Don uscì dalle colossali stanze che gli erano state assegnate; le lasciò per i quartieri occupati dagli altri esseri umani. Sir Isaac lo avrebbe lasciato restare fino a quando il Sole non si fosse raffreddato, monopolizzando almeno un acro di spazio abitabile, ma a Don non pareva soltanto stupido, per una persona, occupare delle stanze costruite nelle dimensioni e con l’altezza comuni ai draghi, ma anche non del tutto comodo… tanto spazio aperto aveva il potere di mettere a disagio un uomo avvezzo alla guerriglia, agli spazi racchiusi nelle giungle e negli acquitrini, ai ripari segreti. E ormai da molto tempo Don aveva dovuto sincronizzarsi su quel sistema di vita.
Gli ospiti umani occupavano un appartamento per draghi, dove gli immensi saloni erano stati divisi in cubicoli, grazie a paratie impenetrabili. La ‘piscina’ era comune, e tutti vi facevano una nuotata, e da uno spazio libero era stata ricavata una mensa comune. Don ebbe come compagno di camera il dottor Roger Conrad, un giovane alto e allampanato, con un perpetuo sorriso dipinto sul volto. Don scoprì, con un po’ di stupore, che Conrad era tenuto nella massima considerazione da parte degli altri scienziati.
Vide pochissimo il suo compagno di camera, e anche gli altri… perfino Isobel era occupatissima ad aiutare gli altri. Il gruppo lavorava giorno e notte, con intensità incredìbile, spinto da un’urgenza che a ogni ora si faceva più pressante. L’anello era stato aperto, e gli scienziati possedevano i dati tecnici sui quali lavorare, certo… ma la squadra d’assalto stava orbitando nelle arcane distese degli spazi astrali, lungo una traiettoria che si avvicinava sempre più al rosso globo di Marte. Nessuno sapeva… nessuno poteva sapere… se essi avrebbero potuto ultimare in tempo il loro lavoro… in tempo per salvare i loro colleghi scienziati.
Conrad aveva tentato di spiegare a Don la situazione, una notte, quando era venuto in camera a dormire a un’ora impossibile.
«Qui non abbiamo i mezzi adeguati per realizzare quello che dobbiamo. Le istruzioni sono state elaborate per un’applicazione di tecniche terrestri… o marziane. I draghi fanno le cose in maniera diversa. Noi abbiamo pochissimi materiali adatti, abbiamo pochissime attrezzature adatte, ed è enormemente difficile rimediare quello di cui abbiamo bisogno con quello che i draghi ci possono fornire. L’idea originaria era quella d’installare gli apparecchi… tu conosci quelle piccole ‘cavallette’, i veicoli di cui si servono su Marte per spostarsi?»
«Ho visto delle foto.»
«Neanch’io le ho mai viste direttamente. Come astronavi sono inservibili, naturalmente, ma sono pressurizzate, e abbastanza grandi. Ora noi dobbiamo adattare gli apparecchi a un traghetto.» Un traghetto ultrastratosferico ‘con le orecchie staccate’ — e cioè con le ali per il volo a vela rimosse e portate via — aspettava in una località nascosta, una specie di gola coperta che si trovava nelle vicinanze della dimora di Sir Isaac. Il traghetto avrebbe compiuto il viaggio per Marte… se fosse stato possibile adattarlo. «È un enorme grattacapo, e dobbiamo risolverlo,» aggiunse lo scienziato.
«Be’, possiamo farcela?»
«Dobbiamo, ed è un po’ diverso. Non possiamo rifare i calcoli di progettazione; sarebbe pazzesco, in questo momento. Non siamo in possesso delle macchine adatte, anche se avessimo il tempo per riprogrammare il lavoro… e non abbiamo neanche un minuto da perdere.»
«È questo che volevo dire. Ce la farete a finire in tempo?»
Conrad sospirò.
«Vorrei tanto saperlo.»
La pressione del tempo, che scorreva implacabilmente, cominciò a gravare su tutti, come una cappa soffocante. Nella mensa comune avevano appeso una grande mappa spaziale, nella quale apparivano la Terra, il Sole, Venere e Marte, ciascuno nella propria posizione. Ogni giorno, all’ora di pranzo, i contrassegni venivano spostati, lungo le orbite già tracciate; la Terra di un grado, Venere un poco di più, Marte di solo mezzo grado e una frazione.
