Oggi ho fatto la pace con Luman. Non è stato facile, ma sapevo che sarebbe accaduto prima o poi. Solo poche ore fa, allontanandomi dalla scrivania per riflettere su qualcosa, di colpo mi sono reso conto di quanto sarei stato triste se gli eventi che sto raccontando fossero in qualche modo precipitati, senza che avessi avuto la possibilità di riconciliarmi con Luman. Così mi sono alzato, ho preso un ombrello (stava cadendo una piacevole pioggerellina) e mi sono incamminato verso la Casa del Fumo.
Luman mi stava aspettando seduto sulla soglia.
“Te la sei presa comoda”, ha esordito.
“Cosa?”
“Mi hai sentito. Ce ne hai messo di tempo per venire a dirmi che ti dispiace.”
“Cosa ti fa pensare che sia questa la ragione per cui sono venuto?” ho risposto.
“Ce l’hai scritto in faccia”, ha ribattuto mio fratello.
“Davvero?”
“Sì, signor Maddox, Il Grande e Potente Scrittore, sembri molto dispiaciuto.” Si è appoggiato allo stìpite della porta e si è alzato in piedi. “Infatti non sarei affatto sorpreso se ti inginocchiassi qui davanti a me per implorare il mio perdono.” Ha sogghignato. “Ma non c’è bisogno che tu lo faccia, fratello mio. Ti perdono.”
“È molto generoso da parte tua. E ora per quanto riguarda te…”
“Che cosa?”
“Luman, mi hai praticamente accusato di aver ucciso mia moglie.”
“Stavo solo dicendo la verità”, ha risposto lui. Poi ha aggiunto: “È la verità dal mio punto di vista. Nessuno ti costringe a credermi”. Ha assunto un’espressione provocatoria. “Anche se qualcosa mi dice che mi credi.” Mi ha osservato in silenzio per un attimo. “Dimmi che mi sbaglio.”
Avrei davvero voluto fargli sparire quel sorriso dalla faccia ma ho resistito alla tentazione. Ero lì per fare la pace. E d’altronde, come ho già ammesso in queste pagine, la colpa della morte di Chiyojo è in parte mia. L’avevo già confessato sulla carta; adesso era arrivato il momento di fare lo stesso guardando in volto il mio accusatore. Non avrebbe dovuto essere così difficile. Conoscevo le parole; allora perché pronunciarle era tanto più arduo che scriverle?
Ho chiuso l’ombrello e ho lasciato che la pioggia mi scorresse sul viso. Era tiepida, tuttavia mi ha rinfrescato. Sono rimasto così per un paio di minuti. Alla fine, senza guardarlo, ho detto a Luman:
“Avevi ragione. Sono responsabile per quello che è accaduto a Chiyojo. L’ho ceduta a Nicodemus, proprio come hai detto tu. Volevo…” Ho sentito gli occhi bruciarmi per le lacrime; ma sono andato avanti con la mia confessione. “Volevo compiacerlo. Volevo che mi amasse.” Mi sono passato una mano sul viso. Poi, finalmente, ho trovato il coraggio di guardare Luman. “Il fatto è che non mi sono mai davvero sentito suo figlio. Non come te. O come Gallice. Io sono sempre stato suo figlio solo a metà. Così ho sempre fatto di tutto per cercare di compiacerlo. Ma non ha funzionato. Lui mi dava per scontato. Io non sapevo cos’altro dargli. Gli avevo dato me stesso e non era stato abbastanza…” Mentre parlavo, un tremore si era impossessato di me: delle mie mani, delle mie gambe, del mio cuore. Ma nemmeno la morte sarebbe riuscita a interrompermi in quel momento. “Quando ha messo gli occhi su Chiyojo, ho provato una rabbia tale che volevo andarmene. Avrei dovuto andarmene. Avrei dovuto portarla con me — proprio come hai detto tu — portarla via dall’Enfant, così avremmo potuto vivere la nostra vita. Una vita normale, forse — una vita umana. Non sarebbe stato così male, in fondo, giusto?”
“Rispetto a questo?” ha detto Luman a bassa voce. “Sarebbe stato il paradiso.”
“Ma ho avuto paura. Ho avuto paura che avrei rimpianto la mia scelta, prima o poi, e non sarei più potuto tornare indietro.”
“Come Galilee?”
“Sì… come il povero Galilee. Così ho ignorato quello che mi diceva l’istinto. Quando Nicodemus ha cominciato a fare la corte a Chiyojo, ho distolto lo sguardo. Immagino di aver sperato che lei mi amasse abbastanza da dirgli di no.”
“Non biasimarla”, ha detto Luman. “Nemmeno la Vergine Maria avrebbe saputo resistere a Nicodemus.”
“Io non la biasimo. Non l’ho mai biasimata. Tuttavia, ho sperato.”
“Povero stupido”, ha detto Luman non senza tenerezza. “Dovevi essere disperato.”
“Peggio ancora, Luman. Ero spaccato in due, lacerato. Una parte di me voleva che lei lo rifiutasse, voleva che venisse da me a dirmi che lui aveva cercato di sedurla. Mentre l’altra parte di me voleva che lui la prendesse, che facesse di lei la sua amante.”
“E cosa pensavi di ottenere in questo modo?”
“Non lo so. Forse lui si sarebbe sentito in colpa e sarebbe diventato più gentile con me. O forse ci saremmo divisi Chiyojo.”
“E lo avresti fatto?”
“Credo di sì.”
“Aspetta. Dimmi se ho capito bene. Avresti accettato un ménage a trois con tua moglie e tuo padre?” Non ho risposto ma suppongo che il mio silenzio sia stato più che eloquente. Luman si è coperto gli occhi con una mano, in un gesto teatrale. “E io che credevo di essere così perverso”, ha detto, sogghignando.
Quanto a me, non sapevo se piangere o ridere. Sulla carta, la mia confessione non era arrivata fino a questo punto; ma quella era la verità in tutta la sua nauseante tragicità.
“Comunque, non è mai successo”, ho detto alla fine.
“Be’, questo è già qualcosa”, ha replicato Luman. “Ma resti comunque un depravato, ricordatelo.”
“Lui l’ha presa e se l’è scopata e le ha fatto provare cose che, immagino, io non ero mai riuscito a farle provare.”
“Era la sua specialità”, ha detto Luman. “Era il suo dono.”
“Era… fisico?” gli ho chiesto, dando voce a una domanda che mi aveva tormentato per anni. Luman mi ha guardato, inespressivo. “Il suo dono”, ho insistito. “Oh, andiamo, Luman, sai di cosa sto parlando. Era così che conquistava le donne?” Ho abbassato lo sguardo sul mio inguine. “Con questo?”
“Mi stai chiedendo quanto era grande il suo cazzo?” ha detto Luman. Io ho annuito. “Be’, a giudicare dai miei attributi, direi notevole. Ma penso che non fosse solo questo. Se non sai come usarlo…” ha sospirato. “Io non sono mai stato molto bravo, sai? È sempre stato il mio problema. Molta sostanza ma niente stile. Ho gli attributi di uno stallone ma scopo come un mulo zoppo.” Finalmente sono scoppiato a ridere, cosa che ha fatto molto piacere a Luman. “Be’, certamente adesso ci conosciamo meglio di quanto ci conoscevamo cinque minuti fa”, ha detto. Poi, con voce più bassa: “Depravato”.
Abbiamo parlato ancora un po’ prima che tornassi nel mio studio: Luman in piedi sulla soglia, io fuori, sotto la pioggia. Mio fratello mi ha proposto di andare con lui a visitare la tomba di Nicodemus, un giorno o l’altro. Io ho accettato e ho aggiunto che avremmo fatto meglio a non aspettare troppo, nel caso gli eventi fossero precipitati, negandoci per sempre quell’opportunità. La reazione di Luman è stata molto interessante.
“Allora siamo in guerra?” ha chiesto lui. “Dobbiamo aspettarci un’invasione da un momento all’altro?”
Gli ho detto che non lo sapevo ma che la Casa dei Geary aveva vissuto momenti di grande instabilità ultimamente e quel fatto era certamente preoccupante.
“Se tu sei preoccupato, allora anch’io sono preoccupato”, ha detto Luman. “Comincerò a lucidare i miei coltelli, stanotte. Hai una pistola?”
“No.”
Lui è entrato in casa e pochi istanti dopo è ricomparso, tenendo in mano una pistola antiquata. “Tieni”, mi ha detto. “Dove l’hai presa?” ho domandato.
“Apparteneva a Nub Nickelberry”, ha risposto Luman. “Me l’ha regalata quando se n’è andato. In realtà è stato Galilee a convincerlo a lasciarmela. Ha detto a Nickelberry che non gli sarebbe più servita, che aveva già tutta la protezione di cui avrebbe mai avuto bisogno.”
“Parlava di sé?”
“Immagino di sì.” Mi ha offerto di nuovo l’arma. “Coraggio, Eddie, prendila. Anche se pensi che non la userai mai. Sarò più tranquillo sapendo che hai qualcosa con cui difenderti oltre alla tua penna che, lasciamelo dire, non ti sarà di alcun aiuto se le cose si metteranno male.”
Io ho preso la pistola. Era una Griswold e Gunnison, come avrei scoperto più tardi, un’arma semplice e solida.
“È già carica”, ha detto Luman. “Ma non ho altre pallottole, quindi pensaci bene prima di sparare. Ehi! Non puntarmela addosso. Quando è stata l’ultima volta che ne hai usata una?”
“Molto tempo fa”, ho ammesso. “È una strana sensazione.”
“Be’, non devi avere paura. Gli incidenti accadono solo a chi ha paura di maneggiare le armi. Sei tu che la impugni, non il contrario. Mi hai capito?”
“Certo. Grazie, Luman.”
“È un piacere. Vedrò cos’altro riesco a scovare. Da qualche parte devo avere una bellissima sciabola fatta a Nashville. Durante la guerra, c’era una fabbrica dove fondevano gli aratri per forgiare spade.”
“Molto biblico.”
“Sai cos’altro ho?” Stava sorridendo da un orecchio all’altro, adesso. “Ho un tamburo militare dei Confederati.”
“Di Nickelberry?”
“No… l’ho avuto da Marietta poco prima della fine della guerra. Lo aveva trovato in una trincea da qualche parte. Insieme al cadavere di chi lo aveva suonato. E visto che a lui non sarebbe più servito, me lo ha portato. Dovrò riprendere a usarlo. Ha un bel suono. Ideale per dare l’allarme…” Il suo sorriso è scomparso un’altra volta; ora stava fissando la pistola che tenevo in mano. “Strano”, ha detto. “Dopo tutti questi anni, rispolverare cose che pensavo non ci sarebbero mai più servite.”
“Forse non dovremo usarle.”
“Chi vuoi prendere in giro?” ha detto. “È solo una questione di tempo.”
Sono tornato nel mio studio completamente fradicio ma stranamente rinvigorito dalla conversazione con Luman. Mentre mi toglievo i vestiti bagnati, mi sono guardato attorno e mi sono reso conto di quanto la mia stanza fosse sprofondata nel caos: pile di appunti dovunque, libri e giornali ammucchiati in ogni angolo. Era tempo di rimettere in ordine, mi sono detto, di prepararmi per le battaglie che mi attendevano, quali che fossero. Ho cominciato subito, senza neanche infilarmi un paio di calzini sporchi. Nudo come un neonato, mi sono messo al lavoro, esaminando tutto ciò che avevo accumulato nei mesi che avevo trascorso scrivendo. Non è stato diffìcile riporre i libri sugli scaffali, radunare i giornali e le riviste che alla fine ho lasciato fuori dalla porta del mio studio perché Dwight li gettasse via. La vera sfida sono stati i miei appunti, che ormai ammontavano a molte centinaia di pagine. Alcuni fogli raccoglievano le mie ispirazioni notturne, che avevo scarabocchiato nell’oscurità quando mi ero svegliato da un sogno; altri erano coperti di disegni che avevo fatto nei giorni in cui la mia penna si era rifiutata di muoversi. Alcuni sembravano gli appunti di un poeta dislessico, altri sembravano i tentativi di un paranoico di esplorare la metafisica; i peggiori erano del tutto incomprensibili.
Non me ne ero ancora sbarazzato per paura che ci fosse qualcosa tra quelle carte di cui avrei potuto avere bisogno un giorno o l’altro. Ma era arrivato il momento di buttarli via. D’ora in avanti avrei proseguito il mio lavoro con meno intralci. La storia condensata del guerriero Timur-i-leng, per esempio, le cui ossa giacevano a Samarcanda: non me ne sarei mai servito. Via. I miei appunti sulla conformazione dei genitali delle iene; tutte cose molto interessanti ma di nessuna rilevanza. Via. Le mie elucubrazioni sulla natura dei miei sforzi, perlopiù riflessioni pretenziose, scritte mentre ero ubriaco. Via. Non c’era più spazio per quel genere di cose; non ora che ci stavamo preparando per una guerra.
Quando ho finito, era ormai buio e io ero esausto. Ma era uno sfinimento piacevole; avevo ottenuto qualcosa: riuscivo di nuovo a vedere il tappeto. La mia scrivania era sgombra, occupata soltanto dalla mia unica copia del libro, da una pila di fogli e dalla pistola che mi aveva dato Luman.
