PARTE OTTAVA La casa delle donne

Uno

Quando ho scritto l’ultima parte del capitolo precedente, ero di umore malinconico; con il senno di poi posso dire che le mie parole erano premature. Dopotutto, i barbari non sono ancora qui. Non abbiamo sentito nemmeno un’ombra del profumo della loro acqua di colonia. Forse non avrò mai bisogno della pistola che mi ha dato Luman. Non sarebbe un finale appropriato per la mia epica? Dopo centinaia di pagine di attesa, niente. I Geary decidono di non attaccarci; Galilee resta in mare; Rachel lo aspetta sulla spiaggia, inutilmente. Il rumore dei tamburi di guerra si affievolisce e infine scompare.

Luman non è molto convinto che le cose possano andare in questo modo. Oggi è venuto a portarmi altre due armi; una bellissima sciabola che aveva lucidato tanto da farla brillare, e una baionetta che dev’essere appartenuta a un artigliere confederato. Mi ha detto di aver provato a lucidare anche quest’ultima ma senza riuscirci: il metallo si era rifiutato di scintillare. Detto questo, comunque, la baionetta possiede una brutale semplicità. È priva dell’eleganza patrizia della spada e serve per sventrare; impugnandola si può quasi sentire lo scopo a cui è destinata. In un certo senso, chiede di essere usata.

Luman si è trattenuto per un paio d’ore e quando mi ha lasciato e ho potuto ricominciare a scrivere, ormai era buio. Stavo prendendo appunti per la scena in cui Garrison Geary si reca a visitare la stanza in cui è morto Cadmus, ed ero completamente immerso nei dettagli, quando ho sentito bussare alla porta e Zabrina è entrata in camera mia. Era venuta a chiamarmi per conto di Cesaria.

“Quindi mamma è a casa?” ho chiesto.

“Stai facendo del sarcasmo?” ha ribattuto lei.

“No, è una semplice osservazione. È tornata a casa. E questo è un bene. Dovresti esserne felice.”

“E lo sono”, ha replicato Zabrina, ancora sospettosa.

“Be’, sono felice che tu sia felice. Sei felice, no?”

“Non proprio.”

“E come mai?”

“È cambiata, Maddox. Non è la stessa donna che era prima di andarsene.”

“Forse è cambiata in meglio”, ho detto. Zabrina non ha gradito il mio commento, si è limitata a stringere le labbra. “Comunque, di cosa ti sorprendi? E normale che sia cambiata. Ha perso uno dei suoi nemici.” Mia sorella ha continuato a fissarmi, inespressiva. “Non te lo ha detto?”

“No.”

“Ha ucciso Cadmus Geary. O meglio, era lì quando lui è morto. Non so quale sia la verità.”

“E questo cosa significa per noi?” ha chiesto Zabrina. “Vorrei saperlo anch’io.”

Lei ha lanciato un’occhiata alle tre armi che tenevo sulla scrivania. “Ti stai preparando al peggio”, ha osservato. “Sono un regalo di Luman. Ne vuoi una?”

“No, grazie. Ho i miei metodi personali per trattare con questa gente, se dovesse mai arrivare. Pensi che sarà Garrison Geary o il fratello carino?”

“Non mi ero reso conto che ti stessi interessando a questa faccenda”, ho detto. “Potrebbero essere entrambi, comunque.”

“Spero che sia il fratello carino”, ha detto Zabrina. “Saprei cosa farmene di lui.”

“E cioè?”

“Lo sai benissimo”, ha risposto lei. Ero stupito nel vederla così diretta, ma in fondo perché diavolo non avrebbe dovuto esserlo? Tutti stavano gettando la maschera. E ora lo stava facendo anche lei.

“Sarei felice di avere quell’uomo nel mio letto”, ha continuato lei. “Ha dei capelli meravigliosi.”

“A differenza del tuo Dwight che non ne ha per niente.”

“Dwight e io ci divertiamo ancora molto insieme, quando siamo dell’umore giusto.”

“Allora è vero”, ho esclamato. “Lo hai sedotto quando è arrivato qui.”

“Naturalmente, Maddox”, ha replicato lei. “Pensi che lo abbia tenuto nella mia stanza per tutto quel tempo solo per insegnargli l’alfabeto? Marietta non è l’unica della famiglia ad amare il sesso, sai?” Si è avvicinata alla mia scrivania e ha preso la sciabola. “Hai veramente intenzione di usarla?”

“Se ci sarò costretto.”

“Quando è stata l’ultima volta che hai ucciso un uomo?”

“Non ho mai ucciso nessuno.”

“Davvero?” si è stupita. “Nemmeno durante i tuoi viaggi con papà?”

“Mai.”

“Oh, questo sì che è divertente”, ha detto Zabrina con uno strano luccichio negli occhi. Quella si stava trasformando in una conversazione rivelatrice, ho pensato.

“E tu hai mai ucciso?” le ho domandato.

“Non sono sicura di volertelo dire”, è stata la sua risposta.

“Zabrina, non essere sciocca. Ti prometto che non lo scriverò.” Guardandola, ho notato che la sua espressione era vagamente delusa. “A meno che tu non voglia”, ho aggiunto.

Le sue labbra si sono inarcate in un sorrisetto. La donna che mi aveva proibito di parlare di lei nel mio libro aveva lasciato il posto a una Zabrina che trovava quell’idea stuzzicante. “Immagino che se non te lo dico e tu non lo scrivi, nessuno lo saprà mai…”

“Saprà cosa?” Lei si è accigliata, mordicchiandosi un labbro. Avrei voluto avere una scatola di cioccolatini da offrirle o magari una fetta di torta alle noci. Ma l’unica seduzione che avevo da offrirle era la mia penna. “Qualunque cosa sia, ti giuro che lo racconterò con le tue stesse parole.”

“Mmm…”

Non era ancora convinta. Allora ho aggiunto: “Mi stai solo provocando. Se non vuoi raccontarmi niente, non farlo”.

“No, no, no”, si è affrettata a dire lei. “Voglio raccontartelo. Il fatto è che è così strano dopo tutti questi anni…”

“Se sapessi quante volte ho pensato la stessa cosa mentre scrivevo. Questo libro è pieno di fatti che non sono mai stati raccontati. E hai ragione. Ci si sente strani a confessare certe cose.”

“Lo hai fatto anche tu?”

“Oh sì”, ho risposto, appoggiandomi allo schienale. “E a volte è stato difficile. Ho raccontato cose che non mi fanno certo fare bella figura.”

“Be’, non credo che questo mi farà fare una brutta figura, esattamente…” Sono rimasto ad aspettare, sperando che il mio silenzio la incoraggiasse ad aprirsi. Ha funzionato. “Dwight viveva con noi da circa un anno”, ha detto Zabrina, “e un giorno ho deciso di andare a trovare la sua famiglia nella contea di Sampson. Lui mi aveva raccontato ciò che gli avevano fatto… cose orribili. Sapevo che era la verità perché avevo visto le sue cicatrici. Aveva la schiena coperta di bruciature di sigaretta. Suo fratello maggiore si era divertito a torturarlo, mentre suo padre gli aveva lasciato un altro genere di ferite. Così un giorno sono andata a trovare la sua famiglia. Ho fatto subito amicizia con sua madre, non è stato difficile. Evidentemente non aveva nessuno con cui parlare: lei e i suoi venivano trattati da tutti come paria. Comunque, mi ha invitata a cena. Io mi sono offerta di portarle delle bistecche per gli uomini di casa. Lei ha detto che sarebbe stato fantastico. C’erano cinque fratelli e il padre, così ho portato sei bistecche e le ho cucinate, mentre loro si ubriacavano in cortile.

“La donna aveva capito cosa avevo intenzione di fare, te lo posso giurare. Continuava a guardarmi mentre cucinavo le bistecche. Io aggiungevo un pizzico di questo e un pizzico di quello. Una ricetta speciale per gli uomini della sua vita, le ho spiegato. Lei mi ha fissata dritto negli occhi e ha sussurrato: Bene. Se la meritano.

“Mi ha anche aiutata a servirli. Abbiamo messo le bistecche sui piatti — erano bistecche grandi e io non le avevo cotte troppo, la donna mi aveva detto che ai suoi ragazzi piacevano al sangue — e lei ha detto: Avevo un altro figlio, ma è scappato. E io: Lo so. E lei: So che lo sai.

“Poi abbiamo servito le bistecche. Il veleno ha agito in fretta. Nel giro di qualche minuto erano tutti morti. Un terribile spreco di ottima carne, certo, ma ne era valsa la pena. E loro erano lì, seduti in cortile sotto le stelle, i volti neri e le labbra arricciate a scoprire i denti. È stata una serata memorabile…” È rimasta in silenzio. “Cosa ne è stato della madre?”

“Ha fatto le valigie e se n’è andata quella sera stessa.”

“E i cadaveri?”

“Li ho lasciati in cortile. Non volevo portarli qui, quei figli di puttana senza Dio. Spero che siano rimasti lì a marcire, anche se ne dubito. Sicuramente il giorno dopo qualcuno avrà sentito la loro puzza.”

Centomila parole fa, ho pensato, mi ero chiesto se i familiari di Dwight Huddie si fossero mai chiesti che cosa ne fosse stato di lui. Adesso conoscevo la risposta.

“Lo hai mai raccontato a Dwight?”

“No. Non lo avevo mai raccontato a nessuno prima d’ora.”

“E ti è veramente piaciuto?” ho voluto sapere.

Lei è rimasta a riflettere per qualche secondo. Alla fine mi ha risposto: “Sì. Immagino di averlo ereditato dalla mamma. Ma ricordo benissimo di aver guardato quei bastardi morti e di aver pensato: sono proprio brava, in questo. E sai che non c’è niente di più bello al mondo che fare qualcosa che si sa fare bene”.

Come se si fosse resa conto che non avrebbe potuto trovare una battuta conclusiva migliore di quella, mi ha rivolto un sorrisetto e, senza aggiungere una sola parola, ha lasciato la stanza.

Due

Una sorpresa dopo l’altra. Non avrei mai creduto che Zabrina fosse capace di fare qualcosa del genere e di raccontarlo con tanta tranquillità, come se fosse la cosa più naturale del mondo; incredibile. La verità è che tutto questo mi fa sperare, mi fa pensare che forse potrei aver sottovalutato la capacità della nostra famiglia di opporsi ai poteri che stanno per raggiungerci. Almeno venderemo cara la pelle. Zabrina potrà avere Mitchell Geary nel suo letto e quando sarà stanca di lui potrà avvelenarlo.


Comunque, sono andato da Cesaria.

Le sue stanze non erano più opprimenti come l’ultima volta che ero stato lì, e la moglie di mio padre non giaceva inerte sul suo letto. Si trovava nello studio di Jefferson e Zabrina mi aveva spiegato che era una cosa abbastanza insolita per lei. Era quasi l’alba; la stanza era rischiarata dalla luce delle candele che ingentiliva i contorni dell’ambiente e il volto di Cesaria. Sedeva alla scrivania, sorseggiando una tazza di tè. Sembrava più bella che mai. Non c’era più alcuna traccia in lei della creatura vendicativa che avevo visto scatenarsi nella casa dei Geary. Mi ha invitato ad accomodarmi e mi ha offerto un tè che Zelim mi ha servito. Zabrina se n’era già andata. C’eravamo solo noi due; ero nervoso, devo ammetterlo. Non che temessi che Cesaria potesse essere presa da una furia incontrollabile e fare a pezzi la casa. Tuttavia trovarmi in compagnia di qualcuno che possedeva un simile potere mi rendeva ansioso. Era come prendere il tè con una tigre mangiatrice di uomini; non potevo impedirmi di domandarmi quando avrebbe mostrato gli artìgli.

“Dovrò andarmene di nuovo, molto presto”, mi ha spiegato. “E questa volta — voglio che tu lo sappia — potrei anche non tornare. Se così fosse, dovrai essere tu a prendere il controllo della casa.” Le ho chiesto dove sarebbe andata. “In cerca di Galilee”, ha risposto.

“Capisco.”

“E se ci riuscirò, lo salverò da se stesso.”

“Sai che è ancora in mare?” le ho chiesto.

“Sì, lo so.”

“Vorrei poterti dire dove si trova. Ma probabilmente tu lo sai già.”

“No, non lo so. Questa è una delle ragioni per cui ho voluto avvertirti che potrei anche non tornare. C’è stato un tempo in cui avevo visioni di Galilee tutti i giorni e le scacciavo dalla mia testa — non volevo avere niente a che fare con lui — ma adesso mi è invisibile. Sono sicura che è opera sua.”

“E perché vuoi trovarlo adesso?”

“Per convincerlo che è amato.”

“Quindi vuoi che torni a casa?”

Cesaria scosse la testa. “Non sono io che lo amo…” ha detto.

“È Rachel.”

“Sì. È Rachel.” Cesaria ha appoggiato la tazza sulla scrivania e ha preso una delle sottili sigarette egiziane. Mi ha passato il pacchetto e anch’io ne ho presa una. L’ho accesa. Era il tabacco peggiore che avessi mai fumato in vita mia.

“Non avrei mai pensato di dire una cosa simile, ma ciò che quella donna prova per Galilee potrebbe salvare tutti noi. Non ti piace la sigaretta?”

“No, è ottima.”

“Personalmente penso che sappiano di escrementi di cammello ma per me hanno un certo valore sentimentale.”

“Davvero?”

“Sì, molto tempo fa, tuo padre e io abbiamo trascorso settimane meravigliose insieme al Cairo, poco prima che conoscesse tua madre…”

“E quindi quando le fumi pensi a lui?”

“No, penso a un ragazzo egiziano di nome Muhammed che mi ha scopata tra i coccodrilli sulle rive del Nilo.”

Ho tossito così forte che i miei occhi hanno preso a lacrimare, cosa che l’ha divertita molto.

“Oh, povero Maddox”, ha detto quando sono riuscito a smettere di tossire, “non hai mai saputo cosa pensare di me, vero?”

“Francamente no.”

“Credo di averti sempre tenuto a una certa distanza perché non sei figlio mio. Ti guardo e ripenso a quanto fosse infedele tuo padre, e questo mi fa male. Anche dopo tutti questi anni. Sai, somigli molto anche a tua madre. Hai la sua stessa bocca.”

“Ma come puoi dire che soffri ancora per le sue infedeltà quando mi hai appena raccontato di esserti scopata un ragazzo egiziano?”

“L’ho fatto solo per far ingelosire tuo padre. Non l’ho fatto col cuore. Anzi no, devo correggermi. Certe volte sono stata innamorata. Di Jefferson, per esempio. Ma quella volta in mezzo ai coccodrilli? L’ho fatto solo per ripicca. Ho fatto molte cose per ripicca.”

“Anche lui?”

“Certo. Ripicca chiama ripicca. Mi tradiva di continuo.”

“E ha mai amato qualcuna di quelle donne?”

“Mi stai chiedendo se amava veramente tua madre?” Ho aspirato una boccata di fumo amaro. Naturalmente era questo che volevo sapere. Ma, ora che dovevo esprimerlo a parole, ero bloccato. E anche mentre sentivo le lacrime pungermi gli occhi, un’altra parte di me — la parte che sta trascrivendo questi eventi sulla carta — pensava: perché tutti questi drammi? Che diavolo di importanza ha dopo tanti anni? Ti sentiresti davvero meglio se sapessi che tua madre e tuo padre si erano amati?

“Ascoltami”, ha detto Cesaria. “Ti dirò qualcosa che forse ti darà un po’ di felicità. O che almeno ti permetterà di capire meglio com’erano le cose tra i tuoi genitori.

“Tua madre era un’illetterata quando Nicodemus l’ha conosciuta. Era una donna davvero molto dolce, devo dire, ma non sapeva nemmeno scrivere il suo nome. Penso che a tuo padre piacesse molto questo fatto, ma lei era ambiziosa. Come biasimarla? Erano tempi duri per gli uomini e per le donne. Una donna come lei poteva contare solo sulla sua bellezza, ma sapeva che non sarebbe durata per sempre.

“Voleva imparare a leggere e a scrivere, più di qualunque altra cosa, e ha implorato tuo padre di insegnarglielo. Era come un’ossessione per lei…”

“Allora la conoscevi?”

“L’ho incontrata solo qualche volta. All’inizio, quando lui la portava in giro per sfoggiarla, e alla fine, di cui ti parlerò tra un momento.

“Comunque, lei tormentava tuo padre giorno e notte perché le insegnasse a leggere, e alla fine lui l’ha accontentata. Naturalmente, non aveva la pazienza di farlo come chiunque altro. Non voleva perdere tempo con l’ABC. Con la pura forza di volontà, ha fatto fluire la conoscenza dentro di lei e nell’arco di una notte, tua madre ha imparato a leggere e a scrivere. Non solo l’inglese, ma anche il greco, l’ebraico, l’italiano, il francese, il sanscrito…”

“Un magnifico dono.”

“Lo credeva anche lei.

“Tu avevi due o tre settimane quando è successo. Eri un bambino così tranquillo. Un giorno tua madre non sapeva leggere nemmeno una parola e il giorno dopo era una donna che sarebbe stata in grado di conversare con Socrate. È stata una trasformazione sorprendente. Lei voleva servirsi di ciò che aveva imparato e ha cominciato a leggere tutto ciò che tuo padre riusciva a procurarle. Leggeva anche mentre ti allattava, decine di libri aperti sul tavolo, un’infinità di idee che le attraversavano la mente. Continuava a chiedere libri, e tuo padre continuava a portargliene. Plutarco, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino, Tolomeo, Virgilio, Erodoto: il suo era un appetito inesauribile.

“Nicodemus era molto fiero e non faceva che vantarsi di lei. ‘Guardate la mia compagna, è un vero genio. Sa dire oscenità in greco!’ Ma tuo padre non si rendeva conto di ciò che aveva fatto. Non ne aveva idea. Tua madre… Il cervello le stava bruciando nel cranio, anche mentre ti allattava…”

Era un’immagine terribile. Mia madre, circondata da pile di libri, che mi teneva tra le braccia, e la testa così piena di parole e di idee che il suo cervello stava ribollendo.

“È spaventoso”, ho mormorato.

“Ma c’è di peggio. Cominciò a spargersi la voce e, nel giro di un paio di settimane, tua madre era diventata una celebrità. Te lo ricordi? Ricordi la folla?” Ho scosso la testa. “La gente veniva da tutta l’Inghilterra, da tutta l’Europa, per vedere tua madre.”

“E mio padre che cos’ha fatto a quel punto?”

“Oh, si è stancato molto presto di tutto quel clamore. Si è pentito di quello che aveva fatto e mi ha chiesto se avrebbe fatto meglio a toglierle ciò che le aveva dato. Io gli ho detto che non m’importava, che era un problema suo, non mio. Ora me ne rammarico. Avrei dovuto dirgli qualcosa, forse avrei potuto salvarle la vita. E quando ci ripenso, mi rendo conto che sapevo…”

“Cosa sapevi?”

“… sapevo cosa le stava succedendo. Glielo vedevo negli occhi. Il suo povero cervello umano non poteva sopportare tanta conoscenza.

“Poi, una notte, ha chiesto a tuo padre di portarle carta e inchiostro. Lui si è rifiutato, dicendole che non poteva perdere tempo a scrivere quando doveva prendersi cura di te. Tua madre è andata su tutte le furie e se n’è andata, lasciandoti con lui.

“Naturalmente, tuo padre non aveva idea di come comportarsi con un bambino piccolo, così ti ha affidato a me.”

“E tu ti sei occupata di me?”

“Per qualche tempo.”

“E lui si è messo alla ricerca di mia madre?”

“Proprio così. Gli ci sono voluti alcuni giorni, ma alla fine l’ha trovata. Era a casa di un uomo, a Blackheath, a cui aveva concesso favori sessuali in cambio di una quantità infinita di ciò che Nicodemus le aveva negato: carta e inchiostro.”

“Che cosa aveva scritto?”

“Non lo so. Tuo padre non mi ha mai mostrato il suo lavoro. Mi ha detto che era del tutto incomprensibile. Comunque, qualunque cosa fosse, doveva essere molto importante per tua madre perché ci aveva lavorato notte e giorno, senza quasi mangiare e dormire. Quando tuo padre l’ha riportala a casa, ormai era l’ombra di se stessa: scheletrica, le mani e la faccia sporche d’inchiostro. Quando parlava, diceva cose senza senso, una mescolanza folle di tutte le lingue che conosceva e di tutte le cose che aveva letto. E per tutto il tempo continuava a fissare i suoi interlocutori, come per dire: cercate di capirmi, vi prego, vi prego…

“Ho pensato che forse se ti avesse tenuto tra le braccia si sarebbe sentita meglio, così l’ho accompagnata alla culla e le ho detto che avevi bisogno di essere allattato. Ho avuto l’impressione che fosse riuscita a capirmi. Ti ha preso e ti ha cullato per un attimo, poi è andata a sedersi accanto al fuoco come faceva di solito quando ti allattava. E non appena si è seduta, ha emesso un piccolo sospiro ed è morta.”

“Oh, mio Dio…”

“Sei scivolato dalle sue braccia e sei caduto sul pavimento. Hai cominciato a piangere. Era la prima volta che piangevi ma da quel momento in poi — dopo che eri stato il bambino più tranquillo, più dolce del mondo — da quel momento in poi sei diventato un mostro. Piangevi e gridavi e credo di non averti più visto sorridere per molti anni.”

“E mio padre che cos’ha fatto?”

“Ha preso il suo cadavere e l’ha seppellito da qualche parte nel Kent. Ha scavato la tomba con le sue mani ed è rimasto con lei a piangerla per settimane. Così io ho dovuto prendermi cura dite.”

“Ma tu non sei rimasta con me”, ho detto io. “Gisela…”

“Sì, è stata Gisela a occuparsi di te, e lo ha fatto per i sei o forse sette anni successivi. Così adesso sai tutto”, ha detto Cesaria. “Non so se sia un bene. È passato così tanto tempo…”

E seguito un lungo silenzio. Io ho ripensato a Gisela, o almeno alla Gisela che rivedo nei miei sogni. Prima sento la sua voce — una voce sottile, acuta — che mi canta una ninna-nanna. Poi vedo il cielo; piccole nuvole bianche che lo attraversano. E alla fine, vedo il suo viso sorridente, mentre continua a cantare, e mi accorgo di essere sdraiato sull’erba — probabilmente è la prima estate della mia vita — e lei mi prende tra le braccia e mi stringe contro il suo petto.

Forse avevo pianto e mi ero lamentato quando ero rimasto con Cesaria, ma credo di essere stato felice con Gisela. Almeno, questo è quanto mi ricordo.

“Vorrei che te ne andassi”, ha detto lei.

Mi sono alzato e l’ho ringraziata, ma ho avuto l’impressione che fosse troppo assorta per accorgersene. Stava pensando al passato o al futuro? Al marito che aveva perso o al figlio che stava per ritrovare? Non ho avuto il coraggio di chiederglielo.

Sono uscito senza fare rumore, e una piccola parte di me ha sperato che Cesaria mi chiamasse, che mi raccomandasse di fare attenzione; ma un’altra parte di me, ben più grande, è stata felice di non essere notata.

Tre

1

Rachel aveva bisogno di aiuto per lasciare la città. La morte di Cadmus Geary — e le bizzarre circostanze di quella morte — erano sulle prime pagine di tutti i giornali. E i cronisti, che erano apparsi subito dopo l’omicidio di Margie, erano tornati in forze e tenevano d’assedio l’edifìcio in cui si trovava l’appartamento di Rachel. Decisa ad andarsene il prima possibile senza venire interrogata dalla polizia e senza essere bloccata da Mitchell e Garrison, si rivolse a Danny che fu felice di renderle il favore e aiutarla nella fuga. Si recò nel suo appartamento, le preparò una valigia, prese il denaro e le carte di credito e la raggiunse all’aeroporto Kennedy, dove le comprò un biglietto per Honolulu.

Quando lei e Danny si salutarono, lui disse:

“Non tornerà, vero?”

“È così evidente?”

“L’ho capito da come si guardava attorno mentre venivamo qui.”

“Be’, se sarò fortunata non dovrò tornare.”

“Posso chiederle…”

“Cosa sta succedendo? Non posso dirglielo, Danny. Non che non mi fidi di lei. Ma ci vorrebbe troppo tempo per spiegarle tutto, E se anche lo avessi, non sono certa che la mia spiegazione avrebbe un senso.”

“Mi dica solo una cosa: è coinvolto anche Garrison? Sta scappando da quel bastardo? Perché se è così…”

“No, non sto scappando da niente”, lo interruppe Rachel. “Sto andando dall’uomo che amo.”


Per uno strano caso del destino, le fu assegnato lo stesso posto in prima classe che aveva occupato quando si era recata a Kaua’i la prima volta. Così, si ritrovò a vivere uno strano déjà-vu, quando si accomodò e la hostess le portò un bicchiere di champagne. Solo allora si concesse il lusso di indugiare sui suoi ricordi dell’isola. La conversazione con Jimmy Hornbeck mentre si recavano ad Anahola; e poi la casa e il prato e la spiaggia e Niolopua; la chiesa semidistrutta in cui si era rifugiata durante il temporale; la prima volta che aveva visto le vele di quella che in seguito avrebbe scoperto essere la Samarcanda, il falò sulla spiaggia e, alla fine, Galilee.

