PARTE QUINTA L’atto dell’amore

Uno

Verso sera il vento aveva sospinto le nuvole in direzione del Monte Waialeale, dove si erano liberate del loro carico di pioggia. Il cielo si schiarì sulla spiaggia settentrionale e verso le sette e un quarto il vento si affievolì all’improvviso. Rachel stava cenando — del pollo arrosto preparato da Heidi che era arrivata, aveva cucinato e se n’era andata. Alzò lo sguardo e notò che le palme avevano smesso di ondeggiare e che il mare si era placato.

Quel silenzio la rese inquieta così ascoltò un po’ di musica. Fu un errore; le fece tornare alla mente una sera in cui lei e Mitchell, che all’epoca non si conoscevano da molto tempo, erano andati a ballare e avevano scelto un locale molto esclusivo in cui una piccola orchestra jazz suonava vecchie canzoni degli anni Quaranta e tutti ballavano guancia a guancia. Oh, com’era stata innamorata quella sera; come una quindicenne infatuata del quarterback della scuola. Avevano bevuto champagne e lui le aveva detto che l’amava e che l’avrebbe amata per sempre.

“Bugiardo…” mormorò, osservando il mare. A volte, quando ripensava a certe cose che Mitchell le aveva detto — promesse dolci che non aveva mantenuto, dichiarazioni dure con cui l’aveva ferita deliberatamente — avrebbe voluto trovarsi davanti a lui, puntargli contro un dito accusatore e chiedergli: perché lo hai detto? Dio mio, Mitchell, eri un tale bugiardo, un miserabile bugiardo…

Invece di spegnere il fonografo, continuò ad ascoltare quella musica fino all’ultima, malinconica nota. L’unico modo per lasciarsi alle spalle il dolore era affrontarlo. Se anche quel viaggio non fosse servito ad altro, pensò, almeno avrebbe avuto l’opportunità di sfogliare i suoi ricordi e vederli nitidamente. Allora, e solo allora, sarebbe potuta andare per la sua strada. Consegnare Mitchell e tutto ciò che aveva rappresentato per lei al passato e cominciare una nuova vita.

Una nuova vita. Quello sì che era un pensiero spaventoso. Non era la prima volta che si domandava cosa ne sarebbe stato di lei, ma ora quella domanda assumeva un valore nuovo lì, sull’isola, dove sapeva che altri erano venuti a ricominciare da zero prima di lei. Jimmy Hornbeck, per esempio. E anche i Montgomery e i Robertson e gli Schmutze sepolti attorno alla chiesa. Probabilmente anche loro erano arrivati da altri luoghi. Forse erano fuggiti, proprio come lei: da vite che li avevano feriti e delusi. Non sarebbe stato poi così male, pensò, scomparire dal mondo e vivere e morire in quel paradiso; essere seppellita in un luogo dove nessuno sarebbe venuto a piangerla, dove nessuno l’avrebbe ricordata.


Andò a letto verso le dieci e si addormentò rapidamente proprio come la notte prima. Ma questa volta non dormì fino all’alba. Si svegliò da un sogno poco dopo la mezzanotte. Aveva l’impressione di essere stata disturbata da qualcosa, ma non ne era sicura. Riusciva solo a sentire il frinire ritmico dei grilli e il morbido gracidio delle rane. La luce della luna filtrava attraverso le tende ma non era abbastanza intensa da poterla svegliare.

Poi si rese conto che era stato un odore. L’aroma dolce e intenso di qualcosa che bruciava. Con una certa riluttanza, la sua mente le disse che avrebbe dovuto alzarsi e andare a controllare che la fonte dell’odore non fosse in casa. Con il corpo ancora pesante di sonno, Rachel scostò le lenzuola e scese dal letto. Si infilò una T-shirt e un paio di slip, e scese al piano inferiore per indagare. Non appena raggiunse il soggiorno riuscì a scorgere il fuoco: era sulla spiaggia e ardeva brillante. Forse si trattava dei tre surfisti che aveva visto il primo giorno, tornati nel cuore della notte per accendere un falò e fumarsi un po’ d’erba. Se era così, questa volta avevano acceso un fuoco molto più grande. Era una ripida piramide di legna avvolta da fiamme gialle. Il profumo comunque non era quello del legno bruciato. Aveva un’intensità aromatica ed esotica.

Rachel aprì la portafinestra e uscì, pensando che avrebbe potuto vedere meglio chi aveva acceso quel fuoco. Ma non vide nessuno. Il cielo era pieno di stelle ma la luna era coperta. Ritornò in casa, prese il pacchetto di sigarette che aveva comprato all’aeroporto di Honolulu e uscì di nuovo. Questa volta scese dalla veranda e attraversò il prato fino a raggiungere il sentiero. Ora si trovava a non più di una decina di metri dal falò, eppure continuava a non scorgere alcuna traccia di chi lo aveva acceso. Il profumo era più intenso che mai adesso e si levava dalla piramide di legno come incenso da un turibolo gigantesco. Era dolce ma allo stesso tempo pungente, come il miele di un antico alveare.

Raggiunse la spiaggia e si diresse verso il falò, godendosi il calore delle fiamme che le accarezzava le gambe nude. Non c’era nessuno, chiunque avesse acceso il fuoco se n’era andato, lasciando il suo capolavoro ad ardere nella notte. Non è stata un’ottima idea, pensò Rachel. Se si fosse alzato il vento, avrebbe potuto far volare delle schegge di legno in fiamme tra i cespugli o peggio ancora verso la casa.

Cosa doveva fare?, si chiese. Attendere che il fuoco si spegnesse da solo o tentare di soffocare le fiamme con la sabbia? Scartò subito la seconda ipotesi. Il falò era troppo grande. Quanto ad aspettare lì, be’, sarebbe stata una lunga, lunga attesa.

Forse una volta tanto avrebbe dovuto convincersi che il peggio non sarebbe accaduto.

Sarebbe tornata a dormire. Prima che sorgesse il sole, il fuoco sarebbe stato ridotto a una pozza annerita e fumosa nella sabbia e i suoi timori le sarebbero sembrati ridicoli. Alla prima occasione, avrebbe detto ai surfisti di non accendere falò così grandi nei pressi degli alberi. Quindi si allontanò e si diresse verso casa.

Il profumo la seguì. Era nei suoi vestiti, nei suoi capelli, sulla sua pelle, nella sua bocca addirittura. E, benché potesse sembrare un’assoluta assurdità, più si allontanava più diventava intenso, come se l’aria fresca lo alimentasse. Quando raggiunse la casa, il profumo era talmente forte che sembrava quasi che le stesse fuoriuscendo dai pori della pelle.

Rachel considerò l’idea di farsi una doccia prima di tornare a letto, ma la scartò, persuasa più dal vago senso di ebbrezza indotto dal profumo che dalla stanchezza. Si sentiva le testa leggera, i sensi offuscati (quando allungò la mano per spegnere la lampada sul comodino, mancò l’interruttore di un paio di centimetri, cosa che la divertì molto). Quando alla fine trovò l’interruttore e appoggiò la testa sul cuscino nell’oscurità, dietro le palpebre le balenarono colori sgargianti simili ai riflessi di una bolla di sapone. Quasi ipnotizzata, si domandò se non le fossero rimasti impressi sulla retina quando aveva fissato il fuoco. Pensò che forse non se ne sarebbe più liberata — dei colori, della fragranza — e che sarebbe rimasta per sempre loro prigioniera. Non avrebbe mai più visto il mondo senza quei colori; non avrebbe mai più respirato senza avvertire l’aroma del fuoco.

Riaprì gli occhi solo per assicurarsi che il mondo che aveva lasciato là fuori, oltre le sue palpebre, esistesse ancora. Provava un leggero senso di disorientamento: niente di preoccupante, solo il sospetto che non fosse il caso di prendere troppo sul serio le cose fuori dalla sua testa, quella notte.

La stanza era ancora lì: il chiarore della lampada sul soffitto, la finestra aperta, le tende sospinte dalla brezza; il letto intagliato su cui giaceva; la porta in fondo alla camera che conduceva in corridoio, alle scale…

Il suo sguardo seguì i suoi pensieri fino al pianerottolo immerso nell’oscurità, e quando raggiunse le scale nella sua mente si formò una certezza: non era sola. Qualcuno era entrato in casa. Silenzioso come il fumo e altrettanto innocuo — sicuramente in una notte come quella, nessuno poteva avere cattive intenzioni — qualcuno era entrato in casa ed era in piedi in fondo alle scale.

Quell’idea non la turbò affatto. Si sentiva assurdamente invulnerabile, come se non avesse solo guardato il fuoco sulla spiaggia ma lo avesse attraversato senza procurarsi nemmeno un graffio.

Abbassò lo sguardo sulle scale, sperando di scorgerlo, e intravide una forma vaga laggiù, nell’oscurità: un uomo alto e robusto, dalla pelle nera, pensò Rachel. Lui cominciò a salire le scale. Mentre l’uomo si avvicinava, l’aria sembrò farsi più agitata, come eccitata alla prospettiva di essere respirata da lui. Lo sguardo di Rachel arretrò lungo il pianerottolo e attraverso la camera da letto fino a tornare nella sua testa. Forse avrebbe finto di dormire. Gli avrebbe permesso di svegliarla con una carezza, di posarle una mano sulle labbra, sul seno; o, se lo avesse voluto, di premerle le dita sul ventre; e poi giù, tra le gambe. Gli avrebbe permesso di farlo. Niente di tutto questo era reale, comunque, quindi perché no? Avrebbe potuto farle tutto quello che voleva e a lei non sarebbe successo niente. Non lì, sul suo letto intagliato. C’era solo felicità lì, solo gioia.

Nonostante quei pensieri, c’era ancora un angolo della sua mente controllato dalla cautela.

Non sei razionale”, le disse. “Il fumo ti ha dato alla testa. Il fumo e quest’isola. Ti hanno confusa.

Probabilmente era vero, ribatté la Rachel selvaggia che era dentro di lei. E con ciò?

Ma non sai nemmeno chi sia. E per di più è nero. Non ci sono neri a Dansky, Ohio. E se ce ne sono tu non ne conosci neanche uno. Sono diversi.

E anch’io lo sono, ribatté la Rachel selvaggia. Non sono più la persona che ero un tempo, e mi va benissimo così. E anche se quest’isola avesse gettato un incantesimo su di me? Ho bisogno di un po’ di magia. Sono pronta. Oh Signore, sono più che pronta.

Chiuse gli occhi, ancora decisa a fingere di dormire quando lui fosse entrato. Ma non appena percepì i fremiti dell’aria contro il suo viso che annunciavano la presenza dell’uomo sulla soglia della camera, Rachel riaprì le palpebre e gli chiese, a bassa voce, chi fosse.

Lui rispose, pronunciando una sola parola.

“Galilee”, disse.

Due

In quel momento, sulla sommità ammantata dalle nuvole del Monte Waialeale, la pioggia cadeva fittissima, a un ritmo impressionante. In gole troppo inaccessibili perché anima viva potesse raggiungerle, piante che non avevano mai avuto un nome si dissetavano grazie a quel diluvio; insetti che non si sarebbero mai avventurati là dove il piede di un uomo avrebbe potuto schiacciarli cercavano un riparo. Quelli erano luoghi segreti, specie segrete; fenomeni rari su un pianeta dove niente era abbastanza sacro, abbastanza squisito, abbastanza spaventato da essere protetto dall’invasione, dal bisturi, dall’esibizione.

Nel mare scurito dalla notte, le balene nuotavano tra un’isola e l’altra, madri e figli, fianco a fianco, adolescenti giocosi emergevano in superficie avvolti da vesti frenetiche di schiuma come per scrutare un attimo le stelle prima di sparire di nuovo nell’oceano. Nella barriera corallina, sotto di loro, in nicchie e insenature incontaminate quanto le vette del Monte Waialeale, venivano vissute altre vite segrete: le correnti calde trasportavano miriadi di forme minuscole, particelle trasparenti di volontà che nonostante le loro dimensioni insignificanti nutrivano le grandi balene.

E tra le vette e la barriera? Anche là c’era un mistero. Una specie non meno reale dei fiori o del plancton, anche se non apparteneva ad alcuna classe né ad alcuna gerarchia. Quella vita giaceva nella mente umana, nel cuore umano. Si muoveva solo quando era toccata, cosa che accadeva raramente, ma quando accadeva — quando si spostava, si mostrava alla creatura in cui abitava — era come una rivelazione. La prospettiva dell’amore poteva risvegliarla, così come la prospettiva della morte; e, di tanto in tanto, poteva accadere con qualcosa di più semplice: una canzone, un pensiero. Ma ancora di più veniva risvegliata dalla prospettiva della sua stessa apoteosi. Se sentiva avvicinarsi quell’istante, risaliva fino al volto del suo ospite come una luce, e ardeva e ardeva…


Chiunque tu sia….” disse dolcemente Rachel “… vieni e mostrami il tuo volto.

L’uomo entrò nella stanza. Rachel non riusciva ancora a distinguere i lineamenti del suo viso, ma poteva vedere il suo corpo e, come aveva immaginato, era un corpo splendido: alto e robusto.

“Chi sei?” chiese Rachel. Non ottenendo risposta, continuò: “Hai acceso tu il fuoco?”

“Sì.” La sua voce era morbida.

“Il fumo…”

“…ti ha seguita.”

“Sì.”

“Gliel’ho chiesto io.”

“Hai chiesto al fumo di seguirmi?” si stupì Rachel. Per quanto assurdo quel pensiero sembrava avere senso.

“Volevo che ci presentasse”, aggiunse con una traccia di divertimento nella sua voce.

“Perché?” disse lei.

“Perché volevo conoscerti?”

“Sì.”

“Ero curioso”, rispose lui. “E lo eri anche tu.”

“Non sapevo nemmeno che tu fossi qui. Come avrei potuto essere curiosa?”

“Sei uscita a vedere il fuoco”, le rammentò lui.

“Avevo paura…” cominciò lei; ma il resto della frase le sfuggì. Di cosa aveva avuto paura?

“Temevi che il vento potesse trasportare le scintille fino alla casa…”

“Sì…” mormorò lei, ricordando solo vagamente la preoccupazione che aveva provato.

“Non avrei mai permesso che accadesse una cosa simile”, la rassicurò Galilee. “Niolopua non ti ha detto perché?”

“No…”

“Lo farà”, continuò Galilee. Poi, più dolcemente: “Il mio povero Niolopua. Ti piace?”

Rachel rimase a riflettere per un istante; non ci aveva pensato molto a dire il vero. “Sembra molto gentile”, rispose. “Ma non penso che lo sia veramente. Credo provi molta rabbia.”

“Ha le sue buone ragioni”, disse Galilee.

“Tutti odiano i Geary.”

“Tutti facciamo quello che dobbiamo fare”, ribatté lui.

“E Niolopua cosa deve fare, a parte tagliare l’erba?”

“Deve portarmi qui, quando c’è bisogno di me.”

“E come fa?”

“Abbiamo un modo di comunicare che sarebbe difficile da spiegare”, rispose Galilee. “Ma ora sono qui.”

“Bene”, disse lei. “Sei qui. E adesso?”

Quella non era solo una domanda. Anche se la sua lingua era pigra e le sue parole erano lente, Rachel sapeva che lo stava invitando; sapeva qual era la risposta che voleva sentire. Che era venuto per dividere il letto con lei, per sfruttare il suo torpore sognante e fare l’amore con lei. Era venuto per riportarla alla vita con i suoi baci, dopo un’era di spine e dolore.

Ma lui rispose in modo inaspettato.

“Voglio raccontarti una storia”, disse.

Lei scoppiò in una risata leggera. “Non ti sembra che sia un po’ troppo cresciuta per queste cose?”

“No”, replicò Galilee dolcemente. “Non lo si è mai.”

E aveva ragione. Rachel era pronta ad ascoltarlo tessere una storia per lei; pronta a permettere alla musica profonda della sua voce di dare forma ai colori che aveva nella mente: di dare loro vita, di dare loro un destino.

“Prima però”, lo invitò, “vieni alla luce dove posso vederti.”

“Anche questo fa parte della storia”, disse lui. “E sempre così.”

“Oh…” mormorò lei, confusa ma pronta ad accettare le sue parole. “Allora racconta.”

“Sarà un piacere. Da dove cominciare?” Vi fu una piccola pausa mentre rifletteva. Quando riprese a parlare, la sua voce era cambiata impercettibilmente; aveva assunto un ritmo melodioso, come se stesse cantando.

Immagina, ti prego”, cominciò, “un paese molto lontano da qui, in un tempo di prosperità in cui i potenti erano giusti e i poveri avevano Dio. In quel paese viveva una ragazza di nome Jerusha, e questa è la sua storia. Aveva quindici anni e non c’era una ragazza più felice di lei in tutto il mondo. Perché? Perché era amata. Suo padre possedeva una grande casa piena di tesori che provenivano dagli angoli più remoti dell’impero, ma amava la sua Jerusha più di qualunque cosa possedesse, più di qualunque cosa avesse mai sognato di possedere. E non passava giorno senza che glielo dicesse. Ora, in quel giorno in particolare, un giorno di fine estate, Jerusha si era incamminata lungo un sentiero che serpeggiava tra i boschi per raggiungere uno dei suoi luoghi preferiti; un punto sulle rive del fiume Zun che segnava il confine meridionale delle terre di suo padre.

Quando si recava al fiume di mattina, spesso le capitava di trovarvi le donne del villaggio intente a lavare i panni, ma più tardi andava più probabilità aveva di essere sola. Quel giorno, comunque, benché fosse pomeriggio inoltrato, Jerusha si accorse che c’era qualcuno seduto nell’acqua. Era un uomo o qualcosa di simile a un uomo, e stava fissando il proprio riflesso nelle acque del fiume. Ho detto simile a un uomo perché, anche se quella creatura aveva la forma di un uomo, il suo corpo luccicava in modo strano alla luce del sole e sembrava argenteo un istante e scuro l’istante successivo.

Ora, Lord Laurent, il padre di Jerusha, le aveva insegnato a non avere paura di nulla. Era un uomo razionale. Non credeva nel Diavolo e nel corso degli anni aveva punito così rapidamente e così severamente chiunque commettesse un crimine nelle sue terre, che nessun delinquente avrebbe mai osato avventurarvisi. Aveva anche insegnato a sua figlia che al mondo esistevano cose più strane di quante ne potessero contenere i libri di scuola. Cose perfettamente naturali, le aveva detto, che un giorno la scienza sarebbe stata in grado di spiegare anche se a prima vista potevano sembrare insolite.

E così Jerusha non si spaventò quando vide lo sconosciuto. Raggiunse la riva del fiume e lo salutò. Lui alzò lo sguardo. Era completamente glabro, non aveva capelli né ciglia né sopracciglia; ma possedeva una bellezza eccezionale che risvegliò in Jerusha sentimenti che fino a quel momento erano rimasti assopiti. Lui la guardò con occhi scintillanti e sorrise. Ma non disse nulla.

“ ‘Chi sei?’ domandò la ragazza.

“ ‘Non ho un nome’, rispose lui.

“ ‘Impossibile’, disse Jerusha.

“ ‘No, te lo giuro, è proprio così’, ripeté lo sconosciuto.

“ ‘Non sei stato battezzato?’ domandò lei.

“ ‘Non che mi ricordi. E tu?’

“ ‘Naturalmente.’

“ ‘Nel fiume?’

“ ‘No. In chiesa. Lo ha voluto mia madre. Adesso è morta…’

“ ‘Se sei stata battezzata in chiesa, allora non è stato un vero battesimo’, la interruppe lo sconosciuto. ‘Dovresti venire con me nel fiume. Potrei darti un nuovo nome.’

“ ‘Mi piace quello che ho.’

“ ‘E sarebbe?’

“ ‘Jerusha.’

Allora, Jerusha, vieni nel fiume con me, ti prego.’ In quel momento, lo sconosciuto si alzò e la ragazza si accorse che là dove un uomo normale avrebbe avuto il pene, quella creatura aveva una colonna d’acqua che sgorgava da lui come acqua da una canna, colorata e scintillante, e dall’apparenza quasi solida alla luce del sole…

Fino a quel momento Rachel era rimasta assolutamente immobile, rapita dalle immagini evocate da quelle semplici parole: la ragazza, il giorno d’estate, la riva del fiume. Ma ora si sollevò su un gomito e cominciò a scrutare l’uomo in piedi tra le ombre della stanza. Che tipo di storia le stava narrando? Non si trattava certo di una favola.

Lui percepì il suo disagio. “Non preoccuparti”, la tranquillizzò. “Non è un racconto osceno.”

“Ne sei sicuro?”

“Perché me lo chiedi? Preferiresti che lo fosse?”

“Voglio solo essere pronta.”

“ ‘’Non temere.’ ”

“Non ho paura”, disse Rachel.