Restava un’unica cosa da fare. Tutti quegli inutili appunti dovevano essere distrutti. Non volevo che, un domani, qualcuno potesse leggere i miei vaneggiamenti sentimentali e i miei errori di ortografia; né volevo rischiare di tornare a leggerli io stesso in qualche momento di debolezza. Con le braccia cariche di fogli, sono uscito sul prato. Ero ancora nudo ma, che diavolo?, nessuno avrebbe perso tempo a spiarmi. Così, ho lasciato cadere i fogli nell’erba. Poi ho acceso un fiammifero e li ho incendiati. Mi sono seduto sul prato ancora umido di pioggia e ho brindato con un bicchiere di gin alla salute di quelle pagine che venivano consumate a una a una dalle fiamme. Di tanto in tanto scorgevo una frase che subito dopo veniva divorata dal fuoco e mi sentivo trafiggere dal rimorso. Non c’era modo di recuperare ciò che stavo bruciando; le riflessioni, almeno. Certo, per quanto riguardava i fatti, avrei sempre potuto ricostruirli. Ma le sensazioni che avevo annotato? Stavano scomparendo per sempre.
Oh Signore! Qualche minuto prima ero di ottimo umore, ma adesso ero nauseato. Quel maledetto libro mi stava consumando. Ero stanco di ascoltare tutte quelle voci nella mia testa. Stanco di sentirmi responsabile. Mio padre non avrebbe sprecato una sola ora della sua vita a scrivere di Galilee e dei Geary. E avrebbe trovato ridicola l’idea che qualcuno potesse trascorrere un giorno dopo l’altro a fare una cosa simile.
Mi sarei difeso, sostenendo che il libro mi serviva per tenere a bada la follia che avevo ereditato da lui. Immaginare la sua risposta non era difficile.
“Non sono mai stato pazzo.”
E io come avrei replicato? Avrei detto: “Ma papà, verso la fine passavi mesi interi senza parlare con nessuno. Ti lasciavi crescere la barba fino all’ombelico e non ti lavavi. Andavi nella palude e ti nutrivi di carcasse putrescenti di alligatori. Te lo ricordi questo?”
“E con questo cosa vorresti dire?”
“Che ti comportavi come un folle.”
“Dal tuo punto di vista.”
“No, dal punto di vista di tutti, padre.”
“Non ero pazzo. Conoscevo esattamente la ragione delle mie azioni.”
“Dimmi, allora. Aiutami a capire perché per metà del tempo eri un padre amorevole, e per l’altra metà eri coperto di pidocchi ed escrementi.”
“Una volta mi sono fatto un paio di stivali con gli escrementi. Te li ricordi?”
“Sì, me li ricordo.”
“E una volta sono tornato a casa con un teschio — un teschio umano ~ che avevo trovato nella palude e ho detto a quella puttana di mia moglie che ero stato in Virginia a dissotterrare chi tu sai.”
“Le hai detto che quello era il cranio di Jefferson?”
“Oh sì.” A questo punto avrebbe fatto uno dei suoi sorrisi carichi di piacere e malizia, al ricordo del dolore che aveva causato. “E le ho ricordato quanto sembravano strette le sue labbra e gli ho infilato le dita nette orbite che un tempo avevano contenuto i suoi occhi acquosi. Le ho chiesto: gli hai mai baciato gli occhi? Perché è qui che erano…”
“Perché hai voluto fare una cosa così crudele?”
“Lei ha fatto anche di peggio, a me. Comunque è stato bello vederla piangere e singhiozzare, una volta tanto. Mi ha ricordato che aveva ancora un cuore, perché certe volte arrivavo a dubitarne. E, oh Dio, poi ha cominciato a urlare, dicendomi di darle il teschio. Meritava rispetto, ha detto. Rispetto! Ah! Come se le fosse mai importato qualcosa del rispetto! Sapeva comportarsi come la più lurida puttana del mondo quando era in calore. E ha avuto il coraggio di parlarmi di rispetto, quella sgualdrina ipocrita!” Avrebbe scosso la testa e sarebbe scoppiato a ridere.
Ricordo bene quell’episodio. Le mura dell’Enfant avevano tremato durante quella lite furiosa.
“Alla fine, ha cercato di strapparmi il teschio dalle mani e, mentre ce lo contendevamo, è caduto a terra ed è andato in mille pezzi. Lei ha strillato e si è inginocchiata per raccogliere i frammenti di osso, con tanta fottuta delicatezza che sembrava quasi che stesse raccogliendo lui…”
“E allora le hai detto che non era il teschio di Jefferson?”
“Non subito. Sono rimasto a guardarla per un po’, ad ascoltarla singhiozzare. Fino a quel momento non ero mai stato del tutto sicuro di cosa ci fosse stato tra di loro. Certo, avevo dei sospetti.”
“Lui aveva costruito l’Enfant per lei.”
“Ah, quello non dimostrava niente, invece. Poteva convincere gli uomini a fare qualsiasi cosa per lei. La domanda non era: che cosa aveva provato lui per lei? ma: che cosa aveva provato lei per lui? E così ho avuto la mia risposta. Mentre la guardavo raccogliere i pezzi di quelle che pensava fossero le sue ossa, ho capito che lei lo aveva amato.” Avrebbe fatto una pausa e mi avrebbe scrutato con i suoi occhi neri e turchesi. “Come siamo arrivati a parlare di questo?”
“Stavamo parlando della tua follia.”
“Oh sì… La mia follia… la mia splendida follia… Non sono mai stato pazzo”, avrebbe ripetuto. “Perché i pazzi non sanno mai ciò che stanno facendo o perché. Invece io l’ho sempre saputo. Sempre. Mentre tu…”
“Io?”
“Sì, figliolo. Tu. Te ne stai seduto qui giorno dopo giorno, notte dopo notte ad ascoltare voci che potrebbero essere reali ma che potrebbero anche non esserlo. Questo non è un comportamento da uomo sano di mente. Ma guardati. Stai scrivendo persino questo. Fermati un attimo a pensare quanto tutto questo sia ridicolo: scrivere qualcosa come se fosse reale anche se lo stai inventando.”
“Non ne sono così certo.”
“Ma io sono morto e sepolto da centoquarant’anni, figliolo. Sono solo polvere, proprio come Jefferson. ”
Ho cercato una risposta ma il problema era che aveva ragione. Era strano — no, è strano — chiacchierare con un padre morto come sto facendo ora, senza sapere quanto di ciò che sto scrivendo è reale e quanto è invenzione; senza sapere se mio padre mi sta parlando attraverso i miei geni, attraverso la mia penna, attraverso la mia immaginazione, o se questo dialogo è solo la prova della mia follia.
“Padre?”
Scrivere una parola sulla pagina certe volte è come un’invocazione.
“Dove sei?”
Era qui un istante fa, la sua voce mi riempiva la testa. (La storia del teschio che aveva mostrato a Cesaria non l’avevo mai sentita prima. La prossima volta che la incontrerò, le chiederò se è vera. Se mi risponderà di sì, allora adesso non sto immaginando la voce di Nicodemus, vero? Lui è qui con me.) O almeno lo era.
“Padre?”
Non ottengo alcuna risposta.
“Non abbiamo finito la nostra conversazione sulla follia.”
Ancora silenzio. Be’, non importa; sarà per un’altra volta.
Ho cominciato questo passaggio parlando della mia scrivania e ho concluso con una visita del mio defunto padre. È così che ha funzionato, fin dall’inizio: tutto ciò che è strano, grottesco, apocalittico persino, ha continuato a intersecarsi con ciò che è domestico, familiare, banale. Mentre sedevo qui, sorseggiando un tè, ho sognato di percorrere la Via della Seta diretto a Samarcanda. Mentre ascoltavo il frinire dei grilli, ho visto Garrison Geary giocare al becchino eccitato. Mentre mi facevo la barba, ho visto Rachel che mi fissava dallo specchio del bagno e ho capito che si era innamorata.
Forse non è un caso che abbia scelto la Vìa della Seta come esempio di ciò che è strano e le pratiche sessuali di Garrison come immagine di ciò che è grottesco. Ma perché ho pensato a Rachel e Galilee, quando ho immaginato ciò che è apocalittico?
Non lo so di preciso, per la verità. Nutro qualche sospetto sgradevole in proposito, ma preferisco non parlarne per evitare di trasformare una possibilità in una probabilità.
Posso solo dirvi questo con certezza: che mentre le visioni continuano a susseguirsi, è a Rachel che mi sento più vicino. Così vicino che quando mi alzo dopo aver scritto a lungo di lei, ho quasi la sensazione di essere lei. Il mio corpo è pesante e il suo leggero, la mia carnagione è olivastra e la sua è pallida, io mi muovo con fatica, come un uomo che ha appena riacquistato l’uso delle gambe, lei si muove come una vela di seta. Eppure ho la sensazione di essere lei.
Molte, molte pagine fa — dopo aver descritto goffamente il primo incontro tra Rachel e Galilee — ricordo di aver avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di incestuoso nel parlare della vita sessuale di mio fratello. Ora devo dire che quelle preoccupazioni sono svanite, e devo ringraziare Rachel per questo. Mi ha spogliato della mia vergogna. Nel compiere questo viaggio con lei, nell’ascoltarla piangere, nel sentire la sua rabbia e il suo struggimento per Galilee, sono diventato più coraggioso.
Se dovessi raccontare di nuovo quella stessa scena, non sarei così puritano. E se dubitate di me, aspettate e vedrete. Se si incontreranno ancora, sarò all’altezza della situazione. Maddox svanirà dall’equazione e io sarò Rachel stretta tra le braccia del suo amato.
Rachel socchiuse appena le palpebre e controllò l’orologio. Erano da poco passate le sei ed era trascorsa solo un’ora da quando aveva chiuso il diario ed era andata a letto. Le faceva male la testa e aveva un sapore sgradevole in bocca. Considerò l’idea di alzarsi per prendere un’aspirina, ma non se la sentiva di muoversi.
Mentre richiudeva gli occhi, un rumore che proveniva dal piano di sotto la fece trasalire. C’era qualcuno nell’appartamento. Rachel trattenne il fiato e sollevò appena la testa dal cuscino per sentire meglio. C’era un altro suono, adesso; era una voce, la voce di un uomo. Mitchell? Se era lui, perché diavolo si era presentato lì a quell’ora e con chi diavolo stava parlando? Rimase ad ascoltare. Riconobbe la cadenza della sua voce ma non riuscì a dare un senso a ciò che stava dicendo. Sì, era proprio Mitchell, quel bastardo! Era entrato come se fosse ancora stato un suo diritto andare e venire come gli pareva.
Ci fu una breve pausa, poi lui parlò di nuovo. Era al telefono con qualcuno, e a giudicare dalla velocità con cui parlava, era molto eccitato.
Rachel era curiosa quasi quanto arrabbiata. Si alzò, si infilò rapidamente le mutandine e una felpa e andò alla porta.
Da lì riusciva a sentirlo più chiaramente. Stava parlando con Garrison. Anche se Rachel non lo avesse sentito chiamare per nome suo fratello, lo avrebbe capito dal tono di voce che stava usando: quell’insieme di rispetto e familiarità che riservava solo a Garrison.
“Vengo subito da te…” stava dicendo Mitchell. “Lasciami bere un caffè e…”
Rachel aprì la porta e uscì sul pianerottolo. Non poteva averla vista da dove si trovava, ma evidentemente l’aveva sentita arrivare, perché interruppe bruscamente la conversazione con Garrison. “Ci vediamo tra un’ora”, disse, prima di riagganciare.
Rachel si fermò in cima alle scale.
“Mitchell?”
Lui comparve, un sorriso smagliante che contrastava con il suo colorito grigiastro e i suoi occhi arrossati.
“Mi sembrava di averti sentita. Non volevo svegliarti, così.”
“Cosa diavolo ci fai qui?”
“Sono solo passato a salutarti”, rispose lui senza smettere di sorridere. “Non hai una bella cera. Sei sicura di sentirti bene?”
Rachel cominciò a scendere le scale. “Sono le sei del mattino, Mitchell.”
“C’è un sacco di influenza in giro, sai? Forse dovresti…”
“Mi stai ascoltando?”
“Non avercela con me, piccola”, disse lui, e il suo sorriso finalmente scomparve. “Non devi per forza gridarmi dietro ogni volta che ci vediamo.”
“Non sto gridando”, disse Rachel con calma. “Ti sto solo dicendo che non ti voglio nel mio appartamento.”
Rachel era quasi arrivata in fondo alla scala. Lui fece un passo indietro, sollevando le mani in segno di resa. “Me ne vado”, disse, si voltò e si diresse verso il tavolo. “Avrei dovuto immaginare che lo avrebbe dato a te”, continuò. Stava parlando del diario. Era sul tavolo dove lo aveva lasciato Rachel. “Garrison mi aveva detto che eravate tutte puttane, ma io non ho voluto credergli. Non la mia Rachel. Non la mia dolce, innocente Rachel.” Allungò una mano verso il diario.
“Non toccarlo”, gli intimò lei.
“Faccio il cazzo che voglio”, ribatté Mitchell. Afferrò il diario e si voltò a guardare Rachel. “Ti ho dato una possibilità, ti ho avvertita al galà: non ficcare il naso in cose che non capisci, perché potresti non avere più nessuno a proteggerti. Non ti ho detto così?”
“Non è tuo, Mitch”, disse lei, facendo del suo meglio per restare calma. “Rimettilo dove l’hai preso e vattene.”
“Altrimenti? Eh? Cosa vorresti fare? Sei da sola, adesso.” Poi i suoi modi si ammorbidirono all’improvviso, come se la vulnerabilità di Rachel lo preoccupasse sinceramente. “Perché non mi hai detto che ti aveva dato il diario?”
“Non me l’ha dato Margie. L’ho trovato.”
“Lo hai trovato?” La dolcezza svanì in fretta com’era comparsa. “Sei andata a frugare in casa di Garrison?”
“Sì.”
Lui scosse la testa, sbalordito. “Sei incredibile. Proprio non capisci in che razza di guai ti stai andando a cacciare?”
“Comincio ad averne una vaga idea.”
“E pensavi che il tuo Galilee sarebbe venuto a salvarti se le cose si fossero messe male?”
