso da una massiccia testa di ponte, lo schermo antiradiazioni che avrebbe protetto l’equipaggio dalle mortali emanazioni della pila atomica. Su tutta la superficie esterna dell’ex traghetto, si trovavano dei discoidi sporgenti, che sfiguravano l’antico aspetto aerodinamico… «antenne», le aveva chiamate Conrad, antenne usate per forzare e modificare la forma stessa dello spazio. Per Don, non avevano certo l’aspetto di antenne.

Il Little David trasportava un equipaggio di nove persone, Rhodes, Conrad, Harvey, e altri sei, tutti giovani e tutti ‘apprendisti’… a eccezione di Roger Conrad, che era stato battezzato con l’irriguardoso appellativo di ‘Ufficiale dei Trabiccoli’, abbreviazione dell’esatta terminologia di ‘Ufficiale Responsabile delle Applicazioni Speciali dei Metodi Scientifici e delle Tecnologie Più Avanzate». L’astronave trasportava un passeggero, il vecchio Malath. Il marziano non si vedeva, e Don non andò a cercarlo; la parte posteriore dello spazio abitabile residuo era stata sigillata da una paratia stagna, e l’aria era stata condizionata per creare un ambiente marziano… aria rarefatta, secca, gelida.

Tutti erano a bordo; i portelli vennero sigillati, e Don sedette al suo posto. Malgrado lo spazio occupato dalle apparecchiature scientifiche, nel piccolo incrociatore erano rimasti sedili a sufficienza per ospitare tutti gli occupanti. Il capitano Rhodes sedette al posto di comando, e abbaiò:

«Ai posti di accelerazione! Allacciare le cinture!» Don obbedì.

Rhodes si rivolse a Conrad, che era ancora in piedi. Conrad disse, in tono leggero e colloquiale:

«Circa due minuti, signori. Poiché non abbiamo avuto il tempo di compiere un collaudo, questo sarà un esperimento di grande interesse. Può accadere una qualsiasi di tre cose.» Fece una pausa.

Rhodes disse, seccamente:

«Sì? Continui!»

«Primo, potrebbe non accadere niente. Potremmo avere commesso qualche minuscolo errore, o avere trascurato una virgola. Cose che succedono. Secondo, potrebbe funzionare. E terzo… potrebbe saltare in aria, ma non nel senso che noi tutti speriamo. Una bella fiammata.» Fece un sorriso. «Qualcuno vuole fare una piccola scommessa?»

Nessuno rispose. Conrad abbassò lo sguardo, e disse:

«Molto bene, capitano… vediamo cosa succede.»

A Don parve che fosse caduta improvvisamente la notte, e che essi fossero entrati immediatamente in caduta libera. Il suo stomaco, abituato ormai da tempo alla gravità abbastanza ridotta di Venere, cominciò a sobbalzare e a lamentarsi con estremo vigore. Conrad, che non si era assicurato alle cinture, stava galleggiando nell’aria, ancorato al suo quadro di comando con una mano.

«Spiacente, signori,» disse. «Una piccola distrazione. E adesso regoliamo questo ‘punto’ alla norma-Marte, per favorire il nostro passeggero.» Manipolò per qualche istante i suoi apparecchi.

Lo stomaco di Don tornò bruscamente al suo posto, quando un peso del tutto soddisfacente — per quella situazione — di circa un terzo di gravità sostituì l’imponderabilità della caduta libera. Conrad disse:

«Molto bene, capitano, può ordinare di aprire le cinture.»

Qualcuno, alle spalle di Don, disse:

«Che è successo? Non ha funzionato?»

Conrad rispose:

«Oh, sì, ha funzionato. In effetti, abbiamo accelerato a circa…» Fece una pausa, per studiare i suoi quadranti, «A circa venti gravità, dal momento in cui abbiamo lasciato l’atmosfera.»


L’astronave rimase circondata dalle tenebre, isolata dal resto dell’universo da quella che veniva inadeguatamente descritta come una ‘discontinuità’, a eccezione di pochi minuti, a intervalli di due turni di guardia, quando Conrad toglieva il campo di energia per permettere al capitano Rhodes di compiere le rilevazioni necessarie a seguire la rotta; in quei periodi, era possibile vedere lo spazio, e l’universo stellato, e il problema dell’astronavigazione era risolto con una certa facilità. Durante quei periodi, gli occupanti dell’incrociatore erano in caduta libera, e le stelle ardevano vivide nello spazio di velluto, visibili attraverso gli oblò. Poi le tenebre si richiudevano intorno a loro, e il Little David ritornava nel suo piccolo, limitato mondo autonomo.