Erano trascorse solo poche settimane da quando aveva lasciato l’isola ma erano successe talmente tante cose da allora — cose che voleva dimenticare per sempre — che quei ricordi le sembravano un sogno. Aveva bisogno di tornare sull’isola, di tornare alla casa, ma soprattutto di vedere le vele della Samarcanda stagliarsi contro il cielo per essere completamente sicura che non si fosse trattato solo di un sogno.

2

Nelle acque spietate del Sud del Pacifico, la barca che Rachel sperava di vedere era ormai ridotta in misere condizioni. Era alla deriva da undici giorni, e il suo unico occupante l’aveva lasciata in balia dei venti e delle maree. L’albero maestro era spezzato, le vele a brandelli. La timoniera era nel caos e sottocoperta le condizioni non erano certo migliori. La Samarcanda sapeva di essere condannata. Galilee poteva sentire i rumori delle sue assi; il modo in cui gemevano e rabbrividivano quando l’imbarcazione veniva colpita da un’onda. Non l’aveva mai sentita produrre quei suoni prima. A volte aveva l’impressione che gli stesse parlando, che lo stesse implorando di riscuotersi da quello stato catatonico e di prendere nuovamente il timone. Ma, negli ultimi quattro giorni, Galilee si era indebolito a tal punto che, anche se avesse voluto salvare se stesso e la barca, non avrebbe trovato le forze per farlo. Era troppo tardi. Non aveva più alcun desiderio di vivere e il suo corpo — che era sopravvissuto a un’infinità di eccessi — aveva cominciato a deperire rapidamente. Persino il delirio lo aveva abbandonato adesso, anche se continuava a bere due bottiglie di brandy al giorno. La sua mente era troppo esausta anche per generare allucinazioni e le sue membra erano troppo stremate per sostenerlo. Così, giaceva sul ponte e attendeva fissando il cielo.


Verso sera, pensò che il momento fosse arrivato. Stava guardando il sole tramontare tra le nuvole sull’oceano, quando la Samarcanda d’improvviso si fece silenziosa attorno a lui. Le assi smisero di gemere e le vele lacerate rimasero immobili.

Sollevò di qualche centimetro la testa dal ponte. Il sole sembrava aver rallentato la sua discesa. E anche il suo cuore pareva aver diminuito i battiti, quasi che il suo corpo — sapendo di essere prossimo alla fine — fosse diventato avido di ogni sensazione e stesse abbassando la sua fiamma vitale in modo da poter ardere un po’ più a lungo. Finché il sole non fosse scomparso; finché il cielo non avesse perso anche le ultime tracce di colore; finché fosse riuscito a vedere la Croce del Sud che splendeva luminosa sopra di lui.

Che disastro era stata la sua vita, che messinscena infelice! Stentava a ricordare un momento in cui non avesse provato rimorso.

E non aveva scuse per le colpe di cui si era macchiato. Era venuto al mondo con tutte le benedizioni della divinità e ora stava per lasciarlo a mani vuote, dopo aver sprecato tutti i doni che aveva ricevuto.

No, non solo li aveva sprecati ma, peggio ancora, li aveva usati per scopi crudeli. Aveva fatto del male a molte persone (poche di loro veramente innocenti, certo, ma adesso anche questo gli era di scarso conforto); si era permesso di diventare un comune assassino al servizio della mera ambizione. Ambizione umana; ambizione Geary; il desiderio di possedere bestiame e ferrovie e pianure e foreste, di regnare su popoli e stati; di essere piccoli re.

Erano morti quasi tutti, naturalmente, e molte volte Galilee era stato presente per assistere ai loro ultimi istanti: le loro lacrime, le loro patetiche preghiere, la loro disperata speranza di redenzione. Perché non aveva imparato niente da quelle morti? Perché non aveva cambiato vita? Perché non aveva sfidato i suoi padroni e non aveva avuto il coraggio di tornare a casa e chiedere perdono?

Perché proprio lui che era nato con quelle certezze che tutte le religioni del mondo avrebbero voluto possedere, nel momento della morte, era solo e terrorizzato?

C’era unicamente un volto a cui poteva ripensare senza soffrire; solo un’anima che non aveva tradito. Pronunciò il suo nome mentre il disco del sole toccava il mare.

“Rachel”, mormorò. “Dovunque tu sia… ti amo…”

Poi chiuse gli occhi.

Quattro

Garrison Geary era nella camera da letto di Cadmus e la stava esaminando, euforico. Era difficile reprimere la felicità che provava ma stava facendo del suo meglio. Aveva rilasciato una breve dichiarazione alla stampa, spiegando che nessuno conosceva ancora con precisione le circostanze della dipartita di Cadmus, ma che quel triste avvenimento non era stato una grande sorpresa per nessuno dei familiari. Poi aveva trascorso una frustrante ora con Loretta durante la quale aveva tentato di farsi raccontare cos’era accaduto. Stavano cominciando a girare troppe voci al riguardo, le aveva detto; gli schianti si erano sentiti fino a un isolato di distanza. Non sarebbe stato meglio raccontargli la verità, in modo che lui potesse esporre i fatti alle autorità e alla stampa in modo corretto, senza lasciare spazio alle speculazioni e ai pettegolezzi? Loretta gli aveva detto che non poteva aiutarlo; semplicemente, non ricordava. Qualunque fosse stata la natura del cataclisma, l’aveva sconvolta fino a farle dimenticare tutto. Forse, col tempo, sarebbe riuscita a ricordare. Ma per il momento lui e la polizia e i giornalisti avrebbero dovuto inventarsi le risposte che volevano.

Naturalmente era solo una finzione; Loretta non si era sforzata più di tanto per farla sembrare plausibile. Si era limitata a fornire la sua versione dei fatti e aveva sfidato Garrison a contraddirla. Lui aveva deciso di non insistere, per il momento. Poteva aspettare. Dio solo sapeva se aveva dovuto imparare l’arte della pazienza, interpretando la parte del nipote obbediente mentre Cadmus si aggrappava disperatamente alla vita e al potere. Ora il vecchio bastardo era morto e Loretta aveva già giocato quasi tutte le sue carte. La sola carta che aveva in mano ormai era la verità; e, dal momento che era una giocatrice esperta, se ne sarebbe servita il più tardi possibile. Ma non ci avrebbe guadagnato niente. Le cose stavano cambiando rapidamente e Loretta sapeva che ben presto quella sua unica carta non avrebbe avuto più alcun valore. Una volta che fosse stata tagliata del tutto fuori dalla partita, lui gliel’avrebbe tolta dalle mani per pura curiosità.

Mitchell lo raggiunse nella stanza di Cadmus.

“Ho fatto due chiacchiere con Jocelyn”, disse. “Ha sempre avuto un debole per me.”

“E allora?”

“Allora sono riuscito a farmi raccontare cos’è successo.” Mitchell si avvicinò al letto del vecchio, assaporando quel momento. “Per prima cosa, Rachel era qui.”

“E con questo?” disse Garrison scrollando le spalle. “È irrilevante, Mitchell. Cristo santo, vedi di rendertene conto.”

“Non trovi sospetto il fatto che fosse qui?”

“In che senso?”

“Forse lavora per i responsabili di questo disastro. Forse è stata lei a farli entrare.”

Garrison lo fissò inespressivo. “Chiunque sia responsabile di questo disastro non ha bisogno dell’aiuto della tua fottutissima moglie. Hai capito?”

Non parlarmi in quel modo”, ringhiò Mitchell. “Non sono un imbecille e non lo è nemmeno Rachel. È riuscita a trovare il diario, non dimenticarlo.”

Garrison ignorò quell’ultimo commento. “Cos’altro ti ha raccontato Jocelyn?” domandò.

“Niente.”

“Non hai saputo nient’altro da lei?”

“E più di quanto tu sia riuscito a sapere da Loretta.”

“Che si fotta, Loretta.”

“Ti è mai venuto in mente che forse potremmo aver sottovalutato questa gente?”

“Non ci pensare.”

“No, adesso mi ascolti. Forse stanno tramando alle nostre spalle.”

“Lasciale fare. Cosa cazzo possono fare un paio di donne?”

“Tu non conosci Rachel.”

“Sì che la conosco”, replicò Garrison irritato. “Ne ho viste a decine come lei. Non è nessuno. Tutto quello che ha gliel’hai dato tu o gliel’ha dato questa famiglia. Non merita un solo minuto del nostro tempo.” Detto questo, voltò le spalle al fratello e si allontanò. Era quasi arrivato alla porta, quando a bassa voce Mitchell disse:

“Non riesco a togliermela dalla testa. Vorrei. So che quello che dici è giusto. Ma non riesco a smettere di pensare a lei”.

Garrison si fermò e, dopo un attimo, si girò a guardare il fratello. “Oh”, lo provocò, fissando Mitchell incredulo. “Che cosa vuoi sentirti dire? Vuoi che ti dica bene, riprenditela? Se è questo che vuoi sentire, fa’ pure, vai a prenderla.”

“Non saprei come”, confessò Mitchell. La rabbia lo aveva abbandonato e ora era di nuovo il fratellino di Garrison, disperatamente in cerca di aiuto. “Non so nemmeno perché la voglio. Insomma, hai ragione: non è nessuno. Non è niente. Ma quando penso a lei con quell’animale…”

Garrison sorrise, rassicurato. “Ah, capisco. Si tratta di Galilee.”

“Non voglio che lei gli si avvicini. Non voglio nemmeno che si azzardi a pensare a lui.”

“Non le puoi impedire di pensare.” Fece una pausa, il sorriso che gli inarcava ancora le labbra. “Be’… un modo ci sarebbe, ma non credo che tu sia disposto a spingerti fino a quel punto.”

“Ci ho pensato”, disse Mitchell. “Credimi, ci ho pensato.”

“È così che funziona. Ci pensi una volta, e poi ci pensi di nuovo e poi un giorno ti si presenta l’occasione giusta. E allora lo fai.” Mitchell tenne lo sguardo fisso sul pavimento. Garrison tenne lo sguardo fisso su di lui. Ci fu un lungo silenzio. Alla fine Garrison disse: “È questo che vuoi?”

“Non lo so.”

“Allora riflettici ancora.”

“Sì.”

“Bene.”

“No. Voglio dire: sì, è questo che voglio.” Tremava; non aveva ancora sollevato lo sguardo e tremava. “Voglio essere sicuro che nessuno l’avrà mai, a parte me. L’ho sposata. L’ho fatta diventare qualcuno.” Alla fine alzò gli occhi. Erano pieni di lacrime. “Non è così? Non l’ho forse fatta diventare qualcuno?”

“Non devi convincermi, Mitch”, disse Garrison con estrema dolcezza. “È come ti ho detto: si tratta solo di aspettare l’occasione giusta.”

“L’ho fatta diventare qualcuno e quella puttana mi ha voltato le spalle come se non fossi nessuno.”

“E tu vuoi punirla per questo. È naturale.”

“Cosa devo fare?”

“Be’, prima di tutto devi scoprire dove si trova. Devi essere carino con lei.”

“E perché?”

“Così non sospetterà niente.”

“D’accordo.”

“E poi, dopo il funerale del vecchio, decideremo come risolvere il problema.”

“Sì, mi piace l’idea.”

Garrison allargò le braccia. “Vieni qui.” Mitchell lo raggiunse e il fratello lo strinse forte. “Mi fa piacere che tu me ne abbia parlato”, disse, le labbra che sfioravano la guancia di Mitchell. “Non mi ero reso conto di quanto stessi soffrendo.”

“Mi ha trattato come una merda.”

Garrison gli diede una pacca affettuosa sulla spalla. “Va tutto bene. Va tutto bene. Abbiamo molta strada da fare, tu e io. E voglio che tu sia felice.” Guardò il fratello dritto negli occhi. “A qualunque costo. Hai la mia parola. A qualunque costo.”

Cinque

Più tardi, Garrison andò a trovare una signora con la quale non si intratteneva da diverse settimane: la sua adorabile e docile Melodie. Dopo una giornata così stressante, la sua compagnia silenziosa era un vero piacere. Rimase a guardarla per un’intera mezz’ora, toccandole di tanto in tanto i piedi ghiacciati, le cosce, il ventre, facendole scivolare le dita tra le gambe. Dio, era brava nel suo lavoro. Non si mosse nemmeno una volta, nemmeno quando la mise a pancia in giù e la sodomizzò.

Quando Garrison ebbe finito, non se ne andò, come avrebbe fatto in circostanze normali. Entrò nel bagno dalle piastrelle verde lime, si sciacquò il cazzo e il collo arrossato, poi tornò a sedersi in camera da letto e riprese a fissare la ragazza. Quando l’aveva voltata, aveva schiacciato i fiori che le circondavano il corpo e adesso il loro profumo sembrava quasi acuirgli i sensi. La pelle di Melodie gli appariva quasi rilucente, il brandy che beveva conteneva sfumature di sapore che non ricordava di aver mai gustato prima; addirittura il vetro del bicchiere sembrava serico sotto le sue dita.

Cosa gli stava succedendo? Era come se fosse in atto una qualche trasformazione; come se il Garrison che era stato — il Garrison testardo e accanito lavoratore, che non aveva mai davvero ispirato nessuno con la sua presenza — fosse in procinto di abbandonarlo, di staccarsi da lui come una pelle vecchia, per rivelare qualcos’altro: qualcosa di più luminoso, più forte, più strano.

Non poteva essere un caso che quel suo nuovo sé fosse uscito allo scoperto proprio ora che Cadmus era morto. Il vecchio regime era finito. Le sue regole, le sue ipocrisie, le sue limitazioni appartenevano al passato, adesso. Era tempo che qualcosa di nuovo si mostrasse, imprimendo nel mondo le sue visioni. E quel qualcosa si stava muovendo dentro di lui — in fondo a lui — cullando i suoi sensi con la gioia che sarebbe venuta quando, finalmente, si fosse rivelato.

Certo, c’era ancora una parte di lui che tremava a quella prospettiva. Ogni trasfigurazione era una sorta di morte; la morte di quello che era stato, necessaria a fare spazio a ciò che sarebbe venuto. Comunque Garrison sapeva che non avrebbe perso niente di importante. L’uomo che tutti avevano conosciuto come Ganison Geary era stato un’invenzione; aveva imparato — soprattutto da Cadmus — come presentare alla gente un’apparenza pacata e civile per distrarre l’attenzione dai suoi veri scopi. Abbastanza ingenuamente, Garrison aveva creduto che quegli scopi fossero identici a quelli del suo mentore: la prosperità della famiglia, l’accrescimento di influenza e potere.

Ma adesso sapeva che le cose non stavano così; e quale palcoscenico migliore per raggiungere quella consapevolezza del luogo in cui aveva sempre mostrato il suo volto più autentico? Sì, lo aveva mostrato ma non era stato visto perché le sue sole testimoni non avevano mai avuto il permesso di aprire gli occhi?

Forse era tempo che qualcuno lo vedesse. Appoggiò il bicchiere di brandy, si alzò dalla poltrona e raggiunse il letto. La donna era ancora immobile. Garrison le fece scivolare le mani sotto il corpo e la voltò sul dorso. Poi si inginocchiò e le posò una mano sullo stomaco.

“Il gioco è finito…” disse.

Lei non si mosse. Garrison le spostò la mano dallo stomaco al seno.

“Riesco a sentire il tuo cuore”, continuò. “Sei molto brava in quello che fai, ma riesco sempre sentire il tuo cuore.” Si chinò su di lei. “Apri gli occhi.” Le pizzicò un capezzolo. “Smettila di fare la morta. Ho deciso di resuscitarti.”

Melodie corrugò impercettibilmente la fronte.

“Sei stata fantastica”, disse Garrison, “sul serio. Molto convincente. Ma non ho più voglia di giocare.”

Lei aprì gli occhi.

“Castani”, osservò lui. “Hai gli occhi castani. Pensavo che fossero azzurri.”

“Hai finito con me?” domandò la donna. Aveva la voce leggermente strascicata. Forse riusciva a fare il cadavere così bene grazie alla droga.

“Avrò finito con te quando ti dirò che ho finito con te”, rispose Garrison, “non prima.”

“Hai detto che non volevi più giocare.”

“Infatti, non a questo gioco. Voglio farne un altro.”

“Quale?”

“Non ho ancora deciso.”

“Non ho intenzione di farmi…”

Garrison scoppiò a ridere così forte che la ragazza trasalì. Poi allungò la mano e le prese un seno. “Posso fare quel cazzo che mi pare con te. Ho pagato per la tua compagnia. E sei molto costosa.”

Lei sembrò illuminarsi nel sentirgli accennare al suo valore commerciale. “Che cosa vuoi?” gli chiese, abbassando lo sguardo sulla sua mano, sulle sue dita che le stringevano con forza la carne.

“Guardami.”

“Cosa?”

“Ho detto guardami. Guardami negli occhi.” Lei emise una risatina poco convinta, come una ragazzina impegnata in un gioco sporco. Quell’incongruità fece sorridere Garrison. “Come ti chiami?” le chiese. “Voglio dire, qual è il tuo vero nome?”

“Melodie è il mio vero nome”, rispose lei. “Mia madre dice che ero solita canticchiare tra me e me anche prima che mi battezzassero.”

“Tua madre è ancora viva?”

“Oh, certo. Si è trasferita nel Kentucky. Prima o poi la raggiungerò, appena avrò abbastanza soldi. Voglio andarmene da New York. Odio questa città.”

Con la sua nuova vista acuita, Garrison aveva l’impressione di poter leggere nel cuore della ragazza mentre parlava. Povera puttana, era piena di lividi fino al midollo; tutte le sue speranze erano finite in niente.

“Che cosa farai nel Kentucky?” le domandò.

“Oh… mi piacerebbe fare la parrucchiera, avere un piccolo salone tutto mio. Sono brava a sistemare i capelli.”

“Davvero?”

“Ma… non…” Le sue parole scivolarono via.

“Ascoltami”, disse Garrison. “Se vuoi qualcosa devi avere fede. E pazienza. Le occasioni arrivano quando meno te lo aspetti.”

“Lo credevo anch’io, una volta. Ma non è vero. Non si può sprecare tempo a sperare.”

Garrison si alzò di scatto, un movimento così improvviso che la ragazza si ritrasse. Lui la colpì con tanta forza da farla ricadere sul letto. Melodie emise un singhiozzo ma rimase dov’era.

“Avrei dovuto immaginarlo”, disse lei, sollevando la testa. Le lacrime le luccicavano agli angoli degli occhi ma a parte questo non sembrava preoccupata. Era già stata picchiata molte, molte altre volte. Anche questo aveva un prezzo, come qualsiasi altra cosa. “Lasciarmi dei segni ti costerà caro.” Si mise a sedere, mostrandogli il viso. “Ti costerà un sacco di soldi.”

“Allora te li dovrai sudare fino all’ultimo centesimo”, ribatté lui, e la colpì di nuovo, con violenza, e il sangue cominciò a scorrere.


Alla fine, Melodie dovette implorarlo di smettere, ma ci volle tempo. Gli permise di colpirla ancora e ancora, soprattutto al volto, ma anche sui seni e sulle cosce. Solo quando fu così provata dalle percosse di Garrison che non riuscì più a rialzarsi, lo pregò di fermarsi. Naturalmente, lui non le diede ascolto. Più le faceva del male, più il suo nuovo sé strano e luminoso cresceva dentro di lui; e più il suo nuovo sé cresceva, più voleva farle del male.

Si fermò solo una volta, per un attimo, quando scorse il proprio riflesso nello specchio, il volto euforico, luccicante di sudore. Non era mai stato un narcisista come Mitchell. Ma adesso gli piaceva guardarsi, e molto. C’era qualcosa di magnifico in lui, senza alcun dubbio. Prese a picchiare la donna con rinnovato vigore, sordo alle sue proteste, ai suoi singhiozzi, ai suoi patetici tentativi di negoziare una tregua. Lui la ignorò e continuò a percuoterla, colpo dopo colpo, spingendola in un angolo, dove lei cercò di alzarsi e, non riuscendoci, si fece prendere dal panico.

Garrison si rese conto che Melodie temeva per la propria vita; in quel momento smise di colpirla e, senza una parola, tornò in bagno a urinare e a lavarsi le mani. Non c’era stato nulla di eccitante in ciò che aveva appena fatto. Ma era convinto di essere al di là dell’eccitazione, ormai (era un’emozione troppo umana, apparteneva al passato). Con le mani pulite e la vescica vuota, tornò in camera da letto.

“Ho bisogno del tuo nome completo”, disse alla donna, che stava cercando di strisciare fino alla porta.

Lei mugolò qualcosa di incomprensibile. Lui si accomodò sulla sedia accanto alla scrivania.

“Ascoltami”, disse. “È molto importante.” Da una tasca della giacca, estrasse il portafogli e il libretto degli assegni. “Ti darò dei soldi. Così tanti soldi che potrai raggiungere tua madre in Kentucky e comprarti una piccola attività e ricominciare da capo.”

Nonostante la confusione e lo stordimento, Melodie sembrò capire ciò che lui le aveva detto. “Questa è una città sporca e perversa”, continuò lui. “Voglio che tu mi prometta che se ti darò questi soldi…” cominciò a compilare l’assegno “… diciamo un milione di dollari — non tornerai mai più. Mai più. Il tuo nome per intero.”

La donna aveva cominciato a singhiozzare, esausta. “Melodie Lara Hubbard”, rispose.

“Non ti sto pagando per quello che ti ho appena fatto. L’ho fatto perché volevo farlo, non perché mi hai offerto un servizio. E non ti sto pagando per impedirti di andare a raccontare tutto a qualche giornale scandalistico. Non me ne frega un cazzo se lo racconti a qualcuno. Capisci? Non potrebbe importarmi di meno. Ti sto dando questo denaro perché voglio che tu abbia fede.” Firmò l’assegno, poi dal suo portafogli prese un biglietto da visita su cui scarabocchiò qualcosa. “Portalo al mio avvocato, Cecil Curry, domani, e lui farà in modo che il denaro sia trasferito.” Si alzò, appoggiò l’assegno e il biglietto da visita sul letto tra i fiori schiacciati. Melodie sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco gli zeri della cifra che Garrison aveva scritto. Sì, erano sei ed erano preceduti da un uno.

“Adesso rimettiti in ordine”, le ordinò. “Non sprecare quello che ti è stato dato. Persone come me non si incontrano certo tutti i giorni.” Aprì la porta. “Considerati fortunata.” Le rivolse un sorriso. “E da’ il mio nome a uno dei tuoi figli, d’accordo? A quello che amerai di più.”

Sei

Garrison non dormì quasi per niente, quella notte. Tornò al suo appartamento e si fece una lunga e piacevole doccia ghiacciata. Si sedette sulla grande poltrona proprio come quando aveva parlato a Mitchell della morte di Margie. Quella notte si era sentito invulnerabile, ma non era niente in confronto al senso di potere che provava in quel momento.

Rimase lì per il resto della notte, a riflettere sulla sua prossima mossa. Per prima cosa avrebbe dovuto mantenere la promessa che aveva fatto a Mitch, una prospettiva che trovava allettante. Rachel non rappresentava un problema per lui, ma dal momento che era una spina nel fianco per suo fratello, avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi di lei, così come si era sbarazzato di Margie. Dopodiché, avrebbe avuto la completa attenzione di Mitchell e così, insieme, avrebbero potuto cominciare a lavorare sul serio.

Quale che fosse la natura del suo nuovo sé che aveva da poco scoperto, Garrison era certo che vi fosse qualcosa di simile anche dentro Mitchell. Qualcosa che aveva dormito a lungo ma che stava per risvegliarsi.

Sarebbe stato magnifico.

All’alba, un piacevole senso di stanchezza finalmente s’impossessò di lui, e così andò a letto. Dormì per non più di un paio d’ore e fece un sogno diverso da tutti quelli che aveva fatto finora.

Sognò di volare attraverso una grande foresta. Le chiome degli alberi erano folte e rigogliose sopra di lui ma i raggi del sole riuscivano comunque a penetrare, riscaldandogli il volto. Qualcuno gli stava parlando — una donna dalla voce leggera e felice. Garrison non riusciva a capirla ma sapeva che le sue erano parole d’amore, d’amore per lui.

Voleva vedere il suo viso; voleva sapere che genere di bellezza lo stava accompagnando. Ma quando cercò di spostare lo sguardo in direzione della voce, non ci riuscì. Non poteva fare altro che fluttuare e ascoltare, lasciandosi inondare e accarezzare dalla dolcezza di quella voce.

Alla fine, si fermò e rimase a galleggiare a mezz’aria. Poi si posò dolcemente sul terreno. Solo allora, mentre giaceva nell’erba così alta da oscurare in parte il suo campo visivo, si rese conto di essere un bambino.

Non aveva viaggiato da solo ma era stato portato in braccio da una donna. Ora riusciva a vederla: era davanti a lui, gli dava le spalle e stava guardando una casa, una magnifica casa che sorgeva in lontananza.

Lui cominciò a piangere. Voleva che la donna lo prendesse di nuovo tra le braccia.