“ ‘Vieni nel fiume.’ ”

Oh, pensò lei, ha ricominciato.

“ ‘Che cos’è quello?’ chiese Jerusha, indicando l’inguine dello sconosciuto.

“ ‘Non hai dei fratelli?’

“ ‘Sono partiti per la guerra’, rispose Jerusha. ‘E dovrebbero tornare prima o poi, ma ogni volta che lo chiedo a mio padre, lui mi dà un bacio e mi dice di essere paziente.’

“ ‘E tu cosa ne pensi?’

“ ‘Che forse sono morti”, sospirò la ragazza.

Lo sconosciuto scoppiò a ridere. ‘Intendevo dire di questo’, ribatté, abbassando lo sguardo sull’acqua che sgorgava dal suo corpo. ‘Cosa ne pensi di questo?’

Jerusha scrollò le spatte. Non era molto colpita ma preferì non dire niente.

Rachel sorrise. “Che ragazza educata”, commentò.

“Tu non saresti così educata?” volle sapere Galilee.

“No. Mi comporterei nello stesso modo. Non vorrei spezzargli il cuore dicendogli la verità.”

“E qual è la verità?”

“È che non è così bello come…”

“Come?”

“…come ci si aspetterebbe.”

“Non era questo che stavi per dire.” Rachel rimase in silenzio. “Ti prego, dimmi quello che stavi per dire.”

“Prima voglio vederti in faccia.”

Seguì un istante in cui nessuno dei due si mosse, nessuno dei due parlò. Alla fine, Galilee emise un morbido sospiro, quasi rassegnato, e fece un passo verso il letto. La luce della luna gli illuminò il viso ma così debolmente che Rachel poté a malapena distinguere i suoi lineamenti. La sua pelle era color terra d’ombra e aveva le guance scurite dalla barba di diversi giorni. Aveva il cranio rasato. Lei non poté scorgere i suoi occhi: la luce non riusciva a svelarli. La sua bocca doveva essere bellissima, i suoi zigomi erano alti; forse aveva qualche cicatrice sulla fronte ma Rachel non poteva esserne sicura.

Quanto al resto di lui: indossava una T-shirt bianca piena di macchie, dei jeans scoloriti e un paio di sandali. Era alto e imponente; il petto ampio e muscoloso, il ventre piatto, le braccia massicce, le mani forti.

Ma c’era un ultimo dettaglio che non si sarebbe mai aspettata: Galilee era rimasto nell’ombra non per provocarla ma perché non gli piaceva essere guardato. Il linguaggio del suo corpo tradiva il suo disagio; non vedeva l’ora di ritirarsi tra le ombre, ora che l’aveva accontentata, era chiaro. Rachel quasi si aspettava di sentirgli dire posso andare, adesso? Ma lui insistette: “Ti prego, finisci quello che stavi per dire”.

Per la verità si era dimenticata di che cosa stesse parlando; la vista di Galilee con tutta la sua dolcezza contraddittoria — la sua autorità naturale e il suo desiderio di essere invisibile, la sua bellezza e la sua strana ineleganza — aveva scacciato ogni altro pensiero dalla sua mente.

“Stavi dicendo”, le ricordò lui, “che quello che ha lo sconosciuto non è così bello come…”

Rachel rammentò. “Come quello che noi abbiamo laggiù”, disse dolcemente.

“Oh…” replicò lui. “Non potrei essere più d’accordo.” Poi, a voce così bassa che Rachel quasi faticò a udirlo: “Non c’è niente di più perfetto”.

In quel momento, Galilee sollevò appena la testa e la luce della luna trovò i suoi occhi. Erano grandi e riempivano le orbite di intensità, a tal punto che Rachel non riuscì a sostenere il suo sguardo per più di pochi secondi.

“Vuoi che continui con la storia?” le domandò.

“Sì, ti prego”, disse lei.

Come per non metterla ulteriormente a disagio, Galilee distolse lo sguardo, consapevole dell’effetto che poteva avere. “Ti stavo raccontando di quando l’uomo chiese a Jerusha che cosa ne pensasse del suo cazzo.” Quella parola la fece trasalire. “E Jerusha non rispose.”

Ma voleva entrare nel fiume con lui; voleva sapere cosa avrebbe provato sentendo il volto dello sconosciuto vicino al suo, le dita dell’uomo sui suoi seni e sul suo ventre e giù, in mezzo alle gambe.

Lui forse intuì i suoi pensieri perché disse:

“ ‘Mi fai vedere che cos’hai sotto la gonna?’

Jerusha si finse scioccata. No, devo correggermi. Rimase scioccata, anche se non tanto quanto diede a vedere. Devi tenere a mente che quello era un tempo in cui le donne indossavano abiti che le coprivano dal collo alle caviglie. E ora quell’uomo le stava chiedendo — con estrema naturalezza — di mostrargli le sue parti più intime.

“E lei che cosa disse?” domandò Rachel.

In un primo momento niente, ma, come ti ho detto all’inizio del racconto, grazie agli insegnamenti di suo padre, la ragazza non aveva paura di niente. Certo, lui sarebbe rimasto sconvolto se avesse potuto vedere gli effetti che avevano avuto le sue idee e i suoi baci, ma non era là a trattenerla. Jerusha doveva rispondere solo al suo istinto, e il suo istinto le diceva: perché no? Perché non assecondarlo? Così rispose:

“ ‘Mi sdraierò sul prato, dove sarò più comoda. E tu se vorrai potrai venire a vedere’.

“ ‘Non andare tra gli alberi’, le disse.

“ ‘Perché?’

“ ‘Perché ci sono cose velenose là’, rispose lo sconosciuto. ‘Cose che mangiano la carne dei morti.’

Jerusha non gli credette: ‘E io ci vado. Se vuoi venire, accomodati. Se hai paura, resta pure dove sei’. Dopodiché, si alzò e fece per andarsene.

L’uomo la chiamò, le chiese di aspettare. ‘C’è anche un’altra ragione’, disse.

“ ‘E cioè?’

“ ‘Non posso allontanarmi molto dall’acqua. Ogni passo che faccio è pericoloso per me.’

Jerusha scoppiò a rìdere. Pensò che fosse solo una scusa sciocca. ‘Allora sei debole.’

“ ‘No. Io…’

“ ‘Sì, lo sei! Sei debole! Un uomo che non può uscire da un fiume senza lamentarsi? Non ho mai sentito una cosa così ridicola!’

Non attese una sua risposta. A giudicare dall’espressione del suo viso, doveva averlo colpito. Si voltò e si inoltrò tra gli alberi, finché non trovò una piccola radura dove l’erba sembrava morbida e invitante. Si sdraiò sulla schiena, con i piedi in direzione del fiume, di modo che, quando lo sconosciuto l’avesse trovata, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato ciò che aveva in mezzo atte gambe.

Il fatto che la posizione di Jerusha non fosse poi così dissimile dalla sua, non sfuggì a Rachel.

“A cosa stai pensando?” le chiese Galilee.

“A cosa succederà adesso.”

“Potresti inventare tu il finale”, rispose lui.

“No. Voglio che sia tu a raccontarmelo.”

“La tua versione potrebbe essere migliore. Meno triste.”

“È una storia che finisce male?”

Lui si voltò verso la finestra, e per la prima volta la luce della luna gli illuminò completamente il viso. Rachel non si era sbagliata: sulla fronte di Galilee c’era una cicatrice, una cicatrice profonda che partiva dal sopracciglio sinistro e arrivava fino all’attaccatura dei capelli, e la sua bocca era grande e sensuale. Ma la cosa più straordinaria era il suo viso. Non aveva mai visto, né in una fotografia né in un dipinto né in carne e ossa, lineamenti così squisiti. Era come se la sua carne invece di nascondere il cranio lo esprimesse; come se le sue ossa — che erano state create molto tempo prima del dolore che gli riempiva gli occhi — avessero saputo mentre ancora erano nel grembo materno che presto o tardi quel dolore sarebbe arrivato e si fossero modellate di conseguenza.

“Certo. Deve finire male.”

“Perché?”

“Lasciami finire”, replicò Galilee, abbassando lo sguardo su di lei per un istante. “E se ti dovesse venire in mente una conclusione migliore, ti prego di dirmela.”


E così ricominciò.

Jerusha era sdraiata sull’erba, poco lontano dal fiume. Era certa che lo sconosciuto l’avrebbe raggiunta e voleva essere pronta per lui, così si tolse scarpe e calze e, inarcando il bacino, si liberò delle mutandine. Poi si alzò la gonna fino alle ginocchia. Non aveva nemmeno bisogno di toccarsi per eccitarsi. Una brezza tiepida prese a soffiare proprio mentre la ragazza dischiudeva le gambe e accarezzò come un respiro la sua dolce carne rosea; fili d’erba le sfiorarono l’interno delle cosce. Jerusha cominciò a gemere, incapace di trattenersi. Se in quel momento la sua stessa vita fosse dipesa dal suo silenzio, sarebbe sicuramente morta perché era del tutto rapita.

Poi lo sentì…

“Il dio del fiume”, disse Rachel.

“Allora conosci già questa storia.”

Rachel scoppiò a ridere. “È questo che è lui, vero?”

“Non proprio un dio. Ma qualcosa di simile.”

“Ed è molto antico?”

“Antichissimo.”

“Ma non troppo astuto.”

“Cosa te lo fa pensare?”

“Se fosse furbo resterebbe nel fiume. È quello il suo posto.”

Galilee sospirò. “Non sempre possiamo restare nel luogo a cui apparteniamo. E tu lo sai bene.”

Lei lo fissò in silenzio per alcuni secondi. “Tu sai chi sono”, disse alla fine.

“Sei la mia Jerusha”, rispose lui con immensa dolcezza. “La mia sposa bambina.”

Nell’udire quelle parole, Rachel afferrò le lenzuola che nascondevano la parte inferiore del suo corpo. “Allora penso che tu abbia il diritto di vedermi”, disse, e scostò le lenzuola. Aveva le ginocchia leggermente sollevate; lo spazio tra le sue gambe era in ombra. Ma gli occhi di Galilee indugiarono proprio lì, come se il suo sguardo stesse penetrando l’oscurità, come se potesse vederla chiaramente; penetrando anche lei forse: insinuandosi tra le labbra del suo sesso per scoprire ciò che celavano.

Quel pensiero non la turbò, anzi. Voleva che lui la guardasse, che continuasse a osservarla. Lei era la sua Jerusha, la sua sposa bambina che giaceva su un letto di erba soffice, eccitata come non lo era mai stata prima. Aveva fatto sesso con sette uomini in vita sua, tenendo conto anche dei suoi goffi incontri con Neil Wilkens. Senza dubbio, non era certo una virtuosa del sesso; ma non era nemmeno una novizia. Aveva fatto le sue esperienze. Ma niente di così intenso; niente di così nudo.

Non si erano nemmeno toccati ma, Dio, stava tremando. Le lenzuola sotto di lei erano fradice. I suoi respiri erano rapidi e affannosi.

“Mi stavi dicendo…” sussurrò lei.

Jerusha…

era sdraiata sull’erba e aspettava il dio del fiume…”

Alzò lo sguardo.

“Sì.”

… e fu strano vederlo avanzare tra gli alberi, come se ogni passo per lui fosse un grande, terribile sforzo.

“E Jerusha rimpianse di averlo costretto a lasciare il fiume?” mormorò Rachel.

No”, rispose Galilee. “Era troppo eccitata per provare rimorso. Voleva che lui la vedesse più di qualunque cosa avesse mai desiderato in vita sua.

Lei stava per chiedergli se gli piacesse ciò che vedeva, quando sentì un ronzio d’ali e uno scarabeo — grande quanto un colibrì ma scuro e orrendo — svolazzò sopra di lei. Jerusha ripensò a ciò che l’uomo del fiume le aveva detto.

“Cose velenose”, disse Rachel. “Cose che si nutrivano di cadaveri.”

Quello scarabeo era qualcosa di ancora peggiore, perché si nutriva solo dei cadaveri di persone che erano morte di malattie terribili. Portava con sé ogni genere di contagio.

Rachel emise un gemito colmo di disgusto.

E di colpo la creatura atterrò sul suo corpo.

“Dove?”

“Vuoi che te lo mostri?” le chiese Galilee, e, senza attendere una risposta, raggiunse il letto e allungò una mano tra le gambe di Rachel. Lei avrebbe voluto che le toccasse il sesso, ma le dita di lui si fermarono a pizzicarle l’interno della coscia. “La morse”, continuò. “Forte.

Lei lanciò un grido.

Jerusha lanciò un grido, più per la sorpresa che per il dolore, e uccise lo scarabeo con un unico colpo, schiacciandoselo contro la pelle bianca.

Galilee si ritrasse. Rachel poteva quasi sentire i resti dello scarabeo che le colavano lungo la gamba; allungò una mano come per ripulirsi e poi si spinse più avanti per afferrare le dita di Galilee.

“Resta qui”, gli disse.

“Non ho ancora finito di narrarti la mia storia”, mormorò lui, sfuggendo alla stretta di Rachel. Istintivamente Rachel andò a coprirsi con le lenzuola. Quel racconto stava diventando amaro. Se Galilee si era reso conto dell’effetto che quelle ultime frasi avevano avuto su di lei, non lo diede a vedere. Semplicemente continuò a parlare.

Fu come se il morso dello scarabeo avesse spezzato un incantesimo. Jerusha si guardò in preda all’orrore. Che cosa stava facendo lì? Si alzò, le lacrime che già le pungevano gli occhi.

“ ‘Dove stai andando?’ le chiese qualcuno, lei si voltò e vide che si trattava dell’uomo del fiume, ora in piedi a pochi metri da lei.

Sembrava malato. Il suo corpo, che nel fiume le era sembrato così forte e vigoroso, ora era più sottile. Gli battevano i denti. Gli occhi gli roteavano follemente nelle orbite. Come aveva potuto trovarlo bello?, si chiese Jerusha.

A quel punto si girò e s’incamminò verso casa. Lui non la seguì. Era troppo confuso. Non aveva visto lo scarabeo e pensò che la ragazza avesse soltanto cambiato idea; evidentemente, lui era troppo strano per Jerusha. Non era la prima volta che una donna lo rifiutava. Così fece ritomo al fiume e scomparve.

“E cosa ne fu di Jerusha?”

Le accaddero cose terribili.

Non appena raggiunse la casa di suo padre, cominciò a sentirsi male. Lo scarabeo le aveva iniettato talmente tanto veleno che prima del tramonto era ormai priva di conoscenza. Il padre mandò a chiamare i suoi dottori, ma nessuno di loro ebbe il coraggio di controllarla tra le gambe, non in presenza del loro padrone che non faceva che ripetere che sua figlia era una bambina dolce e pura. Fecero il possibile per abbassare la febbre — impacchi freddi, sanguisughe, tutti i rimedi conosciuti — ma senza alcun successo. Di ora in ora, le condizioni di Jerusha continuavano a peggiorare. A causa del veleno, il collo le si riempì di vesciche e così anche il volto e i seni.

Alla fine, il padre perse la pazienza con i dottori e li cacciò via. E quando fu solo con sua figlia, prese a parlarle, sussurrandole nell’orecchio.

“ ‘Puoi sentirmi, bambina mia? Ti prego, dolce Jerusha, se riesci a sentirmi, dimmi cosa ti è successo, così chiamerò qualcuno che ti guarirà.

All’inizio la ragazza non disse niente. Ma il padre insistette. Continuò a parlarle mentre l’alba si avvicinava e alla fine, proprio al sorgere del sole, Jerusha pronunciò una parola…

“Fiume”, sussurrò Rachel.

Sì. Disse fiume.

Suo padre mandò a chiamare il suo capitano delle guardie e gli ordinò di prendere tutti i suoi uomini e tutti i membri della servitù per setacciare le rive del fiume, per scoprire che cos’era accaduto alla sua adorata Jerusha.

Il capitano eseguì gli ordini e tutti coloro che si trovavano nel palazzo, fino al più umile dei servi, si diressero al fiume. In casa restarono solo Jerusha e suo padre.

Lui pianse e rimase in attesa, tenendo la mano della figlia, cullandola tra le braccia di tanto in tanto, ripetendole quanto l’amava, finché — abbandonando tutte le sue convinzioni razionali — si inginocchiò a terra e pregò Dio chiedendogli un miracolo. Era la prima volta che pregava dopo tanti anni. Dimenticò tutta la sua fede nella razionalità e pregò con immensa passione, implorando Dio di salvare sua figlia.

Anche i servi vicino al fiume stavano pregando e singhiozzavano mentre perlustravano le rive.

Fu un bambino a notare per primo l’uomo del fiume. Cominciò a gridare, disse: venite a vedere, venite a vedere!

Quando il capitano raggiunse il bambino, una figura si era sollevata dalle acque e la luce del mattino, attraversandola, si trasformava in raggi di puro colore. Nessuno sapeva se abbandonarsi al terrore o all’estasi, e così rimasero tutti immobili mentre la creatura emergeva dal fiume. Alcune donne distolsero lo sguardo quando si accorsero che quell’essere era nudo, ma tutti gli altri lo fissarono, dimenticandosi all’istante delle lacrime che avevano pianto.

“ ‘Ho sentito che qualcuno pregava per la mia Jerusha’, disse l’uomo del fiume. ‘È forse malata?’

“ ‘Sta morendo’, rispose il bambino.

“ ‘Mi puoi accompagnare da lei?’ domandò l’uomo del fiume.

Il bambino lo prese per mano e insieme si allontanarono dagli alberi.

“Nessuno cercò di fermarli?” chiese Rachel.

Il capitano prese in considerazione quell’idea. Ma non era un uomo superstizioso. Condivideva la fede del suo padrone nella razionalità, era certo che un giorno la scienza avrebbe spiegato ogni cosa. Così li seguì, mantenendosi a una certa distanza.

Nel frattempo, Jerusha era sempre più vicina alla morte. Aveva la febbre così alta che sembrava prossima a prendere fuoco.

A un certo punto, suo padre udì un rumore, come se qualcuno stesse lavando le scale fuori dalla camera da letto con uno straccio bagnato; uno straccio bagnato che cadeva sul marmo, che veniva trascinato per un po’ e poi cadeva di nuovo. Lasciò per un attimo la mano della figlia e andò ad aprire la porta. Sulle scale c’era l’uomo del fiume che saliva i gradini sempre più faticosamente. A ogni passo, il suo corpo sembrava sfaldarsi. Più si allontanava dalla sua dimora, più energia vitale consumava.

Naturalmente il padre di Jerusha volle sapere chi fosse quella creatura e che cosa ci facesse in casa sua. Ma l’uomo del fiume non poteva sprecare altre energie per rispondere a quelle domande. Fu il bambino a spiegare.

“ ‘E venuto per aiutare Jerusha’, disse.

Il padre della ragazza non sapeva cosa pensare. La sua parte razionale diceva: non aver paura. Mentre la parte di lui che aveva implorato Dio ora stava sussurrando: questo è un dono del cielo. E proprio quella parte era profondamente terrorizzata perché se quello era un angelo — quella forma argentea che ondeggiava davanti a lui — allora quale tipo di Dio poteva aver inviato un simile messaggero ? Che genere di salvezza avrebbe concesso a sua figlia?

Stava ancora riflettendo sul da farsi, quando sentì Jerusha che mormorava:

“ ‘Tiprego, papà… lascialo… entrare…’ “Meravigliato nel sentir parlare sua figlia, l’uomo spalancò la porta, e con impeto improvviso, come una diga crollata, la creatura del fiume entrò e andò a fermarsi ai piedi del letto di Jerusha.

La ragazza aveva ancora gli occhi chiusi ma sapeva che il suo salvatore era arrivato. Cominciò a spogliarsi, i vestiti macchiati orrendamente di pus e sangue e fluidi corporei. Si strappò di dosso le vesti con tanta ferocia che rimase nuda nel giro di pochi istanti, il suo corpo ferito esposto alla vista di suo padre e dell’uomo del fiume.

Poi tese le braccia, come per accogliere il suo amante…

Il silenzio avvolse all’improvviso la stanza e per qualche secondo tutti rimasero immobili. Poi, senza dire una parola, l’uomo del fiume si gettò sulla ragazza. Quando la toccò si infranse come un’onda, bagnandole il volto, le braccia, i seni, il ventre e le cosce. In quell’istante la creatura perse ogni traccia della sua forma umana. Jerusha lanciò un grido per il dolore e per la sorpresa, mentre l’acqua sibilava e sfrigolava sul suo corpo quasi che stesse spegnendo un incendio. Dal letto si levò una cortina di vapore e un fetore spaventoso riempì l’aria.

Ma quando il vapore si diradò…

“Jerusha era guarita?” domandò Rachel.