“No”, rispose Rachel, avvicinandosi a lui lentamente. “So che questo non accadrà mai. Posso contare solo sulle mie forze. Non ho paura di te. So come funziona la tua mente.”
“Non più, ormai”, disse Mitchell. L’espressione dei suoi occhi iniettati di sangue sembrava dargli ragione; c’era qualcosa in lui che Rachel non aveva mai visto, qualcosa di instabile. “Sai cosa dovresti fare, piccola? Dovresti tornartene a Dansky e ringraziare Dio di essere ancora viva. Parlo sul serio. Vattene e non voltarti indietro…”
La sera del galà, le sue minacce le erano sembrate inconsistenti; ora erano molto più reali. Cominciava ad avere paura. La tristezza, la confusione e la mancanza di sonno l’avevano resa debole; se Mitchell avesse deciso di farle del male ora, non sarebbe riuscita a difendersi.
“Forse hai ragione, sai”, gli disse, facendo del suo meglio per nascondere il disagio. “Dovrei tornare a casa.”
Mitchell sembrò felice di essere riuscito a impressionarla. “Adesso sì che cominci a ragionare!”
“Non mi ero resa conto…”
“No, infatti. E come avresti potuto?”
“… che le cose sono molto più serie…”
“Di quanto avessi immaginato. Io ho provato a metterti in guardia.”
“Sì. È vero. E io non ero ancora pronta a darti ascolto.”
“Ma adesso capisci…”
Lei annuì e, sperando che il tono della sua voce fosse abbastanza convincente, disse: “Sì, adesso capisco. Tu avevi ragione e io avevo torto”.
E quell’ultima affermazione gli piacque molto. Il suo sorriso si allargò a dismisura. “Sai essere così dolce quando vuoi, Rachel”, le disse. Senza alcun preavviso le si avvicinò e le posò la mano libera su una guancia. Rachel sentì il suo odore di colonia stantia e sudore vecchio. “Se avessi il tempo…” continuò Mitchell, “ti porterei di sopra per ricordarti cosa ti stai perdendo.”
Lei avrebbe voluto dirgli di andare a farsi fottere, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato la situazione. Quindi rimase in silenzio e gli permise di posarle un bacio asciutto sulle labbra, con quell’atteggiamento possessivo che un tempo l’aveva fatta sentire una vera principessa. Ma lui non era ancora soddisfatto. La sua mano le abbandonò il viso e scese a sfiorarle i seni. “Di’ qualcosa”, mormorò.
“Che cosa vuoi che dica?”
“Lo sai”, disse lui.
“Vuoi che ti chieda di portarmi di sopra?”
Lui sogghignò. “Potrebbe essere carino.”
Rachel giurò a se stessa che prima o poi gliela avrebbe fatta pagare. Lo avrebbe messo in ginocchio. Ma fino ad allora: “Be’, allora ti va?”
“Mi va cosa?”
“Di portarmi di sopra…”
“E?”
“… e scoparmi?
“Oh, piccola, pensavo che non me l’avresti mai chiesto.” La sua mano scese ancora, dal seno all’inguine di Rachel. Le fece scivolare le dita sotto l’elastico delle mutandine. “Non sei bagnata, piccola”, disse. Si spinse appena dentro di lei. “Sembri una fottutissima tomba.” Ritrasse la mano come se qualcosa lo avesse punto. “Scusami, piccola. Devo andare.”
Si voltò e si diresse verso la porta. In quel momento, Rachel avrebbe voluto soltanto seguirlo e urlargli che razza di inutile pezzo di merda fosse. Ma riuscì a resistere alla tentazione. Dopotutto, Mitchell se ne stava andando e a Rachel non importava altro.
“Un’ultima cosa”, disse lui, fermandosi davanti alla porta.
“Sì?”
“Vuoi che metta in vendita questa casa per te? Non credo che tu voglia restare, giusto?”
“Puoi farne quello che ti pare.”
“Tutto quello che ricaverò dalla vendita lo metterò sul tuo conto. Naturalmente, se non ti fidi di me…”
“Vendila, Mitchell. Entro due settimane me ne sarò andata da qui.”
“Dove hai intenzione di andare?”
“Non lo so ancora. Ho diversi amici. Forse tornerò a Boston. Terrò Cecil informato.”
“Bene. Non dimenticartene, d’accordo?”
Detto questo uscì: un’eco remota dell’uomo che un tempo le aveva voluto bene e che lei aveva sognato di avere accanto fino alla fine dei suoi giorni.
Che cosa gli era successo? Cosa stava succedendo a tutti loro? Era come se tutti stessero cambiando pelle, rivelando al mondo qualcosa di nuovo… o forse ciò che erano sempre stati. La domanda a cui ora Rachel si trovava a dover rispondere era semplice: chi era lei? Non era più la moglie di Mitchell, questo era certo. Ma non era nemmeno l’amante di Galilee. Era forse condannata a diventare una di quelle donne malinconiche che venivano notate solo per la brevità del loro momento di gloria — un matrimonio fallito con un uomo famoso, un periodo di notorietà e infine l’oblio?
Sarebbe tornata a Dansky prima di ritrovarsi a vivere un’esistenza come quella. Avrebbe chiesto a Neil Wilkens di sposarla se non glielo avesse chiesto prima lui, e si sarebbe abituata a una vita di totale anonimato. Qualunque cosa pur di non essere indicata da tutti come la donna che aveva amato e perduto Mitchell Geary.
Ma stava correndo troppo con l’immaginazione. Prima avrebbe dovuto preoccuparsi di non perdere la vita e la sanità mentale in quella situazione tutt’altro che sicura. Ripensò al luccichio di follia che aveva notato negli occhi di Mitchell, al modo in cui aveva arricciato le labbra mentre ritraeva le dita da lei. Sembri una fottutissima tomba.
Rachel rabbrividì, non solo per la crudeltà gratuita di quelle parole ma per il fatto che in un certo senso l’aveva sporcata con la morte. Che cosa pensava veramente Mitchell? Quando la guardava, vedeva forse una donna pronta a raggiungere Margie nell’aldilà? In fondo, per Mitchell, la sua morte sarebbe stata una soluzione comoda e conveniente. Avrebbe potuto interpretare la parte del vedovo inconsolabile per un po’, e poi si sarebbe trovato un’altra moglie più docile, una moglie che avrebbe messo al mondo piccoli Geary uno dopo l’altro e che non si sarebbe lamentata per la mancanza di passione di suo marito.
Probabilmente era solo paranoica, si disse, ma quel pensiero non servì a calmarla. Ora Mitchell era in possesso del diario. Chiaramente era molto importante per lui e doveva esserlo stato anche per Margie, altrimenti non si sarebbe mai presa il disturbo di nasconderlo con tanta cura, giusto? Cosa nascondeva quel diario tra le sue pagine?
Be’, ormai non aveva più senso continuare a rimuginarci sopra. Meglio uscire da quel dannato appartamento e andare a fare una passeggiata.
Si vestì rapidamente e scese in strada. Era una mattina limpida e soleggiata, e subito Rachel capì di aver preso la decisione giusta. Il suo umore migliorò sensibilmente, soprattutto quando si mescolò alla folla della Quinta Avenue, felice di sentirsi come una donna qualunque.
Riuscì a non pensare a Mitchell e ai suoi vili discorsi, ma non riuscì a non pensare a Galilee. I misteri che lo circondavano non la turbavano più, adesso. All’aria aperta, circondata da tanta gente, le sembravano solo affascinanti: elementi del suo paesaggio personale inspiegabili, forse persino magici. Chi era veramente Galilee? Chi era quell’uomo che aveva vissuto molte vite attraversando gli oceani? Che era così solo e che tuttavia non traeva conforto dalla presenza di altri esseri umani?
Rachel rimpianse di non avergli fatto altre domande quando erano stati insieme, soprattutto riguardo alla sua famiglia. Dando per scontato che le avesse detto la verità quando le aveva rivelato di non avere antenati, che cos’erano allora sua madre e suo padre? Erano in qualche modo anime originarie, l’Adamo e l’Èva della loro specie? E se sì, allora chi era Galilee? Caino o Abele? Il primo assassino o la prima vittima?
Quei paralleli biblici non le sarebbero sembrati così pertinenti se non fosse stato per il nome dell’uomo. Si chiamava Galilee, dopotutto; qualcuno nella sua famiglia conosceva i Vangeli.
Be’, qualunque cosa fosse Galilee, Rachel sapeva di non poter comprendere così in fretta la natura del suo mistero. Il contenuto del diario non aveva fatto altro che confermare il sospetto che le loro strade andassero in direzioni diverse. Galilee era uscito dalla sua vita, forse per sempre, e Rachel non aveva modo di tornare da lui. Non poteva nemmeno sperare di rintracciarlo tra le spire della storia familiare dei Geary, un territorio in cui ora le era proibito avventurarsi. Era diventata un’esule, proprio come Galilee. Lui sul mare, lei sulla Quinta Avenue; lui in solitudine, lei circondata dalla folla: ma comunque esuli.
La passeggiata le mise appetito, così si fermò a pranzo da Alfredo, un piccolo ristorante italiano dov’era stata qualche volta con Mitchell. Entrò pensando di ordinare solo un’insalata ma bastò un’occhiata al menù per farle venire davvero fame e finì per prendere un piatto di spaghetti e una porzione di profiterole. E ora?, si chiese mentre mangiava. Non poteva certo camminare per sempre per le strade di New York, e presto o tardi avrebbe dovuto decidere in quale luogo avrebbe potuto sentirsi veramente al sicuro.
Il caffè non le fu portato dal cameriere ma dal proprietario del locale in persona, Alfredo: un uomo dal volto roseo da cherubino e dal marcato accento italiano che probabilmente faceva di tutto per non perdere, dato che faceva parte del suo fascino.
“Signora Geary…” le disse in tono grave “… siamo tutti molto, molto tristi per ciò che è accaduto a sua cognata. È venuta qui da noi una volta insieme alla vecchia signora Geary — Loretta — e ci siamo subito innamorati di lei.”
Margie e Loretta sedute insieme a bere un bicchiere di vino e a scambiarsi confidenze? Era davvero difficile da immaginare.
“Loretta viene qui spesso?”
“Di tanto in tanto.”
“E vi siete innamorati anche di lei?”
Quella domanda così schietta mise a dura prova l’abilità diplomatica di Alfredo. L’uomo aprì la bocca come per dire qualcosa ma poi cambiò idea.
“Niente amore a prima vista per Loretta, vero?”
“È una donna potente”, ammise Alfredo. “In Italia, abbiamo donne simili. Dal cuore forte. Sono il vero potere della famiglia. Gli uomini sbraitano e magari diventano violenti, ma le donne vanno dritte per la loro strada, capisce, con la loro forza.”
Quella descrizione calzava a pennello a Loretta: difficile da amare, ma impossibile da ignorare. Forse era giunto il momento per Rachel di andare a farle visita, di riprendere la conversazione che avevano avuto dopo la morte di Margie, quando Loretta le aveva esposto senza mezzi termini le sue idee sul futuro dei Geary e le aveva chiesto di stare dalla sua parte. Era forse troppo tardi per accettare la sua proposta? Non che avesse particolarmente voglia di chiederle aiuto, ma Loretta le aveva dimostrato di sapere esattamente ciò che sarebbe accaduto. Abbiamo bisogno l’una dell’altra, aveva detto, per proteggerci. Qualunque cosa pensi tuo marito, non sarà lui a guidare l’impero Geary.
Perché no? le aveva chiesto Rachel.
E la risposta? Oh, Rachel se la ricordava fin troppo bene, e ora cominciava a sembrarle come una sorta di profezia.
“… erediterà più di quanto sia in grado di gestire”, aveva detto Loretta. “Andrà in pezzi. Sta già andando in pezzi…”
Rachel ringraziò Alfredo per il pranzo squisito e uscì nella strada affollata. Il caffè le aveva dato un po’ di vigore, ma non tu solo quello a spingerla ad allungare il passo mentre si dirigeva a nord; si era resa conto all’improvviso che c’era un posto in cui avrebbe potuto trovare rifugio, sempre che non fosse troppo tardi.
Dato che i rapporti tra me e Zabrina sono tutt’altro che idilliaci, potete immaginare la mia sorpresa quando ieri sera si è presentata in camera mia. Stava piangendo e la sua solita scontrosità sembrava averla abbandonata.
“Devi venire con me!” ha detto.
Io le ho chiesto perché e lei ha risposto che non c’era tempo per le spiegazioni.
“Almeno dimmi dove stiamo andando”, ho protestato.
“Si tratta di nostra madre”, ha risposto lei, ricominciando a singhiozzare con nuovo vigore. “Le è successo qualcosa! Penso che stia morendo.”
Questo è bastato a convincermi ad alzarmi e a seguirla, anche se ero più che certo che si stesse sbagliando.
Non sarebbe mai successo niente a Cesaria: era una forza eterna. Una creatura nata dal fuoco primevo del mondo non se ne va in silenzio, nel suo letto.
Eppure più ci avvicinavamo alle stanze di Cesaria, più cresceva il mio sospetto che il panico di Zabrina potesse avere ragioni concrete. C’era sempre stata una sottile agitazione nei corridoi attorno alle stanze di Cesaria, come se la sua presenza suscitasse movimenti a livello molecolare. Trovarsi lì significava sentirsi, in modi non precisamente descrivibili, più vivi. La luce sembrava più limpida, i colori più intensi; quando si respirava si aveva l’impressione di sentire la forma dei propri polmoni che si espandevano.
Ma non ora; ora quei corridoi sembravano mausolei. La paura cominciava a serpeggiare anche dentro di me. E se fosse morta? Cesaria Yaos, la madre di tutte la madri, morta? Che cosa avrebbe significato per noi? I Geary stavano per sferrare il loro attacco contro la nostra famiglia, ormai non avevo più dubbi. Il diario di Holt, che conteneva una descrizione dettagliata di come arrivare a questa casa, era nelle mani di Garrison Geary. E ora Cesaria era morta? Oh, Dio!