Ma lei continuava a scrutare la casa e, anche se non riusciva a vederle il viso, qualcosa nel modo in cui teneva le braccia inerti lungo i fianchi lo convinse che tutta la felicità che aveva percepito nella sua voce ora l’aveva abbandonata. La donna voleva essere là, in quella splendida costruzione dalle colonne bianche, ma le era proibito.

Continuò a piangere, facendo del suo meglio per attrarre l’attenzione della donna che, alla fine, si voltò e lo guardò.

Era sua madre.

Rimase turbato nel vederla; quasi scioccato. Ma a sconvolgerlo non era il suo volto pallido e rigato di lacrime (lui amava vedere le donne ridotte in quello stato) ma la sua presenza in quel luogo magico. Lei apparteneva a un’esistenza più banale i cui pochi incanti potevano essere comprati e venduti come qualsiasi altra merce.

Sua madre si inginocchiò accanto a lui, come se volesse prenderlo tra le braccia. Le sue lacrime gli caddero sul viso. Infine lei pronunciò un’unica parola:

Addio”.

Poi — senza baciarlo, senza nemmeno sfiorarlo — si rialzò e si allontanò, lasciandolo solo, nell’erba alta.

Lui ricominciò a piangere con voce stridula e patetica. Ma adesso le sue labbra potevano formare anche parole…

Non lasciarmi!” singhiozzò. “Mamma! Mamma! Non lasciarmi!

Fu il suo stesso grido a svegliarlo. Si alzò a sedere, il cuore che gli batteva furiosamente nel petto. Attese l’inevitabile ritirata delle immagini che la sua mente aveva evocato, ma non avvenne niente del genere. Anche con gli occhi aperti, anche osservando i molti dettagli concreti della sua camera da letto, il sogno non voleva abbandonarlo.

Forse questo faceva parte della sua trasfigurazione: la sua mente stava rivisitando vecchie angosce, permettendogli di liberarsene una volta per tutte. Non era un’esperienza particolarmente piacevole, ma qualsiasi mutamento — soprattutto uno potente come quello che stava vivendo lui — portava con sé una certa quantità di disagio.

Si alzò dal letto e andò alla finestra. Mentre apriva le tende, fu assalito da un sospetto terribile. Si infilò la vestaglia, uscì in corridoio e si dkesse verso lo studio dove aveva lasciato il diario di Holt. Aveva cominciato a leggerlo subito, non appena Mitchell glielo aveva portato, ma ben presto gli eventi gli avevano impedito di continuare. Si mise a sfogliare le pagine consumate. Saltò i passaggi sulla battaglia di Bentonville e la parte in cui Holt ritornava nella sua casa; scorse rapidamente gli avvenimenti dell’East Battery e la partenza di Holt e Nickelberry da Charleston.

I disertori si erano messi in viaggio verso nord in compagnia di Galilee, diretti al territorio dei Barbarossa. C’erano quattro o cinque pagine dedicate alla precisa metodologia dell’ingresso: molti piccoli diagrammi simili a stemmi, e paragrafi che parlavano diffusamente dei misteri dell’Enfant — misteri che, se non fossero stati risolti, si sarebbero dimostrati fatali per chiunque avesse cercato di introdursi nella residenza dei Barbarossa. Lesse con grande attenzione il brano in cui venivano descritte le soluzioni a quegli enigmi, poi passò oltre, in cerca di una descrizione della casa.

E là, a poche pagine dalla fine del diario, trovò ciò che aveva temuto di trovare.


Non ho mai visto una casa simile a quella che si è presentata ai nostri occhi quando siamo emersi dagli alberi, né ho mai avvertito così intensamente la sensazione di trovarmi in presenza di cose invisibili, di forze che avrebbero potuto farci patire pene indicibili se non fossimo stati due buoni samaritani che riportavano un figliol prodigo alla sua terra natia. Queste sono due storie evangeliche in una, ma penso che sia più che appropriato — sono infatti convinto che in questo luogo siano radunati abbastanza misteri da riempire una dozzina di Bibbie.

Ed ecco la casa. Era dipinta di bianco e aveva una façade classica, simile a quelle che si possono ammirare nelle grandi residenze delle piantagioni del Sud. Ma sopra quelle forme familiari si ergeva una cupola immensa e maestosa, che splendeva candida alla luce del sole…


Garrison richiuse il diario. Non aveva bisogno di leggere altro. La casa del suo sogno era la stessa che aveva descritto Holt: il grande palazzo dei Barbarossa. Ben presto l’avrebbe visto con i suoi occhi.

Possibile che il sogno significasse che era già stato là? E se così non era stato, come aveva potuto immaginare con tanta precisione quel luogo?

Misteri su misteri. Prima la morte del vecchio e la distruzione che l’aveva accompagnata. Poi la sua trasfigurazione: la potenza che aveva visto riflessa nello specchio. E adesso questo enigma: il sogno in cui sua madre lo abbandonava davanti alla casa dei Barbarossa.

Garrison si era sempre fidato del suo intelletto: negli affari e nella gestione degli esseri umani non era mai il caso di essere troppo emotivi. Ma un intelletto saggio conosceva i propri limiti. Non cercava di spingersi al di fuori della giurisdizione del potere analitico. Restava in silenzio e permetteva alla mente di trovare altri modi per comprendere ciò che la tormentava.

E ora aveva raggiunto quel confine, il punto in cui la razionalità si faceva da parte. Per inoltrarsi in un luogo di trasformazione e furia e abbandono come quello che si estendeva davanti a lui, avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto.

Altri avevano intrapreso avventure simili ed erano sopravvissuti per raccontarle. Uno di quei viaggiatori era l’autore del diario che teneva tra le mani: il capitano la cui esistenza era fatalmente legata alle radici dell’albero genealogico dei Geary.

Forse quello era il destino che lo attendeva; forse quel viaggio lo avrebbe portato a fondare una sua dinastia. Quell’idea non lo aveva mai attraversato prima, ma non c’era da stupirsene. Aveva lavorato al servizio dei Geary per tutta la vita; un’occupazione sterile anche nel migliore dei casi. Ora era libero sia dalla sua schiavitù sia dalla sua vecchia pelle. Era tempo di ricreare ogni cosa.

Di trovare grembi, di fare figli. E di prenderli e posarli nella stessa erba su cui lui aveva giaciuto, da dove avrebbero potuto vedere le colonne e la cupola del palazzo che i Barbarossa avevano sognato e costruito ma di cui lui si sarebbe appropriato per ospitare i suoi figli e le sue figlie.

Sette

Questa volta Rachel non arrivò sull’isola come la viziata consorte di Mitchell Geary. Jimmy Hornbeck non era all’aeroporto ad aspettarla, pronto a soddisfare ogni suo capriccio. Noleggiò un’auto all’aeroporto, caricò le valigie e con l’aiuto di una cartina stradale si diresse ad Anahola. Il cielo era coperto, le nubi gonfie di pioggia che avevano ammantato le vette del Monte Waialeale ora erano scese su tutta l’isola. Faceva ancora caldo, un caldo umido. Rachel decise di non chiudere i finestrini e di non accendere l’aria condizionata. Voleva sentire la fragranza dei fiori e il profumo pungente del mare. Voleva ricordare come si era sentita quando era stata lì la prima volta.

Ma era impossibile ritornare a quella condizione di innocenza dopo tutto quello che era successo. Tuttavia, mentre abbandonava la strada principale e imboccava il sentiero dissestato che l’avrebbe portata alla casa, fu sorpresa nello scoprire quanto fosse facile convincersi che le agonie del suo recente passato appartenessero a qualcun altro.

Gli alberi e i cespugli si erano infittiti dall’ultima volta che era stata lì e il giardino non veniva curato da tempo. I rampicanti avevano coperto le grondaie e stavano invadendo il tetto; la veranda era piena di grandi boccioli marci e i gechi sembravano meno preoccupati della sua presenza adesso, come se avessero preso il controllo di quel luogo e non avessero intenzione di farsi intimidire dal suo arrivo.

La porta d’ingresso era chiusa a chiave, cosa che non la sorprese. Andò sul retro; si ricordava che la serratura della portafinestra era difettosa e sperava che nessuno l’avesse ancora riparata.

Fu fortunata. La porta si aprì e lei entrò in casa. L’aria sapeva di muffa ma non in modo sgradevole ed era piacevolmente fresca. Rachel andò subito in cucina e bevve un bicchiere di acqua gelata. Con il bicchiere in mano, fece un breve giro della casa per riambientarsi. Non avrebbe mai potuto immaginare quanto piacere le avrebbe dato il semplice fatto di trovarsi di nuovo in quel luogo; piacere che veniva reso più intenso dalla clandestinità della sua presenza.

Dopo aver preparato il grande letto in cui aveva dormito la prima volta, pensò di sdraiarsi tra le lenzuola fresche e invitanti e dormire, ma resistette alla tentazione. Si fece una doccia, si preparò una tazza di tè e andò in veranda a fumare una sigaretta e a godersi l’ultima luce del giorno. Non appena ebbe ripulito una delle sedie dalle foglie cadute e si fu seduta, il cielo plumbeo si aprì in un diluvio. I gechi, spaventati, si misero in cerca di un riparo, una gallina in preda al panico attraversò di corsa il prato. Per qualche ragione, ascoltando il rumore della pioggia battente, a Rachel venne voglia di ridere; e così rise. Rimase là, seduta sulla veranda come una pazza che aveva perso la ragione aspettando il suo innamorato e che rideva, rideva, mentre la pioggia continuava a cadere e nascondeva l’oceano che non glielo aveva restituito.

Otto

Galilee era certo che non si sarebbe svegliato mai più — almeno non in questo mondo. Invece si svegliò.

I suoi occhi, incrostati di salsedine, si aprirono dolorosamente e lui sollevò la testa per guardare l’oceano.

Qualcuno lo aveva chiamato. Non era la prima volta che sentiva delle voci nella sua solitudine, naturalmente; c’erano state molte apparizioni in vena di chiacchiere. Ma questa era qualcosa di diverso; era una voce che fece tremare il suo cuore e lo riscosse dal torpore. Galilee alzò lo sguardo. Il cielo aveva il colore del ferro arroventato.

Alzati, bambino mio.

Bambino? Chi lo aveva sempre chiamato così? Solo una donna.

Alzati e ascoltami.

Lui aprì la bocca per parlare ma riuscì a emettere un suono debole, a malapena udibile. Lei capì comunque.

Sì che puoi, gli disse.

Galilee gemette di nuovo. Era troppo debole, troppo vicino alla morte.

Sono stanca quanto te, figlio mio, disse sua madre, e sono pronta a morire quanto lo sei tu. Credimi. Assolutamente pronta. Ma se mi prendo il disturbo di venire a cercarti, il meno che tu possa fare è metterti a sedere e guardarmi.

Non c’era alcun dubbio sull’autenticità di quella voce. In qualche modo Cesaria era lì con lui. La donna che lo aveva scaldato nella fornace del suo grembo, che lo aveva nutrito con il suo corpo e che aveva modellato la sua anima; la donna che si era infuriata con lui per la sua follia e lo aveva accusato di essere irrecuperabile, quella donna lo aveva trovato, e ora Galilee non aveva modo di sfuggirle.

Non sono venuta qui di mia iniziativa, continuò Cesaria.

“E allora perché sei venuta?”

Perché ho conosciuto la tua donna. La tua Rachel.

Ora finalmente Galilee sollevò la testa. Sua madre, o meglio, la sua proiezione era in piedi sul ponte della Samarcanda. Benché gli avesse chiesto di guardarla, ora i suoi occhi erano rivolti altrove, sul sole che stava tramontando, su quel cielo che si andava sciogliendo. Galilee si rese conto solo in parte che era trascorso un giorno da quando aveva creduto di vivere i suoi ultimi istanti nella luce morente. Lui e la sua barca erano sopravvissuti per altre ventiquattr’ore.

“Dove l’hai vista? Non sarà venuta…”

All’Enfant? No, no. L’ho vista a New York.

“Sei stata a New York. Perché?”

Sono andata a trovare il vecchio Geary. Stava morendo.

“Sei andata a ucciderlo?”

Cesaria scosse la testa. No. Volevo solo assistere alla morte di un nemico. Naturalmente, quando mi sono trovata lì, è stato difficile non causare un po’ di trambusto.

“Che cos’hai fatto?”

Lei scosse la testa. Niente di grave.

“Ma lui è morto?”

Sì, è morto. Alzò lo sguardo sul cielo sopra di lei: le prime stelle stavano cominciando a brillare. Ma non sono venuta qui per parlare di lui, sono venuta qui per Rachel.

Galilee scoppiò a ridere; o almeno ci provò perché la sua gola era troppo riarsa.

Cosa c’è di tanto divertente?, volle sapere Cesaria.

Galilee afferrò la bottiglia di brandy che era rotolata verso il parapetto e bevve un lungo sorso. “L’idea che tu possa fare qualcosa per qualcuno”, rispose.

Cesaria ignorò quella provocazione. E un comportamento che non ti fa onore. Voltare le spalle a una donna che ti ama così tanto.

“Da quando in qua ti importa qualcosa di quello che prova un essere umano?”

Forse sto diventando sentimentale con l’età. Hai trovato una donna straordinaria. E che cosa fai? Cerchi di ucciderti. Comincio a perdere le speranze per te. Aveva abbassato la voce nel pronunciare quelle ultime parole, e le assi della Samarcanda furono percorse da un tremito. Comincio davvero a perdere le speranze per te.

“Fai pure”, replicò Galilee. “Non me ne frega un cazzo. Vattene e lasciami morire.” Fece un gesto con la mano come per allontanarla da sé e tornò ad abbassare la testa, premendo il volto contro le assi del ponte. Non la stava più guardando, ma sapeva che non se n’era andata. Sentiva le emanazioni del potere di Cesaria che lo sfioravano, sottili e ritmiche. Benché sua madre fosse solo una visione, lì, aveva portato con sé comunque una parte della sua autorità fisica.

“Che cosa stai aspettando?” continuò lui senza alzare la testa. Non lo so esattamente, rispose lei. Forse spero ancora che tu riesca a ricordarti chi sei.

“Io so chi sono…” ringhiò Galilee.

ALLORA ALZA LA TESTA. La barca venne scossa dalla prua alla poppa quando Cesaria pronunciò quelle parole; i pesci nelle profondità dell’oceano si agitarono frenetici. Ma Galilee non si lasciò impressionare; o almeno, non obbedì. Rimase dov’era, a faccia in giù.

Sei l’ombra di te stesso, gli disse lei.

“Senza dubbio”, mormorò Galilee.

Sei solo un egoista, testardo…

“Senza dubbio”, ripeté lui. “Sono il peggior pezzo di merda che abbia mai galleggiato sull’oceano. Adesso, per favore, vuoi lasciarmi in pace?

La barca tremò di nuovo anche se non con la stessa violenza di prima. Vi fu qualche istante di silenzio. Alla fine, Galilee lanciò un’occhiata obliqua a Cesaria. “Hai molti altri figli, perché non vai a tormentare loro?”

Perché non contano quanto te, per me, rispose lei. E lo sai. Maddox è un mezzosangue, Luman è pazzo e Marietta e Zabrina… scosse la testa. Be’, nessuno di loro è diventato ciò che avrei voluto.

Galilee sollevò appena la testa. “Povera mamma. Che delusione siamo stati per te. Tu volevi la perfezione e guarda invece cos’hai ottenuto.” Si mise a sedere. “Naturalmente, niente di tutto questo è colpa tua, giusto? Non ti si può rimproverare nulla.”

Se fossi innocente, non sarei qui, disse lei. Ho commesso i miei errori, soprattutto con te. Tu sei stato il primo e quindi ti ho viziato. Ti ho permesso di fare qualsiasi cosa. Ti ho amato troppo.

“Tu mi hai amato troppo?

Sì! Troppo! Non sono riuscita a capire che razza di mostro stavi diventando.

“E adesso sarei un mostro?”

So che cos’hai fatto in tutti questi anni…

“Non sai nemmeno la metà delle cose che ho fatto. C’è più sangue innocente sulle mie mani…”

Non mi importa di questo! È il modo in cui hai buttato via il tuo tempo che mi sconvolge.

“E cos’avrei dovuto fare, invece? Allevare cavalli?”

Tuo padre non c’entra niente…

“Sì, invece, c’entra eccome.” Galilee allungò una mano e si afferrò a quel che restava dell’albero maestro per alzarsi in piedi. “È lui quello che ti ha veramente delusa. Questi sono solo gli strascichi della vostra crisi.”

Questa volta fu Cesaria a distogliere lo sguardo.

“Ho toccato un nervo scoperto?” chiese lui. Cesaria non rispose. “È così, vero?”

Qualunque cosa sia successa tra tuo padre e me, adesso è finita. Dio solo sa quanto lo amavo e quanto avrei voluto renderlo felice.

“Be’, non ci sei riuscita.”

Lo fissò, gli occhi ridotti a due fessure. Galilee era certo che la rabbia di sua madre avrebbe fatto tremare nuovamente l’imbarcazione, ma si sbagliava. Quando Cesaria rispose, la sua voce era dolce, quasi soffocata dal rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo.

È vero, non ci sono riuscita… e ho pagato per il mio fallimento con anni di solitudine. Anni in cui avrei voluto che il mio primogenito mi fosse di qualche conforto.

“Tu mi hai allontanato, madre. Tu mi hai detto che mi avresti ucciso, se avessi osato rimettere piede all’Enfant.”

Non ho mai detto niente del genere.

“Oh sì, invece. Chiedilo a Marietta.”

Come se Marietta fosse affidabile. È testarda quanto te. Avrei dovuto strapparvi dal grembo con le mie stesse mani.

“Oh, Cristo, mamma, non il tuo solito discorso sul grembo! L’hai già fatto mille volte. Tu ti pentì di avermi messo al mondo, io mi pento di essere nato. Dove ci porta tutto questo?”

Dove ci porta sempre, rispose Cesaria dopo un attimo, ad azzannarci a vicenda. Sospirò, e il mare rabbrividì. Mi rendo conto che sto solo sprecando il mio tempo. Non capirai mai. E forse è meglio così. Hai già causato fin troppe sofferenze…

“Pensavo che non ti importasse del sangue che ho versato.”

Non è del sangue versato che sto parlando. E dei cuori spezzati. Fece una pausa, accarezzandosi le labbra con la punta delle dita. Rachel si merita qualcuno che si occupi di lei, che stia con lei fino alla fine. E tu non puoi farlo. Tu sei solo chiacchiere. Proprio come tuo padre.

Galilee non disse niente. Era stata Cesaria questa volta a toccare un nervo scoperto. Lei si accorse di ciò che aveva fatto e decise di usare quel commento come battuta conclusiva della loro discussione.

Allora ti lascio al tuo martirio, disse, voltandosi. La sua immagine che fino a quel momento era stata quasi solida tremolò come una vela strappata. Poche folate di vento e sarebbe stata portata via.

“Aspetta”, la chiamò Galilee.

L’immagine di Cesaria continuò a palpitare, ma i suoi occhi si fissarono sul figlio come chiodi. Galilee lo sapeva: nell’istante in cui lei avesse distolto lo sguardo, sarebbe scomparsa.

Cosa c’è?

“Se anche volessi tornare da lei…”

Sì?

“… non ho più i mezzi per farlo. Ho distrutto tutti gli strumenti di bordo.”

Non hai tenuto nemmeno un gommone di salvataggio?

“Non avevo in programma di cambiare idea.”

Cesaria sollevò di mento di qualche centimetro, e guardò Galilee dall’alto in basso, imperiosa. E adesso sì?

Galilee non riusciva più a sopportare quegli occhi penetranti. Fissò le assi del ponte. “Immagino… che se potessi…” mormorò, “mi piacerebbe rivedere Rachel…”

Ti sta aspettando a meno di seicento miglia da qui.

“Seicento?”

Sull’isola.

“E cosa ci fa lì?”

Le ho detto io di andarci. Le ho promesso che avrei fatto del mio meglio per riportarti da lei.

“E come intenderesti farlo?”

Non sono certa di potercela fare. Ma posso provarci. Se fallisco, annegherai. Dopotutto eri già pronto per questo. Galilee le rivolse un’occhiata preoccupata. Non sei più così pronto adesso, vero?

“No”, ammise lui.

Vorresti vivere.

“Sì… suppongo di sì…”

Ma, Atva…

Era la prima volta dall’inizio di quella conversazione che Cesaria lo chiamava col nome con cui era stato battezzato; e proprio per questo, ciò che seguì sembrò un editto.

Se ti salverò e tu ti stancherai di lei e la lascerai…

“Non la lascerò.”

Sto dicendo che se lo farai e io verrò a saperlo, Atva, ti giuro che ti troverò e ti riporterò alla spiaggia dove ti abbiamo battezzato e ti affogherò con le mie stesse mani. Sono stata chiara? Pronunciò quelle parole senza grande drammaticità, come se stesse esponendo un semplice dato di fatto.

“Sei stata chiarissima.”

E non lo farò per Rachel, visto che non sento un grande affetto per lei. È solo una sciocca a provare quello che prova per te, ma non ti permetterò di lasciare che un’altra anima muoia per amor tuo. So come ci si sente e preferirei uccidere il mio stesso figlio che permettergli di ferire ancora un altro cuore.

Galilee allargò le braccia, i palmi rivolti all’insù, come un santo pronto ad arrendersi. “Che cosa devo fare?”

Preparati…

“Per cosa?”

Scatenerò una tempesta, rispose Cesaria, che riporterà quel che resta della tua barca verso le isole.

“La Samarcanda non può sopravvivere a una tempesta”, l’avvertì Galilee.

Hai un’idea migliore?

“No”, rispose lui.

Allora sta’ zitto e sii grato per questa opportunità.

“Non riesci mai a controllare le tue forze quando fai cose del genere, mamma.”

Be’, ormai è troppo tardi, ribatté Cesaria. Galilee sentiva già il vento soffiare con nuovo vigore.

Sollevò lo sguardo. Le nuvole sopra la Samarcanda stavano vorticando follemente, come rimescolate da una mano invisibile. Le stelle che erano appena apparse furono coperte bruscamente.

Galilee sentì il sangue scorrergli più in fretta nelle vene; chiaramente, l’energia che Cesaria stava usando per manipolare gli elementi stava agendo anche su di lui.

La Samarcanda si inclinò su un lato, colpita da una violenta ondata, e le assi del ponte e dello scafo scricchiolarono minacciosamente. Galilee sentì un pizzicore alla base del cranio e una morsa serrargli lo stomaco. Conosceva quella sensazione anche se erano trascorsi molti, molti anni dall’ultima volta che l’aveva provata. Aveva paura.

Ma non gli sfuggì l’ironia di quella situazione. Mezz’ora prima si era rassegnato alla morte. Non solo rassegnato: era stato persino felice dell’avvicinarsi della fine. Ma Cesaria aveva cambiato tutto. Gli aveva dato una nuova speranza, accidenti a lei. E adesso che Galilee voleva veramente tornare dalla sua Rachel, la prospettiva della morte, che fino a qualche minuto prima gli era parsa quasi confortante, adesso lo spaventava.

Cesaria si accorse del disagio del figlio. Lo chiamò. Vieni qui, prendi un po’ della mia energia.

“Cosa?”

Avrai bisogno di tutta la forza possibile nelle prossime ore. Usa la mia.

Cesaria era un vero spettacolo, là, sulla prua, le braccia aperte per accoglierlo, il corpo — illuminato dal chiarore incerto delle lampade — che luccicava contro il cielo assassino.

Fai in fretta, Atva!, disse alzando la voce per farsi sentire al di sopra del fragore del vento che frustava le onde. Non posso restare qui ancora molto a lungo.

Galilee non se lo fece ripetere due volte. Attraversò il ponte barcollando e si protese verso di lei per afferrarle la mano.

Lei gli aveva promesso forza e fu esattamente ciò che Galilee ebbe, ma in un modo che gli fece sospettare che sua madre avesse cambiato idea e avesse deciso di ucciderlo. Ebbe l’impressione che il midollo osseo gli stesse prendendo fuoco — un calore profondo e terribile che scaturiva dal centro delle sue membra e si allargava attraverso nervi e cartilagini fino a raggiungergli la pelle. Non lo sentì solamente, lo vide; o almeno i suoi occhi credettero di scorgere una luminescenza nella carne, blu e gialla, che si propagava nel corpo partendo dallo stomaco; che scorreva nelle membra esauste, ravvivandole con il suo passaggio. Ma non vide solo questo. Il bagliore gli risalì fino alla testa, fluendogli attorno al cranio come vino che trabocca da una coppa, e in quel momento vide sua madre in un luogo diverso: nella sua camera, nella casa che Jefferson aveva costruito per lei, sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi. Zelim era ai piedi del letto — il leale Zelim che aveva odiato Galilee di un odio puro e feroce — il capo chino come se fosse in preghiera o in meditazione. Le finestre erano aperte e nella stanza erano entrate le falene. Non una decina: migliaia, decine di migliaia. Erano sulle pareti e sul letto e sui vestiti, sulle mani e sul volto di Cesaria. Erano anche sulla testa rasata di Zelim.