Una lunga linea tratteggiata descriveva un’ampia curva, da un punto lungo l’orbita terrestre fino a un appuntamento orbitale con Marte… si trattava della valutazione più esatta che essi erano riusciti a fare della rotta e della data di arrivo della squadra d’attacco federale su Marte. L’unica cosa che conoscevano con certezza era la data della partenza; la traiettoria e la data di arrivo erano state calcolate in base alle posizioni relative dei due pianeti, e su quella che si riteneva la velocità massima raggiungibile dalle astronavi terrestri, presumendo un rifornimento di carburante in un’orbita di parcheggio intorno alla Terra.
Per un’astronave a razzo certe orbite sono possibili, certe altre sono impossibili. Un incrociatore da guerra impegnato in una missione urgente non avrebbe, naturalmente, usato la più economica ellisse a doppia tangente; in un viaggio simile, per coprire la distanza tra la Terra e Marte sarebbero occorsi 258 giorni terrestri. Ma anche usando delle iperboloidi, e specando molto carburante, esistono dei limiti rigorosi alla velocità con la quale un’astronave a reazione può compiere un viaggio interplanetario.
Un calendario terrestre era appeso accanto alla mappa cosmica; vicino a esso c’era un orologio che segnava il tempo terrestre di Greenwich. Affissa accanto all’orologio c’era una cifra, che veniva cambiata ogni volta che l’orologio indicava le ventiquattro e zero/zero, il numero dei giorni che mancavano all’attacco a Marte… secondo i calcoli più precisi che erano riusciti a compiere, ora ne mancavano soltanto trentanove.
Don viveva in una specie di paradiso del combattente… cibo caldo servito all’ora precisa, cibo ottimo, e a volontà, e tutto il tempo libero che voleva, e abiti puliti, corpo pulito, bagno tiepido o caldo a volontà, nessun dovere e nessun rischio. Era un vero paradiso; era il sogno di chi combatteva per giorni e mesi e anni nella fanghiglia, nel pericolo, mangiando quando capitava, quello che capitava, dormendo a ore impossibili e spesso per pochi minuti soltanto, vivendo tra rischi inenarrabili, aspettando, da un momento all’altro, il colpo che avrebbe posto fine a tutte quelle sofferenze. Un vero paradiso; l’unico inconveniente fu che, dopo pochissimo tempo, egli cominciò a detestare quel tipo di vita.
L’attività intensa, febbrile che si svolgeva intorno a lui lo riempiva di vergogna, e gli faceva provare il desiderio di collaborare, di contribuire in qualche maniera al lavoro comune… ed effettivamente cercò di rendersi utile… fino a quando non scoprì che gli venivano dati dei lavori inutili, inventati sul momento, tanto per farlo stare quieto. In realtà, non c’era nulla che lui potesse fare, per contribuire all’impresa; gli specialisti affannosamente impegnati nel loro lavoro; sudati, nervosi, non avevano tempo da perdere con un assistente privo di addestramento; il compito di arrangiare con mezzi di fortuna apparecchi che erano il frutto di una tecnologia completamente nuova e rivoluzionaria, e di svolgere un lavoro di anni in pochissimi giorni, con il rischio di commettere errori irreparabili… tutto questo impediva loro di dedicarsi ad altro. Così Don rinunciò al suo tentativo, e ritornò a oziare; scoprì che poteva dormire bene nel pomeriggio, ma che l’addestramento e l’ormai radicata consuetudine gli impediva di chiudere occhio di notte. Così le lunghe notti lui le passava sveglio, a riflettere, ad aspettare, a pensare.