Zabrina si è fermata a qualche metro dalla porta che si apriva sulle stanze di Cesaria.
“Non posso tornare lì dentro…” ha singhiozzato con voce rotta dal pianto.
“Dov’è adesso?”
“In camera da letto.”
“Non sono mai stato nella sua camera da letto.”
“Devi solo… vai dritto, prendi il secondo corridoio a destra. È lì in fondo.”
Io ero ben più che nervoso ormai. “Vieni con me”, ho detto a Zabrina.
“Non posso”, ha risposto lei. Non credo di aver mai visto qualcuno tanto spaventato in vita mia.
L’ho lasciata ai suoi tremori e sono entrato, il terrore che cresceva dentro di me a ogni passo. Senza dubbio, Cesaria aveva voluto dare la sensazione a chiunque si avventurasse in quelle stanze di entrare nel tempio del suo corpo; era così che mi sentivo adesso.
Le pareti e i soffitti erano dipinti di rosa scarlatto, le assi spoglie del pavimento avevano venature scure. Non c’erano mobili nei corridoi; le stanze che si aprivano sulla destra e sulla sinistra erano troppo buie perché potessi vederle chiaramente, ma sembravano altrettanto nude.
Ho imboccato il secondo corridoio a destra, seguendo le istruzioni di Zabrina. Per la prima volta da quando le mani di Cesaria mi avevano guarito, ho provato una fitta del mio vecchio dolore alle gambe e ho avuto una visione paranoica dei miei muscoli che si atrofizzavano nell’aria morta di quegli ambienti.
“Smettila”, ho mormorato a me stesso.
Ma anche se ho sentito la mia lingua modellare quelle sillabe e il mio fiato espellerle, il corridoio si è rifiutato di ascoltarle. Me le ha strappate e le ha soffocate.
Non ho avuto il coraggio di dire altro. Mi sono limitato a camminare fino alla porta della camera da letto di Cesaria e sono entrato.
All’interno era buia come le altre stanze, le pesanti tende chiuse a tagliare fuori il cielo, a tagliare fuori il mondo. Sono rimasto in attesa per qualche istante e ho lasciato che i miei occhi si abituassero alla penombra.
C’era un enorme letto nella stanza. Tutto qui, un enorme letto sul quale giaceva il corpo della moglie di mio padre, come un cadavere su un catafalco. Era comunque splendida. Anche nella morte — se davvero era morta — suscitava reverenza. C’era una precisione sbalorditiva in lei; sembrava perfetta anche in quello stato: come una grande opera funeraria scolpita dal suo stesso genio.
Mi sono avvicinato al letto, felice che Zabrina non fosse con me adesso. Non volevo condividere quel momento con nessuno. Anche se avevo paura, era una paura gloriosa, una paura che si poteva provare soltanto in presenza di una divinità morta o morente: una paura mescolata all’immensa gratitudine per il fatto che mi fosse stato concesso di assistere a quello spettacolo.
Il suo viso! Oh, il suo viso. La folta criniera di capelli neri era pettinata all’indietro, la pelle scura scintillava e la bocca era aperta, così come le sue palpebre, impercettibilmente, a mostrare solo il bianco degli occhi.
Alla fine ho trovato il coraggio di parlare. Ho pronunciato il suo nome.
Questa volta l’aria ha accettato la mia parola che mi ha abbandonato dolcemente. Ma Cesaria Yaos non mi ha risposto. Non che mi fossi aspettato una qualche reazione da parte sua. Ero sempre più sicuro che Zabrina avesse ragione. Nostra madre era morta.
E adesso?, ho pensato. Avrei avuto il coraggio di avvicinarmi al letto e di toccare il suo corpo? Di controllare i segni vitali come se la donna che giaceva davanti a me fosse stata solo un cadavere qualsiasi? Non ne avrei avuto la forza. Meglio andare alla finestra, ho pensato, e aprire un po’ le tende per vedere il corpo più chiaramente. Così avrei potuto valutare le sue condizioni da una distanza rispettosa.
Muovendomi con la dovuta reverenza, ho attraversato la stanza pensando al triste eremitaggio in cui Cesaria aveva vissuto dalla morte di mio padre.
Che cosa aveva fatto per riempire quegli anni? I suoi ricordi erano stati sufficienti a regalarle un po’ di felicità? Oppure si era macerata nel dolore, maledicendo la sua stessa longevità e i figli ai quali non era riuscita a dare gioia?
Ho preso una delle tende e ho cominciato a scostarla. Ma in quel momento ho sentito qualcosa sfiorarmi alla base del collo — un tocco impercettibile, certo, ma è stato abbastanza per bloccarmi all’istante. Mi sono voltato a guardare, la mano ancora chiusa sul tessuto. Per un attimo ho creduto di scorgere un qualche cambiamento nel volto di Cesaria, ma si è trattato solo di uno scherzo della mia immaginazione. L’ho fissata per un intero minuto, scrutandola in cerca di qualche traccia di vita, ma non ho trovato niente.
Facendo appello a tutto il mio coraggio, ho ricominciato a scostare la tenda e l’avevo aperta solo di pochi centimetri quando ciò che mi aveva sfiorato il collo poco prima, mi ha colpito il viso con forza. Uno schiocco ha risuonato nella mia testa e un istante dopo mi stava sanguinando il naso. Ho lasciato andare la tenda immediatamente.
Se non avessi dovuto passare davanti al letto per arrivare alla porta, sarei fuggito di corsa, ma dato che le cose stavano diversamente, ho deciso che la passività sarebbe stata la reazione migliore. Qualunque cosa fosse lì con me nella stanza, senza alcun dubbio avrebbe potuto farmi ben di peggio se lo avesse desiderato. Volevo dimostrare a quella presenza che non rappresentavo una minaccia né per lei né per la santità del corpo che giaceva sul letto.
Sono rimasto ad aspettare senza nemmeno tamponarmi il naso che, dopo qualche minuto, ha smesso di sanguinare. Quanto al mio assalitore, dovunque fosse, sembrava convinto della mia innocenza al punto da non aggredirmi più.
E poi è accaduta la cosa più strana di tutte. Senza muovere le labbra, Cesaria mi ha parlato.
Maddox, ha detto, cosa ci fai qui?
Quella domanda non sembrava un rimprovero. La sua voce aveva una dolce musicalità. Sembrava quasi sognante, come se stesse parlando nel sonno.
“Ho pensato — in effetti Zabrina ha pensato — che ti fosse successo qualcosa”, ho detto.
E così, ha risposto Cesaria.
“Stai male? Abbiamo persino pensato che stessi morendo.”
Non sto morendo. Sto solo viaggiando.
“Viaggiando? E dove?”
C’è qualcuno a cui devo fare visita prima che abbandoni questa vita.
“Cadmus Geary”, ho detto io.
Lei ha mormorato il suo assenso. Naturalmente, hai raccontato anche la sua storia, ha detto.
“In parte.”
Ha vissuto un’esistenza difficile, ha continuato Cesaria, e sta per morire di una morte difficile. Voglio accertarmene personalmente. Ha parlato senza enfasi ma compiangevo chiunque si trovasse vicino a quel vecchio moribondo.
Sei ferito.
“No, è solo…”
Stai sanguinando. Che cosa sta facendo Zelim?
“Non sapevo chi fosse. Ho provato ad aprire le tende per vederti meglio…”
… e sei stato colpito.
“Sì.”
E stato Zelim, ha detto Cesaria. Sa che non mi piace la luce. Ma è stato anche troppo zelante. Zelim? Dove sei?
In fondo alla camera ha cominciato a risuonare qualcosa di simile a un ronzio di api e, sotto i miei occhi sgranati, le ombre hanno cominciato ad annodarsi e davanti a me è comparso qualcosa di vagamente umano. Era solo una forma rudimentale; una creatura sottile, androgina, dai grandi occhi scuri.
Chiedi scusa, ha detto Cesaria. Io ho immaginato che si stesse rivolgendo a me e stavo per obbedirle, quando lei mi ha interrotto: Non tu, Maddox. Zelim.
Il servitore ha chinato il capo. “Mi dispiace”, ha detto. “L’errore è stato mio. Avrei dovuto parlarti prima di colpirti.”
Ora potete lasciarmi, tutti e due, ha ordinato lei. Zelim, porta Maddox nello studio del signor ]efferson e aiutalo a rendersi un po’ più presentabile. Sembra uno scolaretto appena uscito da una rissa.
“Vieni con me”, ha detto Zelim, che ormai aveva raggiunto un tale livello di corporeità che la sua nudità mi metteva in qualche modo a disagio, nonostante l’ingenua forma dei suoi genitali.
L’ho seguito fino alla porta e stavo per uscire, quando ho sentito Cesaria chiamarmi di nuovo. Mi sono voltato a guardare. Non era cambiato niente. Lei giaceva esattamente come prima, inerte. Ma dal suo corpo è emersa un’ondata invisibile di amore che mi ha toccato più profondamente di quanto avrebbe mai potuto fare qualunque altra forza visibile. I miei occhi si sono riempiti di lacrime di piacere.
“Grazie, mamma”, ho sussurrato.
Non c’è di che, figliolo, ha replicato lei, adesso va’. A proposito, dov’è Zabrina?
“È rimasta fuori.”
Dille di smetterla di piagnucolare. Se fossi davvero morta, ogni creatura del paese starebbe piangendo e ululando.
Ho sorriso. “Ne sono sicuro”, ho detto.
E dille di essere paziente. Tornerò presto a casa.
Lo studio del signor Jefferson, come lo aveva definito Cesaria, era una delle piccole stanze che avevo oltrepassato mentre mi dirigevo in camera da letto. È stato Zelim ad accompagnarmi, ma la sua ritrovata gentilezza non è riuscita a diminuire il mio disagio. La sua voce, così come il suo aspetto, aveva qualcosa di profondamente indefinito. Sembrava che si stesse aggrappando alle antiche vestigia della sua umanità (dico aggrappando anche se forse era proprio il contrario; forse stavo assistendo alle ultime e felici fasi della muta dell’uomo che era stato). Comunque fosse, la vista di Zelim e il suono della sua voce mi turbavano. Non volevo stare in sua compagnia. Gli ho detto che non avevo bisogno del suo aiuto, che mi sarei risistemato da solo una volta sceso al piano di sotto. Ma lui ha ignorato le mie proteste. La sua padrona gli aveva ordinato di rimediare al danno che aveva fatto e Zelim intendeva obbedirle, che io fossi d’accordo o no.
“Posso versarti un bicchiere di brandy?” mi ha chiesto. “So che non sei un grande estimatore del brandy.”
“Come lo sai?”
“Ascolto”, ha risposto lui. Così era vero quello che si diceva, ho pensato. La casa era effettivamente uno strumento per l’ascolto che consegnava alle stanze di Cesaria le notizie che provenivano dal resto dell’Enfant. “Ma questa è una bottiglia che tocchiamo di rado. Questo liquore è molto potente. Farà sparire il dolore.”
“Grazie”, ho detto. “Ne prenderò un po’.”
Zelim ha chinato il capo come se gli avessi fatto un grande favore accettando quell’offerta, e si è ritirato nella stanza accanto, lasciandomi la libertà di aggirarmi nello studio. C’erano molte cose da vedere. A differenza delle altre camere, che erano vuote, questa era piena di mobili. Due poltrone e un tavolino, una scrivania davanti alla finestra, una libreria carica di volumi rilegati in pelle. Sulle pareti c’erano numerose decorazioni. Una mappa rozza dipinta sulla pelle essiccata di un qualche animale sfortunato: il territorio che rappresentava non mi era familiare. Un altro disegno dallo stile manieristico e dalla cornice sobria mostrava Cesaria sdraiata su una chaise longue. Indossava un abito elegante a vita alta ornato di piccoli fiocchi. Una Cesaria insolita, almeno per me. Era così che si era presentata all’alta società parigina? Probabilmente sì. Gli altri quadri rappresentavano paesaggi piccoli e indistinti che ho osservato di sfuggita, la mia attenzione già focalizzata sullo strano oggetto che si trovava sulla scrivania di Jefferson. Sembrava un grande ragno di legno.
“È una macchina copiatrice”, mi ha spiegato Zelim, rientrando nello studio. “Un’invenzione di Jefferson.” Mi ha fatto accomodare alla scrivania. “Provala.” Sul ripiano, era pronta della carta e una penna era già infilata nello strano apparecchio. Ora che ne conoscevo l’uso, non era difficile immaginarne il funzionamento. Ho preso la mia penna e l’ho bagnata nell’inchiostro — e la seconda penna, grazie a un complicato sistema di ingranaggi, si è sollevata automaticamente, si è bagnata nell’inchiostro e ha copiato il mio nome, replicando la mia firma quasi perfettamente.
“Molto ingegnoso”, ho commentato. “Jefferson l’ha mai usata?”
“Ce n’è una a Monticello che usava di continuo”, mi ha spiegato Zelim. “Questa è stata utilizzata solo una volta o due.”
“Ma è stato lui a usarla?” ho domandato. “Voglio dire… Jefferson ha tenuto in mano proprio questa penna?”
“Proprio così. L’ho visto coi miei stessi occhi. Ha scritto una lettera a John Adams, se ricordo bene.”
Non ho potuto reprimere un piccolo brivido di piacere, cosa che potrebbe sembrarvi strana date le mie frequentazioni divine. Dopotutto, Jefferson era stato soltanto un uomo. Ma era forse proprio quella la ragione per cui ho provato quel brivido. Era stato solo un mortale ma aveva osato spingersi verso una visione più grande.
Porgendomi il bicchiere di brandy, Zelim mi ha detto: “Devo scusarmi ancora per la mia violenza. Posso lavarti il sangue dal viso?”