Jerusha era guarita. Tutte le sue ferite erano scomparse. Ogni piaga, ogni pustola. Era guarita dalla testa ai piedi. Anche del morso dello scarabeo sulla sua coscia non restava alcuna traccia.

“E l’uomo del fiume?”

“Be’, naturalmente anche lui era scomparso”, disse Galilee in tono leggero, come se quella parte della storia non gli interessasse poi molto.

Ma Rachel insistette: “Si era sacrificato per lei”.

“Immagino di sì”, rispose Galilee. Poi, come se gli fosse più facile spiegare quel fatto attraverso il racconto, continuò:

Il padre di Jerusha pensò che la malattia di sua figlia fosse stata una punizione per la sua mancanza di fede, che Dio avesse colpito Jerusha con quei tormenti per far sì che lui si rendesse conto della necessità dell’intervento divino”.

“Per convincerlo a pregare, in altre parole.”

“Proprio così.

E se si era trattato veramente dell’opera di Dio, era stata un’opera davvero efficace perché da quel momento il padre di Jerusha divenne un uomo molto religioso. Spese tutto il denaro che possedeva per costruire una cattedrale proprio sulla riva del fiume dove la creatura era stata vista per la prima volta. Se fosse stata completata, sarebbe stata l’ottava meraviglia del mondo.

“Perché non venne completata?”

“Be’… questa parte della storia è molto strana”, l’avvertì Galilee.

“Più strana del resto?”

“Penso di sì. Vedi, il vecchio era convinto che l’acqua del fiume dovesse alimentare il fonte battesimale della cattedrale. Quell’idea non fu bene accolta dai vescovi del luogo che insistevano nell’affermare che quell’acqua non poteva essere usata per battezzare i bambini perché non era acqua consacrata. A quelle obiezioni il padre di Jerusha rispose così… be’, puoi immaginarlo. Quelle acque erano già consacrate, disse ai vescovi. Avevano guarito la sua Jerusha. Non c’era bisogno che qualcuno blaterasse qualche formula in latino per renderle sacre. I vescovi si lamentarono con Roma, Il Papa promise che avrebbe risolto la questione personalmente.

Nel frattempo vennero sistemate le tubature che andavano dal fiume alla navata dove si trovava uno splendido fonte battesimale, scolpito a Firenze.

Questo accadeva all’inizio della primavera. Durante l’inverno le montagne si erano coperte di neve, e ora che quella neve si stava sciogliendo il fiume era in piena e le acque scorrevano tanto violente e impetuose che gli operai che lavoravano alla cattedrale faticavano a sentirsi l’un l’altro, penino quando gridavano. E questo potrebbe spiegare ciò che accadde in seguito…

Il padre di Jerusha stava facendo un giro per la cattedrale e si avvicinò al fonte quando qualcuno — forse fraintendendo un ordine che aveva ricevuto — fece scorrere le acque del fiume attraverso le tubature per la prima volta.

Si udì un rumore simile al rombo di un terremoto. La cattedrale tremò, dalle fondamenta fino ai più alti pinnacoli. Le pietre che coprivano le tubature — ciascuna delle quali pesava più di una tonnellata — vennero scagliate nell’aria come carte da gioco, mentre le acque del fiume scorrevano inarrestabili verso il fonte…

Rachel poteva vedere la scena come se fosse stata presente: la sua testa era colma di rumore e caos. Sentiva le pareti scuotersi, udiva le persone gridare e pregare, le guardava correre in tutte le direzioni nel vano tentativo di sfuggire al cataclisma. Sapeva che non ce l’avrebbero fatta, anche prima che glielo dicesse Galilee.

“… e quando l’acqua sgorgò dal fonte, lo fece con una tale forza, con un tale violenza che il fonte andò in mille pezzi. Un migliaio di schegge di pietra volarono nell’aria, alcune grandi come pallottole, altre come palle di cannone — frantumando crani, lacerando cuori, amputando braccia e gambe. E tutto in una manciata di secondi.

Il padre di Jerusha si trovava davanti al fonte e così fu il più fortunato, perché fu il primo a morire. Un’enorme scaglia di marmo, decorata con l’immagine di un cherubino, lo investì e scaraventò il suo corpo fuori, nel fiume. Il suo cadavere non venne mai recuperato.

“E gli altri?”

“Puoi immaginare.”

“Morirono tutti.

Tutti, fino all’ultimo. Nessuno degli operai che si trovavano nella cattedrale quel giorno sopravvisse.

“Dov’era Jerusha in quel momento?”

Nel palazzo di suo padre che da quando erano iniziati i lavori della cattedrale era caduto in rovina.

“Così sopravvisse?”

Sì, lei e alcuni servi. Incluso il bambino che aveva trovato l’uomo del fiume.

Il bambino che aveva condotto l’uomo del fiume fino al suo letto.

Galilee si fermò, con grande sorpresa di Rachel.

“Tutto qui?” chiese lei.

“Tutto qui”, replicò lui. “Cos’altro ci potrebbe essere?”

“Non lo so… qualcosa di più…” Rimase a riflettere per qualche istante. “Un finale…”

Galilee scrollò le spalle. “Mi dispiace. Se c’è qualche altro fatto da narrare, io non lo conosco.”

Rachel era un po’ irritata; era come se lui l’avesse sedotta, stuzzicandola con indizi che sembravano avere un significato, ma ora che il racconto era finito niente era più così chiaro.

“È solo un piccola storia.”

“Ma manca un finale.”

“Come ti ho già detto, puoi inventarlo tu.”

“Ti ho detto che volevo che fossi tu a raccontarmelo.”

“Ti ho narrato tutto ciò che so”, replicò Galilee. Lanciò un’occhiata verso la finestra. “Penso che sia ora che vada.”

“Dove?”

“Alla mia barca. Si chiama Samarcanda. È ancorata nella baia.”

Lei non gli chiese per quale motivo dovesse andarsene, in parte perché ancora infastidita, in parte perché non voleva che Galilee capisse che lei lo desiderava. Tuttavia non poté impedirsi di domandargli:

“Tornerai?”

“Dipende da te”, disse lui. “Se lo vuoi, tornerò.”

Quelle ultime parole furono pronunciate con tanta naturalezza e con tanta dolcezza che l’irritazione di Rachel evaporò in un istante.

“Naturalmente, voglio che torni”, disse.

“Allora tornerò”, promise lui, e se ne andò. Lei cercò di sentire i suoi passi attraverso la casa, ma non udì niente — non un respiro, non uno scricchiolio. Scivolò fuori dal letto e raggiunse la finestra.

Le nubi avevano coperto la luna e le stelle; il prato era immerso in un’oscurità quasi assoluta. Ma i suoi occhi lo scorsero comunque, mentre raggiungeva velocemente la spiaggia. Rachel lo guardò finché non scomparve dalla vista. Poi tornò a letto, dove rimase sveglia per più di un’ora, ad ascoltare il doppio ritmo del suo cuore e delle onde, chiedendosi se non avesse per caso perso la ragione.

Tre

1

Si svegliò alle prime luci dell’alba e subito si recò alla spiaggia. Sperava di trovare la Samarcanda ormeggiata vicino alla riva e di vedere Galilee, ma la baia era deserta. Scrutò l’orizzonte in cerca di una vela ma non vide nemmeno una barca. Dove diavolo era andato? Non più tardi di qualche ora prima le aveva detto che sarebbe tornato se lei lo avesse voluto. Era solo un modo per liberarsi di lei senza doverle dire addio? Se era così, allora era un codardo.

Voltò le spalle all’oceano e si diresse verso casa. A pochi metri dal sentiero, vide i resti del falò acceso da Galilee la notte precedente: un cerchio annerito di cenere che a poco a poco veniva sparsa dal vento sulla spiaggia. Rachel si accovacciò accanto a quella pozza nera e maledisse Galilee per la sua incostanza. Dalle ceneri si levava un odore acre e dolce allo stesso tempo: il profumo del fuoco spento mescolato alle ultime tracce della fragranza che l’aveva seguita in casa la notte precedente: l’aroma che le aveva fatto girare la testa e aveva evocato strane immagini dietro i suoi occhi.

Era possibile, si chiese, che la sua prima sensazione fosse stata giusta e che Galilee non fosse stato altro che una sorta di allucinazione, un sogno a occhi aperti indotto dal fumo che aveva respirato?

Si alzò in piedi e spostò lo sguardo verso la baia deserta. Il suo ricordo della presenza di Galilee era ancora intatto: il modo in cui era comparso, il suono della sua voce, la strana storia che le aveva narrato. Se esisteva un prova che dimostrava la realtà del loro incontro era proprio quel racconto. Non era stata lei a inventarlo e a raccontarlo a se stessa; era stato qualcun altro a comunicarle quelle immagini e quelle idee.

Galilee non era un parto della sua fantasia. Era solo un altro maschio inaffidabile.


Si preparò un caffè forte e la colazione che mangiò svogliatamente, si fece una doccia, poi mise sul fuoco un altro caffè e telefonò a Margie.

“Hai tempo per fare due chiacchiere?” le chiese.

“Giusto un paio di minuti”, disse Margie. “Poi dovrò uscire. Voglio essere puntuale oggi.”

Rachel rimase sorpresa; la puntualità non era certo il suo forte. “È un’occasione speciale?”

“È una persona speciale”, spiegò Margie.

“Oh… scommetto che si tratta del barman.”

“Danny”, le rammentò l’altra. “È davvero buono con me, tesoro. Parlo sul serio. La settimana scorsa mi ha detto che non avrebbe fatto l’amore con me se ero ubriaca, così sono un paio di sere che non tocco una goccia d’alcool. Abbiamo scopato. Oh Dio, se abbiamo scopato! E sai una cosa? Dopo non ho nemmeno voglia di bere. Voglio solo addormentarmi tra le sue braccia. Oh Dio, ma mi senti? Sembro una ragazzina.”

“È meraviglioso, Margie.”

“Sì, infatti. Così meraviglioso che me la faccio sotto. Comunque… tra poco dovrò scappare, quindi dimmi qualcosa di te. Come va la vita?”

“Questo posto è proprio come me l’avevi descritto: è magico.” Avrebbe voluto parlarle del suo visitatore ma non c’era abbastanza tempo così non disse nulla in proposito. Invece chiese: “Quando sei stata qui l’ultima volta?”

“Oh… sedici o diciassette anni fa. Sono stata molto felice lì, per un po’. Sono stata molto consolata.” La stranezza di quel termine non sfuggì a Rachel. “È stato uno di quei rari periodi in cui ho visto la mia vita esattamente per quello che era. Sai cosa voglio dire?”

“Per la verità no…”

“Be’, per me è stato così. Ho visto la mia vita. E invece di cercare di cambiarla, ho semplicemente preso la strada più comoda. Oh Dio, tesoro, adesso devo proprio andare. Non voglio far aspettare il mio ragazzo.”

“Certo.”

“Sentiamoci di nuovo domani.”

“Ancora un’ultima cosa…”

“Sì?”

“Mentre eri qui ti è successo per caso qualcosa di molto strano?”

Seguì un lungo silenzio.

Alla fine Margie mormorò: “Quando avremo un po’ più di tempo, tesoro. Comunque la risposta è sì, sono accadute strane cose”.

“E tu come ti sei comportata?”

“Te l’ho già detto. Ho scelto la strada più comoda. E me ne sono sempre pentita. Credimi, non ci sarà un altro momento come questo, tesoro. Sono cose che accadono una volta sola nella vita, e se sei pronta, non voltarti indietro, non preoccuparti di quello che dirà la gente, non pensare alle conseguenze di quello che stai per fare. Va’ e basta.” Abbassò la voce. “Saremo tutte gelose di te, sai? Ti malediremo perché avrai fatto quello che noi non abbiamo fatto, quello che forse non avremmo mai potuto fare. Ma in fondo al cuore saremo felici per te.”

Noi chi?” domandò Rachel.

“Noi donne Geary, tesoro”, rispose Margie. “Tutte noi donne Geary tristi, misere e senza speranza.”

2

Dopo pranzo, Rachel andò a fare una passeggiata, non lungo la spiaggia questa volta, ma nell’entroterra. Quella mattina c’era stata una leggera brezza, ma ora era scomparsa, e l’aria di mezzogiorno era calda e immobile. Quell’atmosfera si adattava alla perfezione all’umore di Rachel. Si sentiva bloccata, incapace di allontanarsi troppo dalla casa per paura che Galilee tornasse e non la trovasse, incapace di pensare ad altro che non fosse lui; lui o la sua storia.

C’erano molti insetti quel giorno. Vedendoli, Rachel ripensò allo scarabeo sulla coscia di Jerusha, e a come Galilee aveva imitato il suo morso. Quello era stato l’unico momento in cui l’aveva toccata, giusto? Una stretta crudele sulla sua pelle. Niente di simile alla tenerezza. Ma poi si era ritratto, quando lei gli aveva preso la mano e aveva sentito la pelle dura delle sue dita e il calore della sua carne.

Ma la prossima volta non si sarebbero solo tenuti per mano. Lei si sarebbe fatta baciare là dove l’aveva pizzicata. Si sarebbe fatta baciare ancora e ancora, più in basso e più profondamente, finché lui non si fosse fatto perdonare. Anche lui si sarebbe fatto baciare, Rachel ne era sicura. Il racconto era stato solo un gioco, un modo delicato per posporre il momento inevitabile in cui avrebbero fatto l’amore.

Si sedette sul ciglio della strada e si fece aria usando una grande foglia che aveva raccolto. Rivide Galilee in piedi sulla porta. Il modo in cui i suoi occhi avevano scintillato quando l’aveva guardata; il sorriso incerto che di tanto in tanto gli aveva illuminato il viso. Quei pochi dettagli, oltre al suo nome, erano tutto ciò che conosceva di lui. Perché allora, si domandò, provava un senso di solitudine così terribile al pensiero di non rivederlo più? Se desiderava così disperatamente il conforto fisico di un uomo, non avrebbe faticato a trovarlo, lì sull’isola o una volta che fosse tornata a New York. Ma non aveva bisogno della semplice presenza di un altro corpo. Aveva bisogno di lui, di Galilee. Tutto questo non aveva alcun senso. Sì, era bello, ma Rachel aveva incontrato anche uomini molto più belli di lui. E non lo conosceva abbastanza per poter essere incantata dal suo spirito. Quindi perché continuava a comportarsi come una quindicenne innamorata?

Gettò il suo ventaglio improvvisato e si alzò. Quale che fosse la ragione dei suoi sentimenti, li stava provando, e non sarebbero evaporati solo perché non riusciva a scoprirne l’origine. Voleva Galilee. E il pensiero che potesse essersene andato senza dirle dove avrebbe potuto trovarlo la riempiva di dolore.


Quando Rachel arrivò a casa, trovò Niolopua seduto sui gradini che portavano all’ingresso principale. Stava bevendo una lattina di birra. C’era una scala appoggiata a una delle grondaie della casa e un’alta pila di rampicanti strappati sul prato. Aveva lavorato sodo, per un po’ almeno. Ora era seduto al sole e si stava godendo un momento di pausa. Quando Rachel gli si avvicinò, lui non fece niente per tentare di nascondere la birra. Non si alzò nemmeno in piedi. Si limitò a guardarla e disse:

“Eccola…”

“Mi stava cercando?”

Lui scosse la testa. “Ero solo sorpreso che se ne fosse andata, tutto qui.”

Posò la lattina, e Rachel si accorse che non era la prima che beveva quel giorno. Ce n’erano altre tre vuote accanto a lui. Nessuna meraviglia che la timidezza che aveva dimostrato al loro primo incontro adesso fosse svanita. “Ha l’aria di non aver dormito molto bene”, osservò Niolopua.

“Infatti.”

Lui infilò una mano nel suo zaino e prese un’altra birra. “Ne vuole una?”

“No. Grazie.”

“Di solito non bevo sul lavoro”, continuò lui, “ma questa è un’occasione speciale.”

“Oh, davvero?”

“Provi a indovinare.”

Il tono di Niolopua la stava irritando e lei non riusciva più a fingersi amichevole. “Ascolti, penso che dovrebbe prendere le sue cose e andarsene a casa.”

“Sul serio?” si stupì lui, aprendo la lattina. “E se le dicessi che è questa casa mia?”

“Non so di cosa stia parlando”, replicò Rachel, e andò verso la porta.

“Mia madre ha lavorato qui per tutta la vita. E vengo qui fin da quando ero un bambino.”

“Capisco.”

“Conosco questa casa meglio di quanto lei potrà mai conoscerla.” Distolse lo sguardo, ormai certo di aver catturato l’attenzione di Rachel. “Adoro questa casa. E voi venite qua, una dopo l’altra, e vi comportate come se appartenesse a voi.”

“Non appartiene a me, ma alla famiglia Geary.”

“Non è così. Appartiene alle donne Geary. Nessun uomo è mai venuto qua. Solo donne.” Sul suo viso comparve un’espressione sprezzante. “I vostri mariti non riescono a soddisfarvi? Perché dovete venire qui e… corrompere tutto?”

“Ma di cosa diavolo sta parlando?” disse Rachel, allontanandosi dalla porta e fermandosi accanto a lui. Niolopua non distolse lo sguardo. La fissò, con il volto deformato da qualcosa di molto simile all’odio.

“Non pensate mai a quello che gli fate, vero?”

“Cosa?”

“Non c’è mai vero amore per lui.”

“Lui?”

“Sì. Lui.”

“Galilee?”

“Sì! Galilee!” esclamò Niolopua come se Rachel avesse posto la domanda più stupida possibile. “Chi altri, maledizione?” Aveva le lacrime agli occhi adesso: erano lacrime di rabbia, di frustrazione.

“Mia madre è stata l’unica che l’abbia mai amato. L’unica!” Distolse lo sguardo, e le lacrime caddero dai suoi occhi sugli scalini di legno. “Ha costruito questa casa per lei.”

“Galilee ha costruito questa casa?” Niolopua annuì senza alzare gli occhi. “Quando?”

“Non lo so di preciso. Molto tempo fa. È stata la prima casa a essere costruita su questa spiaggia.”

“È impossibile”, obiettò Rachel. “Non è così vecchio. Insomma, quanti anni avrà, quaranta? Forse anche meno.”

“Lei non sa che cos’è lui”, disse Niolopua. C’era una sfumatura di pena nella sua voce, come se l’ignoranza di Rachel fosse qualcosa da compatire.

“Allora me lo dica lei”, ribatté Rachel. “Mi aiuti a capire.”

Niolopua bevve una sorsata di birra. Tenne gli occhi bassi e rimase zitto.

“La prego”, insistette lei, a bassa voce.

“Lei vuole soltanto usarlo”, rispose lui.

“Si sta sbagliando”, disse lei. Niolopua non fece commenti. Dopo un attimo aggiunse: “Non sono come le altre, Niolopua. Non sono una Geary. O meglio, ho sposato un uomo che pensavo di amare e lui è un Geary. Non mi ero resa conto di cosa significasse”.

“Be’, mio padre vi odia tutti. In fondo al cuore, vi odia.

“E chi sarebbe suo padre?” Rachel fece una pausa, poi capì. “Oh, mio Dio. Sei il figlio di Galilee.”

“Sì. Sono suo figlio.”

Rachel si coprì il volto con le mani e sospirò. C’erano così tante cose che non capiva: segreti, rabbia e dolore. La sola cosa di cui era certa era che anche lì, anche in quel paradiso, i Geary avevano lasciato il segno. Non c’era da stupirsi che Galilee li odiasse.

Anche lei li odiava. In quel momento desiderò che fossero morti, tutti, fino all’ultimo. E forse anche lei avrebbe dovuto morire, forse quello era l’unico modo per liberarsi di loro.

“Tornerà?” chiese dopo un lungo istante.

“Oh sì”, rispose Niolopua con voce inespressiva. “Conosce le sue responsabilità.”

“Nei confronti di chi?”

“Nei tuoi confronti. Tu sei una Geary, che ti piaccia o no. È per questo che sta con te. Altrimenti non verrebbe.” Alzò lo sguardo su di lei. “Non ha alcun bisogno di te.”

Niolopua aveva pronunciato quelle parole per il puro gusto di ferirla, Rachel lo sapeva, tuttavia il suo discorso l’aveva colpita.

“Non sono tenuta ad ascoltarti”, disse, lo lasciò solo sui gradini a bere la sua birra tiepida ed entrò in casa.

Quattro

1

Non è un caso che certi avvenimenti di grande importanza si verifìchino contemporaneamente: è la natura delle cose. Dal momento che in gioventù sono stato un giocatore d’azzardo, conosco per esperienza diretta il funzionamento di questo principio. In un casinò, per esempio, d’improvviso il tavolo della roulette si “scalda”; e si vince, si vince, si vince. E se ci si trova al tavolo giusto al momento giusto, allora si hanno molte più probabilità di essere baciati dalla fortuna. Gli studiosi di fenomeni naturali grandi e piccoli, gli astronomi o gli entomologi, vi direbbero la stessa cosa. Per lunghi periodi — milioni di anni nella vita di una stella, minuti in quella di una farfalla — non accade niente di importante, poi, di colpo, una pletora di avvenimenti: convulsioni, trasformazioni e cataclismi.