Si domandò per quale motivo non riusciva a godersi una licenza così piacevole, un momento di tregua che tutti avrebbero sognato. Non era certo perché lui fosse preoccupato per i suoi genitori…
Sì, invece! Benché il loro ricordo fosse sbiadito nella memoria di Don, la sua coscienza gli rimproverava aspramente il fatto che lui non facesse nulla di utile per aiutarli. Era per questo che lui voleva andarsene, allontanarsi da quel luogo nel quale lui non serviva a niente, non poteva fare nulla di buono… era per questo che lo divorava il desiderio di ritornare alla sua compagnia, al suo lavoro… là, dove non c’era nulla di cui preoccuparsi, tra un’incursione e l’altra… e quando veniva il momento dell’incursione, i motivi di preoccupazione erano tanti, e pressanti, e dominanti. Con l’oscurità intorno e il suono del respiro del vostro compagno a destra, e lo stesso suono che veniva dall’uomo alla vostra sinistra… con il fango sotto il corpo, viscido e appiccicoso, e la protezione della notte che era anche un’insidia… la lenta avanzata strisciante, il tentativo estenuante di scoprire quali sporchi trucchi avessero escogitato questa volta i tecnici dei Verdi, per proteggere il loro sonno… il momento rapido dell’attacco, colpire in fretta… e il ritorno fulmineo, disperato alla barca, senza nulla a guidarvi nelle fittissime tenebre della notte venusiana, ma solo con il radar che ognuno possiede nelle proprie ossa…
In quei momenti non ci si preoccupava d’altro che dell’azione e della propria vita. E tra un’azione e l’altra, c’era il riposo, e nessun pensiero nella mente…
Lui voleva tornare indietro.
Andò a cercare Phipps, deciso a parlargli di questo, e lo trovò nel suo ufficio.
«Lei, eh? Vuole una sigaretta?»
«No, grazie.»
«Tabacco vero… non la vostra ‘erba pazza’.»
«No, grazie, non fumo.»
«Be’, forse ha ragione lei. È fortunato. Ho un sapore in bocca al mattino, quando mi sveglio, che…» Phipps si accese una sigaretta, si appoggiò allo schienale della sedia, e aspettò.
Don disse:
«Vede… lei è il capo, qui.»
Phipps esalò una boccata di fumo, poi disse, in tono cauto.
«Diciamo che qui io sono il coordinatore. Certamente, non provo neppure a dirigere il lavoro dei tecnici.»
Don fece un gesto con la mano, come se il ‘distinguo’ di Phipps fosse stato privo d’importanza.
«Per quello che mi riguarda, lei è il capo, qui. Almeno per i motivi che mi hanno spinto a venire da lei. Mi ascolti, signor Phipps… qui mi sento inutile. Non può disporre affinché io possa ritornare alla mia compagnia?»
Phipps fece un perfetto anello di fumo, prendendo un po’ di tempo, prima di rispondere.
«Mi dispiace che lei pensi una cosa simile. Io potrei darle del lavoro da fare. Potrebbe essere il mio assistente esecutivo.»
Don scosse il capo.
«Ne ho abbastanza di lavoro prefabbricato per tenermi buono. Voglio del lavoro vero… del lavoro che io sappia fare. Io sono un soldato, e c’è una guerra in corso… ed è quello il mio posto. E adesso mi dica… quando potrò ottenere un mezzo di trasporto, per ritornare alla mia compagnia?»
«Non può farlo.»
«Eh?»
«Signor Harvey, non posso lasciarla andare via; lei sa troppe cose. Se ci avesse consegnato l’anello senza fare domande, sarebbe stato riportato al luogo di provenienza, e restituito alla sua compagnia, nel giro di un’ora… ma lei doveva sapere tutto, doveva chiedere tutto. E adesso, non osiamo mandarla via; non possiamo correre il rischio che lei sia catturato. Lei sa che i Verdi sottopongono ogni prigioniero a un interrogatorio completo; non possiamo correre questo rischio… non ancora.»
«Ma… accidenti, signore, io non sarò mai catturato! Ho preso questa decisione già da molto tempo; ormai lo so.»
Phipps si strinse nelle spalle.
«Se lei si fa uccidere, o se riesce a suicidarsi in tempo, sarebbe tutto a posto. Ma di questo non possiamo essere sicuri, indipendentemente da quella che può essere la sua determinazione. C’è stato un precedente sulla Terra; le conseguenze sono state catastrofiche. Non possiamo correre questo rischio; la posta in gioco è troppo grande.»
«Lei non può trattenermi qui! Lei non ha alcuna autorità su di me!»
«No, infatti. Però resta il fatto che non può andare via.»
Don aprì la bocca, la richiuse, e uscì dall’ufficio.
Si svegliò, il mattino dopo, deciso a prendere qualche provvedimento per risolvere la situazione. Doveva fare qualcosa; non poteva restare là per sempre. Ma il dottor Conrad si era alzato prima di luì, e prima di uscire indugiò per dargli un suggerimento.
«Don?»
«Sì, Rog?»
«Se riesci a svegliarti del tutto, potresti venire nel laboratorio, stamattina. Ci sarà uno spettacolo degno di essere visto… spero.»