“Non è necessario”, ho risposto.
“Non è un problema.”
“Sto bene. Se vuoi scusarti…”
“Sì?”
“Allora parla un po’ con me.”
“Di cosa?”
“Di com’è stato per te nel corso dei secoli.”
“Ah…”
“Tu sei Zelim il pescatore, vero?”
Il volto pallido e indefinito davanti a me mi è sembrato turbato. “Non ci penso quasi mai. È passato così tanto tempo che non mi sembra neanche più la mia vita.”
“Somiglia di più a una storia?” ho azzardato.
“Somiglia di più a un sogno. Un sogno remoto. Perché me lo chiedi?”
“Perché voglio essere in grado di descrivere tutto nel mio libro. E perché tu sei un individuo unico. Vorrei essere sicuro di averti reso giustizia.”
“Non c’è molto da raccontare”, ha detto Zelim. “Ero un pescatore e sono stato chiamato al servizio della tua famiglia. È una vecchia storia.”
“Ma guarda cosa sei diventato.”
“Oh certo…” ha detto abbassando lo sguardo sul suo corpo. “La mia nudità ti disturba?”
“No.”
“Più tempo passo con Cesaria, più tendo all’androginia e meno importanti mi sembrano i vestiti. Non ricordo più l’aspetto che avevo quando ero un uomo.”
“Ho un’immagine di te in testa”, ho detto. “Sulla spiaggia con Cesaria e Nicodemus e il bambino. Capelli scuri, occhi scuri.”
“Avevo i denti sani, di questo sono sicuro”, ha replicato. “La vedova Passak si divertiva a guardarmi quando mi mordicchiavo la barba.”
“Quindi ti ricordi di lei?”
“Meglio di ogni altra cosa”, ha risposto Zelim. “Meglio della mia filosofia.” Ha lanciato un’occhiata verso la finestra, e nella luce che filtrava mi sono accorto che era quasi traslucido, gli occhi iridescenti. Mi sono chiesto se avesse delle ossa nel corpo e mi sono detto che, a giudicare dal colpo che mi aveva dato, sì, doveva averne. Eppure sembrava talmente delicato adesso; un fragile visitatore invertebrato, emerso dalle profondità del mare.
“Per un po’ mi sono dimenticato di lei”, ha aggiunto.
“Parli della vedova Passak?”
“Sì”, ha mormorato. “Ho continuato a vivere la mia vita e l’amore che provavo per lei…” Nonostante il tono inespressivo con cui parlava, ho percepito la sua emozione. Sono rimasto in silenzio, in attesa che ricominciasse a parlare: “… e l’amore che provavo per lei mi è come sfuggito. Ho pensato che fosse scomparso per sempre. Ma non era così… I sentimenti che nutrivo per lei adesso mi sembrano intensi come il primo giorno. Il modo in cui mi guardava quando cominciava a soffiare il vento del deserto. Il suo sguardo dolce e malizioso.”
“Le cose ritornano sempre”, ho detto. “Non è questo che insegnavi ai tuoi studenti?”
“Sì. Usavo le stelle come metafora, se non sbaglio.”
“La Ruota delle Stelle”, ho aggiunto.
Zelim ha sorriso debolmente. “La Ruota delle Stelle”, ha mormorato. “Era una bella idea.”
“È più che un’idea”, l’ho corretto. “È la verità.”
“Forse questa è un’esagerazione.”
“Ma tu ne sei la prova. Hai appena detto che i tuoi sentimenti per Passak sono ritornati.”
“Per l’ultima volta, credo”, ha replicato Zelim. “Ho concluso il mio ciclo e non tornerò più.”
“Cosa vuoi dire?”
“Quando l’Enfant cadrà — e cadrà, deve cadere — e tutti voi andrete là fuori, nel mondo, chiederò a Cesaria di porre fine alla mia esistenza. Ho vissuto come uomo e ho vissuto come spirito, e ora voglio che ci sia una fine a tutto questo.”
“Niente più resurrezioni?”
“Non per me. Penso che sia l’evoluzione naturale dopo l’androginia. Dall’assenza di sesso all’assenza di sé. Non vedo l’ora.”
“Non vedi l’ora di raggiungere l’oblio?”
“Non è la fine del mondo”, ha detto Zelim con una breve risata. “È solo la luce di un uomo che si spegne. E se non è una grande perdita per me, perché gli altri dovrebbero esserne turbati?”
“Io non sono turbato, sono solo confuso.”
“Da cosa?”
Sono rimasto a riflettere per un attimo prima di rispondere. “Credo che la vita in questa casa mi abbia abituato all’idea delle cose che continuano.”
“O che ritornano, come tuo padre.”
“Come?”
C’è stata una fluttuazione nei lineamenti di Zelim, e la sua calma socratica è scomparsa; d’improvviso, mi è sembrato ansioso. “Mi dispiace”, ha sospirato. “Non avrei dovuto.”
“Non scusarti”, gli ho detto. “Spiegati meglio.”
“Non posso. Mi dispiace. È stato fuori luogo.”
“Zelim. Spiegati meglio.”
Lui si è voltato a guardare in dkezione della camera da letto di Cesaria. Aveva forse paura che lei potesse punirlo per la sua mancanza di discrezione? Tuttavia, quando mi ha guardato di nuovo, la sua agitazione era quasi scomparsa. Evidentemente, si era accertato che Cesaria fosse così lontana da non poterlo sentire.
“Non sono sicuro di poterti spiegare qualcosa riguardo a tuo padre”, ha detto. “Le spiegazioni e gli dèi tendono a escludersi a vicenda, giusto? Posso solo dirti cosa sento.”
“E cioè?”
Zelim ha tratto un profondo respiro e il suo corpo è diventato leggermente più concreto. “La vita di Cesaria qui è vuota. Completamente vuota. Lo so perché sono stato con lei giorno dopo giorno per Dio sa quanti anni. È un’esistenza vuota. Se ne sta alla finestra o dà da mangiare ai porcospini o poco altro. Esce solo quando uno degli animali muore, per seppellirlo.”
“Io non ho vissuto in modo molto diverso. So quanto può essere terribile.”
“Almeno tu avevi i tuoi libri. Lei non ama più leggere. Non sopporta la televisione né la musica registrata. Ricordati che è una donna che per un certo periodo della sua vita è stata al centro dell’attenzione in ogni grande città del mondo. L’ho vista nei suoi giorni di splendore, era l’essenza stessa della raffinatezza; la più corteggiata, la più adorata, la più emulata del mondo. Si diceva che quando lasciava una stanza, era come se in quella stanza qualcosa morisse…”
“Non capisco che cosa c’entri con Nicodemus.”
“Non trovi strano che lei sia rimasta qui?” ha detto Zelim. “Perché non ha distrutto questa casa? Avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto evocare una tempesta e spazzarla via. Sai che può evocare le tempeste.”
“Non gliel’ho mai visto fare ma…”
“Sì, invece. Era una delle sue tempeste quella che si è abbattuta la notte in cui tuo padre ha fatto accoppiare Dumuzzi.”
“Non lo sapevo.”
“Era arrabbiata perché Nicodemus mostrava più interesse per i suoi cavalli che per lei. Così Cesaria ha evocato una tempesta che ha devastato metà del paese. Penso che sperasse di uccidere gli animali. Comunque, il punto è questo: se volesse distruggere questa casa, potrebbe farlo in qualunque momento. Ma non vuole. Resta qui. Resta a guardare, in attesa.”
“Forse ha deciso di risparmiare la casa per rispetto nei confronti di Jefferson. In fondo è il suo capolavoro.”
Zelim ha scosso la testa. “Sta aspettando tuo padre. Ne sono convinto. Pensa che tornerà.”
“Be’, farà meglio a tornare in fretta”, ho ribattuto. “Perché se i Geary arrivano qui non ci saranno più miracoli.”
“Ne sono consapevole. E credo che lo capisca anche lei. Dopo tutti questi anni di calma, la situazione sta precipitando. Questa faccenda di Cadmus Geary, per esempio. Una volta, Cesaria non si sarebbe mai presa il disturbo di interessarsi a un membro della famiglia Geary.”
“Che cosa gli farà?”
Zelim ha scrollato le spalle. “Non lo so.” Ha distolto lo sguardo, spostando di nuovo gli occhi verso la finestra. “Ma so che può essere spietata.”
Se aveva altro da aggiungere sulla mancanza di compassione di Cesaria, non ha avuto il tempo di farlo. Qualcuno ha bussato leggermente alla porta dello studio e Zabrina è apparsa sulla soglia. Sembrava più tranquilla, adesso. Aveva cercato e trovato un po’ di sollievo dalla sua preoccupazione per Cesaria. In una mano teneva non una ma due fette di torta e con la destrezza di un giocatore di carte seduto a un tavolo da poker se l’è fatte scomparire in bocca una dopo l’altra.
“È tutto a posto”, l’ho rassicurata.
“Lo immaginavo”, ha detto lei.
“Scusami. Avrei dovuto venire ad avvertirti.”
“Sono abituata a essere ignorata”, ha replicato Zabrina prima di andarsene.
Sono sceso al piano di sotto, sentendomi in parte esausto e in parte agitato. Avevo bisogno di qualche distrazione. Quattro chiacchiere con Marietta sarebbero state l’ideale, ma mia sorella non era in casa, così ho deciso di fumare un po’ di hashish mentre riflettevo sulla conversazione con Zelim. Con la mente rilassata dalla droga, mi sono chiesto se non avessi dedicato troppo spazio ai Geary nel mio libro. Avevo sminuito quella che avrebbe potuto essere un’opera più grande, seguendo la storia di Rachel Pallenberg così da vicino, quando il vero succo di ciò che avrei dovuto raccontare si trovava nel corpo tormentato del clan Barbarossa?
Tornato nel mio studio, ho preso il manoscritto e l’ho sfogliato, scorrendo le pagine in modo del tutto casuale, leggendo qualche brano qua e là, cercando di essere obiettivo. C’erano diversi problemi stilistici che avrei sistemato più avanti; ma nel complesso il libro rispecchiava le mie intenzioni ed era in bilico tra due mondi, il mondo esterno e il mondo racchiuso nell’Enfant.
Forse avrei potuto evitare molti dei racconti sulla vita quotidiana di questa casa, tuttavia erano resoconti onesti. Quali che siano le radici mitiche di questa famiglia, ci siamo persi nelle sciocchezze della vita domestica. Non siamo certo i primi dèi che si comportano così.
Gli occupanti dell’Olimpo non facevano altro che litigare e passare da un letto all’altro; noi non siamo né migliori né peggiori di loro. Ma loro erano creature immaginarie e noi non lo siamo. (Ho il sospetto, tra l’altro, che studiando il modo in cui sono state inventate le divinità possiamo capire meglio l’immaginazione umana. Ed è nella vita di quell’immaginazione che possiamo trovare le tracce più straordinarie del divino nell’uomo.)
Ed ecco il paradosso. Io siedo in mezzo a una casa di divinità e parlo di dèi inventati. Come sempre, questo pensiero mi confonde. È come se il mio cuore fosse diviso in due e battesse due ritmi differenti.
L’hashish mi ha messo appetito e così, dopo un paio d’ore passate a sfogliare il mio testo, sono sceso in cucina e mi sono preparato un sandwich con pane nero e roastbeef che ho mangiato seduto sui gradini della porta posteriore, gettando le briciole ai pavoni.
Poi sono andato a dormire, convinto che, quella sera, avrei continuato a esaminare il libro. Ma quando mi sono svegliato (o meglio, sono stato svegliato), la mia testa era affollata non solo da visioni della casa dei Geary a New York ma anche dalla certezza assoluta che le ultime vestigia di calma avessero definitivamente abbandonato i luoghi di cui stavo parlando.
La sequenza finale di cataclismi stava per avere inizio. Ho tratto un profondo respiro e ho intinto la penna nell’inchiostro; ho aspettato, ho osservato e, alla fine, ho cominciato a scrivere.
Quando Rachel arrivò al palazzo, venne informata da una delle cameriere, una donna gentile di nome Jocelyn, che quella sera non avrebbe potuto vedere Loretta. Cadmus era stato molto male fin da quella mattina e Loretta aveva mandato a casa l’infermiera, dicendole che si sarebbe occupata di lui personalmente, cosa che ora stava facendo. Le sue istruzioni erano chiare: non voleva essere disturbata da nessuno.
Ma Rachel insistette: quella era una faccenda urgente che non avrebbe potuto aspettare un altro giorno. Se Jocelyn non voleva salire a chiamare Loretta, continuò Rachel, allora ci sarebbe andata lei.
Con una certa riluttanza, la cameriera salì al piano superiore, e circa una decina di minuti più tardi arrivò Loretta. Era la prima volta che Rachel la vedeva trasandata. Loretta aveva sempre curato il suo aspetto in modo maniacale, ma adesso aveva i capelli leggermente in disordine e una delle sopracciglia disegnate era sbavata.
Disse a Jocelyn di preparare del tè, quindi accompagnò Rachel in sala da pranzo.
“Questo è un brutto momento”, le disse.
“Sì, lo so.”
“Cadmus è molto debole e tra poco dovrò tornare da lui, quindi ti prego di venire subito al punto.”
“Dopo la morte di Margie, abbiamo fatto una conversazione in questa stanza.”
“Certo, me la ricordo.”
“Be’, avevi assolutamente ragione. Stamattina Mitchell si è presentato nel mio appartamento e non credo che sia del tutto sano di mente.”
“E cos’ha fatto?”
“So che vuoi la versione breve, ma purtroppo non ce n’è una”, spiegò Rachel. “Margie aveva un libro — non conosco tutta la storia ma era una specie di diario — e io ne sono entrata in possesso. Non importa come. Il fatto è che contiene delle informazioni sui Barbarossa.”