Sono sempre i periodi in apparenza tranquilli a trarci in inganno. Anche se i nostri strumenti o i nostri sensi o il nostro intuito non riescono a percepirli, i meccanismi che conducono a questi gruppi di eventi sono comunque in movimento. La stella, la roulette, la farfalla — sono tutte in un sottile stato di inquietudine e attendono il momento in cui verrà dato un segnale invisibile. Allora la stella esploderà; la roulette renderà ricco un povero; la farfalla si accoppierà e morirà.


Se pensiamo alla famiglia Geary come a un’unica entità, allora possiamo dire che ormai il primo degli avvenimenti che l’avrebbero trasformata per sempre si era verifìcato: Rachel e Galilee si erano incontrati. Anche se gran parte di ciò che accadde nei giorni successivi, almeno in apparenza, non aveva niente a che fare con quell’incontro, la loro relazione sembrò in qualche modo far precipitare gli eventi.

E quanto a me sono disposto a credere che andò proprio così. Un sentimento così profondo (e così profondamente irrazionale) come la loro passione ha inevitabilmente delle conseguenze, vibrazioni che possono dare inizio a reazioni anche in luoghi lontanissimi dalla loro fonte.

In questo senso, l’amore è diverso da ogni altro fenomeno, perché può essere sia un evento sia il segnale invisibile di cui ho parlato poco fa; forse è il segnale più bello, più certo. E così l’amore ci trasforma nella roulette e nell’uomo che la roulette rende ricco; nella stella e nell’oscurità che viene squarciata dalla stella; nella farfalla, fragile e bellissima.


Tutto questo serve a prepararvi agli avvenimenti che sconvolsero la vita dei Geary nel breve lasso di tempo che seguì l’incontro di Rachel e Galilee: al modo in cui, di colpo, un sistema che era sopravvissuto e aveva prosperato per centoquarant’anni finì per sfaldarsi nell’arco di quarantott’ore.

2

Per coloro che conoscevano bene Cadmus Geary, il segno inequivocabile del suo improvviso deterioramento fu sartoriale. Anche se altre volte in passato aveva sofferto di gravi problemi di salute, in certi casi anche per periodi molto prolungati, Cadmus non aveva mai rinunciato all’eleganza. Era sempre stata una sua fissazione, fin da bambino. Più di una volta era stato scambiato per un omosessuale, cosa che non lo aveva mai disturbato. Era riuscito a portarsi a letto molte più donne, in quel modo.

Quel giorno, comunque, rifiutò di cambiarsi; disse di voler restare in pigiama. Quando la sua infermiera, Celeste, gli fece notare che durante la notte si era sporcato, lui rispose che quella era la sua merda e che gli piaceva la sua compagnia. Le ordinò di essere portato al piano inferiore e di essere messo davanti alla televisione. L’infermiera obbedì e poi chiamò il dottore. Ma Cadmus non volle saperne di essere visitato. Intimò a Waxman di andarsene e di lasciarlo in pace. Se non lo avesse fatto, avrebbe provveduto personalmente a ritirare tutti i fondi stanziati dalla famiglia Geary per la ricerca medica oltre ad annullare il premio per la pensione di Waxman.

“A me sembra che sia sempre il Cadmus che noi tutti conosciamo e amiamo”, disse il dottore a Loretta. “Vuole che provi ancora?”

Loretta gli disse che non avrebbe dovuto disturbarsi. Se le condizioni di suo marito fossero peggiorate, lo avrebbe chiamato. Sollevato, Waxman se ne andò, lasciando il vecchio seduto sul divano a guardare una partita di baseball. Dopo circa un’ora, Loretta gli portò qualcosa da mangiare: una zuppa, mezzo bagel tostato e della crema di formaggio. Lui le ordinò di lasciare tutto sul tavolo, avrebbe mangiato più tardi. Ora, aggiunse, voleva guardare la partita.

“Ti senti bene?” chiese Loretta.

Cadmus non distolse nemmeno gli occhi dallo schermo, anche se dai suoi lineamenti non traspariva nemmeno una scintilla di interesse per il gioco. “Mai stato meglio”, rispose.

Lei posò il vassoio sul tavolo. “Vuoi che ti porti qualcosa di diverso… magari della frutta?”

“Ho già la diarrea, grazie”, replicò lui educatamente. “Vuoi un budino al cioccolato?”

“Non sono un bambino, Loretta”, replicò Cadmus. “Anche che mi rendo conto che è passato molto tempo dall’ultima volta che te l’ho dimostrato. Comunque sono sicuro che hai qualcuno che provvede a scoparti regolarmente.”

Cadmus…

“Spero solo che apprezzi il fatto che ho speso così tanti soldi per farti rifare il culo e le tette e per farti appiattire la pancia.”

“Smettila!”

“Ti sei fatta dare una sistemata anche alla figa, già che c’eri?” chiese con noncuranza, come se quella conversazione fosse del tutto normale. “Scommetto che ti è diventata piuttosto cascante, dopo tutti questi anni.”

“Sei disgustoso”, disse Loretta. “Devo interpretarlo come un sì?”

“Se non la smetti, io…”

“Tu cosa?” chiese lui, e un sorrisetto gli animò le labbra incartapecorite. “Mi darai una bella sculacciata? Ricordi quando ero io che ti sculacciavo, amore? Ricordi quella spazzola laccata che mi portavi quando avevi bisogno di un po’ di disciplina?” Loretta non aveva più intenzione di continuare ad ascoltarlo. Si diresse verso la porta, il rumore dei suoi tacchi che riecheggiava sul pavimento di legno lucido. “Non ti è mai venuto in mente che potrei averlo raccontato in giro?”

Loretta si fermò a pochi passi dalla porta. “Non è vero”, disse.

“Non essere ridicola”, fece Cadmus. “Certo che l’ho raccontato. Solo a un ristretto gruppo di persone, naturalmente. A Cecil. E ad alcuni membri della tua famiglia.”

“Oh, sei solo un vecchio sudicio e disgustoso.

“Ecco, dolcezza, brava. Butta fuori tutto. Potrebbe essere la tua ultima occasione.”

“Non hai mai avuto alcun senso del pudore.”

“Se lo avessi avuto, sinceramente non ti avrei mai sposata.”

“E questo cosa vorrebbe dire?”

“Nessun altro ti avrebbe mai voluta. Non con una reputazione come la tua. La prima volta che ti ho vista nuda, ho pensato: non c’è nemmeno un punto di questo corpo che è ancora un territorio vergine. Ogni centimetro quadrato è stato leccato e pizzicato e scopato e picchiato. E all’epoca la cosa mi eccitava parecchio. Quando la gente mi domandava, perché proprio lei?, è una puttana, è andata a letto con mezza Washington, di solito rispondevo sì, ma posso ancora mostrarle qualche trucchetto che non conosce.” Rimase in silenzio per un attimo. Loretta stava singhiozzando sommessamente. “Perché cazzo stai piangendo? Quando sarò morto, potrai raccontare a tutti che razza di bastardo ero. Potrai scrivere un libro sulle mie nefandezze che diventerà un best-seller. Non me ne frega niente. Non sarò lì ad ascoltare. Sarò troppo impegnato a pagare per i miei peccati.” Alla fine, distogliendo per la prima volta gli occhi dallo schermo televisivo da quando aveva iniziato a parlare, con grande lentezza si voltò a guardarla. “C’è un inferno speciale per la gente che muore ricca come noi. Di’ qualche preghiera per me, d’accordo?” Lei lo fissò, inespressiva. “A cosa stai pensando?”

“Mi stavo chiedendo… se mi hai mai amata.”

“Oh, dolcezza”, ribatté Cadmus. “Non è un po’ troppo tardi per certi sentimentalismi?”

Lei se ne andò senza aggiungere altro. Era inutile discutere con lui; evidentemente le medicine gli avevano confuso i pensieri. Avrebbe parlato con Waxman; forse era il caso di diminuire le dosi. Salì al piano superiore e indossò un abito che si era fatta confezionare già da molti mesi ma che non aveva ancora indossato perché non si era mai sentita dell’umore giusto. Era bianco, piuttosto semplice, e quando lo aveva provato la prima volta le era sembrato che la facesse apparire estremamente pallida. Ma ora, osservandosi nello specchio, approvò l’austerità di quel vestito, così come l’aria gelida che le conferiva.

Le aveva dato della puttana, e non era giusto. Certo, si era divertita, e ciò che Cadmus aveva detto riguardo al suo corpo era vero. E con ciò? Aveva fatto del suo meglio con ciò che Dio le aveva dato; si era presa i suoi piaceri dove, quando e con chi aveva potuto. Non c’era nulla di cui vergognarsi. Cadmus era davvero stato fiero in modo perverso della sua reputazione, all’inizio. Gli aveva fatto piacere che il loro corteggiamento fosse stato al centro di tante chiacchiere e tanti pettegolezzi. E sì, lei aveva ceduto alle lusinghe della vanità molte volte rivolgendosi al chirurgo plastico. Ma ancora: e con ciò? Dimostrava dieci anni di meno, quindici sotto la luce giusta. Ma non voleva certo usare la sua bellezza come Cadmus aveva insinuato. Una volta che aveva preso il suo nome, aveva avuto un solo amante oltre a Cadmus e quella relazione era durata a malapena una settimana. Sarebbe stato bello pensare di avergli spezzato il cuore, ma Loretta sapeva di non potersi concedere una simile illusione. Il suo unico amante era stato immune all’amore. Una volta finito con lei, era scomparso all’orizzonte sulla sua barca, lasciandola col cuore straziato.


E uscì così, vestita di bianco, lasciando Cadmus sul divano a guardare il suo amato baseball. Naturalmente, lui non stava guardando la partita. Erano mesi che non ne guardava veramente una. Ma il semplice fatto di sedere lì lo aiutava a distrarsi dai pensieri sulle sue attuali condizioni — dal dolore e dall’umiliazione — e a tornare al passato. C’erano cose che doveva fare prima che la morte venisse a prenderlo per portarlo nello speciale inferno dei ricchi.

Essendo un ateo cattolico, in parte credeva a quell’inferno; in parte era convinto che avrebbe sofferto — se non in eterno almeno per molto, molto tempo — in un luogo arido in cui gli sarebbe stata negata ogni comodità. Il lusso non gli era mai davvero interessato, quindi non avrebbe sentito la mancanza dei pigiami di seta e delle scarpe italiane e delle bottiglie di champagne da mille dollari. Gli sarebbe mancato il potere. Gli sarebbe mancata la certezza di poter raggiungere al telefono qualunque politico, anche il più importante, nel giro di cinque minuti. Gli sarebbe mancata la certezza che ogni parola che mormorava fosse analizzata per capire i suoi desideri. Gli sarebbe mancata l’adulazione. Gli sarebbe mancato l’odio. Gli sarebbe mancato uno scopo. Quello era il vero inferno che lo aspettava: una terra desolata in cui il suo volere non significava niente perché non c’era niente su cui esercitarlo.

Il giorno prima aveva pianto a quella prospettiva. Ma oggi non gli restavano più lacrime. La sua testa era soltanto una lavagna piena di parole sconce che non gli servivano più a niente ora che quella puttana di sua moglie se n’era andata. Andata a farsi scopare, senz’altro; andata a farsi sbattere come una troia qualunque…

Si rese conto solo vagamente che stava pronunciando ad alta voce quelle parole; che stava dicendo sconcezze tra sé e sé, seduto sui suoi stessi escrementi. E nella sua testa quel monologo era accompagnato da molte immagini; troppo nebulose per poter dire se fossero erotiche o meno.

In mezzo a tutta quella confusione, c’erano altre faccende di cui avrebbe dovuto occuparsi. Affari non conclusi, persone a cui dire addio. Ma non riusciva a concentrarsi abbastanza nemmeno per elencarli; le oscenità continuavano a distrarlo.

A un certo punto, entrò l’infermiera che gli chiese come si sentisse. Dovette fare appello a tutta la forza di volontà per non ricoprirla di insulti e, usando quel poco che restava del suo autocontrollo, le ordinò di andarsene. Lei gli disse che sarebbe tornata di lì a dieci minuti con le sue medicine, poi se ne andò.

Mentre ascoltava i passi della donna che si allontanavano lungo il corridoio, nella sua testa cominciò a risuonare un ronzio. Sembrava provenire dalla parte posteriore del suo cranio; un piccolo rumore irritante che stava crescendo di intensità. Cercò di scrollarselo di dosso — come un cane con una pulce nell’orecchio — ma il ronzio non lo abbandonò. Divenne più forte, più stridulo. Cadmus afferrò il bracciolo del divano come per alzarsi. Aveva bisogno di aiuto. Avere la testa piena di sconcezze era una cosa, ma quello era un affronto troppo vile perché lo potesse sopportare. Si alzò in piedi ma le sue gambe non erano in grado di sostenerlo. La mano gli scivolò dal bracciolo, e si accasciò a terra. Cadendo, emise un grido ma non udì alcun suono. Ormai il lamento era così fragoroso da soffocare tutto il resto: lo scricchiolio delle sue vecchie ossa, il rumore della lampada da tavolo che si infrangeva sul pavimento.

Per qualche istante, perse conoscenza e in un mondo più pietoso di questo avrebbe anche potuto non riacquistarla più. Ma il destino non aveva ancora finito con lui. Dopo un meraviglioso intervallo di oscurità, Cadmus aprì gli occhi. Era riverso a terra, su un fianco, e il lamento era talmente fragoroso che era certo che gli avrebbe fatto esplodere il cranio.

Ma no; non gli fu concesso nemmeno quel lusso doloroso. Rimase lì, vivo e sconfìtto, finché qualcuno non lo trovò.

I suoi pensieri — ammesso che si potessero ancora definire pensieri — erano caotici. C’erano ancora frammenti di oscenità, qua e là, ma non erano più vere parole. Erano solo sillabe che rimbalzavano contro le pareti della sua testa, seguendo il ritmo di un lamento incessante.


Quando Celeste rientrò nella stanza, si dimostrò un vero e proprio modello di efficienza. Liberò la gola del paziente da alcuni resti di vomito, si accertò che riuscisse a respirare e poi chiamò l’ambulanza. Fatto questo, tornò in corridoio, avvertì un membro della servitù e gli disse di trovare Loretta e di farla andare al Mount Sinai, dove sarebbe stato portato Cadmus. Quando tornò dal vecchio, scoprì che aveva aperto gli occhi, solo due fessure, e che aveva voltato la testa verso la porta.

“Riesce a sentirmi, signor Geary?” gli chiese dolcemente.

Lui non rispose ma i suoi occhi si aprirono ancora un po’. Celeste si rese conto che stava cercando di mettere a fuoco qualcosa, per la precisione il dipinto appeso alla parete più lontana della sala. L’infermiera non sapeva nulla di arte ma quel quadro gigantesco aveva finito per esercitare un grande fascino anche su di lei, a tal punto che aveva chiesto a Cadmus di parlargliene. Lui le aveva spiegato che era di un artista di nome Albert Bierstadt e che rappresentava la sua idea degli spazi sconfinati d’America. Guardarlo, aveva detto Cadmus, avrebbe dovuto essere una specie di viaggio: l’occhio che si spostava da una parte all’altra del panorama scopriva sempre qualche nuovo dettaglio. Le aveva mostrato come guardarlo attraverso un foglio di carta arrotolato, come osservando la scena con un binocolo. Sulla sinistra, c’erano una cascata e un piccolo specchio d’acqua al quale si stavano abbeverando alcuni bisonti; dietro gli animali, si allargava un’immensa pianura e in lontananza si potevano scorgere le cime di montagne innevate che si stagliavano contro un cielo blu profondo. La sola figura umana del dipinto era un pioniere solitario a cavallo, fermo sull’orlo di un precipizio sulla destra del quadro, intento a scrutare le terre che si estendevano davanti a lui.

“Quell’uomo è un Geary”, le aveva detto una volta Cadmus. Celeste non era certa che il vecchio stesse scherzando e non aveva avuto il coraggio di chiedergli se dicesse sul serio. Ma ora, guardando il suo viso mentre tentava di mettere a fuoco il dipinto, si rese conto che era proprio il pioniere ciò che gli occhi di Cadmus stavano cercando disperatamente. Non i bisonti, non le montagne, ma l’uomo che scrutava il paesaggio, pronto alla conquista. Alla fine, Cadmus rinunciò: quello sforzo era troppo per lui. Emise un breve gemito di frustrazione e arricciò leggermente il labbro superiore, come disprezzando la sua stessa incapacità. “Va tutto bene…” gli disse Celeste, scostandogli dalla fronte una ciocca di capelli bianco-argentei. “Stanno arrivando, li sento.”

Era la verità. Celeste sentiva davvero i medici che stavano percorrendo il corridoio. Un istante più tardi erano accanto a lui: lo sollevarono con dolcezza dal pavimento e lo fecero sdraiare sulla barella, avvolgendolo con alcune coperte e sussurrandogli parole di rassicurazione.

Alla fine, mentre sollevavano la barella, gli occhi del vecchio tornarono alla tela. Celeste sperò che almeno ora riuscissero a intravedere il dipinto, ma ne dubitava. Celeste lo sapeva: non c’erano molte possibilità che Cadmus potesse tornare ancora una volta in quella stanza a osservare il pioniere.

Cinque

Rachel guardava con occhi diversi la casa, ora che sapeva che era stato Galilee a costruirla. Quanta fatica per un uomo solo; scavare e gettare le fondamenta, erigere i muri, modellare porte e finestre, costruire il tetto, i pavimenti. Senza dubbio, in quel legno c’erano il suo sudore, le sue imprecazioni e il suo strano genio che aveva ideato e creato una casa così confortevole. Nessuna meraviglia che la madre di Niolopua l’avesse voluta con tutta se stessa. Non potendo avere il suo costruttore, aveva dovuto accontentarsi del suo capolavoro.

La conversazione sulla veranda convinse Rachel che Galilee sarebbe tornato, ma col passare delle ore, mentre ripensava a tutto ciò che sapeva di lui, il suo umore diventò sempre più cupo. Forse stava solo ingannando se stessa, e la notte precedente in realtà non era accaduto niente di splendido e prezioso tra loro due; forse Galilee sarebbe ritornato per una sorta di bizzarro senso del dovere. Dopotutto era solo la moglie di un altro Geary, per quanto ne sapeva lui; un’altra stronza annoiata venuta a farsi una dose di paradiso. Non aveva idea di quanto lei si sentisse prigioniera. E non avrebbe potuto biasimarlo se l’avesse considerata spregevole per aver occupato la sua casa dei sogni come se ne fosse stata la padrona, mentre suo figlio Niolopua era costretto a occuparsi del giardino.

E poi, come se non bastasse, il modo in cui si era comportata la notte precedente! L’imbarazzo che provava era quasi insopportabile. La spudoratezza con cui gli si era mostrata; cosa diavolo le aveva preso? Se avesse visto un’altra donna comportarsi così, l’avrebbe sicuramente considerata una puttana; e avrebbe avuto le sue buone ragioni. Avrebbe dovuto cacciarlo nell’istante in cui si era resa conto della piega che stava prendendo il racconto. Avrebbe dovuto dirgli: non voglio più ascoltarti, e poi avrebbe dovuto mandarlo via con decisione. Allora forse sarebbe tornato perché lo voleva; non perché…

“Oh mio Dio…” mormorò Rachel con un filo di voce.

Eccolo, là sulla spiaggia.

Eccolo, e il cuore d’improvviso prese a batterle così forte che poteva persino sentirlo nelle tempie, e le mani le si ricoprirono di sudore e lo stomaco le si torse. Eccolo, e Rachel pensò che tutto quello che poteva fare era andare da lui, spiegargli che lei non era una Geary, che non era nemmeno la moglie di un Geary, che era stato tutto uno stupido malinteso. Poteva perdonarla, fingere di non averla mai vista prima così che potessero ricominciare dal principio, come se si fossero appena conosciuti?

Ma lei non fece niente di tutto questo, naturalmente. Si limitò a guardarlo avvicinarsi alla casa. La vide anche lui; la salutò con la mano e sorrise. Rachel andò alla portafinestra, l’aprì e uscì sulla veranda. Lui era a metà del prato e stava ancora sorridendo. Aveva i pantaloni bagnati fino alle ginocchia e la T-shirt umida, appiccicata al petto. Le porse la mano.

“Vuoi venire con me?” disse.

“Dove andiamo?”

“Voglio mostrarti qualcosa.”

“Aspetta, prendo le scarpe.”

“Non ne avrai bisogno. Dobbiamo solo andare lungo la spiaggia.”