Il capitano Rhodes mostrò una persistente tendenza a bestemmiare sommessamente tra sé, dopo ogni ‘uscita’ nello spazio normale, e a rifare per almeno tre volte i suoi calcoli.

Tra una pausa e l’altra, Conrad teneva le sue lezioni di ‘applicazione dei trabìccoli’; queste lezioni duravano per tutte le ore che Conrad riusciva a trascorrere sveglio. Don trovò tutte le spiegazioni incomprensibili, come quella che Conrad aveva dato a Phipps a suo tempo.

«Il fatto è che non ci arriviamo, Rog,» confessò, dopo che il loro istruttore ebbe ripetuto lo stesso concetto per tre volte di seguito.

Conrad si strinse nelle spalle, e sorrise.

«Non lasciarti abbattere. Quando avrai collaborato a installare lo stesso equipaggiamento a bordo della tua astronave, saprai tutto, allo stesso modo in cui i tuoi piedi conoscono le scarpe. Nel frattempo, ricominciamo dall’inizio.»

A parte le lezioni, non c’era niente da fare, e l’astronave, in ogni caso, era troppo piccola e troppo affollata. Iniziò una partita a carte, che continuò a svolgersi in pratica senza interruzioni, semplicemente cambiando i giocatori di quando in quando. Don fin dall’inizio aveva poco denaro da giocare; dopo qualche partita, fu completamente al verde, e non fece più parte del gioco. Così si limitò a dormire e a meditare.

Phipps aveva visto giusto, decise: viaggiare a quella velocità avrebbe cambiato tutto… gli uomini avrebbero compiuto dei balzi tra i pianeti, con la stessa disinvoltura con la quale ora si andava da un continente all’altro della Terra. Sarebbe stato come… be’, come il cambiamento dalle navi a vela ai razzi transoceanici, solo il cambiamento sarebbe avvenuto dal tramonto all’alba, invece che svilupparsi ordinatamente, e gradualmente, attraverso tre secoli.

Forse lui sarebbe ritornato sulla Terra, un giorno; la Terra aveva delle cose buone da offrire… per esempio, la possibilità di andare a cavallo. Si chiese, ancora una volta, se Sonno lo ricordasse ancora. Era uno dei ricordi più cari della sua adolescenza; non riusciva a dimenticarlo.

Gli sarebbe piaciuto insegnare a Isobel ad andare a cavallo. Gli sarebbe piaciuto vedere la sua faccia, nel momento in cui le avrebbe mostrato per la prima volta un cavallo!

Di una cosa era certo: lui non sarebbe rimasto sulla Terra, anche se fosse ritornato laggiù per qualche tempo. E non sarebbe rimasto neppure su Venere… e neppure su Marte. Sì, lui aveva degli amici come Sir Isaac, su Venere, che avrebbe rivisto sempre con piacere… e aveva i suoi genitori su Marte. Ma ora sapeva quale fosse la sua patria, il luogo nel quale lui poteva e doveva vivere… nello spazio cosmico, dove lui era nato. Qualsiasi pianeta era per lui semplicemente un albergo, una stazione di passaggio, un luogo di vacanza; ma lo spazio, lo spazio era la sua patria.

Forse lui sarebbe partito a bordo del Cercatore di Orizzonti, avrebbe partecipato al primo tuffo degli uomini nel grande nulla, verso le stelle. Aveva il presentimento che, se fossero usciti vivi da quell’impresa, un membro dell’equipaggio originale del Little David sarebbe stato favorito, nella scelta dell’equipaggio di partenza del Lungo Viaggio. Naturalmente, il Cercatore di Orizzonti era limitato alle coppie sposate, ma quello non era certo un ostacolo. Era sicuro di potersi sposare in tempo per essere prescelto, anche se non sapeva con precisione in quale momento aveva acquistato quella certezza. E Isobel era proprio la ragazza che poteva seguire il marito ‘nella buona e nella cattiva sorte’; non l’avrebbe trattenuto su un pianeta. In ogni caso, il Cercatore di Orizzonti non sarebbe partito subito; avrebbero aspettato di cambiare il sistema di propulsione, passando al motore Horst-Milne-Conrad, una volta che la conoscenza si fosse diffusa nel sistema solare. Un viaggio di secoli attraverso la lunga notte dello spazio interstellare, un viaggio di molte generazioni… come sarebbe stato? La prospettiva era affascinante. Certo, lui non avrebbe visto i nuovi mondi e le nuove stelle… sarebbero trascorse lunghe generazioni a bordo della prima nave interstellare, un mondo a sé stante lanciato nell’universo, ma ne sarebbe valsa la pena… ne era sicuro.