Loretta rimase impassibile. Solo quando parlò, la sua voce, tremante tradì la sua emozione. “Hai il diario di Holt?” chiese. “No. Ce l’ha Mitchell, adesso.”
“Oh Gesù”, mormorò Loretta. “Perché non me l’hai portato?”
“Non sapevo che fosse così importante.”
“Perché credi che io stia di sopra con Cadmus ad ascoltare i suoi vaneggiamenti?”
“Perché vuoi il diario?”
“Naturalmente. Era stato proprio lui a parlarmene, ma non me l’ha mai mostrato.”
“Perché no?”
“Credo che non volesse farmi sapere altro su Galilee — più di quanto già non sapessi.”
“Ciò che Holt dice di lui non è poi molto lusinghiero.”
“Allora l’hai letto?”
“Non tutto. E da come Holt lo descrive… Dio, ma com’è possibile?”
“Cosa?”
“Che Galilee esistesse già nel 1865.”
“Lo stai chiedendo alla persona sbagliata”, disse Loretta. “Ne so quanto te. E ho smesso molto tempo fa di domandarmi come fosse possibile.”
“Allora, se hai rinunciato, per quale ragione vuoi ancora quel diario?”
“Non puoi venire qui a chiedere il mio aiuto e poi farmi il terzo grado, ragazza mia”, rispose Loretta. Distolse lo sguardo da Rachel ed emise un lungo sospiro. “Mi porteresti una sigaretta? Sono su quel tavolo.”
Rachel si alzò e le prese il portasigarette d’argento e l’accendino. Mentre Loretta si stava accendendo la sigaretta, arrivò Jocelyn con il tè. “Lascialo qui sul tavolo”, le disse, “ci serviamo da sole. Ah, e Jocelyn? Vuoi andare di sopra a vedere come sta il signor Geary?”
“Ci sono appena stata”, rispose la cameriera. “Sta dormendo.”
“Tienilo d’occhio, va bene?”
“Naturalmente.”
“Jocelyn è un vero dono del cielo”, commentò Loretta quando la cameriera se ne fu andata. “Mai una lamentela. Di cosa stavamo parlando?”
“Di Galilee.”
“Dimenticati di Galilee.”
“Una volta mi hai detto che Galilee è al centro di ogni cosa.”
“Sul serio?” disse Loretta. Aspirò una lunga boccata di fumo. “Be’, probabilmente ho esagerato. Non sei la sola che si è innamorata di lui, sai? Se davvero vuoi capire cosa ci sta succedendo, devi smetterla di essere così egoista. Tutti noi abbiamo avuto le nostre delusioni, Rachel. Tutti noi abbiamo perso l’amore e abbiamo avuto il cuore spezzato. Persino il vecchio.”
“Louise Brooks.”
“Sì. La bellissima Louise. All’epoca c’era ancora Kitty, naturalmente. Non ho dovuto sopportare i suoi struggimenti per quell’attrice. Anche se devo ammettere che era davvero splendida.” Si versò una tazza di tè. “Ne vuoi un po’?”
“No, grazie.”
“Cadmus morirà entro ventiquattr’ore”, continuò Loretta senza scomporsi. “Quando se ne sarà andato, ho intenzione di prendere le redini di questa famiglia. È scritto così nel suo testamento.”
“Hai visto il testamento?”
“No Ma lui me l’ha promesso. Quindi, se non ha mentito, sarò in grado di fare un accordo con Garrison e Mitchell.”
“E in caso contrario?”
“In caso contrario?” Prima di rispondere, Loretta bevve un sorso di tè. “Allora, avremo veramente bisogno di Galilee”, sussurrò. “Sia tu sia io.”
Nella sua stanza al piano di sopra, Cadmus si svegliò. Aveva freddo e sentiva un vuoto in fondo allo stomaco che non era fame. Si voltò verso la debole lampada accesa sul comodino, sperando che quella luce gli liberasse la mente dalle sagome d’ombra che lo avevano accompagnato nel sonno. Non voleva che lo seguissero anche nel mondo reale. Si sarebbero impossessate di lui anche troppo presto.
La porta si aprì. Cadmus sollevò la testa dal cuscino.
“Loretta?”
“No, signore. Sono Jocelyn.”
“Dov’è Loretta? Aveva detto che sarebbe rimasta qui con me.”
“È di sotto, signore, la moglie di Mitchell è venuta a trovarla. Vuole qualcosa da mangiare? Magari una zuppa?”
“Mandami su Rachel.”
“Mi scusi, signore?”
“Mi hai sentito. Mandami su Rachel, e dille di portarmi un bicchiere di brandy. Su, sbrigati.”
Jocelyn obbedì e Cadmus tornò ad appoggiarsi al cuscino. Dio, aveva così freddo! Ma il pensiero di vedere Rachel, di poterla guardare anche solo per qualche istante, lo rendeva felice. Era una ragazza dolce; gli era sempre piaciuta. Senza dubbio, parte della sua innocenza era stata rovinata da Mitchell; aveva perso la fede nella bontà delle cose. Ma era una creatura forte e sarebbe sopravvissuta. Cadmus allungò una mano e aprì il cassetto del comodino per prendere un pacchetto di mentine. Non poteva più masticarle — le sue mascelle erano troppo deboli e la sua bocca era talmente piena di piaghe che sarebbe stata comunque un’agonia — ma voleva essere sicuro di avere un alito relativamente profumato per il suo incontro con Rachel. Non senza difficoltà, riuscì a mettersi una mentina in bocca sulla lingua secca e cominciò a succhiarla come meglio poteva.
In strada qualcuno stava gridando e lui avrebbe voluto essere là fuori; fuori da quel letto gelido, a guardare il cielo. Ancora una volta, una volta soltanto; era chiedere troppo?
Gli era sempre piaciuto passeggiare, con qualsiasi tempo. Mattine di inverni artici e afosi pomeriggi d’agosto; giornate di primavera e sere d’estate, in cui si era sentito come un re e aveva canticchiato, camminando.
Mai più. Mai più la strada, mai più il cielo, mai più una canzone. Solo il silenzio, molto presto; e il giudizio. E per quanto avesse tentato di prepararsi a quel momento, sapeva che non sarebbe bastato.
Le finestre tremarono. Si stava alzando il vento. I vetri furono scossi ancora, e questa volta ondeggiarono anche le tende. Non c’era da meravigliarsi che facesse tanto freddo! Quella stupida puttana dell’infermiera aveva lasciato aperta una delle finestre. Un’altra folata e le tende si gonfiarono come vele. Questa volta, il vento attraversò la stanza, facendo oscillare persino il paralume.
Cadmus cercò di tirarsi su per vedere meglio le tende che si agitavano. Cosa diavolo stava succedendo?
Aveva bisogno degli occhiali; ma mentre si allungava per prenderli dal comodino ingombro di scatole di medicinali, sentì qualcuno che chiamava il suo nome.
Una donna. C’era una donna con lui nella stanza.
“Loretta?”
La voce della donna assunse un timbro più profondo e questa volta non vi furono parole, solo un suono, qualcosa di simile a un ruggito, che scosse il letto.
Cadmus ricominciò a cercare affannosamente gli occhiali ma, prima che riuscisse a trovarli, la lampada venne scagliata dal comodino e andò in frantumi, lasciandolo al buio.
“In nome di Dio, cos’è stato?” esclamò Loretta. Si alzò dal tavolo e chiamò Jocelyn a gran voce, ma Rachel si stava già incamminando lungo il corridoio.
Riecheggiò un grido: un grido stridulo. Ignorando gli ordini di Loretta, Rachel cominciò a salire le scale. Ebbe un momento di déjà-vu; salire due o tre gradini alla volta, di corsa, ascoltando urla terrorizzate che si mescolavano all’ululato del vento. Quella era una scena che aveva già vissuto e per qualche ragione la sua anima ne aveva conservato il ricordo.
Quando fu sul pianerottolo, si voltò e vide Loretta che la seguiva appoggiandosi al corrimano, e Jocelyn in fondo alle scale chiedeva cosa fosse tutto quel baccano.
“È Cadmus, stupida idiota!” rispose Loretta rabbiosamente. “Mi sembrava di averti detto di restare con lui!”
“E l’ho fatto!” si difese Jocelyn. “Mi sono allontanata perché mi aveva chiesto di andare a chiamare Rachel.”
Loretta non fece commenti ma si rivolse a Rachel:
“Sta’ lontana da quella porta!”
“Perché?” domandò lei.
“Non sono affari tuoi! Torna di sotto.”
La porta stava tremando con violenza e una parte di Rachel avrebbe voluto fare esattamente ciò che Loretta le aveva detto. Forse dopotutto quelli davvero non erano affari suoi — era solo una follia dei Geary, un dolore dei Geary. Ma come poteva ignorare i singhiozzi terrorizzati che provenivano dalla camera da letto? Qualcuno stava spaventando il vecchio e bisognava fare subito qualcosa. Afferrò la maniglia, che sentì vibrare sotto le dita, e provò ad aprire, ma qualcosa sembrava bloccare la porta dall’interno. Rachel cominciò a spingere con tutte le sue forze, ma inutilmente. Poi di colpo la porta si spalancò e lei venne catapultata in avanti, e quello fu il suo ingresso barcollante nella tragedia che si stava consumando.
La camera di Cadmus era nel caos. Il grande letto era vuoto, le coperte e i cuscini sparpagliati sul pavimento. La stanza era immersa nell’oscurità tranne che per il bagliore intermittente della lampada che era caduta a terra. Il comodino era rovesciato così come le sedie e il piccolo tavolo da toletta. Tutte le attrezzature mediche — l’asta della flebo, il respiratore, le bottigliette di pillole, le confezioni di medicinali — erano in pezzi, schiacciate e disseminate dovunque.
Rachel cercò Cadmus con lo sguardo ma non riuscì a trovarlo. Né riuscì a scorgere alcuna traccia del responsabile di quel disastro, chiunque fosse. Fece qualche passo. La finestra era spalancata e le tende erano sospinte dal vento. Oh Dio! Possibile che Cadmus avesse tentato la fuga e fosse caduto dalla finestra? O forse qualcuno lo aveva spinto?
Mentre attraversava la stanza, pillole e vetri rotti che le scricchiolavano sotto i piedi, Rachel sentì un debole singhiozzo. Si voltò e là, rannicchiato tra le ombre dense in un angolo della stanza, c’era Cadmus. Era nudo e si copriva i genitali con le mani, il volto simile a quello di una scimmia terrorizzata: le labbra arricciate a scoprire i denti, la fronte corrugata. La guardò ma non sembrò riconoscerla.
“Andrà tutto bene”, lo rassicurò.
Lui non disse niente e continuò a fissarla. Mentre gli si avvicinava, Rachel si accorse che le spalle e il petto di Cadmus erano coperti di ferite gonfie e rosse; un fiotto di sangue gli scorreva tra le dita raccogliendosi in una pozza tra le gambe. Rachel era senza parole. Chi mai avrebbe potuto irrompere nella stanza di un moribondo per infliggergli simili torture? Era disumano.
Cadmus ora stava singhiozzando rumorosamente. Lei cercò di calmarlo, come una madre con un bambino spaventato, ma più gli si faceva vicina, più lo sguardo del vecchio si riempiva di terrore.
“No…” sussurrò Cadmus, “non toccarmi…”
“Devo portarla fuori di qui”, disse Rachel.
Lui scosse la testa, rannicchiandosi ancora di più. Quel movimento gli causò dolore e lei gli vide chiudere gli occhi per un attimo e sentì un piccolo grido sfuggirgli dalle labbra.
Dal pianerottolo, risuonò la voce di Loretta che gridava a Jocelyn di tornare di sotto. Rachel alzò lo sguardo. Riuscì a scorgere Loretta per un istante prima che la porta si richiudesse sbattendo con violenza. Nel sentire quel rumore, Cadmus cominciò a piangere ancora più disperatamente, il fragile nodo del suo corpo scosso da tremiti incontrollabili.
Rachel non tentò di tranquillizzarlo. Era troppo traumatizzato perché potesse fare qualcosa per lui; avrebbe soltanto sprecato il fiato. E adesso, comunque, aveva un’altra preoccupazione. Qualunque cosa fosse la forza che aveva chiuso la porta in faccia a Loretta e che continuava a tenerla sbarrata, era ancora in quella camera con lei. Poteva sentirne la potenza, come se le stesse sfiorando la base del collo.
Si voltò con grande lentezza, pronta ad affrontare quella presenza. Scrutò di nuovo la stanza. Adesso i suoi occhi si erano abituati alla luce intermittente della lampada, tuttavia non riuscì a scorgere l’energia che aveva provocato quel disastro. Decise di provare a parlarle.
“Dove sei?” disse ad alta voce. Alle sue spalle, i singhiozzi del vecchio si interruppero bruscamente. Lo sentì trattenere il fiato, come se stesse anticipando il peggio. “Mi chiamo Rachel”, continuò, “e lui…” indicò Cadmus “… è mio suocero. Vorrei che mi permettessi di portarlo fuori di qui. Ha bisogno di aiuto. Sta perdendo molto sangue.”
Vi fu un attimo di silenzio. Poi una voce dall’altra parte della camera: una voce che proveniva da un punto tra le finestre che Rachel aveva controllato già due volte senza vedere niente. Ora si accorse dell’errore. C’era qualcuno seduto là, immobile come una statua.
Non l’ho toccato, disse la donna.
Anche ora che l’aveva individuata, si accorse Rachel, non era facile metterla a fuoco. La sua pelle nera e serica sembrava deflettere il suo sguardo. Ma Rachel non si diede per vinta. Continuò a fissarla, rifiutandosi di distogliere gli occhi.
Ha cercato di evirarsi, continuò la donna, pensando di potermi placare.