Rachel chiuse la portafinestra e lo raggiunse sul prato. Lui le prese la mano, un gesto così disinvolto da sembrare un rituale quotidiano per loro, come se lui avesse attraversato il prato per andarla a chiamare, le avesse sorriso e le avesse preso la mano in quel modo centinaia di volte.

“Voglio mostrarti la mia barca”, le spiegò, mentre percorrevano il breve sentiero che conduceva alla sabbia. “È ormeggiata in una baia qui vicino.”

“Fantastico”, disse lei. “Oh… a proposito… credo di dovermi scusare per ieri notte. Non è da me… comportarmi così…”

“No?”

Lei non riuscì a capire se Galilee stesse facendo del sarcasmo o meno. A giudicare dal suo sorriso era assolutamente sincero.

“Be’, ieri notte sono stato benissimo”, continuò lui, “quindi se vuoi comportarti di nuovo così, fa’ pure.” Lei gli rivolse un sorrisetto imbarazzato. “Vuoi camminare nell’acqua?” continuò Galilee, come se le sue scuse fossero ormai un discorso chiuso. “Non è fredda.”

“Non mi dispiace l’acqua fredda”, disse lei. “Avevamo degli inverni terribili nella mia città natale.”

“E sarebbe?”

“Dansky, Ohio.”

“Dansky, Ohio”, ripeté lui, rigirandosi le parole sulla lingua come assaporandole. “Sono stato nell’Ohio una volta. Prima che decidessi di prendere il mare. In una città chiamata Bellefontaine. Ma non ci sono rimasto a lungo.”

“Cosa intendi con ‘prendere il mare’?”

“Solo questo. Ho abbandonato la terra. E le persone che la abitano. In effetti, è proprio le persone che ho abbandonato, non tanto la terra.”

“Non ti piacciano le persone?”

“Qualcuna mi piace”, rispose lui, lanciandole un’occhiata obliqua. “Ma non molte.”

“Per esempio, non ti piacciono i Geary.”

Il sorriso di Galilee sbiadì all’istante. “Chi te l’ha detto?”

“Niolopua.”

“Ah. Be’, avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa.”

“Non prendertela con lui. Era molto agitato. E da quello che mi ha detto, mi sembra che la famiglia non sia stata molto gentile con nessuno.”

Galilee scosse la testa. “Questo è un mondo crudele e talvolta rende la gente crudele. C’è ben di peggio dei Geary. E comunque… tu sei una Geary.” Il sorriso ricomparve. “E non sei così male.”

“Sto per divorziare”, disse Rachel.

“Davvero? Non lo ami più?”

“No.”

“Lo hai mai amato?”

“Non lo so. È difficile esserne sicuri quando incontri qualcuno come Mitchell. Soprattutto quando sei solo una ragazza del Midwest, e ti senti sperduta e non sei certa di quello che vuoi. E poi compare lui e ti dice di non preoccuparti più di niente. Che prowederà lui a ogni cosa.”

“E non lo ha fatto?” chiese Galilee.

Lei rimase a riflettere per un istante. “Ha fatto del suo meglio”, ammise. “Ma con il passare del tempo…”

“Le cose che volevi sono cambiate”, disse Galilee.

“Proprio così.”

“E alla fine, le cose che desideri sono proprio quelle che non possono darti.” Non stava più parlando di lei, capì Rachel. Stava parlando di se stesso, del suo rapporto con i Geary di cui lei ancora non comprendeva la natura.

“Stai facendo la cosa giusta”, le disse. “E meglio andarsene prima di incominciare a odiare se stessi.”

Ancora una volta si stava riferendo alla sua vita, e lei trovò quel fatto confortante. Galilee sembrava aver visto un qualche parallelo tra le loro esistenze. Le paure che l’avevano tormentata quel pomeriggio si stavano rivelando infondate. Se davvero lui capiva così bene la sua situazione — se davvero in qualche modo i loro rispettivi dolori si assomigliavano — allora avevano un terreno comune da cui partire.

Avrebbe voluto saperne di più, ma dopo quell’ultimo commento Galilee si era fatto silenzioso, e Rachel non aveva idea di come risollevare l’argomento senza sembrare troppo insistente. Non importa, pensò. Perché perdere tempo a parlare dei Geary, quando poteva godere di tante cose meravigliose: del cielo che si tingeva di rosa, del mare calmo come non lo aveva mai visto, della carezza dell’acqua attorno alle sue gambe, del calore della mano di Galilee contro la sua?

A quanto pareva, Galilee stava pensando più o meno la stessa cosa.

“A volte, le mie stesse parole mi mettono di cattivo umore”, le confidò, “e poi penso: di cosa diavolo posso lamentarmi?” Alzò gli occhi sulle nuvole color corallo che stavano solcando il cielo sopra di loro. “E se anche non capisco il mondo?” continuò. “Sono un uomo libero. Per la maggior parte del tempo, almeno. Vado dove voglio, quando voglio. E dovunque io vada…” il suo sguardo si spostò dalle nuvole a Rachel “… vedo cose meravigliose.” Si chinò verso di lei e le diede un bacio leggero. “Cose così belle che fatico a credere che le sto guardando.” Si erano fermati. Lui le coprì di nuovo le labbra con le sue, ma questa volta non ci fu niente di casto. Si strinsero l’uno all’altra e si baciarono profondamente, come gli amanti che erano destinati a diventare.


Rachel ebbe il sospetto che quello fosse solo un sogno: che ogni dettaglio di quell’istante fosse così perfetto che niente avrebbe potuto migliorarlo. Cielo, mare, nuvole, labbra. I loro sguardi che si incontravano. Le mani di Galilee sulla sua schiena, sul suo collo, tra i suoi capelli.

“Perdonami…” mormorò lui.

“Per cosa?”

“Per non essere venuto a cercarti”, rispose. “Avrei dovuto farlo.”

“Non capisco.”

“Stavo guardando il mare quando avrei dovuto mettermi in cerca di te. Così non lo avresti sposato.”

“Se non lo avessi sposato, non ci saremmo mai incontrati.”

“Oh sì, invece”, disse Galilee. “Se non fossi rimasto a guardare il mare, avrei saputo che eri qua, da qualche parte. E sarei venuto a cercarti.”


Camminarono ancora per un po’ abbracciati, adesso. Lui la condusse in fondo alla spiaggia e oltre le rocce che segnavano il confine tra le due baie. Dall’altra parte, c’era una striscia di spiaggia lunga forse la metà di quella che si erano lasciati alle spalle, in mezzo alla quale si trovava un piccolo, vecchio pontile, le assi ingrigite e i pali che lo sostenevano verdi di alghe. C’era solo un’imbarcazione attraccata lì: la Samarcanda. Aveva le vele ammainate e ondeggiava lentamente seguendo il ritmo della marea, l’immagine stessa della tranquillità.

“L’hai costruita tu?” domandò Rachel.

“Non proprio. L’ho comprata alle Mauritius, ho levato tutte le cose inutili e l’ho risistemata come volevo io. Ci sono voluti due anni, ho fatto tutto da solo.”

“Come per la casa.”

“Già, be’, preferisco così. Non sono molto a mio agio con la gente. Una volta ero diverso…”

“Ma?”

“Mi sono stancato di fingere.”

“Di fingere cosa?”

“Di fingere che la gente mi piacesse”, rispose Galilee. “Che mi piacesse parlare…” scrollò le spalle “… delle cose di cui parla la gente.”

“Di loro stessi”, disse Rachel.

“È di questo che parlano?” chiese lui perplesso. Era come se si fosse tenuto lontano da ogni presenza umana per così tanto tempo da dimenticare ogni cosa. “Dovevo essere distratto.” Rachel scoppiò a ridere. “No, parlo sul serio”, continuò lui. “Non mi sarebbe dispiaciuto così tanto se avessero voluto davvero parlare di quello che accadeva nelle loro anime. Ma non era così. Senti discorsi carini. Quanto stanno diventando grasse le loro mogli, quanto sono stupidi i loro mariti e quanto odiano i loro figli. Chi può sopportare una cosa del genere molto a lungo? Io preferisco non sentire niente.”

“Oppure raccontare una storia.”

“Oh, certo”, disse lui, illuminandosi a quel pensiero, “questo è anche meglio. Ma non una storia qualsiasi. Dev’essere qualcosa di vero.”

“E la storia che mi hai raccontato ieri notte?”

“Anche quella era vera”, rispose Galilee. “Te lo giuro, non ho mai raccontato una storia più vera in vita mia.” Lei lo fissò, con aria interrogativa. “Vedrai”, continuò, “se non è vera adesso, presto o tardi lo sarà.”

“Questo potrebbe dirlo chiunque”, ribatté lei.

“Sì, ma non l’ha detto chiunque. L’ho detto io. E non sprecherei mai il mio tempo con cose meno che vere.” Le accarezzò il viso. “Prima o poi dovrai raccontarmi una storia. E dovrà essere altrettanto vera.”

“Non conosco storie come la tua.”

“E cioè?”

“Sai”, rispose Rachel. “Storie eccitanti come quella che mi hai raccontato tu.”

“Oh, allora ti ha eccitata.”

“Sai che è così.”

“Vedi? Allora doveva essere vera.”

Rachel non seppe cosa ribattere. Non tanto perché quell’ultima affermazione fosse priva di senso, ma perché, in un modo che non riusciva a spiegarsi, ne aveva anche troppo. Era chiaro che il concetto che Galilee aveva del vero sfuggiva a ogni definizione convenzionale, e tuttavia possedeva una sorta di logica bizzarra.

“Vogliamo andare?” disse lui. “Penso che la barca cominci a sentirsi sola.”

Sei

1

Mentre percorrevano il piccolo molo scricchiolante, Rachel gli chiese perché avesse battezzato la sua barca Samarcanda. Galilee le spiegò che quello era il nome di una città.

“Non l’ho mai sentita nominare”, disse Rachel.

“Be’, non mi stupisce. È molto lontana dall’Ohio.”

“Vìvevi là?”

“No, l’ho solo visitata. Ho visitato un sacco di posti in vita mia senza fermarmi.”

“Allora hai viaggiato molto.”

“Più di quanto avrei voluto.”

“Perché non ti trovi un posto che ti piaccia e non ti fermi lì?”

“È una lunga storia. Credo che la risposta più semplice sia che ho sempre avuto la sensazione di non appartenere a nessun luogo. Tranne che al mare.” Lanciò un’occhiata in direzione dell’oceano. “E persino là fuori…”

Per la prima volta da quando avevano cominciato quella conversazione, Rachel sentì che Galilee era altrove con la mente, come se quei discorsi su cose lontane avessero acceso in lui il desiderio di mettersi in viaggio. Forse non verso Samarcanda; solo verso qualche luogo remoto, lontano dal qui e da ora. Lei gli toccò il braccio.

“Torna da me”, disse.

“Scusami”, rispose lui. “Sono qui.”

Avevano raggiunto l’estremità del molo. La barca era davanti a loro e stava dondolando dolcemente tra le braccia della marea.

“Saliamo a bordo?” chiese Rachel.

“Certamente.”

Galilee si fece da parte e lei salì la stretta passerella che univa il molo al ponte della barca. Poi la seguì. “Benvenuta a bordo della mia Samarcanda”, disse alla fine con evidente orgoglio.

Non ci volle molto per farle visitare la barca; era sotto ogni aspetto un’imbarcazione tutt’altro che insolita. Fu solo quando scesero sottocoperta che Rachel si accorse di quanto Galilee ci avesse lavorato. Le pareti della piccola cabina erano ricoperte da pannelli di legno; i colori, le venature e persino i nodi delle assi erano stati scelti e affiancati in modo da suggerire delle immagini.

“È solo un’impressione”, si stupì Rachel, “o vedo davvero delle forme nelle pareti?”

“Qualcosa in particolare?”

“Be’… là mi sembra di vedere una specie di paesaggio, delle rovine, forse anche degli alberi. Quello potrebbe essere un albero o forse una persona…”

“Io penso che sia una persona.”

“Ce l’hai messa tu?”

“No. Mentre lavoravo, pensavo soltanto di creare degli accostamenti. Ma una settimana dopo l’inizio del mio primo viaggio ho cominciato a intravedere delle forme.”

“È come guardare delle macchie d’inchiostro…” disse Rachel.

“… o delle nuvole.”

“… o delle nuvole. Più a lungo le osservi, più cose ci vedi.”

“È utile per i lunghi viaggi”, spiegò Galilee, “quando sono stanco di guardare il mare e i pesci, vengo qui a fumare e osservo le pareti. Noto sempre qualcosa di nuovo.” Le posò le mani sulle spalle e la fece voltare con delicatezza. “Vedi quello?” le chiese, indicando la porta in fondo alla cabina che era stata costruita esattamente come le pareti.

“Il disegno sulla porta?”

“Sì. A cosa ti fa pensare?”

Lei si avvicinò alla porta e Galilee la seguì tenendole sempre le mani sulle spalle. “Ti darò un indizio”, le disse abbassando la voce fino a ridurlo a un sussurro. “L’erba sembra molto morbida…”

“L’erba?”

Rachel si fermò e studiò le striature del legno. C’erano sagome scure verso la cima della porta; una scheggia di legno sbiadito che la tagliava orizzontalmente, e altre forme a cui non riusciva a dare un senso, sistemate senza uno schema preciso qua e là. Ma dov’era l’erba? E perché era morbida?

“Non la vedo”, disse lei.

“Cerca la vergine”, le suggerì Galilee.

“La vergine? Quale vergine?” Lui prese fiato come per darle un altro indizio ma prima che potesse parlare, Rachel aggiunse: “Vuoi dire Jerusha?”

Lui le premette sul collo le labbra stirate in un sorriso e restò in silenzio.

Lei continuò a guardare e a poco a poco l’immagine emerse davanti ai suoi occhi. L’erba — quel tappeto morbido sul quale Jerusha si era sdraiata — era là al centro della porta, una sezione di legno coperto di minuscole macchie. Più in alto, le sagome scure, che poco prima le erano sembrate indistinte, adesso erano alberi antichi carichi di foglie. E quella scheggia chiara orizzontale che attraversava la porta? Era il fiume, in lontananza.

Ora fu lei a sorridere, mentre il mistero si svelava davanti ai suoi occhi. Aveva solo una domanda: “Dove sono le persone?”

“Quelle devi aggiungerle tu”, rispose lui. “A meno che…” Con un dito indicò una sagoma stretta tra le venature di una delle assi. “Questo non potrebbe essere l’uomo del fiume?”

“No. Era molto più bello.”

Galilee scoppiò a ridere. “Allora può darsi che questa non sia nemmeno la foresta di Jerusha. Dovrò inventare una nuova storia.”

“Ti piace raccontare storie, vero?”

“Mi piace l’effetto che hanno sugli altri”, rispose lui con un piccolo sorriso colpevole. “Li fanno sentire al sicuro.”

“Nel tuo mondo? Dove i potenti erano giusti e i poveri avevano Dio.

“Sì, direi che è proprio il mio mondo. Non ci avevo mai pensato prima.” In qualche modo quell’idea sembrò turbarlo. Per un attimo, solo per un attimo, si fece pensoso. Poi alzò lo sguardo e chiese: “Hai fame?”

“Sì, un po’.”

“Bene. Allora cucinerò qualcosa. Ci vorranno un paio d’ore. Ce la fai ad aspettare?”

“Un paio d’ore?” chiese lei. “E che cosa vuoi cucinare?”

“Oh, non è tanto la preparazione del cibo che richiede tempo”, rispose Galilee. “È procurarselo.”

2

Il sole era tramontato quando la Samarcanda lasciò il molo; non c’era traccia della luna. C’erano solo le stelle, luminose. Rachel era seduta sul ponte mentre la barca si allontanava dall’isola. Più si allontanavano, più il cielo si faceva scintillante, o almeno così le sembrava. Non aveva mai visto così tante stelle, né aveva mai visto la Via Lattea così chiaramente; un’ampia fascia irregolare di cielo punteggiato di luci.

“A cosa stai pensando?” le domandò Galilee.

“Una volta lavoravo in una gioielleria di Boston”, rispose lei. “Avevamo una collana chiamata Via Lattea. In teoria avrebbe dovuto essere così.” Indicò il cielo. “Se non sbaglio costava ottocentocinquantamila dollari. Non ho mai visto tanti diamanti in vita mia.”

“Avresti voluto rubarla?” chiese Galilee.

“Non sono una ladra.”

“Ma avresti voluto?”

Rachel sogghignò. “Una volta che ero sola in negozio l’ho provata. Ed era molto bella. Ma l’originale è molto meglio.”

“Avrei potuto rubarla per te”, disse Galilee. “Nessun problema. Avresti dovuto semplicemente dirmi la voglio, e sarebbe stata tua.”

“E se ti avessero preso?”

“Non mi faccio mai prendere.”

“Allora che cos’hai rubato?”

“Oh mio Dio… Da dove comincio?”

“Stai scherzando?”

“No. Prendo il furto molto seriamente.”

“Sì, stai scherzando.”

“Ho rubato questa barca.”

“Non è vero.”

“E come avrei potuto averla altrimenti?”

“Comprandola.”

“Ma sai quanto costa una barca come questa?” disse Galilee in tono pacato. Rachel non era ancora convinta che stesse parlando sul serio. “Avrei dovuto rubare o il denaro per comprarla o la barca stessa. Mi è sembrato più semplice rubare la barca.” Lei scoppiò a ridere. “Oltretutto il tizio a cui apparteneva non l’amava veramente. La lasciava ancorata tutto il tempo. Io l’ho portata fuori, le ho mostrato il mondo.”

“Da come ne parli sembra che tu l’abbia sposata.”

“Non sono così pazzo”, replicò Galilee. “Mi piace andare in barca ma scopare mi piace molto di più.” Sul volto di Rachel comparve un’espressione sorpresa e lui si affrettò a dire: “Scusami. Sono stato volgare. Voglio dire che…”

“No, se è questo che volevi dire, hai fatto bene.”

Lui le lanciò un’occhiata obliqua, gli occhi che scintillavano alla luce della lampada. Nonostante ciò che aveva appena detto, sembrava veramente pazzo, in quel momento: pazzo in modo sublime, squisito.

“Ti rendi conto di quello che hai detto?” le chiese.

“No.”

“Mi hai dato il permesso di dire quello che voglio. È un invito pericoloso.”

“Correrò il rischio.”

“D’accordo”, disse lui, scrollando le spalle. “Ma ricordati…”

“… Che ti ho dato io il permesso.”

Galilee continuò a guardarla.

“Ti ho portata su questa barca perché voglio fare l’amore con te.”

“Adesso è diventato fare l’amore?”

“No, scopare. Voglio scoparti.”

“Usi sempre questa strategia?” volle sapere Rachel. “Porti sempre le ragazze in mare aperto dove non hanno scelta?”

“Potresti andartene a nuoto”, ribatté lui. Non stava sorridendo.

“Probabilmente potrei.”

“Ma come dicono sulle isole: Uliuli kai holo ka mano.

“E cosa significa?”

Dove il mare è scuro nuotano gli squali.

“Oh, molto rassicurante”, borbottò Rachel, lanciando un’occhiata alle acque che accarezzavano pigramente lo scafo della Samarcanda. Erano davvero scure.

“Quindi potrebbe non essere la decisione più saggia. Sei più al sicuro qui. Con me. Posso darti quello che vuoi.”

“Ma io non ho detto…”

“Non ce n’è bisogno. Riesco a sentire l’odore di quello che vuoi.”

Se Mitchell le avesse mai detto qualcosa di simile come ouverture sessuale, si sarebbe giocato all’istante ogni possibilità di fare l’amore con lei. Ma era stata lei a dare il permesso a quell’uomo di dire ciò che gli passava per la testa. Era tardi per fare la puritana. D’altra parte, pronunciate da Galilee, quelle parole erano stranamente seducenti. Poteva sentire il suo odore. Il suo fiato, il suo sudore; chissà cos’altro. Poteva sentire il suo odore; e lei stava solo perdendo tempo con le sue proteste e i suoi rifiuti…

Così disse: “Non avevi detto che volevi pescare?”

Lui sogghignò. “Allora vuoi un amante che mantiene le sue promesse.”

“Assolutamente sì.”

“D’accordo”, fece lui, e alzandosi si tolse la T-shirt, si slacciò la cintura e si sfilò i jeans; così velocemente, che Rachel non capì che cosa avesse intenzione di fare finché non lo vide tuffarsi in acqua. Non fu un tuffo elegante e gli spruzzi d’acqua la raggiunsero. Ma non fu quella la ragione per cui lei si alzò in piedi e gli gridò di fermarsi. Fu per ciò che le aveva detto sugli squali e le acque scure.

“Non farlo!” gridò. Non riusciva quasi a vederlo. “Torna qui!”

“Non starò via per molto.”

Galilee. Hai detto che c’erano gli squali.”