In ogni caso, lui intendeva muoversi un poco, viaggiare un poco, una volta terminata quella guerra. Certamente sarebbero stati costretti a trasferirlo nell’Alta Guardia, al suo ritorno, e poi l’esperienza nell’Alta Guardia lo avrebbe facilitato sotto tutti i punti di vista, al momento di venire congedato come veterano. Non avrebbe avuto nulla da temere, allora, per il suo futuro. A pensarci bene, forse lui doveva già fare parte dell’Alta Guardia, tecnicamente.

McMasters aveva avuto ragione, certamente… c’era una sola strada per ritornare su Marte… fare parte di una squadra d’attacco in missione speciale.

Si guardò intorno. L’inevitabile partita a carte era sempre in corso, e due dei suoi compagni stavano giocando a dadi in fondo al locale; i cubi giravano pigramente nella ridottissima gravità. Conrad aveva calato la sua branda, e stava dormendo placidamente, a bocca aperta. Don decise che la loro non aveva certamente l’aspetto di una compagnia d’assalto che andava a salvare un pianeta; il locale aveva piuttosto l’aspetto di un letto in disordine.

Avrebbero dovuto ‘uscire’ dal loro spazio privato nel corso dell’undicesimo giorno, a distanza di discesa da Marte, e… se tutte le supposizioni erano state esatte… nelle vicinanze della squadra d’attacco della Federazione; sarebbe stato quasi un arrivo in fotofinish, con gli incrociatori della Terra. Le lezioni di ‘scienza dei trabiccoli’ furono sostituite da una serie di esercitazioni ai posti di combattimento. Rhodes scelse Art Frankel, che aveva avuto già qualche esperienza spaziale, come co-pilota; Conrad fu assistito da Franklyn Chiang, un altro fisico. Degli altri quattro, due si occupavano della radio, e due del radar. Il posto di combattimento di Don era una specie di sella al centro del traghetto, dietro i sedili di pilotaggio… il ‘posto del morto’. In quella posizione, egli presidiava un pulsante di autodistruzione a molla, un tipo di pulsante noto, attraverso i secoli, come il pulsante del ‘morto’, per il motivo che funzionava solo se l’operatore era morto.

Alla prima esercitazione, Conrad si occupò delle posizioni degli altri, poi ritornò al posto di Don.

«Tu hai capito bene quello che devi fare, Don?»

«Certo. Abbasso questo interruttore, per attivare le bombe, poi resto aggrappato al pulsante del morto.»

«No, no… prima premi il pulsante del morto… poi abbassi l’interruttore di attivazione.»

«Sì, certo. L’ho detto semplicemente alla rovescia.»

«Fa in modo di non farlo alla rovescia! Ricorda semplicemente questo, tenente; se lasci andare quel pulsante, tutto è finito.»

«Va bene. Senti, Rog, questo è il pulsante di esplosione di una bomba atomica… vero?»

«Sbagliato. Non potevamo sprecare tanto denaro. Ma il carico di esplosivo ad alto potenziale è più che sufficiente per uno scafo piccolo come questo, te lo assicuro. Così, per quanto possiamo essere ansiosi di far saltare questo traghetto, piuttosto che farlo cadere in mani nemiche, ti prego di non lasciare andare in alcun caso quel pulsante. Se senti il bisogno di grattarti, cerca di dominarti.» Il capitano Rhodes venne da quella parte, e mandò a prua Conrad, con un cenno del capo. Il comandante parlò a Don in tono sommesso, in modo che le sue parole non raggiungessero gli altri.

«Harvey, è soddisfatto di questo compito? Non le dispiace?»

«No, non mi dispiace,» rispose Don. «So che tutti gli altri hanno un addestramento tecnico superiore al mio. Questo è quanto so fare, e non di più.»

«Non è questo che intendevo dire,» lo corresse il comandante. «Lei potrebbe occupare una qualsiasi di tutte le altre postazioni, a eccezzione della mia e di quella del dottor Conrad. Voglio essere sicuro che lei sia in grado di svolgere questo lavoro.»

«Non vedo perché non dovrei. Devo premere questo pulsante, e poi abbassare questo interruttore… e tenere premuto il pulsante. Non c’è bisogno di essere laureati in alta matematica, per fare una cosa del genere.»

«Non è neppure questo che intendo dire. Io non la conosco, Harvey. Mi dicono che lei ha avuto esperienza di combattimento. Questi altri non l’hanno avuta… ed è per questo che lei è stato scelto per il lavoro. Quelli che la conoscono, pensano che lei sia in grado di svolgerlo. Non mi preoccupo del fatto che lei possa dimenticare di tener premuto il pulsante; quello che voglio sapere è ben altro: se fosse necessario lasciarlo andare, lei lo farebbe?»