Rachel non sapeva se credere o meno a ciò che la sconosciuta le stava dicendo. L’idea che Cadmus si fosse procurato da solo la ferita in mezzo alle gambe era a dir poco grottesca. “Posso portarlo via, adesso?” chiese.
No, non puoi, rispose la donna. Sono venuta a guardarlo morire ed è esattamente quello che ho intenzione di fare.
Rachel si voltò a guardare Cadmus. Lui stava fissando la sua carnefice, e sul suo volto la paura aveva preso il posto dell’espressione vacua di poco prima.
Puoi restare con lui, se vuoi, continuò la donna. Non sarà un’attesa molto lunga. Gli restano ancora pochi respiri.
“Non voglio restare a guardarlo morire”, protestò Rachel.
Dov’è il tuo senso della storia?, ribatté la donna. Si alzò e finalmente le permise di vederla con chiarezza. Era la donna più bella che Rachel avesse mai visto; il suo volto aveva la stessa nudità che aveva visto in quello di Galilee, la prima notte. La pelle e i nervi e i muscoli e le ossa che si magnificavano a vicenda.
Adesso capiva che cosa avesse voluto dire la donna parlando del senso della storia. Era una Barbarossa che assisteva alla morte di un Geary.
“Sei sua sorella?” chiese Rachel.
Sorella?
“La sorella di Galilee.”
La donna fece un sorrisetto. No. Sono sua madre: Cesaria Yaos Barbarossa. E tu… chi eri prima di diventare una Geary?
“Mi chiamavo Pallenberg.”
Rachel Pallenberg.
“Esatto.”
Allora dimmi… sei pentita di esserti unita a questa famiglia maledetta?
Rachel rifletté per qualche istante prima di rispondere. Forse sarebbe stato saggio dire alla donna che se n’era pentita con tutta se stessa, ma non riuscì a costringersi a farlo. Non era vero. C’erano stati aspetti positivi e aspetti negativi, come in tutto.
“Pensavo di amare mio marito e pensavo che lui amasse me”, rispose alla fine. “Ma ero innamorata di una menzogna.”
Di quale menzogna?
“Che una volta che avessi avuto tutto sarei stata felice…”
… anche a costo di perdere te stessa?
“È un rischio che ho corso, ma non è successo.”
Dimmi: tuo marito è in questa casa?
“No.”
Ci sono solo le donne là fuori? chiese Cesaria, lanciando un’occhiata in direzione della porta.
“Non fare loro del male”, la pregò Rachel. “Sono brave persone.”
Te l’ho già detto, non sono venuta per fare del male a nessuno. Sono venuta ad assistere a qualcosa.
Rachel guardò la distruzione che la circondava. “E allora perché tutto questo?”
Mi ha infastidita, rispose Cesaria, mi ha infastidita proponendomi un baratto. “Lasciami stare e ti darò tutto quello che vuoi.” Spostò lo sguardo su Cadmus. Non voglio niente di quello che hai, vecchio. Tra l’altro questa casa dovrebbe essere ripulita da cima a fondo. Lui sa perché. Lui capisce. È tempo di gettare tutte le maschere, tutti gli oggetti confortevoli che ha collezionato perché lo facevano sentire come un re. Si diresse verso Cadmus. Alla fine, gli sarà più facile andarsene, se non ci sarà più niente a trattenerlo qui.
“Fare a pezzi la casa è una cosa”, disse Rachel. “Ma lui è soltanto un povero vecchio malato e restare qui a guardarlo morire dissanguato è crudele.” Cesaria la fissò. “Non pensi che sia crudele?”
È un problema che non mi sono posta ma, sì, probabilmente è crudele. E lascia che ti dica una cosa: meriterebbe ben di peggio per quello che ha fatto.
“A te?”
No, a mio figlio. Ad Atva. O, come preferisce farsi chiamare lui: Galilee.
“Che cosa può aver fatto Cadmus a Galilee?”
Diglielo, gli intimò Cesaria. Avanti. Diglielo. È l’ultima occasione che ti resta, quindi diglielo! Rachel si voltò a guardare Cadmus ma non ci fu risposta. Il vecchio teneva la testa china, impossibile capire se per lo sfinimento o la vergogna. Pensavi che fosse un segreto che nessuno avrebbe mai scoperto?, continuò Cesaria. lo l’ho scoperto. Quando hai trasformato mio figlio nell’assassino del sangue del tuo sangue, l’ho scoperto. Il vecchio emise un singhiozzo a malapena udibile. Diglielo, è la verità. Non fare il codardo.
“È vero…” mormorò lui.
A proposito, tua moglie lo sa?, chiese Cesaria.
Lentamente, Cadmus alzò la testa. Adesso sembrava dieci volte più malato di prima. Non aveva il volto sporco di sangue ma le sue labbra erano bluastre, i suoi occhi e i suoi denti gialli.
“No”, rispose.
Falla entrare, disse Cesaria a Rachel. Voglio che sappia quello che lui le ha nascosto per tutto questo tempo. E di’ alla serva di andarsene. Questi sono affari di famiglia.
Anche se a Rachel non piaceva affatto essere trattata a sua volta come una serva, obbedì. Andò alla porta e l’aprì senza problemi. Loretta e Jocelyn erano lì fuori in attesa.
“Perché hai chiuso a chiave?” volle sapere Loretta.
“Non sono stata io”, rispose Rachel. “Cesaria Barbarossa è lì dentro con Cadmus. Vuole parlare con te. E vuole che Jocelyn se ne vada.”
“Cesaria…?” ripeté Loretta, la voce imperiosa di colpo ridotta a un basso mormorio. “Come ha fatto a entrare?”
“Non lo so”, rispose Rachel, facendosi da parte per permettere a Loretta di guardare nella stanza. “Dice di essere venuta ad assistere alla morte di Cadmus.”
“Be’, non avrà questo piacere”, replicò Loretta, ed entrò nella camera del marito.
“Cosa devo fare?” chiese Jocelyn tra le lacrime.
“Devi solo andartene.”
“Vuole che chiami Garrison?”
“No. Vattene da questa casa. Hai già fatto tutto quello che potevi.”
L’espressione spaventata della cameriera diceva chiaramente che non vedeva l’ora di andarsene; ma la lealtà che le era stata insegnata le impediva di farlo.
“Se non te ne vai ora”, l’ammonì Rachel, “potresti non avere un’altra occasione. Hai la tua famiglia a cui pensare. Vai.”
Il volto di Jocelyn fu invaso dal sollievo; le parole di Rachel le avrebbero permesso di andarsene con la coscienza a posto. “Grazie”, disse, e si allontanò.
Rachel rientrò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle. Loretta aveva già deciso come affrontare Cesaria: con un attacco frontale.
“Non dovresti esseri qui”, stava dicendo. “Ti sei introdotta in casa mia e adesso voglio che tu te ne vada.”
Questa casa non è tua, replicò Cesaria senza guardarla, tenendo lo sguardo fisso sull’uomo rannicchiato nell’angolo. E non è nemmeno sua. Loretta fece per protestare, ma Cesaria la zittì con un semplice gesto della mano. Mio figlio ha costruito questa casa, come lui — indicò Cadmus - sa fin troppo bene. L’ha costruita con il sangue e con il seme che ha versato per fare la vostra fortuna.
“Ma di cosa stai parlando?” disse Loretta, il suo tono, benché deciso, era tinto di disagio. Sembrava rendersi conto della verità di quelle parole.
Diglielo, ordinò Cesaria a Cadmus. Lui si limitò a scuotere la testa. Cesaria gli si avvicinò di un passo. Vecchio. Alzati.
“Non può”, disse Loretta.
Sta’ zitta, sibilò Cesaria. Hai sentito, vecchio. Voglio che ti alzi.
Non appena quell’ordine scaturì dalle labbra della donna, la testa di Cadmus scattò all’indietro costringendolo a guardarla. Poi, centimetro dopo centimetro, tremando, cominciò ad alzarsi, la schiena premuta contro la parete. Ma le sue gambe erano ormai troppo deboli per sostenerlo e quella non poteva essere altro che opera di Cesaria: lo stava facendo alzare servendosi della sua straordinaria forza di volontà.
Lui non sembrava dispiaciuto di essere stato trasformato in una sorta di burattino. Un sorriso sottile gli increspò le labbra, come se stesse provando piacere nell’essere manovrato in quel modo, nel sentire su di sé il potere di quella donna.
Allo stesso tempo affascinata e sbalordita, Rachel attraversò la stanza e andò a fermarsi accanto a Loretta. “Ti prego, non farlo! Lascialo morire in pace.”
Ma lui non vuole morire in pace, rispose Cesaria. Poi, a Cadmus: Vero? Preferisci soffrire adesso perché così potrai pensare di aver pagato i tuoi debiti. Non è questo che speri?
Cadmus annuì impercettibilmente.
Potresti anche avere ragione, continuò lei. Non ne so più di te di quello che ti aspetta. Forse la tua anima sarà libera. Forse saranno quelli che ti lascerai dietro a pagare al posto tuo. Fece un altro passo verso di lui. I tuoi figli. I tuoi nipoti. Tua moglie. Era così vicina adesso che avrebbe potuto toccarlo. Ma non aveva bisogno del contatto fisico; lo stava già stringendo con il suo volere e con le sue parole.
Gli occhi di Cadmus erano pieni di lacrime. Aprì appena la bocca e provò a parlare.
“Non possiamo… fare la pace?” la voce ridotta al fantasma di un sussurro.
Pace?
“La tua famiglia… e la mia.”
È troppo tardi.
“No…”
Hai usato mio figlio per assassinare il sangue del tuo sangue. Hai portato Atva alla follia per soddisfare la tua ambizione. E hai gettato semi terribili quando lo hai fatto. Terribili, davvero terrìbili.
Il volto di Cadmus era inondato dalle lacrime. Non sorrideva più e, anzi, sembrava la maschera di una tragedia greca: gli angoli della bocca rivolti all’ingiù, le guance scavate, la fronte corrugata.
“Non punirli per quello che ho fatto”, singhiozzò. “Se vuoi… puoi fermare… questa… guerra…”
Sono troppo stanca, replicò Cesaria, e troppo vecchia. E i miei figli sono determinati quanto i tuoi. Non c’è niente che io possa fare. Se fossi venuto da me cinquant’anni fa e ti fossi pentito delle tue azioni, forse avrei potuto fare qualcosa. Ma adesso è troppo tardi, per tutti noi.
Trasse un breve respiro e in quel momento la vita abbandonò il corpo di Cadmus. Il vecchio smise di tremare e il suo volto, quella maschera tragica, d’improvviso perse ogni espressione. Vi fu un lungo istante di assoluta immobilità. Poi Cesaria si rivolse a Loretta: È tutto tuo, quindi si allontanò dalla moglie e dal cadavere. Nel preciso momento in cui rinunciò a ogni controllo su Cadmus, il vecchio scivolò lungo la parete come un sacco pieno di ossa. Loretta emise un debole grido e andò a inginocchiarsi accanto a lui.
Cesaria non era più interessata a quel dramma adesso che Cadmus aveva abbandonato il palcoscenico. Non degnò Loretta di uno sguardo, mentre lasciava la stanza. Rachel la raggiunse in corridoio.
“Aspetta!”
Sentì l’aria attorno alla donna farsi più agitata. Era circondata da un’aura indefinibile, come il calore di una stufa incandescente. Ma Rachel non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare senza neanche provare a parlarle. Erano state dette troppe cose che avevano bisogno di una spiegazione.
“Aiutami a capire”, continuò.
Non c’è niente dì cui tu ti debba preoccupare. E finita, adesso.
“No, non è finita! Devo sapere cos’è successo a Galilee.”
Perché?, chiese Cesaria, e prese a scendere le scale. Le sue emanazioni stavano cominciando a interferire con l’ambiente circostante. Il soffitto emetteva uno strano ringhio, come se stesse tremando sotto l’intonaco; il corrimano vibrava, come percorso dalla corrente elettrica.
“Io lo amo”, disse Rachel.
Certo. Non mi sarei aspettata niente di meno.
“Quindi voglio aiutarlo.” Ebbe un attimo di esitazione ma, rendendosi conto che non sarebbe riuscita a convincere Cesaria a fermarsi, la seguì al piano di sotto. Fu investita da una folata di aria malsana che sapeva di canfora e sporcizia, che le fece lacrimare gli occhi. Non si fermò.
Sai quanti uomini e quante donne hanno voluto guarire il mio Atva nel corso degli anni?, disse Cesaria. Nessuno di loro c’è mai riuscito. Nessuno di loro avrebbe mai potuto.
Si fermò per un attimo in fondo alle scale, come per decidere da dove cominciare la sua blitzkrieg. Rachel si rese conto che Cesaria intendeva accettare l’offerta che le era stata fatta nella stanza di Cadmus di distruggere il palazzo, quando il grande specchio veneziano nell’atrio si staccò dalla parete e piombò a terra, andando in mille pezzi, seguito da tutto ciò che era appeso alle pareti, fino al quadro più piccolo e insignificante.
Rachel rimase immobile, atterrita da quell’esplosione di violenza, mentre Cesaria attraversava l’atrio, dirigendosi verso la sala. “Dovresti andartene”, disse una voce alle sue spalle.
Rachel si voltò. Loretta era ferma in cima alle scale.
“Non ci farà del male”, replicò lei, anche se non ne era del tutto sicura. Nella casa riecheggiarono altri schianti; Cesaria sicuramente stava distruggendo la sala. Forse quella donna non intendeva fare del male a nessuno, ma chi poteva pensare di essere al sicuro quando venivano scatenate forze caotiche come quelle?
“Te ne vai?” chiese Rachel a Loretta.
“No.”
“Allora non me ne vado neanch’io.”
“Non ti avvicinare a lei, Rachel. Quello che sta accadendo qui è al di là della nostra portata. Siamo solo piccoli esseri umani.”