Quella visione domestica fu breve e venne spazzata via in pochi secondi da qualcosa di ancora più strano. L’agitazione delle falene crebbe e l’oscurità intermittente delle loro ali svelò la scena dal soffitto al pavimento. L’unica forma ancora visibile era quella di Cesaria che ora non giaceva più sul letto ma sospesa sopra tenebre senza limiti.

Galilee provò un senso di solitudine improvviso e penetrante: qualsiasi cosa fosse quel vuoto — reale o immaginario — voleva allontanarsene.

“Madre…” mormorò.

La visione non lo abbandonò e il suo sguardo fluttuò incerto sopra il corpo di Cesaria, come se da un momento all’altro sua madre e lui avessero potuto perdere la loro capacità di levitare e precipitare nel nulla.

Chiamò di nuovo Cesaria e in quel momento la forma davanti a lui luccicò e comparve la terza e ultima visione. Non fu l’oscurità a cambiare ma Cesaria. Le vesti che l’avvolgevano si annerirono, marcirono e le si staccarono di dosso. Sotto non era nuda; o almeno gli occhi di Galilee non ebbero l’opportunità di vederla in quello stato. Era sciolta, come fatta di lava; la sua umanità, o il suo aspetto umano, rifluiva nel vuoto, abbandonandola, tracciando scie luminose. Galilee vide il volto di Cesaria sciogliersi nella luce; vide i suoi occhi sgranati e colmi di gioia; vide il suo cuore ardente cadere come una stella, rischiarando l’abisso.

In quello stesso istante di estasi, la solitudine lo abbandonò. La paura che aveva provato mentre era sospeso su quel nulla, d’improvviso gli parve ridicola. Come avrebbe mai potuto essere solo in un luogo che condivideva con un’anima così ricca di prodigi? Lei era luce! E il buio era la sua ombra, il suo compagno; erano amanti, lei e il buio, uniti in un matrimonio di assoluti. E, con quella rivelazione, la visione svanì e Galilee si ritrovò sul ponte della Samarcanda.

Cesaria era scomparsa. Galilee non aveva modo di sapere se avesse ritirato il suo spirito in un luogo di riposo — la camera da letto dove l’aveva vista, forse — per lo sfinimento, o se semplicemente se ne fosse andata perché aveva finito con lui e non aveva più niente da dirgli. E lui non aveva il tempo di riflettere su quella domanda. La tempesta evocata da Cesaria lo aveva investito con tutta la sua furia. Le onde erano alte quanto l’albero maestro, se solo avesse avuto ancora un albero maestro. E i venti erano così forti che avrebbero potuto fargli a brandelli le vele, se avesse avuto ancora le vele. Lui non aveva niente, solo le sue membra non più devastate dalle privazioni, la sua volontà e lo scafo malridotto della Samarcanda. Ma sarebbe stato abbastanza. Gettò indietro la testa, pieno di feroce esultanza, e gridò alle nubi impetuose:

“RACHEL! ASPETTAMI!”

Poi cadde in ginocchio e pregò suo padre che gli facesse superare indenne la tempesta che sua madre aveva creato.

Nove

1

Qualche ora fa c’è stato un gran trambusto in casa; risate, prima di tutto. L’Enfant non sente ridere spesso da molto tempo a questa parte. Mi sono alzato dalla scrivania e sono andato a vedere quale fosse la causa di tanta allegria e, in corridoio, ho incontrato Marietta che teneva per mano una donna in jeans e T-shirt. Le risate che avevo sentito erano ancora sui loro volti.

“Eddie!” ha esclamato mia sorella. “Stavamo venendo a salutarti.”

“Questa dev’essere Alice”, ho detto.

“Sì”, ha replicato Marietta, raggiante e orgogliosa.

Aveva le sue buone ragioni per esserlo. La ragazza era snella e graziosa, minuta e col seno piccolo. A differenza di Marietta che usa in abbondanza kohl e lucidalabbra, Alice non aveva nemmeno un’ombra di trucco. Le sue ciglia erano bionde come i capelli, e il volto, di un candore latteo, era spruzzato di pallide efelidi. Questo non significa che avesse un aspetto insipido. C’era una fierezza nei suoi occhi grigi che faceva di lei la compagna perfetta per mia sorella. Quella non era una donna che avrebbe mai preso ordini da nessuno. La sua stretta di mano era decisa e vigorosa.

“Eddie è lo scrittore di famiglia”, ha esordito Marietta orgogliosamente.

“Suona bene”, ho detto io.

“Che cosa scrivi?” mi ha chiesto Alice.

“Sto scrivendo la storia della famiglia Barbarossa.”

“E ci sarai anche tu”, ha aggiunto Marietta.

“Sul serio?”

“Certo”, ha detto Marietta. Poi, rivolgendosi a me: “Ci sarà anche lei nel libro, vero?”

“Penso di sì”, ho risposto. “Se davvero entrerà a far parte della nostra famiglia.”

“Oh, ci sposeremo”, ha detto Alice, appoggiando dolcemente la testa sulla spalla di Marietta. “Non ho intenzione di lasciarmela scappare. Mai.”

“Voglio portarla di sopra”, ha aggiunto Marietta. “Voglio presentarla alla mamma.”

“Non penso che sia una buona idea in questo momento”, le ho fatto osservare. “Ha viaggiato molto ed è esausta.”

“Non importa, tesoro”, ha mormorato Alice a Marietta. “Tra non molto sarò sempre qui.”

“Allora voi due volete vivere qui all’Enfant?”

“Certo”, ha risposto mia sorella, accarezzando il volto di Alice col dorso della mano. Alice era in estasi. Ha chiuso gli occhi con aria languida, premendo il viso contro la curva del collo di Marietta. “Te l’avevo detto, Eddie”, ha continuato Marietta. “È una cosa seria. È lei la donna della mia vita… non ci sono dubbi.”

Non ho potuto fare a meno di ripensare alla conversazione tra Galilee e Cesaria sul ponte della Samarcanda; di ripensare alla sua promessa di fare di Rachel la sola signora del suo cuore. Era solo una coincidenza, o c’era un disegno in tutto questo? Proprio all’inizio della guerra, proprio quando lo stesso futuro della nostra famiglia è messo in dubbio, due dei suoi componenti rinunciano a un passato promiscuo e dichiarano di aver trovato le loro anime gemelle.

Comunque io, Marietta e Alice abbiamo chiacchierato piacevolmente ancora per un po’. Poi mia sorella ha detto di voler portare Alice a visitare le stalle e mi ha proposto di unirmi a loro. Ho declinato il suo invito. Sono stato tentato di chiedere a Marietta se fosse sicura che una visita alle stalle fosse una buona idea ma ho preferito non dire niente. Se Alice aveva davvero intenzione di trasferirsi all’Enfant, prima o poi avrebbe dovuto conoscere la storia della casa e di coloro che vi avevano vissuto. Una visita alle stalle avrebbe fatto sorgere in Alice delle domande più che lecite: perché un posto così magnifico era deserto? Perché ospitava una tomba? Ma forse era proprio quello lo scopo di Marietta. Dalle reazioni di Alice avrebbe potuto capire fino a che punto la sua ragazza fosse pronta a conoscere i nostri segreti più oscuri. Se non fosse rimasta turbata da quel luogo, allora forse mia sorella le avrebbe raccontato ogni cosa. Se invece si fosse dimostrata impressionabile, Marietta avrebbe centellinato le informazioni sulla nostra famiglia in modo da non spaventarla ulteriormente.

Comunque, ci siamo salutati e io sono tornato nel mio studio per cominciare a scrivere il prossimo capitolo che tratterà dei preparativi per il funerale di Cadmus Geary. Ma non riuscivo a trovare le parole giuste. Qualcosa mi stava distraendo. Ho posato la penna sulla scrivania, mi sono appoggiato allo schienale e ho cercato di capire quale fosse il problema. Non ho dovuto interrogarmi a lungo. Ero preoccupato per Marietta e Alice. Ho guardato l’orologio. Era passata quasi un’ora da quando si erano incamminate verso le stalle. Non avrebbero dovuto essere già tornate, ormai? Forse era così e non le avevo sentite rientrare. Ho deciso di andare a cercarle; non sarei comunque riuscito a lavorare prima di essermi tranquillizzato sul loro conto.

2

Era sera inoltrata, e in cucina ho trovato Dwight seduto a guardare la piccola televisione in bianco e nero. Aveva visto Marietta per caso?, gli ho chiesto. Lui mi ha risposto di no; poi — accorgendosi della mia apprensione — mi ha domandato se ci fosse qualche problema. Io gli ho spiegato che Marietta aveva un’ospite e che insieme erano andate a visitare le stalle. Dwight è un uomo intelligente; non c’è stato bisogno che gli dicessi altro. Si è alzato, ha preso la giacca e ha chiesto:

“Vuole che vada a vedere se va tutto bene?”

“Potrebbero anche essere già tornate”, ho replicato. Lui è andato a controllare. È tornato dopo un paio di minuti con una torcia elettrica in mano e mi ha riferito che non c’era traccia di Marietta in casa. Lei e Alice dovevano essere ancora fuori.

Siamo usciti; la torcia elettrica ci è stata di grande aiuto. Era una notte lugubre; l’aria era fredda e opprimente.

“Probabilmente è solo una perdita di tempo”, ho detto a Dwight, mentre ci dirigevamo verso il fìtto gruppo di magnolie e cespugli di azalee che nascondono le stalle. Speravo di avere ragione, tuttavia non ero molto ottimista. Il senso di disagio che mi aveva fatto alzare dalla mia scrivania era peggiorato. I miei respiri erano più rapidi e affannosi; ero pronto al peggio anche se non riuscivo a immaginare che cosa fosse il peggio.

“Sei armato?” ho chiesto a Dwight.

“Porto sempre con me una pistola”, ha risposto lui. “E lei?”

Ho estratto la Griswold e Gunnison. Lui l’ha illuminata con il fascio di luce della torcia.

“Mio Dio”, ha esclamato. “Ma è un pezzo da museo.”

“Luman mi ha detto che funziona.”

“Spero che sapesse di cosa stava parlando.”

A giudicare dall’espressione di Dwight, l’atmosfera stava innervosendo anche lui. Mi sono sentito in colpa. Lo avevo trascinato io in quella ricerca, dopotutto.

“Passami la torcia”, gli ho detto. “Faccio strada io.”

Lui non ha fatto obiezioni. Ho preso la torcia, l’ho puntata sui cespugli davanti a noi e abbiamo ricominciato a camminare.

Non è stato un lungo tragitto e quando siamo usciti dalla vegetazione, le stalle erano là, a una cinquantina di metri da noi, le pareti di pietra chiara visibili anche nell’oscurità. Come ho già detto, è un luogo notevole; una costruzione elegante di più o meno duecento metri quadrati, che si sarebbe potuta scambiare per un tempio classico, con le sue piccole colonne e il suo portico (decorato, anche se noi non potevamo vederlo nell’oscurità, con fregi di cavalieri e cavalli selvaggi). Nei suoi giorni di splendore, quello era stato un luogo illuminato dal sole e rallegrato dal chiasso degli animali. Ora, avvolto dalle ombre, sembrava un gigantesco mausoleo.

Io e Dwight ci siamo fermati davanti all’entrata. Ho puntato il fascio luminoso sulle enormi porte che erano spalancate. La luce ha faticato a spingersi oltre la soglia.

“Marietta?” ho chiamato. (Avrei voluto gridare ma avevo paura di disturbare le forze che potevano trovarsi lì.)

All’inizio non ho ottenuto alcuna risposta così l’ho chiamata di nuovo. E questa volta ho sentito qualcosa. Era il rumore di qualcuno che si muoveva dentro il tempio, seguito da un indistinto chi è? Rassicurato nel sentire la voce di Marietta ho varcato la soglia delle stalle.

Anche dopo tanti anni, quel luogo tratteneva ancora l’odore dei suoi occupanti: l’aroma maturo del sudore di cavallo e della carne di cavallo e degli escrementi di cavallo. Una volta quell’edifìcio aveva conosciuto una vita intensa, un’energia fatta di zoccoli scalpitanti, folte criniere e muscoli potenti.

Potevo vedere Marietta, ora. Stava venendo verso di me e si stava riabbottonando l’abito. Non c’erano dubbi su ciò che lei e Alice avevano fatto: aveva il volto arrossato, la bocca gonfia di baci.

“Dov’è Alice?” le ho chiesto.

“Sta dormendo”, ha risposto lei. “È sfinita, povera bambina. Cosa ci fai qui?”

Mi sono sentito in imbarazzo; sono certo che Marietta sapesse che spesso avevo soddisfatto i miei istinti voyeuristici con lei, e probabilmente adesso sospettava che lo avessi fatto di nuovo. Non ho perso tempo a dichiararmi innocente; mi sono limitato a domandare: “State bene?”

“Benissimo”, ha risposto mia sorella, chiaramente stupita. “Chi c’è lì fuori con te?”

“Dwight”, ha detto lui dall’oscurità alle mie spalle.

“Ehi, Dwight, che succede?” ha voluto sapere Marietta.

“Niente di importante”, ha risposto lui.

“Mi dispiace di avervi disturbate”, ho detto.

“Nessun problema”, ha replicato Marietta. “Ormai è ora di tornare a casa.”

Mentre parlava, il mio sguardo si è spostato sulle tenebre dietro di lei. Nonostante quel tranquillo scambio di battute, c’era ancora qualcosa che mi disturbava, che mi costringeva a scrutare l’oscurità.

“Cosa c’è, Eddie?” mi ha chiesto.

Ho scosso la testa. “Non lo so. Forse sono solo i ricordi.”

“Entra pure, se vuoi”, ha detto, facendosi da parte. “Sarai deluso di sapere che Alice è più che presentabile.” Passandole accanto, le ho lanciato uno sguardo irritato, poi mi sono inoltrato nelle stalle, lasciandomi alle spalle mia sorella e Dwight. La sensazione che ci fosse una presenza lì si faceva sempre più intensa. Ho fatto oscillare il fascio di luce della torcia avanti e indietro: sul pavimento di marmo, con i suoi canaletti di scolo; sui box, con le loro porte intarsiate; sulle basse volte del soffitto. Era tutto immobile. Non riuscivo nemmeno a scorgere Alice. Avanzando cautamente, ho resistito all’impulso di voltarmi a guardare Marietta e Dwight per trarre conforto dalla loro presenza.

Il punto in cui giaceva il corpo di Nicodemus insieme a tutti gli oggetti con cui aveva chiesto di essere sepolto (i suoi falli di giada; la maschera d’oro bianco che indossava durante le sue estasi; il mandolino che aveva suonato come un angelo) era al centro dell’edificio, a una ventina di metri da dove mi trovavo ora. Lì il pavimento di marmo era stato tolto e non era stato più risistemato, nemmeno dopo la sepoltura. Su quella terra erano cresciuti funghi, una quantità soprannaturale di funghi. Nell’oscurità ho intravisto le loro sagome pallide; a centinaia. Altri falli in un certo senso. L’ultima beffa di mio padre.

Un movimento alla mia destra; mi sono fermato di colpo e mi sono guardato attorno. Era Alice che si era svegliata e ora si stava alzando.

“Cosa succede?” ha domandato. “Perché fa così freddo, tesoro?”

Non me n’ero accorto fino a quel momento, ma aveva ragione: potevo vedere il fiato condensarsi davanti alla mia bocca.

“Non sono Marietta, sono Maddox”, le ho detto.

“Che cosa ci fai qui?”

“Va tutto bene. Sono solo venuto a…”

Non ho potuto finire la frase. A interrompermi era stato un suono che proveniva dall’oscurità oltre la tomba di mio padre. Un rumore di zoccoli sul marmo.

“Oh, mio Dio…” ha mormorato Alice.

Dalle ombre stava emergendo un cavallo, e con gli zoccoli produceva un suono che quel luogo non sentiva da quasi un secolo e mezzo. E non era un cavallo qualsiasi. Era Dumuzzi. Anche da quella distanza, anche in quella debole luce, l’ho riconosciuto subito. Non era mai esistito un animale così splendido e così sicuro del proprio splendore. Il suo passo fiero mentre si avvicinava, scintille che si sprigionavano dal marmo sotto i suoi zoccoli, illuminavano la sua anatomia facendo ardere i suoi occhi. Tutte le ferite che Cesaria gli aveva inflitto — e anche se non avevo assistito al massacro, sono certo che mia madre avesse riservato a lui le peggiori crudeltà — erano guarite. Dumuzzi era di nuovo la perfezione.

In qualche modo era stato resuscitato dalla fossa in cui era stato gettato il suo corpo ed era tornato gloriosamente in vita.

Non avevo dubbi su chi fosse l’artefice di quel prodigio. Così come era stata la mano di Cesaria Yaos a massacrare Dumuzzi, così era stata la mano di suo marito, mio padre, a resuscitarlo. Non c’era niente di più certo al mondo.

In vita mia non avevo mai provato sentimenti così contrastanti. La presenza di Dumuzzi davanti a me — indiscutibile, irresistibile — era la prova di una presenza più grande in quel luogo malinconico. Nicodemus era lì: o almeno, la parte di lui che aveva perforato il velo tra questo mondo e l’altro. Come dovevo sentirmi? Dovevo avere paura? Sì, in una certa misura sì; la paura primitiva che inevitabilmente i vivi provano quando gli spiriti dei morti ritornano. Dovevo provare timore reverenziale? Assolutamente sì; non avevo mai avuto una dimostrazione più certa della divinità di mio padre. Dovevo provare gratitudine? Sì, anche questo. Nonostante i tremiti che mi attraversavano il ventre e le gambe, ero grato al mio istinto per avermi condotto lì: grato per l’opportunità di assistere a quel presagio del ritorno di Nicodemus.

Mi sono voltato a guardare Alice, pensando di dirle di allontanarsi, ma Marietta ci aveva raggiunti e la stava stringendo tra le braccia. Alice fissava Dumuzzi ma Marietta fissava me. Aveva le lacrime agli occhi.

Nel frattempo Dumuzzi aveva raggiunto il limitare della tomba di mio padre e ora stava colpendo con gli zoccoli la terra che copriva il cadavere di Nicodemus. I funghi sono stati spappolati, ridotti in pezzi che a loro volta sono stati scagliali in tutte le direzioni.

Dopo meno di un minuto, il cavallo si è fatto più calmo e si è fermato, la testa inclinata in modo da poterci guardare.

“Dumuzzi?” ho detto.

Nel sentirsi chiamare per nome, il cavallo ha soffiato dalle narici.

“Conosci questo animale?” ha chiesto Marietta.

“Era il preferito di nostro padre.”

“E da dove diavolo è arrivato?”

“È tornato dal mondo dei morti.”

“È bellissimo”, ha mormorato Alice, la voce colma di meraviglia. Sembrava non aver nemmeno sentito lo scambio di battute tra me e mia sorella, tanto era rapita da quello spettacolo. Marietta l’ha presa per un braccio.

“Alice”, ha detto con fermezza. “Dobbiamo andare. Ora.

Ha cominciato a trascinare Alice verso la porta, ma in quel momento Dumuzzi si è impennato, ha emesso un suono così acuto e penetrante da farci sobbalzare e si è lanciato contro di noi. La vista di quella carica improvvisa — la criniera al vento, gli zoccoli sollevati — mi ha paralizzato. Quella era stata l’ultima cosa che avevo visto prima di cadere sotto di lui e sotto gli altri cavalli tanti anni prima: quel ricordo ha impietrito le mie membra. Se non fosse stato per Dwight che mi ha trascinato al riparo, la storia avrebbe potuto ripetersi. Non credo che Dumuzzi avesse cattive intenzioni — a differenza della prima volta — credo che volesse soltanto uscire dalle stalle. Ma senza dubbio mi avrebbe travolto, spezzandomi le ossa, se fossi rimasto sulla sua strada.

Non sono riuscito a vederlo lasciare l’edificio, ero troppo occupato a mettermi in salvo. Quando sono riuscito a rialzarmi, il cavallo era già scomparso. Ho sentito il rumore dei suoi zoccoli che si allontanava; poi solo il silenzio, infranto dai nostri respiri affannosi.

“Penso che dovremmo tornare a casa”, ha detto Marietta. “Ho avuto abbastanza emozioni per stanotte.”


Come sono cambiate le cose! Non ho forse scritto una volta che l’idea di trovarmi nei suoi paraggi, se Nicodemus fosse tornato in vita, era così terrificante che avrei preferito morire? Ora che ho avuto una prova indiscutibile della sua presenza, provo un’euforia perversa. Questa famiglia è stata lacerata per troppo tempo; è arrivato il momento di riunirci. Ci sono ferite da guarire, conflitti da sanare, domande a cui trovare una risposta.

Voglio sapere, per esempio, che cosa aveva detto Chiyojo a mio padre poco prima di morire. Prima di perdere conoscenza avevo visto Nicodemus — a sua volta ferito orribilmente — chino su mia moglie mentre ascoltava le sue ultime parole. Che cosa gli aveva detto? Che lo amava? Che lo avrebbe aspettato? Me lo sono chiesto talmente tante volte nel corso degli anni. E forse adesso potrò avere una risposta dal solo uomo che conosce la verità.

E non è tutto. Voglio che Nicodemus mi dica che cosa aveva in mente quando mi aveva creato. Ero stato un incidente? Un sottoprodotto casuale del suo desiderio? O aveva generato consapevolmente un mezzosangue, perché aveva in mente un qualche compito che solo una creatura così infelice avrebbe potuto svolgere?

Se potessi ottenere una risposta a queste domande, non sarei forse l’uomo più felice del mondo? È questo che rende la prospettiva del ritorno di Nicodemus più affascinante che spaventosa. L’opportunità di affrontare l’uomo che ha creato la mia anima e porgli la più antica delle domande: Padre, padre, perché sono nato?

Dieci

Loretta aveva cominciato a stilare la lista degli invitati al funerale di Cadmus un anno prima, scribacchiando i nomi in fondo al suo diario ogni volta che gliene veniva in mente qualcuno. Si rendeva conto che c’era una certa morbosità in ciò che stava facendo, tuttavia lei era sempre stata una creatura pragmatica. Quella lista sarebbe servita prima o poi, e non c’era niente di male nel prepararsi a un evento inevitabile, anche se Cadmus fosse vissuto fino a centocinque anni.

Naturalmente, ciò che era accaduto la notte in cui era morto l’aveva sconvolta. Ma Loretta aveva sempre saputo che la verità sui Barbarossa, se mai l’avesse scoperta, l’avrebbe sbalordita; e così era stato. Non che pensasse di aver imparato tutto ciò che c’era da sapere, quella notte. Gli avvenimenti a cui aveva assistito erano solo una minuscola tessera di un mosaico che probabilmente non avrebbe mai potuto ammirare nella sua completezza. Forse era meglio così. Lo stesso pragmatismo tipico del New England, che le aveva permesso di compilare quella lista prima della morte di suo marito e di fare piani per rafforzare il suo potere, la rendeva fragile di fronte a questioni che sfuggivano a ogni facile spiegazione. La vita dello spirito era una cosa, la vita della carne un’altra. Quando le due si confondevano — quando l’invisibile aspirava alla solidità e il dramma dell’anima veniva messo in scena davanti ai suoi occhi — Loretta si sentiva profondamente frustrata. Il fatto che nel mondo operassero forze simili a quelle che aveva visto al palazzo non la rassicurava per niente. Non c’era alcun conforto metafisico in quella consapevolezza. Ma era una realtà, e la sua indole le impediva di mentire a se stessa. Aveva visto ciò che aveva visto e col tempo avrebbe dovuto farsene una ragione. Intanto avrebbe finito di compilare la sua lista.


Mitchell andò a trovarla nel tardo pomeriggio. Le chiese se avesse avuto notizie di Rachel.

“Non dalla notte in cui è morto Cadmus”, rispose Loretta.

“Non ti ha telefonato?”

“No.”

“Ne sei proprio sicura? Magari Jocelyn ha preso un messaggio e si è dimenticata di dartelo.”

“Devo dedurre che Rachel è scomparsa un’altra volta?”

“Hai una sigaretta?”

“No. Mitchell, smettila di camminare avanti e indietro e rispondi alla mia domanda.”

Sì, è scomparsa un’altra volta. Ho bisogno di parlare con lei. Non ho ancora… finito… con lei.”

“Be’, forse non ti farà piacere sentirlo, ma può darsi che lei abbia già finito con te. Dimenticala. Hai altre cose a cui pensare, in questo momento. Dobbiamo occuparci della stampa; ci sono un sacco di voci che…”

“Che vadano tutti al diavolo! Non me ne frega niente di quello che pensa la gente. Ho passato tutta la vita a cercare di essere perfetto, ma adesso basta. Voglio soltanto riavere mia moglie! Subito!” Si fermò davanti a Loretta. Era difficile credere che quel volto avesse mai sorriso. “Se sai dove si trova”, continuò, “farai meglio a dirmelo.”

“Altrimenti, Mitchell?”

“Dimmelo.”