«Uh? Che cosa? E a che ora?»
«Oh, diciamo verso le nove.»
Don arrivò nel laboratorio verso le nove, e scoprì che insieme a lui erano arrivati, apparentemente, tutti gli esseri umani che si trovavano nella casa di Sir Isaac, e una buona metà della numerosa famiglia di Sir Isaac. Roger Conrad era il responsabile della dimostrazione. Era occupatissimo di fronte al tavolo di comando, un complicato meccanismo che non aveva alcun significato, per un osservatore inesperto. Conrad compì una lunga serie di manovre, controllando i circuiti, regolando gli apparecchi, poi sollevò lo sguardo e disse:
«Tenete gli occhi sulla palla, gente… là, su quel tavolo.» Premette un pulsante.
Al di sopra del tavolo indicato apparve, come scaturita dal nulla, sospesa nell’aria senza alcun sostegno, una sfera d’argento di circa sessanta centimetri. Pareva una sfera perfetta, e un perfetto riflettore e, soprattutto, fece pensare a un ornamento dell’albero di Natale, almeno fu l’idea che più di ogni altra si formò subito nella mente di Don. Conrad fece un sorriso di trionfo: e poi disse:
«Bene, Tony… avanti con l’ascia!»
Tony Vincente, il più muscoloso degli scienziati del laboratorio, sollevò un’ascia dalla grande lama, che aveva tenuto pronta.
«Come la vuoi divisa… dall’alto, o di traverso?»
«Come ti pare.»
Vincente sollevò l’ascia bene al di sopra del suo capo, e la calò con forza e determinazione.
L’ascia rimbalzò.
La sfera non tremò neppure, né apparve alcun graffio su quella superficie perfetta, così simile a una specchio. Il sorriso fanciullesco di Conrad si fece ancor più accentuato.
«Fine del primo atto,» annunciò, e premette un altro bottone. La sfera scomparve, e non ci fu alcun segno a indicare che essa era stata là un momento prima.
Conrad si piegò sui comandi.
«Atto secondo,» annunciò. «Adesso cancelleremo metà della posizione. State lontani dal tavolo.» Dopo qualche istante, sollevò lo sguardo. «Pronti! Mirate! Fuoco!» Un’altra forma apparve, una sfera perfetta come l’altra, solo tagliata in sezione. La superficie esterna curva era rivolta in alto. «Sei pronto, Tony?»
«Un attimo, aspetta che accendo.» Vincente si accese una sigaretta, diede una vigorosa boccata, poi la posò su un portacenere, e lo fece scivolare sotto il mezzo globo. Conrad manovrò di nuovo i suoi comandi; la forma discese, si posò sul tavolo, coprendo la sigaretta accesa nel portacenere. «Qualcuno vuole provare a romperla con l’ascia, o con qualche altro mezzo?» domandò Conrad.
Nessuno pareva particolarmente ansioso di scherzare con l’ignoto. Conrad mosse di nuovo i suoi comandi, e la mezza sfera d’argento si sollevò. La sigaretta bruciava ancora lentamente nel portacenere, intatta.
«Che ne direste,» fece Conrad, «Se ponessimo un coperchio come questo sulla capitale della Federazione, a Bermuda… e lo lasciassimo al suo posto, fino a quando i capi, laggiù, non decidessero di scendere a patti?»
L’idea, evidentemente, incontrò l’approvazione universale. I membri dell’Organizzazione presenti allo spettacolo erano tutti, o quasi tutti, cittadini di Venere, coinvolti a livello emotivo nella rivoluzione, indipendentemente dal lavoro più grande e più complesso che stavano svolgendo. Phipps tagliò corto ai commenti eccitati che si levavano intorno, facendo una domanda:
«Dottor Conrad… vorrebbe fornirci una spiegazione comprensibile di quanto abbiamo visto? Almeno un’idea del funzionamento… perché possiamo renderci conto tutti delle enormi possibilità e delle grandiose implicazioni.»
Il volto di Conrad si fece molto serio.