“E più resto qui a parlare con te, più probabilità ci sono che vengano a mordermi il culo, quindi se non ti dispiace adesso vado a pescare.”

“Mi è passata la fame.”

“Ti tornerà”, replicò lui. Rachel poteva percepire il sorriso che gli animava la voce. Poi lo vide sollevare le braccia sopra la testa e scomparire tra i flutti.

“Figlio di puttana”, mormorò, la mente piena di domande inquietanti. Per quanto tempo Galilee riusciva a trattenere il fiato? E lei quando avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi? E se avesse visto uno squalo, cosa avrebbe dovuto fare? Sporgersi dal ponte e colpire lo scafo per distrarre il predatore? Non era certo un’idea rassicurante, le acque erano così scure. Lo squalo le sarebbe stato addosso in un batter d’occhio. Le avrebbe mozzato una mano, un braccio, l’avrebbe trascinata nel mare.

Non aveva più dubbi: quando Galilee fosse tornato a bordo, gli avrebbe detto di riportarla a terra immediatamente; quel figlio di puttana, quel figlio di puttana, l’aveva lasciata lì a fissare le tenebre con il cuore in gola e…

Sentì un rumore dall’altra parte della barca.

“Sei tu?” chiese. Non ottenne risposta. Attraversò il ponte, inciampando in qualcosa nell’oscurità. “Galilee, accidenti a te! Rispondi!

Il rumore riecheggiò ancora. Rachel scrutò il mare in cerca di un qualche segno di vita, pregando di scorgere un uomo e non una pinna.

“Oh Dio, ti prego, fa’ che non gli succeda niente”, si sorprese a dire ad alta voce. “Ti prego, Dio, non fargli del male.”

“Parli come una donna delle isole.”

Rachel si voltò a guardare in direzione della voce. C’era qualcosa di simile a una palla nera che galleggiava nell’acqua. E attorno a essa, i pesci stavano saltando fuori dall’acqua, i loro dorsi color argento nella luce delle stelle.

“Bene”, disse Rachel, cercando di non mostrarsi preoccupata in modo da non incoraggiarlo nelle sue bravate. “Hai preso il pesce? Fantastico.”

“A Puhi, c’era un dio-squalo chiamato Kaholia-Kane.”

“Smettila!” gridò lei.

“Ma ti ho sentita pregare.”

“No.”

Tiprego, Dio, stavi dicendo.”

“Non stavo pregando il fottutissimo squalo!” gridò Rachel. La rabbia e la paura stavano avendo la meglio su di lei.

“Be’, invece dovresti. Gli dèi ti ascoltano. O almeno, questo ascoltava. Le donne lo chiamavano quando qualcuno si perdeva in mare.”

“Galilee?”

“Sì?”

“Non è più divertente. Voglio che torni a bordo.”

“Un momento”, disse lui. “Lasciami finire.” Rachel lo vide sollevare un braccio fuori dall’acqua per afferrare uno dei pesci. “Preso! Perfetto. Arrivo.” Incominciò a nuotare verso la Samarcanda.

“Ecco”, le disse quando raggiunse il bordo della barca, passandole il pesce. Era grande e ben intenzionato a tornare nel suo elemento naturale. Si agitava con tanta violenza che Rachel dovette afferrarlo con entrambe le mani.

Stava appoggiando il pesce sul ponte da dove non sarebbe più riuscito a scappare, quando Galilee uscì dall’acqua e si fermò a un paio di passi da lei, alle sue spalle.

“Mi dispiace”, disse, senza darle il tempo di spiegargli quanto fosse arrabbiata con lui. “Non pensavo che ti avrei turbata così. Pensavo che avessi capito che era uno scherzo.”

“Vuoi dire che non ci sono squali in queste acque?”

“Oh no, ce ne sono. E gli isolani dicono davvero Uliuli kai holo ka mano. Ma non credo che si riferiscano veramente agli squali quando lo dicono.”

“E a cosa si riferiscono, allora?”

“Agli uomini.”

“Oh, capisco”, disse Rachel. “Quando fa buio, gli uomini escono…”

“… a cercare qualcosa da mangiare.” Galilee annuì.

“Ma avresti potuto essere attaccato comunque”, continuò lei, “se ci sono davvero degli squali là fuori.”

“Non mi avrebbero toccato.”

“E perché? Sei troppo coriaceo per loro?”

Lui le prese una mano e se la portò al centro del petto massiccio. Il suo cuore batteva furiosamente. Sembrava che ci fosse solo un sottile strato di pelle tra la sua mano e il cuore di Galilee: se solo avesse voluto, avrebbe potuto affondare le dita e stringerlo. Adesso era lei che poteva sentire il suo odore. La sua pelle sapeva di fumo e caffè bruciato; il suo alito di sale.

“Ci sono un sacco di storie sugli squali, gli uomini e gli dèi”, disse lui.

“Sempre le tue storie vere?”

“Assolutamente vere”, rispose lui. “Te lo giuro.”

“Per esempio?”

“Be’, ce ne sono quattro tipi. Leggende su uomini che si trasformano in squali. Queste creature si aggirano per le spiagge di notte e rubano anime; talvolta rapiscono bambini.”

Rachel fece una smorfia. “Non mi sembrano molto divertenti.”

“Poi ci sono storie su uomini che decidono di vivere nel mare e diventano squali.”

“E perché mai dovrebbero fare una cosa del genere?”

“Per la stessa ragione per cui ho preso questa barca e me ne sono andato: perché sono stanchi di fingere. Vogliono vivere nell’acqua, muoversi in eterno. Gli squali muoiono se non continuano a nuotare, lo sapevi?”

“No…”

“Be’, è così.”

“E questo è il secondo tipo.”

“Poi c’è un altro tipo che conosci già. Le leggende su Kaholia-Kane e i suoi fratelli e le sue sorelle.”

“Dèi-squali?”

“Protettori dei marinai e delle navi. Ce n’è uno a Pearl Harbor che custodisce i morti. Si chiama Ka’ahupahau. E il più grande si chiama Kuhaimuana. È lungo più di cinquanta metri…”

Rachel scosse la testa. “Mi spiace. Nemmeno queste mi interessano.”

“Quindi ci resta solo una categoria.”

“Uomini che sono dèi?” domandò Rachel. Galilee annuì. “No, non mi bevo nemmeno questa.”

“Non essere precipitosa”, disse Galilee. “Forse non hai ancora incontrato l’uomo giusto.”

Lei scoppiò a ridere. “E forse sono solo storie”, ribatté. “Ascolta, se vuoi parlare di squali e di religione, possiamo farlo domani. Ma stasera cerchiamo di essere solo persone normali.”

“Lo fai sembrare facile”, disse lui.

“E infatti lo è.” Gli si avvicinò, la mano ancora premuta sul suo petto. Il cuore dell’uomo sembrava battere ancora più forte, adesso. “Non capisco cosa stia succedendo tra noi”, disse Rachel, i loro volti così vicini che poteva sentire il calore del respiro di Galilee. “E a essere sincera, non m’importa più.” Lo baciò. Lui continuò a fissarla senza nemmeno sbattere le palpebre, anche mentre si baciavano.

“Che cosa vuoi fare?” chiese lui con voce pacata.

Lei gli fece scivolare l’altra mano lungo il ventre, fino al sesso. “Tutto quello che vuoi”, disse accarezzandolo. Lui rabbrividì.

“Ci sono tante cose che devo raccontarti”, disse lui.

“Più tardi.”

“Cose che devi sapere su di me.”

“Più tardi.”

“Ma poi non dire che non ci ho provato”, disse, fissandola con una certa serietà.

“Non lo farò.”

“Allora andiamo sottocoperta e cerchiamo di essere persone normali per un po’.”

Prima di seguirla, Galilee tornò al centro del ponte dove giaceva il pesce e lo raccolse, accovacciandosi. Lei guardò il suo corpo illuminato dalla luce della lampada; i muscoli della sua schiena, delle sue natiche, delle sue cosce, lo scroto scuro e gonfio che gli pendeva tra le gambe. Era splendido, pensò; forse l’uomo più bello che avesse mai visto in vita sua.

Galilee si rialzò, assorto, e mormorò qualche parola al pesce morto prima di gettarlo in acqua.

“Perché lo hai fatto?” gli chiese Rachel.

“È un’offerta”, spiegò lui. “Per il dio-squalo.”

Sette

1

Mio fratello Galilee è sempre stato impaziente con gli altri; non mi sorprende il fatto che, come aveva spiegato a Rachel, si fosse “stancato di fìngere”. Ciò che mi sorprende davvero invece è che non avesse pensato che prima o poi si sarebbe ritrovato a giocare con Rachel a quello stesso gioco, stancandosi anche di lei.

Ma forse aveva pensato anche a questo. Forse fin dal principio, fin da quella prima sera, c’erano state delle contraddizioni. Da una parte, Galilee sembrava davvero infatuato di lei — tutti i suoi discorsi sentimentali sull’andarla a cercare, rinunciando al mare e alla sua solitudine -, dall’altra molto condiscendente. Samarcanda, aveva spiegato bruscamente, è molto lontana dall’Ohio, come se Rachel fosse stata troppo provinciale per conoscere qualcosa al di là della sua esperienza immediata. C’è da meravigliarsi che non lo avesse preso a calci là, sul molo.

Ma una parte di me è convinta che lei lo avesse capito — lui e tutte le sue contraddizioni — meglio di quanto non lo abbia mai capito io. Rachel era suscettibile al suo fascino come io non potrò mai essere, e forse proprio per questo era più incline a perdonargli i suoi difetti. Sto facendo del mio meglio per trasmettere anche a voi quel fascino. Penso di aver reso giustizia alla sua voce e al suo aspetto fisico. Ma è difficile entrare nei dettagli più intimi. Descrivere un atto sessuale che coinvolge mio fratello mi sembra una forma di incesto letterario, anche se sono certo che la mia reticenza sia una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Per esempio, ho omesso di dirvi quanto fosse magnifico tra le gambe. E in effetti lo era davvero.

Ma ora è meglio continuare, prima che io arrossisca troppo.

2

Come vi ho promesso, ci sono altre tragedie che riguardano la famiglia Geary di cui devo parlarvi. Ma, prima di cominciare, devo riferirvi di un piccolo dramma che ha avuto luogo qui, nella casa dei Barbarossa.

È accaduto la notte scorsa, proprio mentre stavo descrivendo l’incontro tra Rachel e Galilee sulla Samarcanda. All’improvviso, ho udito un terrible frastuono che proveniva dall’altra parte della casa (e parlo di un’autentica cacofonia: grida e schianti tali da far tremare i volumi della mia libreria). Non sono riuscito ad andare avanti con il lavoro naturalmente. Ero troppo curioso. Mi sono avventurato in corridoio e ho cercato di capire cosa stesse accadendo. Non è stato difficile. Marietta era in parte responsabile di quel fracasso: quando si arrabbia, la sua voce diventa così stridula da far venire il mal di testa, e in quel momento stava strillando con tutto il fiato che aveva in corpo. Ad accompagnare le sue lamentele — delle quali non riuscivo proprio a capire il senso — c’era un rumore di porte che sbattevano, mentre mia sorella si aggirava come una furia da una stanza all’altra. Ma non era tutto. C’era anche qualcosa di molto più inquietante: un clamore simile a quello che si potrebbe sentire in una giungla una volta calata la notte; una mescolanza folle di ululati e schiamazzi.

Si trattava di mia madre, naturalmente. Pardon, della moglie di mio padre. (È strano, e probabilmente ha anche un qualche significato recondito, che io pensi a lei come a mia madre quando la immagino tranquilla e pacifica. Mentre la guerriera Cesaria Yaos è la moglie di mio padre.) In ogni caso, era lei, non c’erano dubbi. Chi altri possedeva una voce capace di esprimere la rabbia di un babbuino, di un leopardo e di un ippopotamo in un unico suono fragoroso?

Ma perché era così infuriata? Non ero completamente sicuro di volerlo scoprire. Ho pensato che forse avrei fatto meglio a battere in ritirata. Ma prima che potessi farlo, mi sono accorto che Marietta stava correndo lungo il corridoio con le braccia piene di vestiti, a quanto pareva. Ricorderete che l’ultima volta che io e mia sorella avevamo parlato, avevamo litigato furiosamente a causa di certi commenti sgradevoli che lei aveva fatto circa il mio lavoro. Ma penso che, se anche fossimo stati in ottimi rapporti, non si sarebbe comunque fermata in quel momento. Il frastuono di Cesaria peggiorava di secondo in secondo.

Marietta ha girato l’angolo ed è scomparsa. E io ho fatto ciò che avrei voluto fare qualche istante prima: mi sono voltato e ho fatto per rientrare in camera. Troppo tardi. Ho avuto a malapena il tempo di fare un passo, quando i rumori, fino all’ultimo ululato, si sono interrotti ed è rimasta solamente la voce di Cesaria; la sua voce umana, che è — sono sicuro di avervelo già detto — dolce e melliflua. “Maddox”, ha detto. Cazzo, ho pensato io.

“Dove stai andando?”

(Non è strano che non siamo mai abbastanza vecchi per sentirci come bambini disobbedienti? Ero là, vecchio per qualsiasi standard umano, immobile e colpevole come un bambino sorpreso con le dita nella marmellata.)

“Stavo tornando al lavoro”, ho risposto. Poi ho aggiunto: “Mamma”, per ingraziarmela.

Forse in qualche modo ha funzionato. “Il tuo libro procede bene?” mi ha chiesto in tono discorsivo. Mi sono sentito abbastanza rassicurato da trovare il coraggio di voltarmi a guardarla, ma lei non era visibile. C’erano solo ombre frementi in fondo al corridoio che fino a pochi istanti prima era stato ben illuminato. Mi sono sentito sollevato. Non ho mai avuto modo di vederla nella forma che assume quando la sua furia leggendaria si scatena, e sono grato per questo.

“Sì, va tutto bene”, ho risposto. “Ci sono giorni in cui…”

Cesaria mi ha interrotto, chiedendo: “Marietta è uscita?”

“Io… sì… sì, credo di sì…”

“Valla a prendere.”

“Come?”

“Non sei sordo, Maddox. Va’ a prendere tua sorella e riportala qui.”

“Cos’è successo?”

“Va’ e basta.”

“Non puoi andarci tu?” ho detto, senza pensarci.

Sapevo che avrei rimpianto di aver pronunciato quelle parole, ma era troppo tardi: l’ombra di Cesaria si stava muovendo. Si stava muovendo — lentamente, inesorabilmente — verso di me. Anche se il soffitto del corridoio non è particolarmente alto, c’era qualcosa di immenso nella manifestazione di Cesaria; sembrava una nube temporalesca in quel momento e io, al suo cospetto, non ero che un granello di polvere…

Ha cominciato a parlare mentre si avvicinava, ma ogni sua parola riecheggiava della sua terribile cacofonia; come se, con grande fatica, stesse tenendo a bada l’anarchia.

“Tu”, ha sibilato, “mi ricordi”, sapevo cosa avrebbe aggiunto, “tuo padre.”

Non credo di aver risposto. Ero troppo intimidito. E comunque se anche avessi cercato di parlare, dubito che la mia lingua mi avrebbe obbedito. Sono rimasto là, mentre lei ribolliva davanti a me, e quel frastuono animale eruttava da lei con rinnovata ferocia.

Questa volta, comunque, una visione ha accompagnato la cacofonia, non scoperta dalla nuvola, ma piuttosto scolpita in essa. È stata pietosamente breve, anche se sono certo che se Cesaria non avesse avuto bisogno di me, mi avrebbe mostrato molto di più; abbastanza da farmi perdere il controllo della vescica; forse sarebbero bastati altri tre o quattro secondi. Che cos’ho visto? È inutile che vi dica che non ci sono parole per descriverlo. Certo che ci sono; ci sono sempre le parole. La domanda è: sono in grado di evocare la potenza di ciò a cui ho assistito? Ne dubito. Ma farò del mio meglio.

Ho visto, credo, una donna eruttare da ogni poro e da ogni orifizio forme non finite. Partorendo, potrei dire, non una e nemmeno dieci ma mille creature, diecimila. E qui sorge un problema. È impossibile descrivere il fatto che Cesaria stava diventando — come posso dire? - più densa; come certe stelle di cui ho letto, che assorbono luce e materia quando collassano. Lei stava facendo lo stesso. Come ha reagito la mia mente nel vederla fare contemporaneamente due cose che erano l’una l’opposto dell’altra? Non bene. Quella visione mi ha investito con tale violenza che sono caduto a terra come se lei mi avesse colpito. Mi sono coperto la testa con le mani come per impedirle di proiettare quello spettacolo attraverso il mio cranio.

Lei ha deciso di risparmiarmi. Mi ha lasciato sul pavimento, con i pantaloni bagnati, scosso dai singhiozzi. Ho impiegato qualche minuto a ricompormi ma quando alla fine ho alzato lo sguardo, mi sono accorto che la nube era scomparsa e che Cesaria attendeva a qualche passo da me con il suo solito aspetto.

“Mi dispiace…” è stata la prima cosa che ho detto.

No”, ha replicato lei, la sua voce all’improvviso priva sia di musica sia di forza. “È stata colpa mia. Non sei un bambino a cui dare ordini. Il fatto è che in quel momento mi è sembrato di vedere tuo padre in te.”

“Posso… farti… una domanda?”

“Chiedimi quello che vuoi”, ha sospirato lei. “Il volto che ho appena visto…”

“Cosa?”

“Nicodemus lo ha mai visto?”

Nonostante l’evidente stanchezza, Cesaria mi è sembrata divertita da quella domanda. C’era un’ombra di sorriso nella sua voce quando ha risposto: “Mi stai chiedendo se spaventava anche lui?” Io ho annuito. “Sappi che quel volto, come lo chiami tu, è la ragione principale per cui mi amava.”

“Sul serio?” Dovevo avere un’espressione veramente sbalordita perché lei ha risposto, quasi sulla difensiva:

“Tuo padre aveva aspetti altrettanto terrificanti”.

“Sì, lo so.”

“Certo. Hai visto parte di ciò che poteva fare.”

“Ma lui non era solo questo”, ho detto io.

“Proprio come io non sono solo ciò che hai visto qualche istante fa.”

“Ma è la parte più vera, giusto?” ho chiesto. In altre circostanze, senza dubbio non sarei stato così insistente ma sapevo che forse non avrei avuto un’altra occasione di porle certe domande così liberamente. Se era destino che sapessi chi era davvero Cesaria Yaos prima che la casa dei Barbarossa cadesse in rovina, doveva accadere ora.

“La parte più vera?” ha ripetuto lei. “No. Non penso di avere un volto più autentico degli altri. Una volta venivo adorata in decine di templi, lo sai?”

“Lo so.”

“E adesso sono solo cumuli di macerie. Nessuno ricorda più quanto ero amata…” È rimasta in silenzio per un attimo. Aveva perso il filo del discorso. “Cosa stavo dicendo?”

“Che nessuno ricorda più…”

“No, prima.”

“Tutti i templi.”

“Oh, sì. Talmente tanti templi, con statue e decorazioni che mi rappresentavano. Ma non ce n’era una uguale all’altra.”

“Come lo sai?”

“Perché ho visto quei templi”, ha risposto lei. “Quando tuo padre e io litigavamo, ci separavamo per qualche tempo e ciascuno andava per la sua strada. Lui si cercava qualche povera donna da sedurre, e io andavo a visitare i miei luoghi sacri. Mi dava conforto quando mi sentivo abbattuta.”

“Difficile da immaginare.”

“Cosa? Intendi me, abbattuta? Oh, posso abbandonarmi all’autocommiserazione come chiunque altro.”

“No, intendevo dire che non riesco a immaginare come ci si riesca a sentire nell’entrare in un tempio in cui si viene adorati.”

“Oh, può essere meraviglioso, aggirarsi tra i propri devoti.”

“Sei mai stata tentata di rivelarti a loro?”

“L’ho fatto molte, molte volte. Di solito sceglievo un testimone non molto attendibile. Un vecchio. Un bambino. Qualcuno che avesse qualche problema di sanità mentale, oppure un santo, spesso non c’è differenza.”

“Perché? Perché non ti rivelavi a un letterato, a qualcuno capace di capire? A qualcuno che potesse diffondere la tua parola?”

“Qualcuno come te?”

“Sì, in un certo senso.”

“È questo che vuole essere il tuo libro? Un ultimo, disperato tentativo di rimettere tuo padre e me sui nostri piedistalli?” Che cosa voleva sentirsi dire?, mi sono chiesto. Se le avessi dato la risposta sbagliata, sarei stato di nuovo vittima della sua furia? “È questo che stai facendo, Maddox?”

Ho deciso di dire la verità. “No”, ho risposto, “sto semplicemente raccontando la storia come meglio posso.”