“No. Prima finisci quello che volevi dire. Se so dov’è e non te lo dico, cosa farai?” Lo fissò e lui distolse lo sguardo. “Cerca di non fare la fine che ha fatto tuo fratello, Mitchell. Non è questo il modo di comportarsi. Non puoi minacciare le persone quando non ti danno quello che vuoi. Devi persuaderle. Devi farle passare dalla tua parte.”

“Allora ammettiamo che volessi fare quello dici tu… come potrei farti passare dalla mia parte?”

“Be’, potresti cominciare promettendomi che ti farai una doccia. Subito. Non hai un buon odore e hai un aspetto terribile.”

“D’accordo”, disse Mitchell. “Tutto qui? Hai ragione, mi sono lasciato andare. Ma in questo momento mi è difficile pensare a qualcosa che non sia Rachel.”

“Cosa farai quando l’avrai trovata?” domandò Loretta. “Non ha intenzione di ricominciare con te, Mitch.”

“Lo so. Ho rovinato tutto. Le cose non possono tornare come prima ma… lei è ancora mia moglie. Provo ancora qualcosa per lei. Voglio sapere se sta bene. E se non vorrà più vedermi, me ne farò una ragione.”

“Ne sei sicuro?”

Mitchell le rivolse un sorriso smagliante. “Sicuro che ne sono sicuro. Non sto dicendo che sarà facile, ma riuscirò a farmene una ragione.”

“Ascolta, faremo così. Adesso tu te ne vai di sopra a fare una doccia. E intanto io farò un paio di telefonate.”

“Grazie.”

“Se vuoi metterti dei vestiti puliti, chiedi a Jocelyn di portarti una delle camicie di Cadmus. Forse riuscirà anche a trovarti un paio di pantaloni della tua misura.”

“Grazie.”

“Smettila di ringraziarmi, Mitch. Mi fai diventare sospettosa.”


Quando Mitchell se ne fu andato, Loretta si versò un bicchiere di brandy. Poi andò a sedersi davanti al fuoco e rifletté su quanto le aveva detto. Non aveva creduto neanche per un attimo al piccolo spettacolo che aveva inscenato per lei alla fine: tutta quell’allegria forzata era grottesca. Tuttavia non era del tutto convinta che Mitchell fosse una causa persa; con qualche manipolazione sarebbe riuscita ad averlo dalla sua parte. Avrebbe dovuto perdere Rachel, sempre che non l’avesse già persa. Quella donna era troppo ossessionata da Galilee Barbarossa per essere un’alleata affidabile. Se e quando Rachel lo avesse trovato, avrebbero formato una fazione autonoma. E se non l’avesse trovato o se lui l’avesse rifiutata, sarebbe stata così distrutta da diventare un fardello inutile.

Loretta aveva bisogno di qualcuno che lavorasse con lei e, nonostante i dubbi che nutriva circa la sua intelligenza, Mitchell era il candidato più probabile. Per la verità sapeva di non avere molta scelta. Cecil era sempre stato leale ma sarebbe stato pronto a negarle il suo appoggio, se questo si fosse dimostrato economicamente vantaggioso per lui; e Garrison aveva i mezzi per convincerlo. Gli altri membri della famiglia erano troppo lontani dal cuore dei problemi per entrare in gioco in tempo utile. E Loretta non aveva dubbi sul fatto che l’essenza di tutto fosse il tempo. Il suo solo vantaggio al momento era rappresentato dalla sua conoscenza delle metodologie private di Cadmus: il modo in cui aveva calcolato e previsto, fino a un mese prima della sua morte, l’andamento delle sue fortune; gli investimenti che aveva programmato di fare; i segreti e le previsioni che aveva nascosto a tutti, persino a Garrison, ma che verso la fine aveva confidato a lei. A quel vantaggio forse ora avrebbe potuto aggiungere Mitchell: e solo se fosse riuscita a consegnargli la donna che continuava a ossessionarlo.

A quel pensiero, Loretta sentì solamente una punta di rimorso. Anche se ultimamente Rachel aveva cominciato a piacerle, quella donna era tutt’altro che sofisticata e non lo sarebbe mai stata. Si era comportata bene, considerando le sue radici poco promettenti, ma non era mai stata il genere di presenza che Margie avrebbe potuto essere in altre circostanze: non ce l’aveva nel sangue. E alla fine tutto si riduceva a questo: il sangue nelle vene.

Quindi avrebbe sacrificato Rachel per ottenere Mitchell: era un rischio che valeva la pena correre. E lei sapeva esattamente da dove cominciare le sue indagini. Chiamò Jocelyn e le disse di andarle a prendere l’agenda. Jocelyn tornò cinque minuti dopo, scusandosi per averci messo tanto tempo. Benché si sforzasse di mantenere un’apparenza di tranquillità e professionalità, era ancora profondamente turbata; le sue mani erano scosse da continui tremori e la sua espressione faceva pensare che da un momento all’altro potesse scoppiare a piangere.

“Posso fare qualcos’altro per lei?” chiese, porgendole l’agenda.

“Sì, Mitchell…” disse Loretta.

“Gli ho già trovato una camicia”, disse la cameriera, “e stavo andando a cercare un paio di pantaloni. Poi, se non le dispiace, vorrei andare a fare una passeggiata.”

“Certo, vai pure.”

Quando Jocelyn se ne fu andata, Loretta aprì l’agenda, trovò il numero che stava cercando e lo compose.

Niolopua rispose quasi subito.

Undici

Rachel si svegliò all’alba. Gli uccelli cinguettavano allegri attorno alla casa. Quando si alzò, notò che faceva molto freddo così si avvolse in una coperta sbiadita e, con gli occhi ancora assonnati, scese in cucina a prepararsi un tè. Poi uscì in veranda a osservare il giorno che a poco a poco si svelava. Probabilmente sarebbe stata una bella giornata. Le nubi temporalesche si erano spostate a nord-est e il cielo era limpido. Poi si accorse che sull’orizzonte incombeva una tempesta, nuvole che sembravano ancora più scure di quelle che avevano portato la pioggia il giorno prima. Rachel tornò in casa, si versò una tazza di tè e tornò in veranda, dove rimase seduta per una ventina di minuti, mentre il paesaggio davanti a lei prendeva vita. Molti uccelli si posarono sul prato davanti alla casa in cerca di vermi; un cane dal pelo ispido arrivò dalla spiaggia e solo quando si avvicinò ai gradini della veranda Rachel si rese conto che era cieco o quasi. Lo chiamò in tono affettuoso e lui la raggiunse e rimase a farsi accarezzare per un po’.

Quando Rachel ebbe finito il tè, tornò in casa, fece una doccia e si vestì. Decise di recarsi a Hanalei per comprare qualcosa da mangiare e delle sigarette.

Fu un tragitto affascinante, che la portò ad attraversare uno stretto ponte sospeso su una valle di una perfezione paradisiaca: un fiume che serpeggiava tra la vegetazione verde e lussureggiante, ricca di fiori e palme.

Hanalei era un posto tranquillo. Rachel fece la spesa con calma e quando ritornò ad Anahola, carica di sacchetti, scoprì di avere visite. Niolopua sedeva sui gradini, bevendo una birra e fumando una sigaretta. Si alzò e l’aiutò a portare dentro la spesa.

“Come sapevi che ero qui?” domandò lei.

“Ho visto le luci accese ieri sera.”

“Perché non sei venuto a salutarmi?”

“Perché volevo tornare a dirlo alla signora Geary.”

“Non capisco.”

“Tua suocera.”

“Loretta?”

“Sì, Loretta. Mi ha chiamato per sapere se eri qui.”

“Quando?”

“Ieri sera.”

“Così sei venuto a cercarmi.”

“Sì. E ho visto le luci accese. Così l’ho richiamata e le ho detto che eri arrivata qui sana e salva.” Era chiaro dall’espressione del suo viso che anche Niolopua si rendeva conto che c’era qualcosa di strano in tutto questo.

“E lei che cosa ti ha detto?” domandò Rachel.

“Non molto. Mi ha detto di non disturbarti, di non dirti nemmeno che ti avevo vista.”

“E allora perché me lo stai riferendo?”

Niolopua sembrava profondamente a disagio. “Non lo so. Forse volevo sapere che cos’aveva da dire l’altra signora Geary.”

“Non sono più la signora Geary, Niolopua. Sono solo Rachel.”

“D’accordo.”

“Grazie per essere stato così sincero.”

“Loretta non sapeva che saresti venuta, vero?”

“No, non lo sapeva.”

“Cazzo. Mi dispiace. Avrei dovuto prima parlare con te. Non ci ho pensato.”

“Non potevi saperlo”, disse Rachel. “Hai fatto quella che ti sembrava la cosa migliore.” Lui sembrava avvilito nonostante quelle parole rassicuranti. “Vuoi fermarti qui a mangiare qualcosa?”

“Mi piacerebbe, ma devo andare a finire qualche lavoro a casa mia prima che arrivi la tempesta.” Lanciò un’occhiata alla spiaggia oltre la finestra. “Tra poche ore, quella arriverà qui.” Indicò la massa di nubi nere all’orizzonte. “È comparsa dal nulla.” Continuò a fissare le nuvole. “E viene proprio da questa parte.”

“Be’, mi fa piacere sapere che sei dalla mia parte, Niolopua. In questo momento non ho molti amici.”

Lui si voltò a guardarla. “Mi spiace di aver combinato questo casino. Se avessi saputo che volevi essere lasciata in pace…”

“Non sono venuta qui per prendere il sole”, lo interruppe Rachel. “Sono qui perché…” fu lei ora a guardare in direzione del mare “… perché credo che Galilee potrebbe tornare.”

“Chi te lo ha detto?”

“È una lunga storia, e non sono sicura di sapere come raccontarla, adesso. Ho bisogno di rimettere in ordine le idee, prima.”

“E Loretta sa perché sei venuta qui?”

“Non le sarà stato difficile immaginarlo.”

“Se vuoi, puoi venire a stare da me per qualche giorno. Così se Loretta manda qualcuno a cercarti…”

“Non voglio lasciare questa casa”, disse Rachel. “È qui che Galilee si aspetta di trovarmi. Ed è qui che ho intenzione di aspettarlo.”

Dodici

1

Secondo la letteratura che si occupa dell’argomento — molto scarsa in verità — quella di evocare tempeste è un’arte incerta. Le tempeste vivono di vita propria; si gonfiano all’improvviso, nutrendosi del loro stesso potere, come dittatori. Cambiano direzione, divorano, si trasformano. Benché siano soggette a regole comportamentali basate sulla scienza, ci sono così tante variabili in gioco che qualsiasi calcolo è a dir poco approssimativo. La tempesta è una legge a sé stante; niente e nessuno, nemmeno un potere come quello di Cesaria, può controllarla o prevederla una volta che è in movimento.

Tutto questo serve a spiegare perché la turbolenza creata da Cesaria si trasformò in un vero e proprio uragano.

Un’ora dopo la sua scomparsa dal ponte della Samarcanda, la barca era in guai seri. Lo scafo, che aveva affrontato coraggiosamente i peggiori mari del mondo — quello di Capo di Buona Speranza, quello ghiacciato dell’Artico — alla fine cedette e la Samarcanda cominciò a imbarcare acqua. Dato che aveva reso inutilizzabili le pompe quando aveva deciso di suicidarsi, Galilee fece del suo meglio per ributtare l’acqua in mare, ma ben presto si rese conto che era un’impresa impossibile. Ormai la Samarcanda era condannata, ma la domanda era: sarebbe stata fatta a pezzi dalla furia del mare o sarebbe affondata per le troppe falle nello scafo?

Eppure, anche mentre la tempesta la smembrava, asse dopo asse, chiodo dopo chiodo, l’imbarcazione continuava a portarlo verso le isole. Talvolta, quando veniva sollevata da un’onda particolarmente alta e ripida, Galilee riusciva quasi a intravedere la terra. Ma in quel tumulto era impossibile esserne sicuri.

Poi, di colpo, il vento si placò e il diluvio si ridusse a una leggera pioggerellina. Ci fu un breve momento di tregua — forse dieci minuti — in cui la Samarcanda smise di rollare con tanta violenza e Galilee poté valutare l’entità dei danni. C’erano tre grandi spaccature sul lato di tribordo e altre due su quello di babordo; ciò che restava dell’albero maestro e delle vele lacere era stato spazzato via dal ponte ma era ancora attaccato alla barca da un cordone ombelicale di funi e cavi che la faceva sbandare.

Naturalmente la tempesta non si era esaurita. Galilee aveva già vissuto momenti di calma improvvisa come quello: un piccolo squarcio di tranquillità come se la tempesta stesse radunando le forze per l’ultimo, devastante assalto.

Fu proprio così che andò. Ben presto il vento prese a soffiare furiosamente e l’oceano tornò a ingrossarsi, spingendo l’imbarcazione su picchi sempre più alti di acqua rabbiosa per poi scaraventarla in abissi sempre più profondi. La Samarcanda non avrebbe resistito a lungo a quel trattamento. Cominciò a rabbrividire come attraversata da tremori di morte e poi, d’un tratto, si frantumò.

Galilee sentì un terribile schianto quando le assi cedettero alla pressione e la cabina andò in pezzi, mentre giganteschi cuscini di schiuma bianca eruttavano attraverso gli squarci e la spazzavano via sommariamente.

L’acqua non reclamò Galilee fino alla fine. Lui non glielo permise. Si afferrò a un lato della barca mentre si sgretolava attorno a lui, osservando con una sorta di meraviglia la potenza dell’elemento su cui aveva navigato tranquillamente per tanto tempo. Come si impegnava, onda dopo onda, per distruggere ciò che aveva già distrutto, per spezzare le assi e trasformarle in schegge e alla fine risucchiarle nelle sue profondità!

Solo quando non vi furono più meraviglie da ammirare, Galilee lasciò andare la presa sul brandello di barca a cui si era aggrappato e si abbandonò all’acqua. Subito fu spazzato via dal punto in cui era scomparsa la Samarcanda. Il suo corpo non era che un altro detrito tra le onde. Non cercò di resistere alla corrente: sarebbe stato uno sforzo inutile. Il mare lo aveva preso e lo avrebbe lasciato andare solo se lo avesse voluto.

E in quel momento il suo corpo ricordò la prima volta in cui era stato portato via in quel modo: un neonato nella morsa delle onde del Mar Caspio, tanto lontano dalla spiaggia allora, quanto ora desiderava esserle vicino.

2

Sull’isola tutti si stavano preparando all’arrivo della tempesta. I meteorologi non prevedevano grandi danni: quello non era un uragano, era soltanto una perturbazione che le loro carte nautiche e i loro satelliti non erano riusciti a prevedere, ma questo non significava che andasse affrontata con leggerezza. Gli isolani erano già stati presi alla sprovvista in passato; non era mai una buona idea sottovalutare il potenziale di simili condizioni atmosferiche. La tempesta avrebbe potuto strappare tetti, demolire abitazioni, sradicare alberi, allagare strade. Lungo la costa nordorientale, dove si pensava che la tempesta si sarebbe abbattuta, fervevano i preparativi: il bestiame veniva messo al sicuro, i bambini venivano riportati a casa da scuola in anticipo; le finestre inchiodate e i tetti rinforzati.

Più la tempesta si avvicinava, più le stime sulle sue dimensioni diventavano pessimistiche. Si stava comportando in modo assolutamente insolito: invece di diminuire a poco a poco, come i meteorologi avevano previsto, la velocità del vento continuava ad aumentare. Si poterono notare gli effetti sulla spiaggia già dal primo pomeriggio. Gli alberi cominciarono a ondeggiare; raffiche di pioggia si unirono alle folate di vento. Fuori in mare, gli yacht investiti dalle prime avvisaglie della tempesta si affrettarono a cercare un rifugio sicuro. Tre non ci riuscirono. Una delle imbarcazioni venne rovesciata e due membri dell’equipaggio e sette passeggeri dati per dispersi; le altre due riuscirono a sfuggire al disastro solo per un soffio, la più piccola ridotta talmente male che affondò poco dopo aver attraccato nel porto.

Non c’erano dubbi: quella si stava trasformando in una tempesta fuori dal comune.

Tredici

1

Mitchell non volle aspettare un volo di linea per lasciare New York: non appena Loretta lo informò che Rachel si trovava sull’isola, noleggiò un jet privato. Telefonò a Garrison per informarlo di ciò che stava per fare solo mentre si dirigeva all’aeroporto, certo che il fratello non sarebbe stato per niente entusiasta della sua decisione.

“Avevamo detto che ci saremmo occupati insieme di questo tuo piccolo problema”, gli ricordò Garrison.

“Voglio solo andare a riprenderla”, disse Mitchell.

“Aspetta che torni di sua spontanea volontà. E, credimi, tornerà strisciando.”

“E se così non fosse?”

“Fidati di me. Deve concludere le pratiche per il divorzio, prima di tutto. Sa benissimo che deve rispettare le regole, altrimenti non ti caverà un centesimo.”

“A lei non importa dei soldi.”

“Non essere stupido, Mitchell!” gridò Garrison. “A tutti importa dei fottutissimi soldi!” Lasciò trascorrere un istante poi, più calmo, continuò: “Ascoltami, Mitch. Ci sono altri modi per risolvere il problema. Modi puliti, calcolati e tranquilli”.

“Io sono perfettamente tranquillo”, disse Mitchell. “Non ho intenzione di fare niente di stupido. È solo che non voglio che Rachel resti là. Là con lui.”

“Ma non sai nemmeno…”

“Lascia perdere, Garrison. Sto per partire e non c’è altro da aggiungere. Ti chiamerò dall’isola.”


Arrivare a destinazione si dimostrò più arduo di quanto Mitchell avesse previsto. Il jet non aveva ancora cominciato a prepararsi per il decollo, quando il sistema radar dell’aeroporto smise di funzionare, lasciando a terra tutti i voli e rendendo impossibili gli atterraggi per quasi un’ora e mezza. Non c’era niente da fare. A parte sopportare il ritardo.

Quando il sistema finalmente riprese a funzionare, dovettero atterrare molti aerei prima che fosse possibile effettuare i decolli. Prima che il jet potesse alzarsi in volo, Mitchell dovette restare seduto nella sua poltrona di pelle a bere whisky e a respirare aria stantia per altre due ore.

Lo aspettavano ancora dieci ore di viaggio.

2

Quella sera Garrison andò a una riunione per formalizzare gli ultimi dettagli del funerale di Cadmus. L’incontro era presieduto da un uomo che non gli era mai piaciuto molto, un certo Carl Linville che aveva organizzato gli eventi più importanti della vita collettiva della famiglia negli ultimi trent’anni, proprio come suo padre aveva fatto prima di lui. Linville era un uomo dall’aria effeminata con una passione sospetta per le cravatte di seta dalle tinte pastello.

Sembrava sempre sapere quale sarebbe stata la scelta giusta per ogni circostanza, un’abilità che aveva sempre vagamente disgustato Garrison. E in quel momento più che mai: il problema di cosa fosse di buon gusto e cosa no — quali fiori, quali musiche, quali preghiere — gli sembrava del tutto irrilevante. Dovevano solo seppellire il vecchio; niente di più.

Ma tenne per sé quelle considerazioni e permise a Linville di pontificare fino a notte inoltrata. Aveva un pubblico notevole. C’erano Loretta, Jocelyn, e due suoi assistenti. Nessun particolare doveva essere lasciato al caso; gli occhi del mondo sarebbero stati puntati sulla famiglia e Cadmus meritava una cerimonia elegante e professionale.

Di tanto in tanto, Loretta fece qualche commento sulle proposte di Linville. L’unico momento sorprendente della riunione (e il più vicino al dramma) si verificò quando, nel bel mezzo della discussione sull’elenco degli invitati, Loretta offrì la sua lista, informando Linville che probabilmente avrebbe trovato una ventina o una trentina di nomi di persone che non conosceva ma che dovevano essere tutte invitate.

“Posso chiederle di chi si tratta?” chiese Carl.

“Se proprio vuole saperlo”, rispose lei, “molte sono state amanti di Cadmus.”

“Capisco”, disse l’uomo, rimpiangendo di aver posto quella domanda.

“Era un uomo che amava le donne”, aggiunse la vedova, scrollando le spalle. “Lo sanno tutti. E molte di quelle donne lo hanno amato. Hanno il diritto di dirgli addio.”

“Tutto questo è molto… europeo”, commentò Carl.

“E lei pensa che sia sconveniente…”

“Francamente sì.”

“Be’, non m’importa”, ribatté Loretta. “Le inviti.”

“E questi altri nomi?” domandò lui, adesso in tono leggermente più freddo.

“Alcuni sono vecchi soci d’affari di Cadmus. Non sia così nervoso, Carl. Le assicuro che nessuno di loro si presenterà vestito da Coniglio Pasquale. Sanno come ci si comporta ai funerali.”

Vi fu qualche risatina nervosa e la riunione continuò. Ma l’attenzione di Garrison rimase fissa su Loretta. Sembrava diversa quella sera. Non era solo l’abito nero che indossava, anche se quel colore accentuava la precisione del suo trucco. C’era un luccichio nei suoi occhi che non gli piaceva. Come mai aveva quell’aria così soddisfatta? Fu solo quando Linville, verso la fine dell’incontro, accennò alla presenza di Mitchell al funerale e chiese dove si trovasse che Garrison si rese conto della ragione dell’aria compiaciuta di Loretta: era stata lei a mandarlo sull’isola.

Stava rispolverando i suoi vecchi trucchi per manipolare Mitch, per ammorbidirlo, per portarlo dalla sua parte. Non c’era da stupirsi che suo fratello gli fosse sembrato così sicuro di sé al telefono quando, poche ore prima, si era comportato come un idiota singhiozzante. Era stata lei a incoraggiarlo; probabilmente lo aveva convinto che, se avesse seguito i suoi consigli, sarebbe riuscito a riconquistare la sua commessa. E ovviamente Mitchell ci era cascato. Loretta era sempre riuscita a manovrarlo come un burattino.

Alla fine della riunione, mentre Carl Linville prometteva che entro il mattino seguente avrebbe completato l’itinerario per il funerale, Loretta si avvicinò a Garrison e gli disse:

“Dopo la cerimonia, vorrei che andassi nella casa di Washington a vedere se c’è qualcosa che vorresti tenere. Ho deciso di venderla.”

“Che idea gentile da parte tua”, rispose lui.

“So che ci sono alcuni mobili che tua madre aveva portato da Vienna.”

“Non ci sono particolarmente affezionato, sai che non sono un sentimentale”, disse Garrison.

“Non c’è niente di male in un po’ di sentimento di tanto in tanto”, replicò Loretta.

“Non ne ho notato molto in te.”

“Vivo il mio lutto in privato.”

“Be’, quando il vecchio sarà sottoterra, avrai tutta la privacy che vuoi”, disse Garrison. “Mi sorprende che tu voglia vendere la casa di Washington. Dove andrai ad abitare?”

“Non ho intenzione di uscire di scena silenziosamente, se è questo che speri”, rispose Loretta. “Ho molte responsabilità.”

“Non ci pensare, ti meriti un po’ di riposo.”

“Non ho bisogno di riposo”, replicò lei in tono piatto. “Anzi, ho deciso di interessarmi di più degli affari di famiglia. Negli ultimi mesi, ho trascurato molti dettagli.” Lui le rivolse un sorriso freddo. “Buonanotte, Garrison.” Lo baciò su una guancia. “Dovresti dormire un po’, comunque”, aggiunse allontanandosi. “Hai un aspetto anche peggiore di quello che aveva Mitchell.”

Fu solo quando arrivò a casa e si sedette nella poltrona dove ora preferiva dormire (il letto, per qualche ragione, lo metteva a disagio) che Garrison ripensò alla casa di Washington e al suggerimento di Loretta. Come le aveva detto, non aveva alcun desiderio di prendere niente da quella casa, tuttavia se davvero la casa sarebbe stata venduta con tutto quello che conteneva, avrebbe dovuto trovare un momento libero per andare a dare un’occhiata. Da bambino era stato felice, lì: i giorni più caldi dell’estate passati a giocare sotto i sicomori dietro la casa, dove le ombre erano fresche e blu; le feste di Natale, quando quel luogo era stato caldo e accogliente e lui, anche se solo per poche ore, si era sentito davvero parte della famiglia. Quella sensazione di appartenenza non era mai durata molto a lungo; in fondo, si era sempre sentito un estraneo e anni di analisi non erano riusciti a svelargli il perché.

Che assoluto spreco di tempo: passare ora dopo ora con quegli uomini dalla mente stantia, in cerca di un indizio che gli spiegasse perché si sentiva così a disagio anche con se stesso. Naturalmente adesso sapeva; adesso che riusciva a vedersi chiaramente. Non era come gli altri, era una creatura completamente diversa.

Quel pensiero lo mise di umore sognante; scivolò nel sonno seduto in poltrona e non si mosse finché le prime sirene del nuovo giorno non lo svegliarono.

Quattordici

1

La tempesta durò tutta la notte e all’ultimo momento cambiò direzione e si abbatté sulla costa sudorientale dell’isola. La città più colpita fu Po’ipu, ma molte altre comunità minori di quella zona vennero investite dalla tempesta. Vi furono alcuni allagamenti, e un ponte venne spazzato via; così come alcune capanne. Quando il vento spostò le nubi verso l’interno dell’isola — dove rimasero ad ammantare le montagne per il resto della notte, diradandosi gradualmente — c’erano già state altre tre vittime da aggiungere al numero di coloro che erano morti in mare.