Don rispose quasi subito… ma non prima di avere avuto il tempo di pensare a molte cose… al dottor Jefferson, che quasi certamente si era suicidato, non era semplicemente morto… al Vecchio Charlie, con la bocca tremante, ma con la mano che teneva il coltello ferma e sicura… e a una voce immortale, che squillava nella nebbia, gridando, «Venere e Libertà!»

«Penso di sì, se sarà necessario.»

«Bene. Io non sono convinto di esserne capace, se dovessi farlo. Dipendo da lei, signor Harvey, se la situazione volgerà al peggio, affinché la mia nave non venga catturata.» E detto questo, andò a prua.


La tensione aumentò, il nervosismo si fece più acuto. Non avevano alcun modo per sapere con certezza che il punto d’uscita nello spazio normale sarebbe stato vicino alle astronavi della Federazione; quella squadra d’incrociatori da guerra forse aveva usato un’orbita diversa da quella calcolata, forse aveva avuto a disposizione mezzi superiori a quelli immaginati su Venere. Non potevano essere neppure sicuri del fatto che le forze della Federazione già non fossero sbarcate su Marte, e non fossero già padrone della situazione, rendendo così difficile il compito di liberare il pianeta rosso. I miracoli di laboratorio del Little David erano stati realizzati in previsione di un incontro nello spazio sideralè, di una battaglia cosmica, non per una guerra di superficie, sulle rosse sabbie di un pianeta.

Conrad aveva un’altra preoccupazione, che non esprimeva a parole; e cioè che le armi dell’ex traghetto non funzionassero secondo i piani. Più di tutti gli altri, lo scienziato sapeva quanto fosse precario affidarsi alle previsioni teoriche. Sapeva con quale frequenza i calcoli più brillanti venivano annullati da leggi naturali fino a quel momento insospettate, o trascurate, o poco note. Non c’era nulla che potesse sostituire un collaudo… e quelle armi non erano state collaudate. Così lo scienziato perse, per la prima volta, il suo abituale sorriso, e giunse perfino a una rabbiosa discussione con Rhodes, intorno al momento calcolato per l’«uscita».

La differenza di opinioni venne finalmente risolta; mezz’ora più tardi Rhodes disse, con calma e a bassa voce:

«È quasi il momento, signori. Ai posti di combattimento.» Raggiunse il suo posto, assicurò le cinture di sicurezza, e disse, seccamente, «Rapporto!»

«Co-pilota.»

«Radio.»

«Radar!»

«Armi speciali pronte.»

«Morto!» concluse Don.

Ci fu una lunga attesa, mentre i secondi scorrevano lentamente. Rhodes parlò sommessamente in un microfono, avvertendo Malath di prepararsi alla caduta libera, e poi chiamò:

«Pronti!»

Don premette con maggiore forza il pulsante di autodistruzione.

Improvvisamente, si ritrovò senza peso; davanti a lui, e negli oblò che si aprivano sui lati, le stelle sbocciarono, come fiamme colorate. Non riuscì a vedere Marte, e decise che doveva trovarsi «sotto» l’astronave. Il Sole era da qualche parte, a poppa; non gli dava negli occhi. Ma la vista che aveva di quello che si trovava davanti era ottima; il Little David, essendo stato in origine un traghetto alato, aveva un pannello di visione davanti ai sedili di pilotaggio, assai simile alla carlinga di un aereo. La posizione di Don gli permetteva di vedere chiaramente, come Rhodes e il suo co-pilota, e molto meglio degli altri occupanti dell’astronave.

«Radar?» domandò Rhodes.

«Calma, comandante. Anche la velocità della luce è… Oh, oh! Segnali!»

«Coordinate e portata!»

«Teta tre cinque sette virgola due; pi meno zero virgola otto; raggio sei otto zero…»

«Lo sto ricevendo automaticamente,» intervenne Conrad, seccamente.

«Rintracciati?»

«Non ancora.»

«A portata?»

«No. Credo che dovremmo restarcene calmi, e avvicinarci per quanto ci sarà possibile. Forse non ci hanno visti.»

Avevano rallentato in precedenza la loro velocità, per permettere di manovrare con facilità; malgrado ciò si stavano avvicinando ai «segnali» a una velocità di più di novanta miglia al secondo. Don si sforzò, nel tentativo di avvistare gli incrociatori, se i riflessi radar erano gli incrociatori. Era inutile… i suoi occhi di protoplasma non erano all’altezza di quelli elettronici.