“E questa conversazione? Ci sarà nel tuo libro?”

“La inserirò se mi sembrerà pertinente.”

C’è stato un attimo di silenzio. Alla fine, Cesaria ha sospirato: “Be’, credo che non abbia molta importanza, se lo farai o meno. Storie; templi. A chi importa oggigiorno? I tuoi lettori saranno ancora meno numerosi dei miei adoratori, Maddox”.

“Non devo essere letto per essere uno scrittore”, le ho fatto notare.

“E io non devo essere adorata per essere una dea. Ma aiuta. Credimi, aiuta.” Sulle sue labbra è apparso lo spettro di un sorriso, e io — con mia grande sorpresa — ho sorriso a mia volta. In quel momento ci capivamo meglio di quanto ci fossimo mai capiti. “Allora torniamo a Marietta.”

“Un’ultima domanda”, l’ho implorata.

“No, basta.”

“Ti prego, mamma. Solo una. Per il libro.”

“D’accordo. Ma solo una.”

“Anche mio padre aveva dei templi dedicati a lui?”

“Certamente.”

“Dove?”

“Questa è un’altra domanda, Maddox. Ma, dato che sei così curioso… A mio avviso il più bello di tutti era a Parigi.”

“Davvero? Parigi. Pensavo che Nicodemus la odiasse.”

“Sì, ma questo è accaduto solo più tardi. Sai, è a Parigi che ho conosciuto il signor Jefferson.”

“Non lo sapevo.”

“Ci sono molte cose che ignori di lui; molte cose che il mondo non sa. Potrei raccontarti abbastanza da riempire cinque libri. Era così affascinante. E non alzava mai la voce, tanto che certe volte si faticava a udirlo. Ricordo che la prima volta che ci siamo visti, gli avevano appena dato un’albicocca, un frutto che lui non aveva mai assaggiato prima. E oh, che gioia c’era sul suo viso! Avrei voluto fare l’amore con lui, lì dov’eravamo.”

“E lo avete fatto?”

“Oh no. Si è dimostrato molto difficile da conquistare. A quel tempo, era innamorato di un’attrice inglese. Che combinazione sciagurata: inglese e perdipiù attrice. Il peggiore dei mondi possibili. Comunque, Thomas ha giocato con il mio amore per qualche settimana. C’era una rivoluzione attorno a noi, ma ti giuro che ero talmente presa da lui che stentavo ad accorgermene. C’erano teste che venivano ghigliottinate ogni ora e io mi aggiravo per la città come un’adolescente innamorata, in cerca del modo per conquistare quel piccolo diplomatico americano.”

“E come hai fatto?”

“Non sono sicura di esserci mai riuscita. Se risuscitassi ora, se lo facessi levare dalla sua tomba a Monticello, e gli chiedessi: mi hai mai amata?, penso che nel migliore dei casi risponderebbe: per un giorno o due, per un’ora o due, il pomeriggio in cui mi hai mostrato il tempio.”

“Lo hai portato al tempio di mio padre?”

“Ogni donna sa che, se non si riesce a conquistare un uomo con le parole, deve mostrargli un luogo sacro.” È scoppiata a ridere. “Di solito è un posto che si trova in mezzo alle gambe. Non essere così imbarazzato, Maddox. È un fatto della vita. Se una donna vuole mettere in ginocchio un uomo, deve dargli qualcosa da adorare. E io sapevo che, anche se mi fossi sollevata la gonna, per Jefferson non sarebbe stato abbastanza. Per quello gli bastava quella stupida attricetta, la signorina Cosway. Io dovevo mostrargli qualcosa che lei non avrebbe mai potuto dargli. Così l’ho portato al tempio di tuo padre.”

“E cos’è successo?”

“Lui è rimasto molto colpito. Mi ha chiesto come sapevo di quel luogo. Quello di tuo padre, all’epoca, era un culto assolutamente segreto, riservato alle famiglie nobili perlopiù. E ormai i suoi adoratori o erano stati ghigliottinati oppure erano fuggiti. Quindi il tempio era deserto. Lo abbiamo visitato mentre la folla ruggiva nelle strade, e penso che in quel breve momento lui sia stato davvero innamorato di me.

“Mi ha chiesto chi avesse progettato quel luogo, e io l’ho portato all’altare dove c’era una statua di tuo padre. Era coperta da un panno di velluto rosso. Ho detto a Jefferson: prima che te la mostri, puoi farmi una promessa? Lui ha risposto di sì, nei limiti del possibile. Così gli ho detto: progetta una casa per me dove potrò vivere felice perché mi farà pensare a te.”

“Ed è così che lo hai convinto a progettare l’Enfant?”

“Gliel’ho fatto giurare. Su sua moglie. Sui suoi sogni su Monticello. Sulle sue più nobili speranze di democrazia. Gliel’ho fatto giurare su tutto questo.”

“Non ti fidavi di lui?”

“Neanche un po’.”

“Così lui ha giurato…”

“… e io ho scoperto la statua di tuo padre. Ed eccolo, in tutta la sua gloriosa virilità!” È scoppiata a ridere di nuovo. “Oh, Thomas era l’immagine stessa del disagio. Ma è riuscito a non perdere il suo aplomb e, con grande serietà, mi ha chiesto quanto fosse vicina alla realtà quella rappresentazione. Io l’ho rassicurato, dicendogli che era un’esagerazione, anche se non di molto. Ricordo esattamentele sue parole: ‘Allora sono certo che lei, signora, sia una moglie molto soddisfatta’. Ah! ‘Una moglie molto soddisfatta.’

“A quel punto gli ho mostrato quanto fossi soddisfatta. Con gli occhi dipinti di tuo padre che ci guardavano, ho mostrato a Jefferson quanto poco m’importasse del matrimonio.

“Non l’abbiamo fatto mai più. Nessuno dei due lo avrebbe voluto. La sua storia con l’attrice è finita in tragedia e lui è tornato dalla moglie.”

“Ma lui ha mantenuto la sua promessa e ha costruito questa casa.”

“Oh, ha fatto molto di più”, ha detto Cesaria. “Ha costruito anche una copia esatta del tempio. Perfetta fin nei minimi particolari.”

“Perché?”

“Questa è un’altra domanda che dovremmo porre al suo fantasma. Non lo so. Era un uomo strano. Ossessionato dalla bellezza. E il tempio era splendido.”

“E ci ha messo anche un altare?”

“Vuoi sapere se ci ha messo anche una statua di tuo padre? Non ne sarei sorpresa.”

“Dov’era questo tempio?”

“Dov’è, vuoi dire.”

“Esiste ancora?”

“Credo di sì. È uno dei segreti meglio custoditi di Washington.”

“Washington…” Il pensiero che vi fosse un luogo consacrato a mio padre e alla sua perpetua virilità nel cuore della capitale era sconvolgente. “Voglio vederlo.”

“Ti farò una lettera di presentazione”, ha promesso Cesaria. “Per chi?”

Lei ha sorriso. “Per colui che detiene il potere più alto. Non sono stata del tutto dimenticata. Jefferson ha fatto in modo che non mi mancasse mai una certa influenza.”

“Così sapeva che gli saresti sopravvissuta?”

“Oh sì, lo capiva perfettamente, anche se non me lo ha mai detto a parole. Credo che sarebbe stato troppo per lui.”

“Madre… sono sbalordito.”

“Davvero?” ha detto lei in tono quasi amorevole. “Be’, mi fa piacere.” Ha scosso la testa. “Ma ora basta, ho parlato anche troppo.” Mi ha indicato con un dito. “E tu fa’ attenzione a citarmi correttamente”, ha continuato. “Non voglio che il mio passato venga frainteso, nemmeno in un libro che non leggerà nessuno.”

Dopodiché si è voltata e, seguita dai suoi porcospini, si è incamminata lungo il corridoio. Io le ho chiesto: “Cosa devo fare con Marietta?”

“Niente”, ha ringhiato lei. “Lasciala giocare. Si pentirà di quello che ha fatto. Magari non stanotte, ma molto presto.” Anche se ero sollevato al pensiero di non dovermi più mettere in cerca di Marietta, la curiosità riguardo a ciò che aveva fatto mia sorella non mi ha abbandonato. Sono stato tentato di andare a cercarla comunque e chiederglielo di persona. Ma Cesaria mi aveva fornito un carico di informazioni così prezioso che non volevo rischiare di dimenticarmene nemmeno una parola. Così sono tornato in camera mia, mi sono versato un bicchiere di gin e ho cominciato a scrivere. Mi sono fermato solo una volta a riflettere su cosa potesse significare il fatto che Thomas Jefferson, uno dei più importanti artefici della Dichiarazione d’Indipendenza, il padre della democrazia americana, avesse eretto una replica del tempio di mio padre. L’idea che avesse fatto tanta fatica soltanto per amore della bellezza mi sembrava improbabile. Il che generava due domande: primo, perché lo aveva fatto? e, secondo, se aveva avuto un fine segreto, c’era qualcuno a Capitol Hill che ne era a conoscenza?

Otto

1

Vi parlerò del furto di Marietta a tempo debito, non temete. Come vedrete, diverse tessere di questo mosaico sono collegate al suo crimine. E — come previsto da Cesaria — ci saranno delle conseguenze.

Ma prima, devo tornare alla Samarcanda e alla coppia che vi ha trascorso la notte.

Quando Rachel si svegliò, l’alba stava filtrando nella piccola cabina, e in quella luce soffusa vide Galilee addormentato accanto a lei. Con un braccio si copriva il volto, e teneva l’altro abbandonato sul corpo di Rachel. Confortata da quella vista, chiuse gli occhi e tornò a dormire. Quando si svegliò la seconda volta, lui le stava accarezzando teneramente i seni mentre le baciava il viso. Ancora mezza addormentata, Rachel fece scivolare una mano tra i loro corpi e sollevò leggermente una gamba per guidarlo dentro di lei. Galilee le mormorò qualcosa contro il collo, che lei non riuscì ad afferrare ma era in uno stato troppo sognante per chiedergli di ripeterlo. Tutto quello che voleva adesso era sentirlo dentro di sé; i suoi movimenti gentili, il suo tocco. Non aveva nemmeno bisogno di guardarlo: era là, nell’occhio della sua mente, quando abbassava le palpebre; il suo amante perfetto che le aveva donato più piacere in una sola notte di quanto ne avesse provato in tutta la vita. Allungò una mano per toccargli il petto, i capezzoli, e poi le spalle, indugiando sulla superficie liscia dei suoi muscoli. Con una mano, Galilee le accarezzò il viso e le fece scivolare l’altra in mezzo alle gambe, aprendola e massaggiandola per facilitare la penetrazione.

Quando Galilee fu completamente dentro di lei, Rachel emise un piccolo singhiozzo di piacere e lo implorò di restare fermo. Lui non si mosse. Rimase così, avvolto e stretto dalla carne di lei a tal punto che Rachel poteva sentire il sangue che scorreva nel suo membro. Alla fine, lei cominciò a muoversi; un movimento quasi impercettibile ma abbastanza da far scorrere un brivido lungo la schiena di Galilee.

“Ti piace?” sussurrò Rachel.

Lui rispose con un ansito, poi si spinse dentro di lei per un istante e subito scivolò fuori dalla sua carne. Lei lo lasciò fare: quella sensazione improvvisa di vuoto era deliziosa, anche perché sapeva che era solo temporanea.

Rachel gli mise le braccia attorno al collo, intrecciandogli le dita alla base del cranio. Si inarcò per accoglierlo dentro di sé, con estrema lentezza. Poi, mentre insieme prendevano a muoversi, l’immagine di Galilee che aveva occupato la mente di Rachel fino a quel momento si dissolse in un’ondata di piacere. L’oscurità luccicante delle membra di lui si allargò dietro le sue palpebre, invadendo completamente i suoi pensieri. Adesso Galilee si stava muovendo più in fretta. Lei lo incitò, emettendo gemiti incoerenti. Ma lui capì comunque. Rachel non aveva bisogno di dirgli nulla, lui sembrava mettere in atto i suoi pensieri non appena le si formavano nella mente. E ogni volta che Galilee era sul punto di perdere il controllo del suo corpo e venire, lei lo distraeva, rallentando il ritmo in modo da prolungare il piacere.

Andarono avanti così per due ore, quasi tre: talvolta bruschi, quasi violenti; talvolta così tranquilli, così immobili che avrebbero potuto sembrare addormentati l’uno nelle braccia dell’altra. Non si fecero dichiarazioni d’amore; almeno non a parole. Non dissero niente, non si chiamarono nemmeno per nome. Ma quello non era sintomo di una mancanza di sentimenti; il contrario, piuttosto. Erano talmente uniti in quella meraviglia, talmente persi l’uno nell’altra che per un breve, sacro istante poterono immaginare di essere indivisibili.

2

Non era così, naturalmente.

L’illusione scomparve non appena i loro corpi si lasciarono andare allo sfinimento. Rimasero sdraiati vicini, sudati, tremanti e infinitamente soddisfatti. Ma alla fine ciascuno tornò nella propria pelle.

“Ho fame”, disse Rachel.

Non erano rimasti completamente a digiuno da quando erano saliti sulla Samarcanda. Anche se Galilee aveva restituito il pesce al mare come offerta a Kuhaimuana, nel cuore della notte aveva aperto dei barattoli di ostriche e di pesche sotto spirito, che avevano mangiato l’uno dalla pelle dell’altra in modo che la soddisfazione di un appetito non interrompesse la soddisfazione dell’altro.

Eppure adesso, a metà mattina, lo stomaco di Rachel si stava lamentando.

“Potremmo essere a terra in meno di un’ora”, disse Galilee. “Non voglio tornare a terra”, ribatté lei. “Non voglio tornarci mai più. Voglio restare qui con te…”

“Verrebbero a cercarti. Sei ancora una Geary.”

“Potremmo trovare un posto dove nasconderei”, ipotizzò Rachel. “Tanta gente sparisce e non viene mai più trovata.”

“Ho una casa…”

“Davvero?”

“In un piccolo villaggio del Cile chiamato Puerto Bueno. È in cima alla collina. Da lì si gode un bellissimo panorama. Ci sono i pappagalli sugli alberi.”

“Andiamoci”, disse lei. Galilee scoppiò a ridere. “Parlo sul serio”, insistette. “Lo so.”

“Potremmo avere dei figli…”

D’improvviso il divertimento abbandonò il volto dell’uomo. “Non credo che sarebbe una buona idea”, disse lui. “Perché no?”

“Perché non sarei un buon padre.”

“Come fai a saperlo?” chiese Rachel, accarezzandogli una mano. “Potrebbe piacerti.”

“La nostra famiglia è stata rovinata da cattivi padri”, osservò Galilee. “O meglio, da uno.”

“Un solo padre su quanti?”

“Uno e basta”, rispose lui.

Rachel pensò che Galilee avesse frainteso. “No, voglio dire, e i tuoi nonni?”

“Non ci sono.”

“Intendi dire che sono morti.”

“No, intendo dire che non ci sono. Non ci sono mai stati.” Lei scoppiò a ridere. “Non essere sciocco. Tua madre e tuo padre dovevano avere dei genitori. Forse sono morti prima che tu nascessi ma…”

“Non avevano genitori”, disse Galilee distogliendo lo sguardo. “Credimi.”

Rachel trovò vagamente inquietante il modo in cui disse credimi. Non era un invito, era un ordine. Lui non rimase ad attendere una sua reazione; si alzò e cominciò a vestirsi. “È meglio che torniamo. Ti staranno cercando.”

“Facciano pure”, sussurrò lei, circondandolo con le braccia e stringendosi contro di lui. “Restiamo ancora un po’. Voglio parlare con te; voglio conoscerti meglio.”

“Ci saranno altre occasioni”, le promise lui, allontanandosi per prendere una camicia.

“Dici davvero?” domandò lei.

“Certo”, rispose lui senza voltarsi.

“Ho detto qualcosa che ti ha offeso?”

“Non hai detto niente”, replicò Galilee. “Penso solo che dovremmo tornare, tutto qui.”

“Ieri notte.”

Lui smise di abbottonarsi la camicia. “È stato meraviglioso.”

“E allora piantala di comportarti così”, disse Rachel, la voce sempre più irritata. “Mi dispiace di averti offeso… Stavo solo scherzando.”

Lui sospirò. “No, parlavi sul serio. Ti piacerebbe avere dei figli…”

“Sì”, disse lei, “mi piacerebbe. E vorrei averli con te.”

“Ci conosciamo a malapena”, ribatté lui, e salì sul ponte.

Lei lo seguì, furiosa ormai. “E quello che mi hai detto sulla spiaggia? Sul fatto che avresti dovuto venire a cercarmi? Era soltanto un modo per portarmi a letto?” Lui si sedette sulla stretta panca accanto al timone e si prese il volto tra le mani. “È stato solo questo? E adesso che l’hai ottenuto, sei pronto ad andartene?”

Lui continuò a tenere il viso nascosto. Parlò con voce sepolcrale: “Non parlavo sul serio. Mi sono solo lasciato trasportare e sono stato ingiusto con te. Pensavo avessi capito…”

“Capito cosa?”

“Che questa è soltanto un’altra storia”, rispose lui.

“Guardami!” esclamò Rachel. Lui non si mosse. “Ripeti quello che hai detto guardandomi in faccia!”

Con grande riluttanza, Galilee sollevò lo sguardo su di lei. Aveva il volto cinereo; proprio come l’espressione dei suoi occhi. “Non parlavo sul serio”, disse con fermezza. “Pensavo avessi capito che questa è soltanto un’altra storia.”

Rachel sentì il gemito del sangue riecheggiarle nelle orecchie, gli occhi che cominciavano a bruciarle. Come poteva parlarle in quel modo? Le lacrime arrivarono e le si offuscò la vista. Come poteva starsene seduto lì e dirle che era stato tutto un gioco, quando entrambi sapevano che era accaduto qualcosa di meraviglioso?

“Sei un bugiardo.”

“Può essere.”

“Sai che non è vero!”

“È vero esattamente come le storie che ti ho raccontato”, ribadì Galilee, spostando lo sguardo sul ponte. E tutto ciò che Rachel riuscì a pensare fu: sta scappando da me. Non lo rivedrò mai più. Era un’idea insopportabile. Non più tardi di dieci minuti prima stavano parlando della casa sulla collina. E adesso lui le stava dicendo che niente di ciò che le aveva raccontato aveva alcun valore.

“Bugiardo”, ripeté. “Bugiardo, bugiardo, bugiardo.”

Lui si alzò e andò alla timoniera, senza voltarsi a guardarla nemmeno una volta. Accese il motore e fece scattare l’interruttore per recuperare l’ancora, e quei rumori frastornanti impedirono ogni possibile conversazione. Frustrata, Rachel scese sottocoperta a vestirsi.

La cabina era nel caos più totale, cuscini, lenzuola e abiti sparpagliati sul pavimento attorno al letto. Per un paio di minuti, Rachel cercò di concentrarsi per trovare una delle sue scarpe e questo le permise di tenere a bada le lacrime. Quando ebbe finito di vestirsi, il nodo alla gola era passato e lei si sentiva quasi pronta per una conversazione razionale.

Salì di nuovo sul ponte. La barca stava solcando le placide acque dell’oceano, il vento fresco e tonificante.

“Guarda!” le gridò Galilee, indicando la prua. Lei non vide niente. “Vai a vedere!” insistette lui.

Lei oltrepassò la timoniera e raggiunse la parte anteriore della barca per scoprire ciò che Galilee era così ansioso di mostrarle. C’era un piccolo branco di delfìni che nuotava accanto alla Samarcanda. Tre o quattro di loro erano così vicini alla prua che quasi la sfioravano, i loro corpi simili a veloci torpedini di velluto. Di tanto in tanto, uno dei delfini più giovani saltava fuori dall’acqua con un potente colpo di coda, piroettando nell’aria prima di rituffarsi.

Rachel, sorridente, si voltò a guardare Galilee, ma lui aveva gli occhi fissi sull’isola. C’erano nubi temporalesche che oscuravano le vette del Monte Waialeale, come il giorno in cui lei era arrivata. Non era passato molto tempo da quando Jimmy Hornbeck l’aveva accompagnata alla casa e avevano parlato di Mammon, il demone dell’avidità; ma a lei sembravano settimane. No, ancora di più: una vita intera. All’epoca era stata una Rachel molto diversa; era stata una Rachel ignara dell’esistenza di Galilee. Ma ora che l’aveva incontrato, tutto era diverso, nel bene e nel male.

Nove

Quando rientrarono nella baia, c’era qualcuno sul molo: una figura solitaria intenta a fissare l’oceano. Rachel pensò che fosse solo un pescatore e non gli prestò attenzione. Fu solo quando la Samarcanda cominciò ad avvicinarsi al molo che si accorse che l’uomo era Niolopua. Si era alzato in piedi e sembrava molto agitato. Non si curò di suo padre; era con lei che aveva bisogno di parlare; urgentemente.