Rachel andò a letto all’una passata; rimase in piedi ad ascoltare il ruggito del vento che riecheggiava tra gli alberi attorno alla casa, le palme piegate al punto che le loro fronde sbattevano sul tetto della casa come dita dalle unghie lunghe. Le erano sempre piaciuti i temporali, fin da bambina. Anche quella tempesta l’affascinava, con il suo frastuono, la sua violenza, la sua spettacolarità. Quando venne a mancare la corrente, rimase seduta alla luce di un paio di candele, rimpiangendo di non avere più il diario di Holt. Quello sarebbe stato il momento perfetto nel luogo perfetto per leggere l’ultima parte del libro. Ma sapeva che ora era in possesso di Mitchell o di Garrison e le sue chance di riuscire a recuperarlo erano quasi inesistenti. Non aveva importanza, comunque. Sarebbe stato Galilee a raccontarle ciò che era successo a Holt. Forse avrebbe trasformato quegli eventi in una storia per lei; l’avrebbe tenuta tra le braccia e le avrebbe parlato delle imprese di Nickelberry e del capitano. Non ci sarebbe stato un lieto fine, Rachel ne era certa, ma in quel momento, mentre ascoltava la pioggia che batteva contro le finestre, non le importava. Non era una notte adatta a un lieto fine: era una notte in cui l’oscurità avrebbe avuto la meglio. Domani, una volta che le nubi si fossero diradate e il sole fosse sorto, sarebbe stata felice di ascoltare racconti di salvataggi miracolosi e preghiere esaudite. Ma adesso, nel cuore fragoroso della notte, voleva che Galilee le parlasse degli ultimi istanti del capitano Holt e del bambino fantasma che sicuramente era andato a chiamarlo sul letto di morte, proprio come aveva fatto con il cavallo, per scortarlo fino all’aldilà.

Le candele tremolarono e Rachel rabbrividì. Era riuscita a spaventarsi da sola. Prese una candela e si recò in cucina per prepararsi un tè. Stava per riempire il bollitore quando notò un movimento veloce tra le ombre del soffitto sopra di lei e si accorse che si trattava di un grande geco, il più grande che avesse mai visto. La creatura sembrò accorgersi del suo sguardo perché si fermò e rimase immobile finché lei non smise di fissarlo. Solo allora sentì che ricominciava a muoversi tra le travi di legno del soffitto. Quando alzò di nuovo lo sguardo, il geco era scomparso.

Ormai le era passata la voglia di bere il tè, così posò il bollitore sul fornello, riprese la candela e andò a letto. Si tolse solo i sandali e i jeans quindi si infilò sotto le coperte. Si addormentò dopo pochi minuti, cullata dal suono della pioggia.

2

Fu svegliata da qualcuno che bussava alla porta della camera con impazienza. Poi un voce: “Rachel? Sei lì?”

Lei si mise a sedere sul letto, ancora immersa nel sogno che stava facendo: qualcosa che aveva che vedere con Boston e dei diamanti sepolti nella neve a Newbury Street. “Chi è?”

“Sono Niolopua. Ho bussato alla porta d’ingresso ma non hai risposto, così sono entrato.”

“È successo qualcosa?” Guardò fuori dalla finestra. Era giorno; il cielo era di un blu brillante.

“Devi alzarti”, disse Niolopua, in tono preoccupato. “C’è un relitto. Penso che si tratti della sua barca.”

Rachel si alzò e attraversò la stanza, senza ancora capire del tutto che cosa stesse accadendo. Ecco Niolopua, sporco di fango rossastro. “È la Samarcanda”, le disse. “La barca di Galilee. E stata trasportata sulla spiaggia dalle onde.” Lei tornò a guardare verso la finestra. “Non qui”, continuò Niolopua. “Dall’altra parte dell’isola. Sulla costa di Napali.”

“Sei sicuro che si tratti proprio della Samarcanda?”

Niolopua annuì. “Sicurissimo.”

Il cuore prese a batterle più forte nel petto.

“E che cosa ne è stato di Galilee?”

“Non c’è traccia di lui”, rispose Niolopua. “Almeno non ce n’era fino a un’ora fa.”

“Mi vesto e sono subito da te”, disse Rachel.

“Hai degli stivali?” chiese Niolopua.

“No, perché?”

“Perché è un posto difficile da raggiungere. Bisogna arrampicarsi.”

“Mi arrampicherò”, disse lei, “stivali o non stivali.”

Gli effetti della tempesta erano visibili ovunque. L’autostrada era ancora in parte allagata e ingombra di detriti di ogni genere: rami, assi, polli annegali e persino piccoli alberi. Fortunatamente, non c’era molto traffico a quell’ora — erano solo le sette — e Niolopua era un abile guidatore.

Durante il tragitto, Niolopua spiegò a Rachel dove si stavano dirigendo. La costa di Napali era la parte più bella e pericolosa dell’isola. Le scogliere si ergevano ripide dall’oceano, e le spiagge e le grotte si potevano raggiungere con facilità solo dal mare. Rachel aveva visto alcune immagini di quella costa su una brochure che aveva sfogliato durante il breve volo da Honolulu. Era una delle mete turistiche più popolari e venivano organizzate numerose escursioni in elicottero che permettevano di ammirare quello straordinario panorama: cascate spettacolari, rupi coperte di vegetazione e valli lussureggianti. Secondo una leggenda locale, alcune di quelle valli erano così inaccessibili che fino a poco tempo prima erano state abitate da piccole comunità completamente isolate dal resto del mondo.

“Raggiungeremo la spiaggia costeggiando le scogliere”, le spiegò Niolopua. “È a circa un chilometro dalla fine della strada.”

“Come hai fatto a trovare il relitto?”

“Ero là durante la tempesta. Non so perché ci sono andato. Sapevo soltanto che dovevo essere là.” Si voltò a guardare Rachel. “Forse era lui che mi chiamava.”

Lei si portò una mano al viso; di colpo, ebbe voglia di piangere. Il pensiero di Galilee là fuori nelle acque scure…

“Lo senti ancora?”

Niolopua scosse la testa, le lacrime che gli rigavano le guance. “Ma questo non significa niente”, disse senza molta convinzione. “Conosce il mare. Nessuno lo conosce meglio di lui. Dopo tutti questi anni…”

“Ma se la barca è affondata…”

“Allora dobbiamo sperare che la marea lo abbia portato a riva.”

Rachel ripensò ai racconti sul dio-squalo che talvolta riaccompagnava a terra i naufraghi e talvolta, per ragioni incomprensibili, li divorava. Galilee aveva gettato in mare la loro cena, quella notte, un’offerta per la divinità, e Rachel all’epoca aveva trovato quel gesto dolcemente assurdo. Ma adesso era felice che lo avesse fatto. Nel mondo in cui lei era stata cresciuta, non c’era spazio per dèi-squali né per rituali come gettare del cibo nell’acqua; ma ultimamente aveva cominciato a capire quanto ristretta fosse stata quella visione della vita. Là fuori c’erano forze che andavano al di là della sua comprensione e della sua educazione, forze che non potevano essere controllate da semplici comandamenti. Cose che vivevano vite segrete e selvagge, libere e senza limiti. Galilee le conosceva perché in una qualche misura era come loro.

Quell’idea la terrorizzava e la confortava allo stesso tempo. Se Galilee avesse sentito troppo intensamente il richiamo di quella vita come avrebbe potuto non seguirlo? In quel caso non lo avrebbe trovato mai più. Sarebbe scomparso in luoghi che lei non avrebbe mai potuto raggiungere. Se invece le sue dichiarazioni d’amore erano state sincere, forse gli stessi poteri che avrebbero potuto reclamarlo sarebbero diventali suoi alleali e l’offerta che Galilee aveva fatto al dio-squalo avrebbe fatto parte della storia che le avrebbe restituito l’uomo che amava.

3

Le tracce del passaggio della tempesta diventarono molto più evidenti una volta che ebbero superato Po’ipu; la strada era quasi inagibile in molti punti dove la violenza della pioggia aveva trascinato grandi rocce. Una volta imboccata la strada che conduceva alla spiaggia e che costeggiava la base dei promontori, la situazione peggiorò ulteriormente. La strada ormai era in gran parte ridotta a un sentiero dissestato di fango rosso. Anche guidando cautamente, Niolopua diverse volte perse per qualche istante il controllo del veicolo quando i pneumatici scivolosi non riuscirono a mantenere la presa sul terreno.

Sulla sinistra, oltre un gruppo di rocce nere, c’era la spiaggia: e là, più che in qualunque altro luogo avessero incontrato durante il tragitto, c’erano i segni più evidenti della violenza della tempesta. La spiaggia era completamente disseminata di detriti e i flutti avevano assunto il colore rossastro della fanghiglia. Era uno scenario quasi onirico — il cielo plumbeo, il mare scarlatto, la sabbia chiara coperta di frammenti di legno scuri e gonfi. In altre circostanze, Rachel avrebbe anche potuto trovarlo uno spettacolo bellissimo. Ma tutto ciò che vedeva ora erano detriti e acque rosso sangue: niente che potesse incantarla.

“È lì che inizia la salita”, annunciò Niolopua.

Lei distolse lo sguardo dalla spiaggia e lo spostò sulla strada. Il sentiero fangoso si interrompeva qualche metro più avanti, dove la scogliera si protendeva sul mare; una lingua di roccia contro cui le onde si infrangevano ritmicamente.

“La spiaggia è dall’altra parte.”

“Sono pronta”, disse Rachel e scese dall’auto.

L’aria, nonostante il frastuono del mare, era curiosamente immobile vicino alle rocce. Quasi opprimente. Nel giro di un paio di minuti Rachel iniziò a sudare e quando lei e Niolopua cominciarono ad arrampicarsi la testa prese a pulsarle. Niolopua aveva lasciato in macchina i sandali e si stava arrampicando a piedi scalzi, senza badare a Rachel che era nuova a quel genere di attività. Solo quando la salita si faceva particolarmente pericolosa, si girava a lanciarle un’occhiata e una o due volte le offrì la mano per aiutarla ad arrampicarsi su una roccia scivolosa o ripida. Per evitare massi che erano virtualmente invalicabili, la condusse sulla lingua di roccia. L’aria era più fresca lì e di tanto in tanto un’onda ambiziosa si spingeva più in alto delle altre infrangendosi vicino a loro, riempiendo l’aria di spruzzi gelati. Ben presto Rachel si ritrovò bagnata da capo e piedi, i seni così gelidi che le facevano male i capezzoli, le dita delle mani intorpidite. Ma ora riuscivano a vedere la loro destinazione: una spiaggia che sarebbe stata paradisiaca se non fosse stato per i detriti, una lunga curva di sabbia delimitata non solo dalle rocce ma anche dalla valle rigogliosa che digradava dal promontorio. Anche lì la tempesta aveva lasciato il segno: molti alberi erano stati praticamente sradicati dal vento, le fronde fatte a pezzi e sparpagliate ovunque. Ma la vegetazione era troppo ricca e troppo impenetrabile per permettere alla tempesta di causare danni più profondi; sotto le palme abbattute c’erano distese di verde luccicante, screziate di boccioli luminosi.

Non c’era nessuno sulla spiaggia che si allungava per circa mezzo chilometro prima di interrompersi ai piedi di un’altra scogliera, molto più grande di quella che avevano scalato. Da quella distanza, il secondo gruppo di rocce sembrava davvero invalicabile: quella spiaggia era l’ultimo luogo che un essere umano potesse raggiungere a piedi.

Niolopua stava già scendendo sulla sabbia e indicava il mare. Rachel seguì il suo sguardo. A poche centinaia di metri dalla spiaggia, una balena stava emergendo in superficie, stagliandosi contro il cielo come una gigantesca colonna nera, sollevando ventagli di acqua spumosa. Poi la creatura ricadde tra le onde, e dopo qualche secondo Rachel vide il suo dorso scuro e luccicante, la sua pinna dorsale, poi più niente. Tornò a guardare la spiaggia, d’improvviso oppressa dall’angoscia. Lui non c’era, era evidente. Se il relitto che Niolopua aveva visto era davvero quello della Samarcanda, allora Galilee era là fuori nelle acque profonde della baia dove solo le balene avrebbero potuto trovarlo.

Rachel si accovacciò sulla roccia per un istante e si disse che doveva smetterla di autocommiserarsi e fare ciò che era venuta a fare. Evitare la verità, per quanto dolorosa potesse essere, non sarebbe servito a niente. Se c’era un relitto, allora doveva vederlo con i suoi occhi. Allora avrebbe saputo, giusto? Una volta per tutte avrebbe saputo.

Trasse un profondo respiro e si alzò. Quindi scese dalle rocce e si incamminò sulla spiaggia.

Quindici

Mitchell sapeva dove si trovava la casa di Kaua’i; nel corso degli anni, lui e Garrison ne avevano discusso molte volte. Ma parlare di un luogo e raggiungerlo erano due cose ben diverse. Non si sarebbe mai aspettato di sentirsi a tal punto un intruso. Non appena scese dal taxi, il cuore prese a battergli più in fretta e i palmi delle mani gli si ricoprirono di sudore. Attese fuori dal cancello per qualche istante finché non riacquistò il controllo delle sue sensazioni, e solo allora si avvicinò, alzò il paletto e spalancò il cancello.

Non c’era niente lì che potesse fargli del male, ripeté a se stesso. Solo una donna che doveva salvare dalla sua stessa stupidità. La chiamò mentre percorreva il sentiero che conduceva alla porta d’ingresso. Un paio di colombe spaventate si levarono in volo dal tetto, ma a parte questo non vi erano altri segni di vita. Raggiunta la porta, chiamò ancora Rachel ma non ottenne risposta. O non lo aveva sentito o stava cercando di sfuggirgli. Aprì la porta ed entrò in casa. L’aria sapeva di lenzuola vecchie e cibo stantio; non era affatto un posto allegro come si era aspettato, ma cupo, dai colori sbiaditi. Da sessanta o settant’anni a quella parte, diverse generazioni di donne Geary avevano occupato quella casa, ma quel luogo sembrava fosco e privo di attrattive.

Quella scoperta tuttavia non fece rallentare i battiti del suo cuore. Quella era la casa delle donne; il luogo segreto in cui gli era stato detto che nessun maschio Geary si era mai avventurato. Naturalmente aveva chiesto perché e suo padre gli aveva risposto: una delle qualità che distinguevano i Geary dalle altre famiglie era il loro rispetto per la storia. Il passato non era sempre facile da capire, ma doveva essere rispettato. Inutile dire che quella risposta non aveva soddisfatto il giovane Mitchell. Non gli era bastato un vago discorso sul rispetto; avrebbe voluto una ragione concreta che giustificasse quella che a lui sembrava un’assurdità. Una casa dove solo alle donne era permesso entrare? Perché? Perché le donne meritavano di avere una casa come quella (e su un’isola come quella perdipiù)? Le donne non facevano soldi, non gestivano il potere. Tutto ciò che facevano, a giudicare dai rituali quotidiani di sua madre e delle sue amiche, era spendere il denaro guadagnato dagli uomini. Semplicemente, non aveva capito.

E non capiva ancora. Certo, c’erano stati momenti in cui aveva visto al lavoro la forza delle donne Geary e poteva essere uno spettacolo impressionante. Tuttavia, restavano parassiti; le loro ricche e comode vite sarebbero state impossibili senza le fatiche dei loro mariti. La parte di lui che aveva sperato che entrando ed esplorando la casa di Kaua’i avrebbe scoperto un indizio per risolvere quel mistero rimase delusa. Mentre si spostava da una stanza all’altra, la sua ansia cominciò a diminuire e alla fine scomparve. Non c’erano misteri lì. Era solo una casa: piuttosto trascurata e piuttosto vecchia; pronta per essere sventrata e riarredata; o anche solo demolita.

Salì al piano di sopra. Le camere da letto erano modeste come le altre stanze. Solo una volta sentì il disagio tornare a invaderlo e fu quando entrò nella camera più grande e vide il letto dalle lenzuola in disordine. Sua moglie aveva dormito lì la notte precedente, non c’erano dubbi. Quel fatto non lo avrebbe colpito in modo particolare, se non fosse stato per il letto. C’era qualcosa che lo inquietava nella crudezza dei suoi intarsi e nel modo in cui lo scorrere del tempo ne aveva attenuato i colori. Sembrava una bara bizzarra ed elaborata. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse voler dormire in un letto del genere, soprattutto una puttana nevrotica come Rachel. Si trattenne nella stanza il tempo necessario per esaminare il contenuto della valigia e della borsa da viaggio della moglie. Non trovò niente di interessante. Uscendo, si richiuse la porta alle spalle. Solo allora, quando ebbe nascosto alla vista la camera da letto, osò pensare all’altra funzione di quella stanza. Naturalmente era la suite nuziale; il luogo in cui Galilee era venuto a fare visita alle sue donne. Mitchell rimase nel corridoio buio, letteralmente nauseato da quel pensiero e tuttavia incapace di impedirsi di immaginare la scena. Una donna, una donna Geary — Rachel, Deborah, Loretta, Kitty; tutte loro racchiuse in un’unica forma — che giaceva nuda su quel letto morboso, mentre l’amante — le sue mani tanto scure quanto era pallido il corpo che stava toccando — accarezzava ciò che non gli apparteneva ma che era suo solo in quella casa cupa e senza Dio, dove le regole del possesso si trasformavano in modi che Mitchell sperava di non comprendere mai. Ora gli importava soltanto di riprendersi sua moglie e di scuoterla. Era così che immaginava se stesso e lei di nuovo insieme: lui che le afferrava le spalle e la scuoteva con tutte le sue forze. Forse spaventandola sarebbe riuscito a farle riacquistare la ragione: e lei gli avrebbe chiesto perdono, lo avrebbe implorato di perdonarla, di riportarla a casa. E forse lui lo avrebbe fatto. Non era fuori discussione, se lei fosse stata sincera e lo avesse fatto sentire amato. Era quello il cuore del problema: Rachel non gli era mai stata abbastanza grata. Dopotutto era stato lui a cambiarle la vita, a sottrarla a un’esistenza banale e a farle assaporare il lusso. Lei gli doveva tutto; tutto. E che cosa gli aveva dato in cambio? Ingratitudine, slealtà, infedeltà.

Ma lui sapeva essere magnanimo. Suo padre aveva sempre detto che se un uomo era benedetto dalle circostanze, come lo era stato Mitchell, era suo preciso dovere essere generoso; evitare l’invidia e le ripicche, che erano i demoni di coloro a cui era stata negata una prospettiva più ampia; camminare al fianco degli angeli.

Ma non era facile. Quegli ideali erano sempre più lontani col passare di ogni giorno. Ma in quella situazione avrebbe avuto l’opportunità di applicare i principi che gli erano stati insegnati, di resistere al richiamo dell’invidia e della vendetta e di dimostrarsi migliore del suo sé più meschino.

Rachel non avrebbe dovuto fare altro che permettergli di scuoterla e scuoterla e supplicarlo di tornare con lei.

Sedici

“Questa è una parte dello scafo della Samarcanda”, disse Niolopua, indicando un lungo frammento di legno sulla sabbia. “Ce n’è un altro pezzo laggiù. E ce ne sono altri in mare.”

Rachel si avvicinò alla riva. C’erano effettivamente grandi pezzi di legno che galleggiavano tra le onde. Più al largo, ce n’erano altri, compresa quella che avrebbe potuto essere una parte dell’albero maestro.

“Perché sei tanto sicuro che sia la Samarcanda?” domandò Rachel a Niolopua che l’aveva raggiunta sulla riva.

L’uomo fissò la sabbia bagnata ai suoi piedi. “È solo una sensazione, ma credo che sia così.”

“Non è possibile che il relitto sia stato portato qui dalle onde e che lui si sia messo in salvo su un’altra spiaggia?”

“Naturalmente”, rispose Niolopua. “Potrebbe aver nuotato lungo la costa. È abbastanza forte da potercela fare.”

“Ma tu non ne sei molto convinto.”

Lui scrollò le spalle. “Il tuo istinto vale quanto il mio quando si tratta di Galilee. Forse anche di più. Gli sei stata molto più vicina di me.”

Lei annuì. Forse in quel momento l’uomo che amava giaceva da qualche parte nell’acqua bassa, troppo esausto per nuotare per gli ultimi metri che lo separavano dalla salvezza. Quel pensiero le serrò lo stomaco in una morsa. Galilee avrebbe potuto essere così vicino, così vicino, disperatamente bisognoso di aiuto.

“Voglio dare un’occhiata alla spiaggia”, disse a Niolopua. “Per vedere se c’è qualche traccia…”

“Vuoi che venga con te?”

“No.” Rabbrividì. “No, grazie.”

Dal taschino della camicia, Niolopua prese una sigaretta arrotolata a mano e un antiquato accendino d’acciaio. “Vuoi fare un tiro prima di andare? È roba buona.”

Rachel annuì. Niolopua accese lo spinello e glielo passò. Lei trasse una lunga boccata di fumo fragrante, poi gli restituì la sigaretta.

“Fai pure con calma”, le disse lui. “Non vado da nessuna parte.”

Sentendosi la testa piacevolmente leggera, Rachel si incamminò lungo la spiaggia. Pochi metri più in là, trovò altre parti del relitto: un intreccio di funi e cavi; quello che sembrava un pezzo della timoniera; il frammento di un pannello di comando con gli strumenti ancora intatti. Forse lì sopra c’era una scritta che avrebbe potuto confermare o smentire i sospetti di Niolopua.

Rachel sollevò il pannello ma non trovò niente; nemmeno il nome del produttore sugli indicatori. Frustrata, lo gettò sulla sabbia e si rialzò. In quel momento, la droga giocò uno strano scherzo al suo corpo. D’improvviso, il suo udito si acuì in modo sorprendente. Poteva sentire, alla sua sinistra, il mare, lo sciabordio ritmico delle onde; e, alla sua destra, i suoni della vegetazione attraversata da una leggera brezza che faceva frusciare le foglie e i boccioli.

Si voltò a guardare Niolopua che si era seduto sulla sabbia e stava scrutando il mare. Questa volta non le interessava ciò che il mare aveva da mostrarle, invece spostò gli occhi sul pendio della spiaggia. Pochi metri più in là, Rachel notò un piccolo corso d’acqua che emergeva dagli alberi e che tracciava un sentiero irregolare sulla sabbia fino al mare, e decise di andare fino alla sorgente. Una folata di vento fece ondeggiare la vegetazione e alcuni boccioli colorati sembrarono annuire come per incoraggiarla.

Raggiunto il fiumiciattolo, si tolse i sandali ed entrò nell’acqua fredda. Si chinò, immerse le mani e si fece scorrere l’acqua tra le dita per qualche secondo. Poi raccolse un po’ d’acqua con le mani e si sciacquò il viso, passandosi le dita bagnate tra i capelli. L’acqua gelata le scese lungo il collo e tra i seni. Rachel si portò una mano al petto e sentì che il suo cuore stava battendo all’impazzata. Perché? Non erano solo l’acqua gelata e la marijuana a farla sentire così strana: c’era qualcos’altro. Seguì il corso d’acqua con lo sguardo fino alla vegetazione scossa dal vento. Che cosa c’era tra quelle ombre? Qualcosa la stava chiamando; il suo messaggio era nell’acqua, le scorreva contro la pelle, attraverso i nervi fino al cuore e alla testa.

Seguendo la gentile corrente dell’acqua, arrivò fino al limitare della vegetazione. Rachel si fermò per controllare che non vi fosse un modo più facile per addentrarsi nella foresta, ma non vide niente. Il fogliame era troppo fitto in ogni direzione: il modo più semplice per proseguire era continuare a camminare nell’acqua.

Presa quella decisione, abbandonò il sole e si immerse tra le ombre.

Dopo qualche passo si voltò verso la spiaggia. Anche se l’oceano era solo a una cinquantina di metri da lei, avrebbe potuto anche appartenere a un altro mondo. Là fuori era tutto così luminoso e blu; e lì, tra gli alberi, era tutto così scuro e verde.

Rachel riprese ad avanzare. L’acqua non scorreva più sulla sabbia, adesso, ma su pietre e foglie marce. Era un percorso scivoloso, reso ancora più arduo dal fatto che il terreno stava diventando sempre più ripido. Faticosamente, Rachel raggiunse un piccolo altopiano, dove poté procedere più agevolmente.

Non riusciva più a vedere la spiaggia né a sentire il rumore delle onde. Cominciava a essere stanca. La curiosità che aveva provato quando era ancora sulla spiaggia stava svanendo. Avrebbe potuto continuare a vagare così per ore senza trovare niente. Al centro del corso d’acqua scorse una roccia piatta su cui sedersi e riposare. Non aveva l’orologio con sé, ma da quando si era inoltrata nella foresta doveva essere passata almeno mezz’ora. Abbastanza perché Niolopua cominciasse a chiedersi dove diavolo fosse finita.

Si alzò in piedi sulla roccia e gridò il suo nome. Era impossibile capire se la sua voce fosse riuscita ad attraversare la fitta vegetazione.