«Uhm… capo, forse la cosa più chiara sarebbe quella di affermare che i fasarta modulano il barbab in una tale relazione di fase da costringere la trimalina a grodlare… o, mettendo la cosa in un altro modo, basterebbe dire che qualcuno ha liberato dei topi nel bagno. Seriamente, non esiste alcuna maniera per spiegare la cosa, rendendola ‘comprensibile’ nel senso suggerito dal signor Phipps. Se qualcuno fosse disposto a trascorrere cinque anni di duro lavoro con me, brancolando nel buio, probabilmente potrei condurlo allo stesso livello di ignoranza e di confusione che io godo. Alcune delle equazioni comprese per l’elaborazione dei tensori sono, per dirla in termini blandi, assolutamente uniche. Ma le istruzioni erano sufficientemente chiare, e noi siamo riusciti ad applicarle.»
Phipps annuì.
«Grazie… se devo dire così. Lo chiederò a Sir Isaac.»
«Lo faccia, per favore. Mi piacerebbe sentire.»
Malgrado la prova del fatto che gli scienziati erano riusciti a costruire con i loro mezzi di fortuna almeno in parte le apparecchiature descritte dal messaggio contenuto nei due fili metallici, l’inquietudine di Don non diminuì minimamente. Ogni giorno, all’ora di pranzo, i cartelli disposti nella mensa gli ricordavano che il tempo passava… e che lui si stava succhiando il pollice, mentre il tempo diminuiva sempre più. Non pensava più di convincerli a rimandarlo nella zona di guerra; cominciò invece a fare dei piani per arrivarci da solo.
Aveva visto delle mappe del Grande Mare del Sud, e conosceva, approssimativamente, il punto nel quale si trovava ora. A nord si stendeva un territorio disabitato… nel quale non vivevano neppure i draghi, ma che era invece popolato dai loro cugini carnivori. Era considerato invalicabile. Il percorso a sud, intorno all’estremità meridionale del mare, era molto più lungo, ma si trattava di territorio abitato dai draghi, fino alla regione nella quale sorgevano delle fattorie umane. Sapendo parlare la lingua sibilata, e avendo cibo a sufficienza per almeno una settimana di viaggio, avrebbe potuto arrivare alla fattoria di qualche colono, e di là ottenere i mezzi per raggiungere la successiva. In quanto al resto, lui aveva il suo coltello e la sua intelligenza, e si era abituato alle paludi e agli acquitrini molto più di quanto non lo fosse stato all’epoca in cui era sfuggito agli uomini di Bankfield.
Cominciò a sottrarre un po’ di cibo dalla mensa, e a nasconderlo nella sua camera.
Mancavano un giorno e una notte al momento scelto per tentare l’evasione, quando Phipps lo mandò a chiamare. Prese in considerazione la possibilità di non andare da Phipps, ma decise che l’obbedienza avrebbe suscitato meno sospetti.
«Si sieda,» esordì Phipps. «Sigaretta? No… dimenticavo. Che cosa ha fatto negli ultimi tempi? Ha lavorato?»
«Non avevo niente da fare, accidenti.»
«Spiacente. Signor Harvey, ha avuto modo di riflettere sul tipo di mondo che avremo, quando tutto questo sarà finito?»
«Be’, no, non esattamente.» Aveva pensato alle prospettive, ma il frutto delle sue meditazioni era troppo confuso e insoddisfacente, perché ora avesse voglia di illustrarlo a un’altra persona. In quanto a lui, un giorno o l’altro la guerra sarebbe finita… almeno lo supponeva… e allora avrebbe potuto attuare la sua intenzione, così a lungo rimandata, di cercare i suoi genitori. E dopo, be’…
«In quale mondo le piacerebbe vivere?»
«Uh? Be’, non saprei.» Don rifletté. «Temo di non essere quello che si definisce ‘un uomo dalla mentalità politica’. Non m’importa molto di sapere come sia governato il mondo… solo che, be’, dovrebbe esserci un po’ più di… scioltezza per chi vi abita. I fili non dovrebbero essere tesi così rigidamente. Vede… un uomo dovrebbe poter fare quello che vuole, se ne è capace, e non venire spinto di qua e di là, senza potere esprimere la sua opinione.»
Phipps annuì.
«Io e lei abbiamo in comune molto più di quanto lei possa avere pensato. Io non sono un purista, per quanto riguarda la teoria politica; lo ammetto. Qualsiasi governo che diventi troppo grosso e troppo stabile, e abbia troppo successo, diventa inevitabilmente un fattore di disturbo… un fastidio. La Federazione ha seguito la medesima strada… è cominciata in maniera abbastanza pulita, l’idea di base era fondamentalmente buona, e gli inizi sono stati altrettanto buoni… e ora deve essere ridimensionata. In modo che i cittadini possano godere di un po’ di ‘scioltezza’.»