Rimasero così, con i nervi tesi e lo stomaco irrigidito, mentre la distanza diminuiva gradualmente, fino a quando non parve che i segnali non fossero gli incrociatori federali… forse si trattava di un gruppo di asteroidi non catalogato nelle mappe siderali… e poi l’allarme radio, che copriva automaticamente tutte le frequenze di trasmissione, non spezzò clamorosamente il silenzio.

«Fermi sul canale!» gridò Rhodes.

«Lo sto prendendo.» Ci fu una breve attesa. «Ci chiedono di identificarci. Sono loro, naturalmente.»

«Passi la comunicazione qui.» Rhodes si rivolse a Conrad. «Che ne dice?»

«Dovrei essere più vicino. Prenda tempo!» Il viso di Conrad era grigiastro, e la fronte era coperta di sudore.

Rhodes sfiorò un tasto, e parlò nel suo microfono.

«Voi chi siete? Identificatevi.»

La risposta venne amplificata dall’altoparlante, che si trovava sul quadro di comando, sopra la testa del capitano.

«Identificatevi, o apriremo il fuoco.»

Rhodes lanciò un’altra occhiata a Conrad, che era troppo indaffarato per restituire lo sguardo. Rhodes parlò nel microfono:

«Questo è il caccia Little David, Repubblica di Venere, reparto guerra spaziale. Arrendetevi immediatamente.»

Don sforzò di nuovo la vista. Gli parve di vedere tre nuove ‘stelle’, proprio davanti a lui.

La risposta giunse immediatamente.

«Ammiraglia della Federazione Pacificatore a nave pirata Little David: arrendetevi, o sarete immediatamente distrutti.»

Alla muta domanda di Khodes, Conrad rivolse al comandante un viso distorto dall’incertezza.

«È ancora troppo lontano. Potrei sbagliare.»

«Non c’è tempo! Proceda!»

Adesso Don poteva vederli… grandi incrociatori siderali, che ingrandivano incredibilmente nello spazio. E poi, improvvisamente, uno diventò un globo argenteo, poi il secondo… poi il terzo. Un grappolo di incredibili, colossali ornamenti natalizi, apparve là dove si erano trovati tre possenti incrociatori da guerra… e i globi continuarono a ingrandire, a dilatarsi, deviarono a sinistra, e passarono accanto al traghetto… la ‘battaglia’ era finita.

Conrad sospirò, e stava tremando visibilmente in tutto il corpo.

«È tutto, capitano.» Si voltò, e disse, «Don, ci faresti sentire tutti molto più a nostro agio se chiudessi quell’interruttore. Non ne avremo bisogno.»


Marte galleggiava nel cosmo sconfinato, sotto di loro, sanguigno e rugginoso e splendido. La Stazione Schiaparelli, la potente radio interplanetaria della I.T. T., era già coperta da un ‘cappello’ d’argento, che avrebbe conservato il segreto sul loro colpo di mano; il capitano Rhodes aveva parlato con una stazione minore, avvertendoli del loro arrivo. Tra meno di un’ora sarebbero sbarcati vicino a Da Thon… perfino Malath era uscito dal suo frigorifero, non più stanco e malato e logoro, ma agile e svelto come un grillo, desideroso di sfidare l’aria calda, umida, densa della cabina, per poter dare il primo sguardo alla sua patria.

Don salì di nuovo sulla sua ‘sella’, dietro i sedili di pilotaggio, per poter vedere meglio lo spettacolo grandioso, lo spettacolo infinito, indescrivibile, maestoso di un grande pianeta che nuotava all’infinito nello spazio senza frontiere. I favolosi canali erano già perfettamente visibili a occhio nudo; poteva vederli scorrere, tagliare le grandi regioni colorate… alcune di un verde tenero, morbido, ma soprattutto dell’onnipresente color arancio, e di un vivido rosso mattone. Era inverno, nell’emisfero meridionale; la calotta polare sud era grande e brillante, pareva che il pianeta la indossasse come un allegro cappello da cuoco. Fantasticando di fronte a quella splendida immagine, l’associazione mentale riportò alla mente di Don il ricordo del Vecchio Charlie; pensò a lui con dolce, quieta malinconia, e l’aspra violenza del ricordo era addolcita dai tanti eventi che erano sopravvenuti da allora.

Marte, finalmente… splendido globo rossigno nei cieli stellati… avrebbe rivisto i suoi genitori, forse, ancor prima del tramonto… e allora avrebbe dato l’anello a suo padre. Certamente, non era questo il modo in cui lo avevano immaginato, all’inizio.

La prossima volta, avrebbe cercato di evitare la strada più lunga e tortuosa.


FINE
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