Quasi subito, rimpianse di aver gridato. Per qualche assurda ragione, cominciava a essere preoccupata. Si guardò attorno. Non era cambiato niente; soltanto verde, sopra e sotto di lei.

“È ora di tornare indietro”, si disse, e con cautela fece il primo passo per scendere dalle rocce scivolose. In quell’istante percepì la presenza di quella stessa forza che aveva avvertito sulla spiaggia.

Istintivamente, si voltò a guardare il corso d’acqua, in cerca di un indizio. Ma non notò niente di fuori dall’ordinario. Si concentrò, tentando di distinguere le forme e le combinazioni di luce e ombra che la circondavano…

Un momento! Che cos’era quella sagoma scura a una decina di metri da lei, che giaceva riversa nell’acqua?

Rachel non osava sperare. Ricominciò a risalire il fiume, anche se più avanti c’era un grosso masso caduto che non avrebbe potuto aggirare. Fu costretta a scalarlo, cercando disperatamente nuovi appigli, mentre l’acqua scorreva attorno a lei. Quando raggiunse la sommità della roccia, era quasi senza fiato per il freddo, ma la sagoma che prima aveva solo intravisto adesso era più visibile. E Rachel, guardandola, emise un tale grido di felicità che alcuni uccelli, spaventati, si levarono in volo dai rami sopra di lei.

Era lui! Non c’erano dubbi. Le sue preghiere erano state esaudite.

Lo chiamò e si affrettò a raggiungerlo, strappando i rampicanti che le bloccavano la strada. Il volto di Galilee era cinereo, ma aveva gli occhi aperti. La vide, la riconobbe.

“Oh, amore mio”, esclamò, inginocchiandosi accanto a lui, prendendolo tra le braccia. “Dolcissimo amore mio.” La pelle di Galilee era ancora più gelata dell’acqua in cui era immerso.

“Sapevo che mi avresti trovato”, sussurrò lui con un filo di voce, la testa sul grembo di Rachel. “Cesaria… me lo aveva detto.”

“Dobbiamo tornare alla spiaggia”, gli disse Rachel. Lui le rivolse il più fragile dei sorrisi, come se lei gli avesse appena detto una tenera assurdità. “Riesci ad alzarti?”

“I morti erano venuti a prendermi”, disse lui, scrutando un punto nella vegetazione come se alcuni dei suoi inseguitori potessero essere ancora lì, in agguato. “Mi hanno seguito in mare. Gli uomini che ho ucciso…”

“Stai delirando…”

“No, no”, insistette lui scuotendo la testa. “Erano reali. Stavano cercando di trascinarmi in mare.”

“Hai bevuto acqua di mare…”

“C’erano veramente!”

“Certo”, mormorò lei con dolcezza. “Ti credo. Ma adesso se ne sono andati. Forse sono stata io a spaventarli.”

“Sì”, sospirò lui, rivolgendole di nuovo lo stesso debole sorriso. “Forse sì.” La stava guardando con la gratitudine di un bambino appena salvato da un incubo.

“Te lo giuro, non torneranno. Qualsiasi cosa sia accaduta, tesoro, non torneranno. Sei al sicuro ”

“Davvero?”

Lei gli prese il volto tra le mani e lo baciò. “Oh sì”, disse con assoluta certezza. “Non permetterò che ti succeda niente di male. Non ci lasceremo mai più.”

Diciassette

1

Galìlee era quasi nudo, il corpo coperto di lividi e ferite; ma quando finalmente Rachel riuscì a farlo alzare in piedi, cominciò a riacquistare il controllo di sé. Lei si offrì di precederlo per andare a chiamare Niolopua, ma Gailee non ne volle sapere. Ce l’avrebbero fatta insieme, disse; ci sarebbe voluto solo un po’ di tempo.

Cominciarono la discesa, con qualche esitazione all’inizio, ma a poco a poco con sempre maggior sicurezza.

Solo una volta si fermarono a lungo, e non perché il sentiero fosse diventato troppo ripido o troppo pericoloso, ma perché all’improvviso Galilee trasse un respiro terrorizzato e disse: “Là!” Il suo sguardo si fissò su un punto alla loro sinistra dove il fogliame si stava scuotendo come se un animale l’avesse appena attraversato.

“Cosa c’è?” chiese Rachel.

“Sono ancora qui”, mormorò lui, “quelli che mi davano la caccia.” Indicò il fogliame. “Lì ce n’era uno che mi stava spiando.”

“Io non vedo niente.”

“Adesso se n’è andato… ma continueranno a seguirmi.”

“Ce ne occuperemo quando sarà il momento”, replicò Rachel. “Se hanno qualcosa contro di te, allora hanno qualcosa anche contro di me. Me la vedrò io con loro e gliela farò pagare molto cara.” Pronunciò quelle ultime parole a voce più alta del necessario, come per informare delle sue intenzioni qualunque spirito inseguitore. Galilee sembrò rassicurato. “Non li vedo più”, disse.

Ricominciarono la discesa. Era più facile, adesso; dopo quel loro breve scambio di battute, Galilee sembrava aver riacquistato le forze, ma quando raggiunsero la spiaggia erano entrambi esausti e dovettero sedersi per riprendere fiato. Non c’era traccia di Niolopua.

“Sono sicura che non se ne sarebbe mai andato senza di me”, disse Rachel. “Spero solo che non sia venuto a cercarmi lassù…” Si voltò per gettare un’occhiata alla vegetazione. Con l’avanzare del giorno, il verde sembrava sempre più cupo; non le piaceva l’idea di tornare nella foresta in cerca di Niolopua.

Ma le sue paure si rivelarono infondate. Circa cinque minuti dopo, Niolopua sbucò dal fitto degli alberi poco più in là lungo la spiaggia. Non appena scorse Rachel e Galilee, emise un grido colmo di gioia e di sollievo e corse verso di loro, rallentando solo quando suo padre si alzò in piedi per salutarlo. Niolopua si fermò a qualche metro da loro.

“Che bello rivederti”, mormorò. Chinò leggermente il capo in segno di rispetto.

“È bello anche per me”, rispose Galilee a sua volta in tono stranamente formale. “Pensavi di avermi perso, vero?”

Niolopua annuì. “Eravamo molto preoccupati.”

“Non vi lascerei mai”, giurò Galilee. “Nessuno dei due.” Il suo sguardo si spostò dal volto di Niolopua a quello di Rachel e poi di nuovo su suo figlio.

“Dobbiamo parlare”, disse, offrendo la mano a Niolopua.

Rachel pensò che Niolopua gliel’avrebbe stretta ma il loro era un saluto rituale più strano e in qualche modo più tenero. Niolopua prese la mano del padre, si chinò e gli baciò il palmo. Restò così con il viso premuto contro l’immensa mano di Galilee finché non dovette sollevarlo per prendere fiato.

2

Passarono le ore e Mitchell rimase in casa. Era tutt’altro che a suo agio. Benché fosse sfinito, per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai sdraiato a riposare su uno di quei letti. Non voleva conoscere i sogni che visitavano gli uomini che dormivano lì. Né voleva toccare niente in cucina. Non voleva permettere a quella casa di cullarlo, di convincerlo che era un luogo innocente. Non lo era. Era colpevole come le donne che vi avevano fornicato.

Ma con l’avanzare delle ore, cominciò a sentirsi sempre più stanco, sempre più affamato e sempre più infuriato. Alle due del pomeriggio era così esausto che si rese conto che avrebbe rischiato di compromettere seriamente lo scopo del suo viaggio. Doveva trovare qualcosa da mangiare, si decise, delle sigarette e del caffè forte. Se quella stronza di sua moglie fosse tornata mentre lui non c’era, non sarebbe stato un problema. Ora conosceva la disposizione delle stanze della casa; avrebbe potuto tenderle un’imboscata. Se invece, al suo ritorno, avesse trovato ancora la casa vuota, sarebbe stato comunque in forze e pronto ad aspettarla anche per tutta la notte, se fosse stato necessario.

Erano passate da poco le due e mezza quando Mitchell se ne andò a piedi. Fu un sollievo trovarsi all’aria aperta dopo essere rimasto confinato in casa così a lungo; il suo umore cupo lo abbandonò. Sapeva dove andare: durante il tragitto in taxi, aveva notato un piccolo emporio a non più di mezzo chilometro di distanza dalla casa. Mentre camminava si godette qualche piacevolezza casuale: il sorriso radioso di una ragazza del posto che stava stendendo la biancheria; il profumo dei fiori; il rumore lontano di un jet che solcava il cielo — e quando alzò lo sguardo vide la scia dell’aereo, come una lunga linea di gesso bianco sul blu.

Era un bel giorno per essere innamorati, e per qualche strana ragione era proprio così che si sentiva Mitchell: come un uomo innamorato. Forse presto la confusione lo avrebbe abbandonato; forse, dopotutto, una volta che le lacrime avessero smesso di scorrere, sarebbe riuscito a risistemare le cose con Rachel e a vivere con lei la vita ricca che Mitchell sapeva di meritare. Non era un uomo crudele; non aveva mai fatto del male a nessuno. Tutto ciò che era accaduto ultimamente — la morte di Margie, la faccenda del diario, il caos che era seguito alla morte di Cadmus — non era una sua responsabilità. Non voleva altro — non aveva mai voluto altro — che essere considerato e accettato come il principe che era. Una volta che avesse raggiunto quel modesto obiettivo, sarebbe iniziata una nuova epoca d’oro, ne era certo. Garrison finalmente si sarebbe scrollato di dosso la depressione e sarebbe tornato a impiegare tutte le sue energie nell’organizzazione degli affari di famiglia. I vecchi sogni sarebbero stati realizzati e sarebbe stato forgiato un nuovo futuro. Il passato, con tutti i suoi cupi segreti, non sarebbe stato altro che una nota a piè pagina in un libro di vittorie.

Quei pensieri lo misero di buon umore. Si aggirò per il negozio fischiettando; prese della soda, qualche ciambella e due pacchetti di sigarette. Poi si sedette fuori sul muretto di un parcheggio in terra battuta, e bevve e mangiò e fumò e si godette il calore del sole. Dopo un po’, pensò che avrebbe fatto meglio a tornare alla casa, pronto a difendersi. Così rientrò nel negozio e acquistò un coltello da cucina che avrebbe potuto essergli utile. Le ciambelle e la soda lo avevano rimesso in forze, e Mitchell si incamminò verso la casa, allungando il passo.

Diciotto

Quando Rachel e Niolopua lo portarono alla macchina, Galilee era ormai senza forze. Era diventato un peso morto, a malapena in grado di sollevare la testa per più di pochi secondi. Durante il viaggio di ritorno ad Anahola, cercò inutilmente di non perdere conoscenza. I suoi occhi si aprivano all’improvviso e lui diceva qualcosa per poi scivolare in lunghi periodi in cui sembrava quasi in stato comatoso. Anche durante i momenti in cui pareva sveglio, era tutt’altro che lucido. Gran parte delle cose che diceva erano mormoni privi di senso e mezze frasi. Stava forse rivivendo il naufragio della Samarcanda? Era possibile, a giudicare dal modo in cui gridava all’improvviso e contraeva il volto in smorfie di dolore. A un certo punto cominciò a emettere gemiti strozzati e per diversi terribili istanti il suo corpo si irrigidì tra le braccia di Rachel, ogni muscolo duro come la pietra, mentre tentava disperatamente di riprendere fiato. E poi, improvvisamente com’era cominciata, la crisi si interruppe e Galilee si rilassò fra le braccia di Rachel e a poco a poco il suo respiro tornò regolare.

Era quasi notte quando arrivarono alla casa. Era calata l’oscurità ma Galilee sembrava sapere dove si trovavano nonostante il delirio, perché mentre lo accompagnavano lungo il sentiero sollevò la testa di qualche centimetro e guardò la casa da sotto le palpebre pesanti.

“Loro… sono… qui?” domandò.

“Chi?”

“Le donne”, rispose lui.

“No, tesoro”, lo tranquillizzò Rachel, “ci siamo solo noi.”

Lui stirò le labbra nel più debole dei sorrisi, lo sguardo ancora fisso sulla casa buia. “Lasciatemi dormire”, disse. “Verranno.”

Rachel non lo contraddisse. Se il pensiero della presenza delle donne Geary gli era di qualche conforto, andava benissimo così. Perdipiù quella prospettiva sembrò in qualche modo dargli nuova energia per percorrere ancora qualche metro. Galilee volle a tutti costi entrare in casa reggendosi sulle sue gambe, come se per lui quello fosse un punto d’onore: lui, che aveva costruito quella casa con le sue stesse mani, non voleva essere visto mentre varcava la soglia sostenuto da qualcuno. Comunque, non appena si trovò all’interno, non poté fare altro che abbandonarsi all’aiuto di Rachel e Niolopua. Chinò di nuovo il capo e chiuse gli occhi.

Niolopua propose di farlo sdraiare sul divano, ma Rachel non aveva dubbi: dovevano portarlo al piano superiore, sul letto intarsiato. Lì si sarebbe ripreso molto più velocemente. Non fu facile portarlo su per le scale; impiegarono più di cinque minuti. Ma fatto questo non incontrarono altre difficoltà: percorsero il corridoio, lo accompagnarono in camera e lo fecero sdraiare sul letto.

Rachel gli sistemò un cuscino sotto la testa e lo coprì con le lenzuola. La sua pelle era di nuovo gelida, come quando lo aveva trovato, ma se non altro non aveva più quel colorito cinereo. Le sue labbra erano secche e screpolate, così lei le ammorbidi con un po’ di burro di cacao. Gli strappò di dosso la camicia a brandelli ed esaminò le numerose contusioni che aveva sul petto. Nessuna delle ferite stava sanguinando e Rachel, preso un asciugamano, gliele lavò a una a una. Niolopua la aiutò a girare Galilee a pancia in giù per permetterle di pulirgli anche i tagli che aveva sulla schiena. Poi lei gli slacciò i pantaloni e glieli sfilò. Adesso Galilee era completamente nudo sul lenzuolo bianco, la sua grande sagoma nera che giaceva supina come se fosse caduta dal paradiso.

“Posso andare adesso?” chiese Niolopua. Evidentemente trovarsi in quella stanza con suo padre in quelle condizioni lo metteva a disagio. “Vado al piano di sotto. Se hai bisogno di me, chiamami”, e scomparve oltre la porta.

Rachel tornò in bagno per sciacquare gli asciugamani con cui aveva lavato le ferite di Galilee. Quando tornò da lui, non poté fare a meno di soffermarsi un istante ad ammirarlo. Oh, era bellissimo. Anche adesso che era profondamente addormentato, il suo corpo provato dagli stenti, c’erano ancora potenza e regalità in lui. Nelle braccia possenti, che l’avevano avvolta senza alcuno sforzo; nel collo massiccio; nel volto aristocratico dagli zigomi alti; nella bocca lucida di burro di cacao; nella fronte segnata e nella folta barba brizzolata. E poi giù, oltre i muscoli addominali, nel membro enorme, ora sopito contro il ventre. Avrebbe avuto un figlio da lui, pensò mentre lo osservava; quali che fossero i rischi per il suo corpo, avrebbe avuto qualcosa di lui dentro di sé, come prova della loro unione.

Rachel prese a pulirgli le abrasioni che aveva sulle cosce e sugli stinchi, con infinita tenerezza. C’era qualcosa di insopportabilmente erotico nella completa passività di Galilee. Lei si bagnò al solo pensiero di mettersi sopra di lui, di strusciarsi contro il suo sesso fino a farlo diventare duro, di averlo finalmente dentro di sé. Cercò di scacciare quell’idea e di pensare solo a prendersi cura di lui, ma la sua mente e il suo sguardo non facevano che ritornare all’inguine di Galilee. Benché lui non accennasse minimamente a svegliarsi, Rachel ebbe la bizzarra sensazione che il suo membro si fosse accorto di lei. Galilee era perso nei suoi sogni, ma il suo membro era sveglio e si stava gonfiando e allungando.

Rachel posò l’asciugamano e incominciò a toccarsi tra le gambe. Si passò le dita sul sesso bagnato, facendosele scivolare nella vagina. Poi portò le dita bagnate al sesso di lui e le fece scorrere su e giù, dolcemente. Lui reagì, fremendo di piacere sotto le sue carezze.

Rachel guardò il viso di Galilee e per un attimo immaginò che quella fosse solo una sua sottile forma di seduzione e che da un momento all’altro avrebbe aperto gli occhi, le avrebbe sorriso e l’avrebbe invitata a raggiungerla sul letto. Ma le sue palpebre non si sollevarono, la sua bocca rimase immobile. Sembrava in uno stato di completa quiescenza. Non c’era alcuna traccia dell’uomo che l’aveva amata con passione sulla Samarcanda o del bruto che l’aveva scopata contro la parete del bagno. Solo quello spesso bastone, nodoso come un ramo e dalla punta scoperta. Era irresistibile. Rachel si spogliò e salì sul letto, continuando a scrutare il viso di Galilee in attesa del suo risveglio. Ma lui continuò a dormire, il respiro lento e regolare.

Rachel era ancora dolorante per la stanchezza, e i suoi fianchi si lamentarono per lo sforzo di mettersi a cavalcioni di Galilee. Ma il piacere che il corpo di lui le donava la ricompensò più che adeguatamente. Quando accolse dentro di sé la carne di Galilee, si rese conto che il gelo della sua pelle era scomparso; ora i suoi fianchi, il suo inguine, il suo sesso scottavano di eccitazione. All’improvviso, Galilee incominciò a muoversi sotto di lei, dentro di lei, spingendole il membro contro la carne, finché Rachel non emise un singhiozzo di piacere, poi un altro e poi un altro ancora.

Ben presto la camera prese a riecheggiare dei suoi gemiti, dei suoi ansiti e delle sue grida. Il letto cigolò quando il movimento del bacino di lui divenne più frenetico; lei ricadde in avanti, appoggiandogli le mani sul petto che bruciava quanto l’inguine. Poi spostò una mano per toccare il punto in cui i loro corpi si incontravano: era bagnato dei suoi umori. E l’aria tra i loro corpi era carica del suo odore. Non era un profumo, non era una fragranza, niente di così delicato. Era un odore maturo, l’odore della sofferenza e della solitudine che sgorgavano dal suo corpo finalmente guarito. Rachel capì come non aveva mai capito in vita sua il senso primitivo di quell’atto. Non servivano parole d’amore né promesse di eterna fedeltà: era un atto spoglio di sentimenti; la sua carne che abbracciava quella di lui, che esigeva ciò che le era dovuto. Se qualcuno in quel momento le avesse chiesto il suo nome, non avrebbe saputo rispondere. Rachel — che aveva combattuto così duramente per non smarrire se stessa — aveva trovato la via d’uscita dal labirinto per arrivare in quel luogo di oblio, dove tutte le Rachel che era stata venivano eclissate.

Mentre si muoveva su di lui, ebbe la sensazione che la stanza stesse fremendo attorno a loro, che i vetri alle finestre stessero tremando, che i suoi singhiozzi e i suoi sospiri riecheggiando tra le pareti stessero tornando a lei centuplicati, come se la sua voce avesse risvegliato altre voci, altre vibrazioni, che fino a quel momento erano rimaste prigioniere. Si rese conto che non era soltanto il desiderio che provava per lui a renderla così sfacciata; c’era anche qualcosa di più profondo, lì.

Riaprì gli occhi e, attraverso il velo tremolante del piacere, guardò il volto dell’uomo che amava. L’espressione di Galilee non era cambiata, ma adesso i suoi occhi erano aperti, impercettibilmente, e la stava fissando.

Non siamo soli….” disse lui.

Diciannove

In spiaggia erano arrivati alcuni surfisti per cavalcare qualche onda prima del tramonto. Le loro grida entusiaste riecheggiavano attraverso il prato fino alla veranda dove sedeva Niolopua, fumando un ultimo spinello. La vista di suo padre nudo sul letto lo aveva messo a disagio. Anche se conosceva Galilee da più di una vita umana, non lo aveva mai visto così vulnerabile prima d’ora. E anche se credeva che le intenzioni di Rachel fossero buone, che i suoi sentimenti per suo padre fossero sinceri, c’era una parte di lui che voleva disperatamente allontanare Galilee da lei, portarlo via da quella maledetta casa così piena di ricordi tristi; portarlo sulle colline dove né Rachel né qualsiasi altra Geary avrebbe mai potuto trovarlo. L’amore non era abbastanza, non in questo mondo. L’amore finiva nel tradimento o nella tomba, prima o poi; era solo una questione di tempo.

Tuttavia l’erba lo risollevò da quei pensieri cupi. Non doveva essere così pessimista. Il fatto che lui non avesse mai assaporato la felicità non significava che non esistesse. Era solo molto difficile affrontare i cambiamenti che lo attendevano. La sua era stata un’esistenza dura — nascosto quasi sempre nella sua baracca in modo che gli isolani non si accorgessero che il passare degli anni quasi non lo toccava. Aveva vissuto in funzione delle visite di suo padre sull’isola. Era stato il suo tramite attraverso i decenni, quello che lo aveva informato che c’era bisogno di lui a Kaua’i, quello che aveva facilitato ogni relazione e che più di una volta si era trattenuto per dare conforto alla donna dopo la partenza di suo padre. Non gli aveva mai fatto domande sui suoi compiti né sulla sua capacità di svolgerli. C’era un legame solido tra padre e figlio; un legame di menti. Tutto ciò che Niolopua doveva fare era restare seduto nel silenzio della sua baracca e pronunciare il vero nome di suo padre — Atva, Atva — e Galilee lo sentiva, dovunque si trovasse. Non c’era bisogno di ulteriori istruzioni. Niolopua aveva chiamato quel nome solo quando una donna della famiglia Geary gli aveva chiesto di farlo. E Galilee era sempre venuto, la sua abilità di marinaio così straordinaria, la sua conoscenza del vento e delle correnti così profonda che talvolta era arrivato ancora prima della donna alla quale avrebbe dovuto donare piacere. Secondo Niolopua tutto questo era sconfortante; suo padre, il grande viaggiatore, che veniva chiamato come un animale da compagnia. Ma non toccava a lui mettere in dubbio quel rituale. L’unica volta che ci aveva provato, Galilee gli aveva detto in modo molto chiaro che quell’argomento non era aperto a nessun genere di discussioni. Niolopua non aveva più osato dire niente in proposito. Non era la rabbia di suo padre che aveva temuto; Galilee non gli aveva mai dimostrato altro che amore. Era stato il dolore che aveva visto in lui a zittirlo. Si era rassegnato a non conoscere mai la ragione per cui Galilee si offriva come amante a quelle donne sole. Era un fatto che faceva parte della vita sua e di suo padre.

Le cose sarebbero cambiate ora? Il fatto che l’indole di Galilee avesse rischiato di distruggerlo avrebbe segnato un mutamento radicale nelle loro esistenze d’ora in avanti? Rachel era l’ultima Geary che Galilee avrebbe servito? E se era così, cosa sarebbe rimasto a Niolopua? Probabilmente niente.

Aspirò un’ultima boccata di marijuana e gettò il mozzicone sul prato. Poi si voltò a guardare la casa. Ormai era calata la notte e l’edificio era immerso nell’oscurità. Niolopua attese di scorgere qualche segno di vita ma non vide niente. Era probabile che Rachel fosse ancora al piano di sopra e si stesse prendendo cura di suo padre. Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, pensò; né lei né Galilee avevano bisogno di lui, ora. Sarebbe tornato il giorno dopo per salutarli. Indugiò sulla veranda ancora per qualche secondo, poi si girò e scese i gradini che portavano al prato.

Non si accorse dell’uomo fino all’ultimo momento; non ebbe il tempo di parlare né di gridare. Il coltello affondò in lui troppo rapidamente, con tanta forza che Niolopua rimase di colpo senza respiro. Cercò di riprendere fiato e di allontanarsi dal suo aggressore, ma solo uno dei suoi polmoni funzionava ormai; l’altro era stato perforato e si stava già riempiendo di sangue. L’uomo lo colpì ancora, conficcandogli la lama nello stomaco. Niolopua si piegò in due, ma l’uomo gli afferrò il viso con una mano e lo spinse via. Niolopua cadde all’indietro, portandosi le mani alle ferite nella disperata speranza di riuscire a tamponarle e di sopravvivere abbastanza a lungo per chiedere aiuto. Ma non ebbe la forza di gridare; tutto ciò che riuscì a fare fu dirigersi verso la casa, ogni passo un’autentica agonia. Con la coda dell’occhio intravide l’uomo col coltello a qualche metro da lui, che ora si limitava a osservarlo. Barcollando, Niolopua raggiunse la veranda e cominciò a salire i gradini. A quel punto si gettò in avanti e per un istante osò sperare che il rumore che avrebbe fatto cadendo avrebbe richiamato l’attenzione di qualcuno e che il suo assalitore sarebbe fuggito. Ma proprio in quel momento, l’uomo tornò ad avventarsi su di lui, la sua sagoma confusa agli occhi di Niolopua come una fotografia sfocata.