“Hanno chiamato per te”, avvisò, “da New York.”

“Ti hanno detto di cosa si tratta?”

“No, la donna non ha voluto dirmelo. Mi ha detto solo di trovarti, che è molto importante. È dall’alba che ti cerco.”

“Con chi hai parlato?”

“Con la signora Geary.”

“Sì, ma quale signora Geary? Margaret?” L’uomo scosse la testa. “Loretta? Era Loretta?”

“Quella anziana?” chiese Niolopua, e Rachel annuì.

“E non ti ha detto di cosa si tratta?” s’intromise Galilee.

“No, solo che… questa signora Geary deve richiamarla appena possibile, perché deve riferirle qualcosa di importante.”

“Cadmus”, mormorò Rachel. Il vecchio doveva essere morto, probabilmente. “Vieni con me”, disse a Galilee.

“Ti accompagnerà Niolopua. Io vi raggiungerò più tardi.”

“Me lo prometti?” chiese lei.

“Naturalmente.”

“Dobbiamo parlare.”

“Lo so. Verrò più tardi. Prima devo occuparmi della barca.”


Fu diffìcile non voltarsi a guardarlo mentre lei e Niolopua si allontanavano dal molo; difficile non temere che Galilee stesse mentendo e che avrebbe ripreso il mare non appena lei fosse scomparsa oltre le rocce. Ma doveva avere fede, si disse. Doveva avere fede nella sua promessa, altrimenti non ci sarebbe stata più alcuna speranza per loro.

Eppure fu diffìcile. Più si avvicinavano alle rocce che dividevano le due baie, più forte si faceva la tentazione di voltarsi a guardare per controllare che lui fosse ancora lì. Riuscì a resistere, ma lo sforzo fu tale che anche Niolopua se ne accorse e, quando raggiunsero l’altra insenatura, le disse:

“Non preoccuparti. Verrà”.

Lei gli lanciò un’occhiata obliqua. “È così evidente?”

Niolopua scrollò le spalle. “Lui è quello che è. Tu sei quello che sei.”

“E questo cosa vorrebbe dire?”

“Che manterrà la sua promessa.”


Solo quando fu di nuovo in casa e poté fermarsi per qualche istante, Rachel si rese conto che stare sulla Samarcanda le aveva fatto perdere in parte il senso dell’equilibrio. Il pavimento sotto i piedi nudi le sembrava inaffidabile, e aveva un vago senso di nausea: uno strano mal di mare al contrario. Andò in bagno e si spruzzò un po’ di acqua gelata sul viso, poi chiese a Niolopua se poteva prepararle una tazza di tè, mentre lei chiamava New York. Lui fu felice di accontentarla. Rachel si ritirò nella relativa privacy della sala da pranzo e chiamò il palazzo, chiedendosi come meglio esprimere il suo cordoglio. Di certo Loretta non si aspettava di sentirla scoppiare in lacrime.

Non riconobbe la voce all’altro capo del telefono: era quella di un uomo con un marcato accento del Bronx e un’inflessione gelida. Rachel chiese di poter parlare con Loretta.

“La signora Geary non può venire al telefono in questo momento. Chi parla?” Rachel glielo disse. Seguì una serie di suoni soffocati mentre il ricevitore veniva passato a qualcun altro. A Mitchell. Rachel sentì un improvviso spasmo di panico.

“Ho ricevuto il messaggio di Loretta”, gli disse.

“Sì. Lo so.”

“Chi era prima al telefono?”

“Un detective.”

“Cosa sta succedendo?”

“Si tratta di Margie…”

“Le è successo qualcosa?”

Seguì un breve silenzio. Poi Mitchell disse: “È morta, Rachel. Qualcuno le ha sparato”.

“Oh Dio, Mitch…”

“Dicono che è stato Garrison”, continuò lui. “Ma sono solo stronzate. Lo hanno incastrato. Sono solo stronzate.”

“Quando?”

“Ieri notte, tardi. Qualcuno dev’essersi introdotto in casa, qualcuno che ce l’aveva con lei. Dio sa se Margie era capace di far incazzare la gente.”

“Povera Margie. Mio Dio, povera Margie.”

“Devi tornare subito qui, Rachel. La polizia deve parlare con te.”

“Non so niente.”

“Ultimamente tu e Margie parlavate spesso. Potrebbe averti raccontato qualcosa.”

“Non voglio tornare, Mitchell.”

“Di cosa stai parlando?” Per la prima volta, Rachel percepì una qualche emozione nella sua voce; un misto di rabbia e incredulità. “Devi tornare. A proposito, dove diavolo sei?”

“Non sono affari tuoi.”

“Sei su quella fottuta isola, vero?” urlò lui, infuriato ormai. “Credi che non sappiamo di quel posto? Credi che sia un segreto? So cosa succede lì.”

“Non sai di cosa stai parlando”, ribatté lei, sperando che a Mitchell non sfuggisse la fermezza nella sua voce.

“Se non torni, la polizia verrà a cercarti. È questo che vuoi?”

“È inutile che provi a minacciarmi. Non funziona più.”

Rachel.”

“Ti richiamo io.”

Non osare riappendere.

Rachel riagganciò. “Bastardo”, mormorò. Poi a voce ancora più bassa: “Povera Margie”.

“Qualcosa di brutto?” chiese Niolopua. Era in piedi sulla soglia con la tazza di tè.

“Qualcosa di molto brutto”, rispose lei. Lui le portò il tè e lo appoggiò sul tavolo accanto a lei. “Mia cognata è stata assassinata ieri notte.”

“Come?”

“Le hanno sparato. È stato… suo marito.” Lo disse più per se stessa che per Niolopua; per esprimere a parole ciò che era inconcepibile.

“Vuoi che vada ad avvisare mio padre?”

“Sì, se non ti dispiace. Potresti chiedergli di fare in fretta? Digli che ho bisogno di lui.”

“Posso fare qualcos’altro per te?”

“No, ti ringrazio.”

“Mi dispiace”, disse lui. “Era una donna gentile.” Dopodiché la lasciò sola.

Sorseggiò il tè che Niolopua aveva dolcificato col miele. Poi si alzò e andò alla credenza. Se la memoria non la ingannava, aveva visto una mezza stecca di sigarette in uno dei cassetti. Era proprio ciò di cui aveva bisogno ora: una boccata aspra di fumo in ricordo di Margie. Anzi, diverse boccate.

La stecca era là dove sperava che fosse, ma non c’erano fiammiferi. Prese il tè e le sigarette e andò in cucina. Aveva ancora un po’ di mal di terra; la nausea le era passata ma non la sensazione che il pavimento sotto i suoi piedi continuasse a muoversi. Trovò dei fiammiferi e poi uscì in veranda ad aspettare Galilee.

La sigaretta aveva un sapore stantio ma la fumò comunque, ripensando alle innumerevoli occasioni in cui era stata avvolta dalla nuvola di fumo che aleggiava intorno a Margie, mentre parlavano allegramente di sciocchezze. Se la vittima fosse stata qualcun altro, Margie sarebbe stata affascinata da un avvenimento simile, Rachel ne era certa; sarebbe stata ansiosa di immaginare ogni possibile scenario, ogni possibile soluzione. Una volta le aveva confessato di non avere alcun senso della tragedia. Le tragedie accadevano alle persone a cui importava e lei non ne aveva mai conosciuta nemmeno una. Rachel le aveva detto che il suo era un discorso assurdo. Tra le molte persone importanti che Margie aveva conosciuto, non poteva non esserci stato qualcuno sinceramente deciso a cambiare le cose. Nessuno, aveva insistito Margie; traditori, bugiardi e ladri, tutti, fino all’ultimo. Lei non aveva dimenticato quella conversazione, non per il cinismo di Margie ma per la delusione che aveva avvertito nella sua voce. Sotto quella maschera dura, si era nascosta una donna che voleva solo che qualcuno le dimostrasse che si sbagliava sul mondo, che non esistevano soltanto bastardi senza cuore.

Il che portava inevitabilmente a Garrison, sul quale Margie non aveva mai detto una buona parola. Secondo lei, Garrison era — tra le altre cose — egoista, pomposo e incapace a letto. Ma quelli erano mali minori in confronto al crimine di cui ora era accusato. Rachel trovava comunque difficile immaginarlo prendere una pistola e sparare alla sua stessa moglie. Sì, molto probabilmente si erano detestati; ma avevano vissuto per anni in quella condizione di mutuo disprezzo. Questo non faceva di lui un assassino. Se avesse voluto porre fine al suo matrimonio, avrebbe potuto farlo in modo molto più facile.

Ripensò a quello che le aveva detto Mitchell, sul fatto che la polizia sarebbe andata a prenderla, se non fosse tornata di sua spontanea volontà. Non aveva alcun senso. Non era nella cerchia dei sospetti, e quindi alla polizia non poteva dare altro che informazioni aneddòtiche. Se gli investigatori avessero avuto bisogno di parlarle, avrebbero potuto farlo per telefono. Non doveva tornare per forza se non voleva; e lei non voleva. Specialmente ora, che c’erano tante cose da chiarire tra lei e Galilee.

Aveva finito la sigaretta ormai e aveva quasi finito anche il tè. Tornò in casa per cambiarsi. Passando dalla cucina prese qualche biscotto, poi andò in bagno a fare la doccia.

Fu solo quando si vide riflessa nello specchio — la pelle arrossata dal vento e dal sole — che si accorse dello strano senso di calma che provava. Possibile che fosse ancora stordita da tutto quello che era accaduto nelle ultime ore? Perché non stava piangendo?

Cristo santo, la sua migliore amica era morta e lei si stava guardando allo specchio senza versare neanche una lacrima. Continuò a scrutarsi, come se il suo riflesso avesse potuto parlarle e svelare quel mistero; ma il suo volto non le mostrò nulla.

Entrò nella doccia, aprì l’acqua e si spogliò sotto il debole getto. Lavandosi via il sale dalla pelle, ripensò al tocco di Galilee, alle sue mani sul suo viso, sui suoi seni, sul suo ventre, alla sua lingua tra le sue gambe. Lo voleva ancora, adesso. Voleva che le parlasse come aveva fatto quella prima notte, che le raccontasse una storia d’acqua e d’amore. Sarebbe stata disposta ad ascoltare anche una storia di squali, se lui avesse voluto narrargliela. Aveva voglia di essere divorata.

Senza fretta, si lavò i capelli e si sciacquò. Non si era preoccupata di preparare un asciugamano, così uscì ancora gocciolante dalla doccia e lui era lì, in piedi sulla soglia del bagno e la stava guardando.

Il suo primo istinto fu quello di coprirsi, ma gli occhi di Galilee fissi su di lei subito le fecero apparire assurda quell’idea. Non c’era niente di lascivo nel suo sguardo, e anzi aveva un’espressione quasi infantile nella sua semplicità.

“Così hanno iniziato a uccidersi fra loro”, mormorò Galilee. “Avrei dovuto immaginare che prima o poi sarebbe successo.” Scosse la testa. “Questo è l’inizio della fine, Rachel.”

“Cosa vuoi dire?”

“Mio fratello Luman ha profetizzato tutto questo.”

“Sapeva che ci sarebbe stato un omicidio?”

“L’omicidio è il meno. Margie era una creatura triste e forse è stato meglio così per lei.”

“Non dire così.”

“Ma è la verità. Lo sappiamo entrambi.”

“Volevo bene a Margie.”

“Ne sono sicuro.”

“Quindi non dire che è meglio che sia morta perché non è giusto.”

“Nessuno avrebbe potuto guarirla. Stava nuotando in quel veleno ormai da troppo tempo.”

“Quindi la sua morte dovrebbe lasciarmi indifferente?”

“Oh no. Tutt’altro. Ma non aspettarti che sia fatta giustizia.”

“La polizia sospetta di suo marito.”

“Non lo tratterranno a lungo.”

“Un’altra delle profezie di tuo fratello?”

“No, questa è mia”, rispose lui. “Garrison la passerà liscia. E un Geary. E loro trovano sempre qualcuno su cui scaricare la colpa.”

“Come fai a sapere così tante cose su di loro?”

“Perché loro sono i nostri nemici.”

“E questo mi rende diversa?” domandò Rachel. “Anch’io ho nuotato in quel veleno.”

Lui annuì. “Lo so”, disse. “Ne ho sentito il sapore.”

In quel momento, Rachel si ricordò di essere nuda. Non fu un caso; mentre parlava del sapore del veleno, Galilee aveva spostato lo sguardo sui suoi seni, sul suo sesso.

“Mi passeresti un asciugamano?” gli chiese.

Lui prese la spugna più grande dal portasciugamani. Lei si avvicinò per prendere il telo, ma, invece di passarglielo, Galilee disse: “Ti prego, lascia fare a me….” e glielo avvolse attorno al corpo, cominciando ad asciugarla. Nonostante i loro ultimi aspri scambi di battute, prima sulla barca e adesso lì, Rachel si sentì subito confortata dalle sue attenzioni; l’intimità del tocco di Galilee smorzata dalla spugna ma comunque eccitante. Quando lui le asciugò i seni, lei non riuscì a impedirsi un sospiro di piacere.

“È una bella sensazione”, mormorò.

“Davvero?”

“Davvero…”

Lui l’attirò verso di sé, e dopo averle asciugato il ventre, le sue mani cominciarono a scendere verso l’inguine.

“Quando tornerai a New York?” le chiese.

Rachel fece fatica a formulare una risposta. “Non vedo perché… dovrei tornarci.”

“Pensavo che Margie fosse tua amica.”

“Lo era. Ma non le sarei di alcuna utilità adesso. È meglio che resti qui, con te. So cosa mi direbbe Margie. Direbbe, hai qualcosa che ti dà piacere, non fartelo scappare.”

“E io ti ho dato piacere?”

“Lo sai benissimo”, mormorò lei facendo le fusa.

“Bene”, disse Galilee con una sorta di allegria forzata, come se trovasse quell’idea allo stesso tempo piacevole e inquietante.

Ora le sue mani erano tra le cosce di Rachel. Lei afferrò l’asciugamano e lo gettò via. “Andiamo in camera da letto.”

“No”, disse lui. “Qui.” E mentre le sue dita entravano dentro di lei, lui la spinse contro la parete e le coprì la bocca con un bacio. Galilee aveva un sapore strano, quasi acido; e la stava toccando in modo tutt’altro che tenero. Quasi violento. Rachel avrebbe voluto fermarsi ma aveva paura di allontanarlo.

Lui si stava slacciando i pantaloni, premendosi contro di lei con tanta forza da toglierle il respiro.

“Aspetta… Ti prego. Non così in fretta.”

Lui sembrò non averla nemmeno sentita. Anzi, i suoi movimenti si fecero ancora più frenetici. Le allargò le gambe bruscamente. Lei sentì la sua erezione cercarla, come un animale cieco. Tentò di rilassarsi; di fidarsi di lui. La notte precedente era stato più che straordinario; aveva soddisfatto i desideri del suo corpo più di qualunque altro uomo avesse mai conosciuto.

Quindi, perché voleva respingerlo? Perché provava dolore nel sentirlo dentro di sé; quella che non più tardi di qualche ora prima le era sembrata una meravigliosa sensazione di completezza, adesso la faceva quasi gridare. Non provava alcun piacere; niente.

A quel punto Rachel non riuscì più ad andare contro il suo istinto. Serrò la bocca ai baci di lui e gli premette le mani sul petto per spingerlo via.

“Non mi piace così”, protestò.

Galilee la ignorò. Era affondato completamente dentro di lei, i suoi movimenti sempre più brutali.

“No”, lo pregò lei. “No! Smettila!

Lei si divincolò con tutte le forze, ma il corpo di Galilee era troppo potente, la sua erezione implacabile.

“Galilee”, gridò Rachel, cercando il suo sguardo. “Mi stai facendo male. Ascoltami! Mi stai facendo male!

Furono le sue grida a fermarlo? O si era semplicemente stancato della sua stessa crudeltà, come sembrava suggerire il linguaggio del suo corpo? Uscì da lei e si allontanò come se stesse abbandonando un banchetto che non era più di suo gradimento, sul volto un’espressione di vago disgusto.

“Vattene”, gli ordinò Rachel.

Lui arretrò di un paio di passi, continuando a non guardarla, poi si voltò e sparì oltre la porta. In quel momento, Rachel lo odiò — odiò i suoi movimenti così tranquilli, il modo in cui si guardò l’erezione per un attimo, con un piccolo sorriso dipinto sulle labbra, prima di lasciare la stanza. Si affrettò a chiudere la porta e rimase ad ascoltare i suoi passi che riecheggiavano nella casa. Solo quando sentì il rumore della portafinestra che veniva aperta e poi richiusa con forza, andò a prendere gli abiti e si vestì. Poi uscì sulla veranda. Galilee era scomparso.

Niolopua era seduto sul prato e stava scrutando l’oceano. Lei lo chiamò.

“Avete litigato?” chiese lui.

Rachel annuì.

“Non mi ha nemmeno rivolto la parola. Si è diretto verso la spiaggia, sembrava infuriato.”

“Potresti restare ancora un po’? Non voglio che ritorni.”

“Se ti fa piacere, resterò, ma sono sicuro che lui non tornerà.”

“Ti ringrazio”, disse lei.

“Salperà tra poco”, aggiunse Niolopua. “Vedrai.”

“Non m’interessa quello che fa, basta che stia lontano da me”, disse Rachel.


Come Niolopua aveva previsto, Galilee non tornò. Il giorno sfumò nella sera e Rachel restò in casa, svuotata di ogni energia o desiderio, mangiò qualcosa e bevve un drink, ma senza trarne alcun piacere. Niolopua rimase sul prato per tutto il tempo e solo una volta salì sulla veranda per chiederle una birra. Il telefono squillò diverse volte, ma lei non rispose. Probabilmente era Mitch, o forse Loretta, che volevano convincerla a tornare a casa. In effetti, quando Galilee se n’era andato, Rachel aveva cominciato a pensare che tornare a New York non fosse poi una cattiva idea. Certamente restare in quella casa non le avrebbe fatto bene; non avrebbe fatto altro che rimuginare su ciò che era successo. Meglio tornare dalla famiglia, dove riusciva a capire meglio i suoi sentimenti. Dopo il caos emotivo degli ultimi giorni, ritrovarsi nuovamente tra i Geary sarebbe stato di una semplicità confortante. Erano odiosi, non c’erano dubbi in proposito, ma da loro non doveva aspettarsi confusione, ambiguità, baci un istante prima e violenza un istante dopo. Forse avrebbe cominciato a bere, come Margie, e avrebbe inveito contro il mondo da dietro il suo velo funebre. Non era certo una prospettiva allettante, ma in fondo cosa le restava? Quell’isola era stata la sua ultima speranza: un luogo dove guarire, dove assistere ai miracoli. Ma neanche questo era bastato. Non le restava più niente.

Mentre le ultime luci del giorno abbandonavano il cielo, Rachel sentì Niolopua che la chiamava, e uscì sulla veranda. Lui era in fondo al prato e le stava indicando il mare.

Era la Samarcanda. Anche se le sue vele erano poco più che puntini bianchi contro il blu scuro del cielo, Rachel era certa che quella fosse la barca di Galilee. Per un istante doloroso, si immaginò insieme a lui sul ponte a osservare l’isola che si allontanava. Le stelle che brillavano sopra di loro; il letto sottocoperta ad aspettarli. Indugiò solo per un attimo in quelle fantasie, poi si disse di smetterla.

Tuttavia riuscì a distogliere lo sguardo dall’oceano solo quando le vele della Samarcanda furono scomparse oltre l’orizzonte.

Era finita, pensò. L’uomo che per un attimo erroneamente aveva considerato il suo principe se n’era andato. Che perfetta uscita di scena: sospinto dalla marea, diretto chissà dove.

Eppure Rachel non pianse. Il suo principe se n’era andato ma lei non pianse. Sì, certo, c’era il rimpianto. Ci sarebbe sempre stato. Non avrebbe mai smesso di chiedersi cosa sarebbe successo se fosse stata capace di interpretare meglio la natura di Galilee; di chiedersi che tipo di vita avrebbero potuto vivere insieme nella casa sulla collina.

Ma c’era qualcos’altro oltre al rimpianto: c’era la rabbia. Era proprio quel sentimento a tenere a bada le lacrime: la furia che provava per il modo in cui la vita aveva aggiunto dolore al dolore. Era questo che le asciugava gli occhi non appena si inumidivano.

La filosofia di Margie non era forse stata la stessa? Trasformando il rancore in una forma d’arte, ripetendo ad alta voce che la vita non aveva alcun senso, Margie si era costretta ad andare avanti.

E le cose sarebbero state così anche per Rachel d’ora in poi. Avrebbe imparato a essere come Margie. Che Dio avesse pietà di lei.

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