Don disse:
«Forse sono i draghi ad avere l’idea giusta… nessuna organizzazione più grande di una famiglia.»
Phipps scosse il capo.
«Quello che è giusto per i draghi non è giusto per noi. E in ogni caso, le famiglie possono essere oppressive come un governo… dia un’occhiata ai giovani draghi che si vedono qui intorno; hanno da aspettare almeno cinquecento anni, prima di poter starnutire senza permesso. Le ho chiesto la sua opinione, perché neppure io conosco la risposta… e studio la dinamica della storia da prima che lei nascesse. So solamente che stiamo per liberare nel mondo delle forze il cui esito mi è impossibile prevedere.»
Don parve sorpreso.
«Oggi possediamo il volo spaziale; non capisco quale differenza rilevante possa venire dal fatto che questo volo possa essere accelerato. Avremo delle astronavi più rapide; e poi? In quanto all’altra possibilità, mi sembra una bella cosa poter mettere una cupola sopra una città, in modo che essa non possa venire colpita dalle bombe atomiche.»
«Certo. Ma questo è solo l’inizio. Io ho preparato un elenco di alcune cose che verranno… secondo me. In primo luogo, lei sottovaluta enormemente l’importanza dell’incremento di velocità nei trasporti. In quanto alle altre possibilità, sono bloccato. Sono troppo vecchio, e la mia immaginazione ha bisogno di essere lubrificata. Ma c’è una possibilità, tanto per cominciare: potremmo riuscire a spostare dell’acqua, enormi quantità d’acqua, quantità decisive, da qui fino a Marte.» Corrugò la fronte. «Potremmo riuscire perfino a spostare i pianeti.»
Don sollevò lo sguardo, bruscamente. Aveva già sentito qualcosa di simile, in passato. Da qualche parte, qualcuno aveva detto quasi le stesse parole… ma il ricordo gli sfuggiva.
«Ma non importa,» proseguì Phipps. «Cercavo solo di ottenere un punto di vista più giovane, più fresco. Lei potrebbe pensarci. Quei ragazzi del laboratorio non ci penseranno mai, può esserne certo. Quei fisici… sono capaci di produrre dei prodigi, ma non sanno mai quali altri prodigi i loro prodigi sapranno generare.» Fece una pausa, e aggiunse, «Stiamo cambiando la posizione delle lancette dell’orologio, ma non sappiamo quale ora esse indicheranno dopo.»
Notando che Phipps non aggiungeva altro, Don decise, con sollievo, che il colloquio era finito, e fece per alzarsi.
«No, no, non se ne vada,» disse Phipps. «Avevo un’altra faccenda in testa, quando l’ho mandata a chiamare. Si è preparato a partire, vero?»
Don sobbalzò, arrossì, e balbettò:
«Cosa le ha fatto venire in mente questa idea?»
«Ho ragione. Un mattino ci saremmo svegliati, e avremmo trovato il suo letto vuoto. E allora mi sarei trovato in un mare di guai, per organizzare una ricerca e riportarla qui, in un momento nel quale ogni energia deve essere concentrata su un altro obiettivo.»
Don si rilassò.
«Conrad ha fatto la spia,» disse, amaramente.
«Conrad? No. Dubito che il buon dottore sia capace di notare qualcosa di più grande di un elettrone. No, mi conceda almeno il credito di possedere un po’ di buonsenso. Il mio lavoro sono le persone. Certo, ho trattato male il suo caso, quando è arrivato qui… ma devo accampare la solita scusa, e cioè che ero esausto, nervoso, e sconsolato. La stanchezza è una forma moderata di pazzia. Il fatto è questo: lei se ne sta andando, e io non posso fermarla. Conosco a sufficienza i draghi per sapere che Sir Isaac non me lo permetterebbe, se lei volesse andare via. Lei è il ‘suo’ maledetto ‘uovo’! Ma non posso lasciarla andare; i motivi sono imperativi oggi come prima. Così… piuttosto che lasciarla fuggire, dovrei cercare di ucciderla.»
Don si spostò di qualche centimetro, spostando il peso del suo corpo.
«Crede di riuscirci?» disse, in tono sommesso.
Phipps sorrise.
«No, non credo. È per questo che ho dovuto escogitare un altro piano. Lei sa che stiamo formando l’equipaggio dell’astronave. Le piacerebbe di farne parte?»