“E con questo? Ci arrendiamo così?”
“Non abbiamo mai avuto una possibilità”, disse Loretta con voce incolore. “Lo capisco solo adesso. Non abbiamo mai avuto una possibilità.”
Ultimamente Rachel aveva assistito a eventi che avevano trasformato molte persone: Mitchell, Cadmus, Galilee, ma nessuno di quei cambiamenti l’aveva turbata quanto ciò che vedeva ora. Aveva sempre considerato Loretta forte come una roccia. Le era sempre sembrata così sicura di sé, così incrollabile. E ora, all’improvviso, era diventata una donna diversa. Anche se aveva sempre saputo che Cadmus non sarebbe vissuto a lungo e anche se era sempre stata certa che i Barbarossa non fossero comuni esseri umani, la dimostrazione di quei fatti l’aveva distrutta.
Sono più sola che mai, pensò Rachel. Non posso contare nemmeno su Loretta, adesso.
Il frastuono che proveniva dall’altra stanza si era affievolito, mentre parlavano, e ora era cessato del tutto. Possibile che Cesaria si fosse già stancata della sua furia e avesse deciso di andarsene? O stava solo riprendendo fiato per prepararsi a un altro assalto?
“Non preoccuparti per me”, sussurrò Rachel a Loretta. “So quello che faccio.”
Detto questo, imboccò il corridoio che portava alla sala.
L’attendeva uno spettacolo bizzarro. La stanza che Cadmus Geary aveva usato come suo rifugio personale era stata completamente distrutta come la camera da letto e l’atrio, ma due oggetti in particolare erano stati risparmiati: il grande quadro appeso alla parete e la poltrona di pelle. Era lì che Cesaria si era seduta per osservare il dipinto, al centro di una distesa di schegge di legno e vetri rotti. Il capolavoro di Bierstadt sembrava averla affascinata fino a farla sprofondare in una sorta di trance. Tuttavia non era così rapita dalla tela da non accorgersi della presenza di Rachel. Parlò senza voltarsi.
Sono andata a ovest… disse… molti, molti anni fa.
“Oh?”
Volevo trovare un posto dove stabilirmi. Dove costruire la mia casa.
“E lo hai trovato?”
No. Erano terre troppo sterili.
“Fin dove ti sei spinta?”
Fino alla Califomia. Mi piaceva la Califomia. Ma non sono riuscita a convincere Jefferson a raggiungermi lì.
“Chi era Jefferson?”
Il mio architetto. Era migliore come architetto che come presidente, devo dire. O come amante.
Quella conversazione stava diventando sempre più surreale, ma Rachel cercò di tenere a bada lo stupore. “Thomas Jefferson è stato il tuo amante?”
Per poco.
“È lui il padre di Galilee?”
No, non ho mai avuto un figlio da lui. Ma ho avuto la mia casa.
“Dove l’hai costruita alla fine?”
Cesaria non rispose. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò al dipinto, indifferente alle schegge di ceramica e ai vetri rotti sotto i piedi nudi.
Ti piace questo quadro?, chiese a Rachel.
“Non particolarmente.”
Cos’ha che non va?
“Non mi piace, tutto qui.”
Cesaria si voltò a guardarla. Puoi fare di meglio, disse.
“È troppo ambizioso”, replicò Rachel. “Cerca davvero di essere qualcosa di straordinario ma alla fine è soltanto… molto grande.”
Hai ragione, considerò Cesaria tornando a osservare il Bierstadt. È troppo ambizioso. Ma è una caratteristica che mi piace. Mi commuove. E molto maschile.
“Troppo maschile”, aggiunse Rachel.
Niente lo è, ribatté Cesaria. Un uomo non sarà mai troppo uomo. E una donna non sarà mai troppo donna.
“Non è che tu ti sforzi molto”, disse Rachel.
Cesaria tornò a posare lo sguardo su di lei, un’espressione di sorpresa quasi comica sui suoi squisiti lineamenti. Dubiti della mia femminilità ?
Provocata, Rachel perse un po’ della sua sicurezza. Esitò, prima di cominciare a dire: “Di sopra…”
Pensi che la femminilità sia solo sospiri e compassione? Ora Cesaria sembrava molto meno divertita. Pensi che avrei dovuto sedermi al capezzale di quel bastardo per confortarlo? Questa non è femminilità. E solo servilismo. Se avessi voluto confortare moribondi, avresti fatto meglio a restare con i Geary. Ci saranno molti lutti per loro.
“Deve finire per forza in questo modo?”
Sì. Temo di sì. Parlavo sul serio quando ho detto a Cadmus che sono troppo vecchia e troppo stanca per impedire questa guerra. Tornò a studiare la tela. Alla fine abbiamo costruito la casa nel North Carolina. Thomas andava avanti e indietro da Monticello, che stava costruendo per sé. Ha impiegato quarant’anni per costruire quella casa e penso che non ne sia mai stato veramente soddisfatto. Ma amava l’Enfant perché sapeva quanto piacere mi dava. Volevo che fosse un luogo glorioso. Volevo riempirlo di oggetti meravigliosi, di sogni meravigliosi… Ascoltandola, Rachel non poté fare a meno di chiedersi se Cadmus e Kitty e in seguito Loretta non avessero provato qualcosa di simile per il palazzo a cui ora Cesaria aveva dichiarato la sua guerra personale. E adesso i Geary verranno, naturalmente, ed entreranno nella mia casa e vedranno quei sogni con i loro occhi. Sarà molto interessante vedere chi di loro sarà il più forte.
“Sembri molto fatalista al riguardo.”
E solo perché sapevo che sarebbe accaduto già molto tempo fa. Fin da quando Galilee se n’è andato, in fondo al mio cuore ho sempre saputo che sarebbe arrivato un momento in cui il mondo degli uomini sarebbe venuto a cercarci.
“Sai dove si trova Galilee?”
Dov’è sempre: in mare. Guardò di nuovo Rachel. È lui l’unica cosa di cui ti importa? Rispondi sinceramente.
“Sì. È lui l’unica cosa di cui mi importa.”
Sai che non potrà proteggerti, vero? Non è mai stato molto bravo in questo.
“Non ho bisogno di essere protetta.”
Tutti noi ne abbiamo bisogno, qualche volta, disse Cesaria con una punta di malinconia.
“Allora aiutami a ritrovarlo”, disse Rachel. Cesaria la fissò con una strana dolcezza. “Lasciami stare con lui”, continuò. “Lascia che mi prenda cura di lui. Lascia che lo ami.”
Come avrei dovuto amarlo io, vuoi dire, replicò Cesaria. Rachel non riuscì a negare quell’accusa. Mentre le si avvicinava, Cesaria continuò: Non conosco molte persone che avrebbero il coraggio di parlarmi come hai fatto tu. Non dopo aver visto tutto quello che è successo stanotte.
“Non ho paura di te”, disse Rachel.
Lo vedo. Ma non credere che il fatto che tu sia una donna possa proteggerti in qualche modo. Se volessi farti del male…
“Ma non vuoi. Se ferissi me, feriresti anche Galilee e questa è l’ultima cosa al mondo che vuoi.”
Tu non sai che cosa mi ha fatto mio figlio. Non hai idea del dolore che ha causato. Avrei ancora un marito, se lui non si fosse avventurato nel mondo…
“Mi dispiace che ti abbia fatta soffrire così”, disse Rachel. “Ma ti assicuro che non è mai riuscito a perdonarselo.”
Lo sguardo di Cesaria era come una luce che risplendeva attraverso il ghiaccio. Ti ha detto questo?
“Sì.”
Allora perché non è tornato a casa e non me l’ha detto? Avrebbe potuto semplicemente tornare a casa e dire che gli dispiaceva.
“Non l’ha fatto perché era certo che non l’avresti perdonato.”
Io lo avrei perdonato. Avrebbe dovuto solo chiedere e io l’avrei perdonato. La luce e il ghiaccio si stavano sciogliendo e le stavano scorrendo lungo le guance. Accidenti a te, donna. Sei riuscita a farmi piangere dopo tutti questi anni. Tirò su col naso. Allora, che cosa mi stai chiedendo di fare?
“Trovalo per me”, rispose Rachel. “Penserò io al resto. Te lo riporterò a casa. Te lo giuro. Se anche dovessi trascinarlo, te lo riporterò a casa.”
Le lacrime di Cesaria continuavano a scorrere sul suo viso, ma lei non si prese la briga di asciugarsele. Rimase lì, il volto nudo com’era stato quello di Galilee quella prima notte sull’isola; un volto del tutto incapace di inganni. La sua infelicità era visibile e così la rabbia che aveva nutrito nei confronti del figlio per tanti anni. Ma anche l’amore che provava per lui; il suo tenero amore in mezzo a tutta quella sofferenza.
Torna all’Isola Giardino e aspettalo lì.
Rachel non osava quasi credere a ciò che aveva appena sentito. “Lo troverai per me, allora?”
Se lui me lo permetterà. Ma fa’ in modo che torni a casa da me, donna, chiaro? E il nostro patto.
“Certo.”
Riportalo all’Enfant. Qualcuno dovrà seppellirmi quando tutto questo sarà finito. E voglio che sia lui a farlo.
“Allora siamo in guerra?”
Quella era la domanda che mi aveva posto Luman il giorno in cui mi ero recato alla Casa del Fumo per fare pace con lui. Allora non avevo saputo cosa rispondergli. Ma adesso lo so. Sì, siamo in guerra con i Geary, anche se sarebbe diffìcile dirgli quando la guerra è cominciata veramente.
Forse questo vale per tutte le guerre. La guerra tra gli stati, per esempio, dalla cui fornace i Geary sono emersi ricchi e potenti — quando è cominciata? Nel momento in cui è stato sparato il primo colpo a Fort Sumter? Questa è una scelta conveniente per gli storici: possono indicare con esattezza il giorno, la data e persino l’uomo — un civile di nome Edmund Ruffin — che ha tirato il grilletto. Ma naturalmente quando questo è accaduto, gli ingranaggi della guerra erano in funzione già da molti anni. I rancori alla base del conflitto erano vecchi di generazioni ed erano stati nutriti e mitizzati nei cuori di persone pronte a perdere tutto e a sacrificare persino i loro figli in nome di quell’odio.
Ed è lo stesso per la guerra tra i Geary e i Barbarossa: anche se la sua prima vittima, Margie, è stata sepolta da poco e i coltelli non sono ancora stati affilati, le trame che ci hanno portati a questo punto risalgono a molti, molti anni fa. Ai tempi di Charleston, alla primavera del 1865: quando Charles Holt e Nub Nickelberry sono entrati nello strano boudoir di Galilee nell’East Battery e si sono abbandonati al piacere. Se avessero saputo a cosa stavano dando inizio, si sarebbero comportati diversamente? Penso di no. Stavano vivendo in un momento di fame e disperazione; se qualcuno avesse detto loro, mentre si consolavano con dolci, carne e baci, che le conseguenze delle loro azioni di lì a centoquarant’anni si sarebbero rivelate tragiche, avrebbero risposto: e allora? E chi avrebbe potuto biasimarli? Se fossi stato al loro posto, avrei fatto lo stesso. Nemmeno io avrei potuto vivere preoccupandomi di ciò che l’eco dell’eco dell’eco delle mie azioni avrebbe provocato.
Così non me la sento di incolpare Charles e Nub. Hanno vissuto le loro vite fino in fondo. E ora siamo noi che dobbiamo vivere le nostre vite, e saranno segnate da un periodo di guerra che potrebbe distruggerci tutti. Ho il sospetto che sarà una guerra subdola, almeno all’inizio. Misurata non in base al numero di bare che riempirà ma in base a quello delle strutture che porterà alla rovina. Non parlo solo di strutture fisiche (benché anche quelle, inevitabilmente, crolleranno); parlo degli elaborati edifici di influenza, potere e ambizione che entrambe le nostre famiglie hanno costruito nel corso degli anni. Alla fine del conflitto, non ne rimarrà in piedi nemmeno uno. E non ci saranno vincitori: questa è la mia previsione. I nostri due clan semplicemente si cancelleranno a vicenda.
La mia sola speranza è che la guerra sveli qualche qualità nascosta in qualcuno di noi (non oso sperare in tutti), che smentirà il mio pessimismo. Non fraintendetemi, con questo non voglio dire che la guerra possa nobilitare gli animi; non lo penso affatto. Ma credo che potrebbe spogliarci di alcune delle finzioni che sono il dubbio profitto della pace e ricondurci ai nostri sé più autentici. Alla nostra umanità o alla nostra divinità; o a entrambe.
Così, sono pronto. Sulla mia scrivania ci sono la penna e la pistola. Ho intenzione di restare qui a scrivere finché mi sarà possibile, ma a questo punto non posso più promettervi che finirò questa storia prima di dover posare la penna e armare la mia mano. Quel mio semplicemente tutto ora mi sembra il più remoto dei sogni; una delle finzioni della pace di cui stavo parlando poco fa.
Ma vi prometto questo: che nei prossimi capitoli non giocherò con i vostri affetti, come se avessimo passato insieme una vita intera. Per quanto mi sarà possibile, sarò diretto e farò di tutto per fornirvi gli strumenti per finire questa storia nella vostra mente, se dovessi essere fermato da una pallottola.
E — visto che siamo in argomento — forse questo è il momento adatto per chiedere perdono a coloro che ho trascurato o frainteso in queste pagine. Avete letto il lavoro di un uomo che ha imparato la sua arte parola dopo parola, frase dopo frase; spesso ho inciampato, spesso ho fallito.
Perdonatemi le mie debolezze, e fatelo non perché sono figlio di mio padre, ma perché sono semplicemente umano. Fatelo perché il futuro sia un tempo in cui questa sarà una ragione sufficiente per essere amati.