Solo alla fine, quando l’uomo fu su di lui e affondò il coltello per la terza e ultima volta nel suo corpo, Niolopua vide il volto del suo assassino. Conosceva quell’uomo. Non personalmente, ma lo aveva visto sulle copertine di molte riviste. Era un Geary. Sui suoi lineamenti regolari non c’era alcuna espressione; sembrava in trance, lo sguardo assente, la bocca semiaperta.

Emettendo un piccolo grugnito, l’aggressore estrasse la lama dalla ferita, e Niolopua cadde in avanti sulla veranda, la sua mano protesa a pochi centimetri dalla porta. Il giovane Geary non tentò di colpirlo di nuovo; non ne aveva bisogno. Aveva fatto il suo lavoro. Rimase ad aspettare sui gradini fissando la sua vittima. Niolopua era caduto a faccia in giù, e il sangue che gli scorreva dalla bocca e dal naso stava inondando le assi della veranda. Nei suoi ultimi secondi di vita, il suo spirito fluttuò verso un luogo senza dolore dal quale avrebbe potuto assistere alla scena sotto di lui, ma rimase lì nella sua testa a scrutare il legno su cui giaceva. Il suo corpo cercò di trarre un ultimo respiro agonizzante, ma non ci riuscì. Fu scosso da un brivido ed emise un debole gemito, poi la vita lo abbandonò.

Mitchell osservò il cadavere vagamente sorpreso dalla veemenza con cui lo aveva colpito. Non aveva previsto l’ondata di rabbia che lo aveva travolto alla vista di Galilee Barbarossa, o meglio dell’uomo che aveva scambiato per Galilee Barbarossa. Si era quasi sentito guidare dalla mano che impugnava il coltello; ma, oh, la soddisfazione e il piacere che aveva provato quando la lama era penetrata nella carne. Quei pochi secondi in cui aveva pensato di aver ucciso Galilee erano stati talmente dolci, talmente meravigliosi che adesso era ansioso di provare ancora quelle sensazioni, con l’uomo giusto.

Tornò sul prato e si accucciò, facendo scorrere la lama del coltello sull’erba per pulirla. Un minuto prima quello era stato soltanto un coltello da cucina da quattro soldi, comprato in un piccolo emporio. Ma adesso stava per diventare qualcosa di straordinario: ora che il coltello era stato iniziato, era pronto per compiere un’opera leggendaria. Mitchell si alzò e tornò a guardare la casa. Era immersa nel silenzio ma non aveva dubbi che i suoi nemici fossero lì dentro; prima aveva sentito Rachel singhiozzare come una puttana.

Ripensando a quel suono, salì i gradini del portico, scavalcò il cadavere, aprì la porta ed entrò in casa.

Venti

Il momento di lucidità di Galilee non era durato a lungo. Era riemerso dal suo stato comatoso per dire non siamo soli e poi era ripiombato nello stordimento, chiudendo gli occhi. Ma quelle parole avevano allarmato Rachel. Chi c’era lì? E perché Galilee non le era parso per niente turbato da quel pensiero? Con riluttanza, si staccò da lui e scese dal letto. Nell’istante in cui smise di toccarlo, sentì freddo; l’aria nella camera sembrava quasi ghiacciata. Si inginocchiò e cominciò a frugare nella borsa da viaggio in cerca di qualcosa di caldo da indossare. Scossa da violenti brividi, prese un maglione e se lo infilò. In quel momento, la porta cigolò e Rachel alzò gli occhi sull’ombra di un’ombra, niente di più, che attraversava la stanza. Non fu nemmeno certa di averla vista davvero, e quando scrutò il punto in cui le era parso di scorgerla non notò niente. Si alzò in piedi, preoccupata. Guardò il letto. Galilee giaceva immobile, il membro ancora eretto, le palpebre abbassate.

Tenendo d’occhio il punto in cui aveva visto l’ombra, Rachel si avvicinò al comodino e accese la lampada. La stanza era vuota. Qualunque cosa avesse visto, adesso era scomparsa o forse era stata solo un prodotto dei suoi sensi esausti e sovrastimolati. Rachel andò alla porta e l’aprì. Il corridoio era buio ma dalla camera da letto filtrava abbastanza luce da permetterle di raggiungere la cima delle scale. Nonostante il maglione, aveva ancora freddo. Forse era soltanto colpa della stanchezza, pensò; sarebbe andata da Niolopua, gli avrebbe detto che avrebbe dormito qualche ora e poi sarebbe tornata da Galilee. Quanto a ciò che le lui aveva detto, avrebbe cercato di non pensarci.

In quel momento qualcosa le sfiorò la spalla, come se una presenza invisibile le fosse passata accanto. Rachel si voltò a guardare verso la porta della camera da letto. Niente. Il suo corpo era semplicemente così sfinito che cominciava a giocarle strani scherzi. Scese le scale. Al piano di sotto le luci erano spente ma il chiarore della luna le permise di trovare l’interruttore accanto alla porta della cucina. In quel momento, scorse una figura dall’altra parte della stanza, vicino alla porta d’ingresso. Questa volta non c’erano dubbi. Non si trattava di un’illusione vista con la coda dell’occhio; era una realtà solida. Rimase a guardarlo mentre si richiudeva la porta alle spalle. Poi l’uomo si voltò, e lei lo riconobbe. Il cuore prese a batterle furiosamente contro la cassa toracica.

“Che cosa ci fai qui?” gli chiese.

“Tu che cosa ne pensi?” disse lui. “Sto chiudendo la porta.”

“Non ti voglio qui.”

“Non si è mai abbastanza al sicuro, piccola. C’è gente terribile là fuori.”

“Mitchell. Voglio che tu te ne vada.”

Lui si fece scivolare la chiave della porta d’ingresso nel taschino della giacca, poi fece qualche passo verso di lei. Sotto la giacca indossava una camicia bianca sporca di sangue.

“Che cos’hai fatto?” gli domandò Rachel.

Lui abbassò lo sguardo sulla camicia. “Oh, parli di questa?” disse in tono leggero. “Non è terribile come sembra.” Gettò un’occhiata in direzione delle scale. “Lui è di sopra?” Lei non rispose. “Piccola, ti ho fatto una domanda. Il negro è di sopra?” Adesso si era fermato ed era a pochi passi dalle scale. “Ha tentato di farti del male, tesoro?”

“Mitchell…”

“Allora?”

“No. Non mi ha fatto del male. Non lo farebbe mai.”

“Non cercare di proteggerlo. So come la pensano quelli come lui. Mette le mani su una persona come te, una persona che non sa come funzionano le cose, e ti manipola. Ti entra nella testa, ti racconta ogni genere di menzogne. Non è vero niente, piccola. Non è vero niente.”

“Bene”, disse Rachel con estrema calma. “Non è vero niente.”

“Vedi? Lo sapevi. Lo sapevi.” Mitchell cercò di fare uno dei suoi famosi sorrisi, uno di quei sorrisi smaglianti e colmi di fascino che aveva sempre riservato ai giornalisti e ai membri del Congresso. Ma ora sembrava soltanto grottesco; il ghigno di una maschera mortuaria. “L’ho detto a Loretta. Le ho detto: posso ancora salvarla, perché in fondo al cuore lei sa che sta facendo qualcosa di sbagliato. E tu lo sai. Vero?” Rachel non rispose, così lui insistette: “Vero?

Rachel avvertì la rabbia di Mitchell pronta a esplodere e decise che sarebbe stato meglio dargli ragione. La voce di lui si fece più morbida: “Devi tornare a casa con me, piccola. Questo è un posto terribile”.

Mentre parlava, il suo sguardo era tornato a scrutare le scale e sul volto gli si era dipinta un’espressione di incredulità.

“Tutte le cose che sono successe qui…” continuò “… le cose che lui ha fatto… a delle donne innocenti…”

Lentamente, si fece scivolare la mano sotto la giacca ed estrasse un coltello dalla lama sporca di terra.

“Tutto questo deve finire…” disse.

Guardò di nuovo Rachel. Nei suoi occhi, lei scorse la stessa follia che aveva visto il giorno in cui si era presentato a casa sua per prendere il diario. Ma ormai era chiaro, aveva perso irrimediabilmente il controllo di sé.

“Non aver paura, piccola”, continuò Mitchell. “So quello che faccio.”

Rachel lanciò un’occhiata furtiva verso le scale temendo che Galilee fosse sceso dal letto e si fosse trascinato in corridoio. Ma non c’era nessuno. Solo la debole luce che proveniva dalla camera da letto. Quel chiarore tremolava adesso come se qualcosa si stesse muovendo in cima alle scale. Era una presenza impalpabile, ma abbastanza forte da interferire con la luce. Rachel non era del tutto sicura che anche Mitchell potesse vederla. Comunque non aveva intenzione di chiederglielo. L’ultima cosa che voleva era compromettere quel poco che restava del suo equilibrio mentale. Se fosse salito al piano di sopra adesso, avrebbe trovato una vittima completamente indifesa. E a giudicare dallo stato del coltello e dalla macchia di sangue che aveva sulla camicia, Mitchell aveva già aggredito qualcuno.

Solo in quel momento Rachel si ricordò di Niolopua. Oh Signore, aveva ferito Niolopua. Di colpo ne fu certa. Era quella la ragione dello sguardo folle di Mitchell; aveva già assaggiato il piacere del sangue. Fortunatamente, lui non si accorse che lei aveva capito. Teneva ancora lo sguardo fisso sulle scale.

“Voglio che tu resti qui”, le disse.

“Perché non ce ne andiamo e basta?” suggerì lei. “Io e te.”

“Tra un minuto.”

“Se questo è un posto così terribile…”

“Te l’ho già detto: tra un minuto. Prima devo andare di sopra.”

“Non farlo, Mitch.”

Lui spostò gli occhi su Rachel. “Non fare cosa?” chiese. Lei trattenne il fiato, notando che la mano di lui si stava serrando con più forza attorno all’impugnatura del coltello. “Non fargli del male? E questo che volevi dire?” Fece un passo verso di lei. “Vuoi che non faccia del male al tuo amante, è questo?”

“Mitch, io c’ero quando sua madre è venuta al palazzo. Ho visto di cosa è capace.”

“Non ho paura di nessun fottuto Barbarossa.” Inclinò la testa di lato. “Capisci, il problema è…”

Calò un fendente nell’aria in direzione di Rachel, come per sottolineare quello che stava dicendo.

“… che nessuno ha mai voluto affrontare questa gente. Abbiamo lasciato le nostre donne a quel fottuto negro che adesso è di sopra come se fossero state di sua proprietà. Be’, questo non accadrà con mia moglie. Mi hai capito, piccola? Non gli permetterò di portarti via da me.”

Con la mano libera le accarezzò il viso.

“Povera piccola”, continuò. “Non è colpa tua. Lui ti ha fottuto il cervello, non ti ha dato altra scelta. Ma adesso andrà tutto bene. Me ne occuperò io. È questo che i mariti dovrebbero fare, dovrebbero proteggere le loro mogli. Non sono stato molto bravo in questo. Non sono stato un buon marito. Lo so e mi dispiace. Mi dispiace, tesoro.”

Si sporse verso Rachel e, come uno scolaretto nervoso, le diede un lieve bacio.

“Andrà tutto bene”, ripeté. “Farò quello che devo fare e poi ce ne andremo di qui. Ricominceremo da capo.” Le sue dita continuavano ad accarezzarle la guancia. “Perché, tesoro, io ti amo. Ti ho sempre amata e ti amerò sempre. Non sopporto l’idea di stare lontano da te.” Adesso la sua voce era debole, quasi patetica. “Non posso, piccola, mi fa impazzire. Devo averti. Capisci?”

Lei annuì. Da qualche parte in fondo alla sua mente, dietro alla paura che provava — per Galilee, per se stessa — c’era un luogo in cui aveva conservato i resti di ciò che una volta aveva provato per suo marito. Forse non era stato vero amore ma era stato comunque un sogno bellissimo. E mentre lo ascoltava adesso, anche se lui era ormai in preda alla follia, ripensò a quel sogno con affetto. Il modo in cui l’aveva fatta sentire importante nei primi mesi in cui si erano frequentati; la sua dolcezza, la sua gentilezza. Ma ormai c’era soltanto l’eco distorta dell’uomo che era stato.

Oh Dio, era un pensiero così triste! E Mitchell sembrò percepire la malinconia di Rachel, perché quando parlò di nuovo non c’erano più né rabbia né sicurezza nella sua voce.

“Non volevo che le cose andassero così”, disse, “te lo giuro.”

“Lo so.”

“Non so… come sono arrivato fino a questo punto…”

“Non deve per forza andare in questo modo”, sussurrò lei con estrema dolcezza. “Non devi fare del male a nessuno per dimostrarmi che mi ami.”

“Sì… io ti amo.”

“Allora metti giù il coltello, Mitch.” La mano di lui, che aveva continuato ad accarezzarle la guancia, si fermò di colpo. “Ti prego, Mitch, mettilo giù.”

Lui ritrasse la mano e la sua espressione, che a poco a poco si era raddolcita, si fece severa.

“Oh no…” mormorò. “So cosa stai facendo…”

“Mitch…”

“Pensi di potermi convincere a non andare di sopra.” Scosse la testa. “No, piccola. È impossibile. Mi dispiace.”

Detto questo, la lasciò e si diresse verso le scale. Per un istante Rachel vide con una chiarezza quasi irreale ciò che stava succedendo: l’uomo col coltello — suo marito, il suo principe di un tempo — che si allontanava da lei, avvolto da un alone di sudore e di odio; il suo amante al piano di sopra che giaceva sul letto perso nel mondo dei sogni; e, nel mezzo, sulle scale buie, sul pianerottolo, quelle presenze spettrali a cui non riusciva a dare un nome.

Mitchell cominciò a salire le scale. Rachel non aveva altra scelta. Lo seguì e, prima che lui potesse fermarla, lo oltrepassò per sbarrargli la strada. L’aria fremeva attorno a loro. Forse Mitchell si era reso conto che c’era qualcosa di fuori dell’ordinario in quella casa, ma la sua determinazione a raggiungere Galilee ormai lo stava accecando. Il suo volto era una maschera modellata sui suoi lineamenti; una maschera pallida e implacabile. Rachel non perse tempo a cercare di dissuaderlo; non le avrebbe dato ascolto. Semplicemente, si fermò davanti a lui. Se voleva fare del male a Galilee, prima avrebbe dovuto affrontare lei. Mitchell la fìsso; i suoi occhi erano le sole cose vive in quel volto morto.

“Levati di mezzo”, le ordinò.

Rachel afferrò entrambi i corrimano. Si rendeva conto di essere orribilmente vulnerabile in quella posizione; il ventre e i seni alla portata del coltello, se lui avesse voluto usarlo. Ma non le restava altra scelta ed era convinta che, nonostante la follia che si era impossessata di lui, Mitchell non le avrebbe fatto del male.

Lui si fermò un gradino sotto di lei e per un istante Rachel sperò di riuscire a riportarlo alla ragione. Ma poi la mano di Mitchell scattò, la afferrò per i capelli e la strattonò con violenza. Lei mollò la presa e cadde in avanti, ma lui continuò a tenerla per i capelli, girandole la testa all’indietro. Gridando per il dolore, Rachel cercò di prendergli il braccio. Il mondo oscillò attorno a lei. Lui la strattonò di nuovo, attirandola a sé e poi spingendola contro il corrimano. Questa volta Rachel riuscì a mantenere l’equilibrio e a non cadere. Ma prima che avesse il tempo di riprendere fiato, lui la schiaffeggiò con forza. Le gambe di Rachel cedettero e lei si accasciò. Lui riuscì ad assestarle un altro colpo, ancora più violento, e poi un terzo che la fece rotolare giù per le scale. Quando atterrò sul pavimento in fondo ai gradini, perse conoscenza per qualche secondo. Nell’oscurità che le ronzava nella testa, cercò di rimettere ordine tra i pensieri, ma inutilmente: non riuscì a fare altro che costringere i suoi occhi ad aprirsi. Mitchell la fissò per qualche lungo istante, per essere certo di averla messa fuori combattimento. Poi si voltò e riprese a salire le scale.

Ventuno

Rachel non poté fare altro che restare a guardare; il suo corpo si rifiutò di muoversi anche solo di un centimetro. Non poté fare altro che restare sdraiata lì a guardare Mitchell che saliva al piano di sopra per uccidere Galilee nel suo letto. Non poté nemmeno chiamarlo; la sua gola e la sua lingua si rifiutavano di funzionare. E se anche fosse riuscita a emettere un suono, Galilee non l’avrebbe sentita. Era perso in un suo mondo privato; si stava curando con il più profondo dei sonni. Non sarebbe riuscita a svegliarlo.

Mitchell era quasi arrivato in cima alle scale; di lì a pochi secondi Rachel lo avrebbe perso di vista. Oh Dio, avrebbe voluto piangere per la rabbia e la frustrazione. Tutti i grandi avvenimenti del recente passato dovevano ridursi a questo? A lei, che giaceva in fondo a una rampa di scale, incapace di muoversi, a lui, al piano di sopra, altrettanto impotente, e a un uomo con un piccolo coltello e una piccola anima, che tagliava il legame tra loro due?

Sentì Mitchell dire qualcosa; cercò di concentrarsi su di lui. Ma era difficile vederlo, adesso che era in cima alle scale; le ombre erano dense e sembravano quasi volerlo nascondere ai suoi occhi. Cercò di muovere un braccio, di alzarsi leggermente sperando di vederlo meglio. E in quel momento lui parlò di nuovo.

“Chi siete?” disse.

C’era preoccupazione nella sua voce; persino una punta di panico. Lo vide affondare il coltello nell’oscurità come per tenerla a bada. Ma era impossibile. Le ombre sembravano avanzare verso di lui, vive e inquiete. Lui calò di nuovo la lama, ancora e ancora. Poi fece un passo indietro. Dalle labbra gli sfuggì un grido terrorizzato.

Gesù! Che cazzo è questo?”

Compiendo un ultimo, terribile sforzo, Rachel fece leva sulle braccia e sollevò dal pavimento la parte superiore del corpo. Le girava la testa e subito venne assalita da un’ondata di nausea, ma un istante dopo se ne dimenticò perché i suoi occhi diedero un senso a ciò che stava succedendo sulle scale. Lassù, insieme a Mitchell, c’erano tre, forse quattro forme umane, e lo stavano spingendo contro la parete. Lui continuava a calare fendenti nel disperato tentativo di tenerle lontane, ma era chiaro che non poteva ferirle in alcun modo. Erano spiriti dalle forme sinuose e aggraziate svelate dal semplice gioco tra luci e ombre. Uno di loro, avvicinandosi a Mitchell, si voltò a lanciare un’occhiata in direzione di Rachel e lei riuscì a vederlo in viso. Era una donna — erano tutte donne — e aveva un’espressione vagamente divertita. I suoi lineamenti erano tutt’altro che definiti; sembrava un ritratto appena abbozzato. Ma Rachel conosceva quel volto. Anche se non l’aveva mai incontrata di persona, conosceva quella donna, che aveva regalato l’essenza dei suoi lineamenti alle generazioni che l’avevano seguita. La fronte spaziosa, la curva degli zigomi, la mascella volitiva, lo sguardo penetrante: tutti quei dettagli si erano impressi nella fisionomia dei Geary. E se quello che immaginava Rachel era vero, allora quelli dovevano essere gli spiriti delle donne che erano state con Galilee nella casa di Kaua’i. Erano tutte donne Geary che avevano trascorso dolci momenti d’amore sotto quel tetto e che dopo la morte erano tornate lì per lasciare parte dei loro spiriti nel luogo in cui erano state più felici.

A poco a poco, il senso di vertigine l’abbandonò e Rachel riuscì a vedere meglio anche le altre presenze che si muovevano attorno a Mitchell. I suoi sospetti vennero confermati. Una era la prima moglie di Cadmus, Kitty, di cui Rachel aveva visto il ritratto appeso nella sala da pranzo del palazzo. Era una donna radiosa, con il portamento di una matriarca, e adesso era libera dai corsetti e dalle formalità; il corpo sensuale nonostante la semplice materia che lo esprimeva; come se fosse ritornata con l’aspetto dell’edonista che era stata in quella casa. Una donna di piacere per pochi, meravigliosi giorni, sicura tra le braccia di Galilee; persino amata.

Ed era proprio questo che quelle donne erano venute a cercare lì — era proprio questo che pure Rachel era venuta a cercare, anche se non lo aveva capito in un primo momento — l’amore. Qualcosa di più del dovere coniugale; qualcosa di più del compromesso e dell’inganno. Un’emozione che proveniva dal centro stesso del loro essere; uno sguardo su ciò di cui le loro anime avevano bisogno per restare luminose. Nessuna meraviglia che fossero tornate lì; nessuna meraviglia che ora si fossero manifestate. Volevano proteggere l’uomo che le aveva rese felici.

Quanto capiva Mitchell di ciò che stava accadendo? Non molto, sospettava Rachel, ma gli spiriti glielo stavano spiegando. Poteva sentire sussurri — suoni gentili, giocosi — che provenivano dalla cima delle scale, e le donne si stringevano attorno a lui mentre parlavano, i volti sempre più vicini al suo. Mitchell smise di provare a tenerle a bada con il coltello e si portò le mani al viso, cercando di sottrarsi a quello spettacolo.

“Lasciatemi stare!” lo sentì singhiozzare Rachel. “Lasciatemi stare, cazzo!”

Ma le donne non avevano alcuna intenzione di lasciarlo andare. Gli si fecero sempre più vicine. Sembrava che Mitchell fosse circondato da uno sciame di api e non avesse altra scelta che quella di restare lì ed essere punto e punto e punto…

Nel frattempo, Rachel aveva raggiunto il corrimano e stava facendo del proprio meglio per alzarsi in piedi. Non era certa di potersi fidare delle sue gambe, ma Mitchell non la stava guardando e lei sapeva che quella era l’occasione giusta per trovare un’arma. Forse la sua unica occasione. Stava per alzarsi quando si accorse di un’altra figura sul pianerottolo. Era Galilee. Si era svegliato dai suoi sogni e con grande fatica si stava dirigendo verso la sommità delle scale.

Anche Mitchell lo vide. Agitando la mano che impugnava il coltello e lanciando un grido rabbioso, cercò ancora una volta di scacciare gli spiriti. Poi sollevò il coltello e si spinse attraverso il velo delle sue carnefici per avventarsi sul nemico.

Da dove si trovava, Rachel non riuscì a vedere con chiarezza ciò che accadde a quel punto. Il corpo di Mitchell nascose quello di Galilee e un istante dopo le donne erano già tornate a circondarlo, come una nuvola. Vi fu un istante di immobilità in cui l’oscurità non le mostrò nulla. Poi Mitchell emerse dalle tenebre e fu gettato all’indietro con tanta forza che i suoi piedi si staccarono dal pavimento. Rachel lo sentì emettere un grido e poi una serie di gemiti mentre cadeva rovinosamente dalle scale. Lei si scansò all’ultimo momento, e Mitchell atterrò nel punto esatto in cui si era trovata fino a qualche istante prima. Quasi subito Mitchell provò ad alzarsi e lei si ritrasse, certa che fosse pronto a sferrare un nuovo attacco. Ma quando lui si sollevò, Rachel si accorse che stava sanguinando. Il coltello — il suo piccolo coltello — si era conficcato nel petto di Mitch. Lei lo guardò in viso. La maschera dei suoi lineamenti era spezzata e non sembrava più così implacabile. Aveva gli occhi bagnati da lacrime di dolore e la bocca contratta in una smorfia patetica. Mitchell la guardò con occhi umidi e sgranati.

“Oh, piccola…” disse. “Fa tanto male.”

Furono le sue ultime parole. Le sue braccia tremanti cedettero e lui ricadde a faccia in giù conficcandosi ancora più profondamente il coltello nella ferita. Ma i suoi occhi erano ancora fissi su di lei quando la vita lo abbandonò.

Lei lo guardò. Non aveva voglia di piangere. Ci sarebbe stato tempo per le lacrime più tardi, ma non adesso; adesso c’era solo il sollievo che provava perché era tutto finito.

In cima alle scale c’era Galilee, appoggiato al corrimano per non cadere. Stava guardando il corpo di Mitchell e sul suo volto c’era un’espressione talmente triste che sul pavimento in una pozza di sangue avrebbe potuto esserci il cadavere di qualcuno che aveva amato.

“Io non…” cominciò, ma non riuscì a finire la frase.

“Non ha importanza”, disse lei.

Lui si mise a sedere, continuando a fissare il cadavere. Alle sue spalle, le donne Geary erano in piedi, simili a un coro malinconico.

Una di loro si staccò dal gruppo e oltrepassò Galilee per scendere le scale. Solo quando si fermò, a metà della rampa, Rachel la riconobbe. Era Margie, o meglio un’eco della donna che era stata chiamata con quel nome. I suoi lineamenti non erano più definiti di quelli delle altre donne — forse anche meno — ma il suo sguardo ironico e il suo sorriso divertito erano inconfondibili.

Anzi non stava solo sorridendo; stava ridendo. E chi altri se non Margie avrebbe potuto trovare divertente la vista di Mitchell Geary riverso in una pozza del suo stesso sangue? Il principe era morto, e lo spirito di Margie brindò a quello spettacolo con una lunga e fragorosa risata.

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