Ricordate Rachel Pallenberg? Vi ho parlato brevemente di lei diversi capitoli fa, quando stavo ancora decidendo con quale storia cominciare il mio libro. Ve l’ho descritta mentre guida dalle partì della sua città natale, Dansky, nell’Ohio, che si trova tra Marion e Shanck, vicino al Monte Gilead. Modesta sarebbe una descrizione gentile per questa città; banale sarebbe probabilmente più veritiera. Se un tempo ha avuto un qualche fascino particolare, ora è scomparso, abbattuto per fare spazio alle grandi ubiquità americane: fast-food da quattro soldi e negozi di liquori da quattro soldi. Di notte, la luce più brillante della città è quella della stazione di servizio.
Qui, Rachel ha vissuto fino all’età di diciassette anni. Queste strade dovrebbe esserle familiari. Ma si è persa. Anche se riconosce gran parte di ciò che vede — la scuola dove ha trascorso tanti anni infelici, la chiesa dove suo padre Hank (che era sempre stato più devoto di sua madre) la portava ogni domenica, la banca dove Hank Pallenberg ha lavorato fino alla sua morte prematura — vede tutte queste cose e le riconosce; eppure si è persa. Questa non è casa sua. Ma non lo è nemmeno il luogo che ha lasciato per venire fino a qui, lo stupendo appartamento con vista su Central Park, dove ha vissuto tra le braccia del lusso e della ricchezza, sposata all’uomo sognato da innumerevoli donne: Mitchell Geary.
Rachel non rimpiange di aver lasciato Dansky. Lì, aveva vissuto una vita claustrofobica: piatta e ripetitiva. E il futuro le era sempre sembrato cupo. Le donne di Dansky non avevano grandi pretese, il matrimonio era quello che volevano, e se i loro mariti erano sobri due o tre sere alla settimana e i loro figli nascevano con il giusto numero di gambe e braccia, si consideravano fortunate e si preparavano per un lungo e lento declino.
Ma Rachel aveva sempre avuto altri progetti. Due giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno aveva lasciato la città, senza voltarsi indietro. C’era un’altra vita là fuori, che aveva visto sulle riviste e alla televisione: una vita di possibilità, una vita da stella del cinema, una vita che Rachel era determinata a ottenere. Non era l’unica diciassettenne americana a nutrire speranze del genere, naturalmente. Né io sono la prima persona a raccontare in uno scritto il modo in cui Rachel ha trasformato il suo sogno in realtà. Qui accanto a me ho quattro libri e una pila di riviste, che parlano invariabilmente dell’inarrestabile ascesa di Rachel Pallenberg. Farò del mio meglio in questa sede per evitare gli eccessi e attenermi ai fatti, ma questa è una storia — così simile a una favola — che saprebbe tentare anche un asceta letterario, come scoprirete ben presto. La bellissima ragazza dagli occhi scuri di Dansky, che non ha niente che la distingua da tante altre a parte un sorriso accattivante e un fascino disinvolto, si trova per puro caso in compagnia dello scapolo più desiderato d’America e attira la sua attenzione. Il resto non è ancora storia; la storia ha bisogno di un finale, e questa storia è ancora in movimento. Ma certamente è qualcosa di notevole.
Com’è accaduto? Questa parte, almeno, è molto semplice da raccontare.
Rachel lasciò Dansky, decisa a cominciare una nuova vita a Cincinnati, dove viveva la sorella di sua madre. Rimase lì per circa due anni. Seguì con scarsi risultati un breve corso per diventare odontotecnica, poi per diversi mesi lavorò come cameriera. Rachel piaceva alla gente, anche se non sempre era amata. Alcune delle sue colleghe sembravano considerarla un po’ troppo ambiziosa; era una di quelle persone che non facevano mistero delle loro aspirazioni, e questo irritava coloro che erano troppo timidi per fare altrettanto o che semplicemente non avevano aspirazioni. Il gestore del ristorante, un uomo di nome Herbert Finney, la descrive in modo diverso da intervista a intervista. Rachel era “una ragazza molto tranquilla, che lavorava sodo”, come dice a un intervistatore, o “una che flirtava con i clienti, sempre in cerca di qualcosa per sé”, come dice a un altro? Forse la verità è a metà strada tra queste due descrizioni. Quello che è certo è che il lavoro di cameriera ben presto cominciò ad andarle stretto; proprio come Cincinnati. Ventun mesi dopo il suo arrivo, alla fine di agosto, Rachel prese un treno diretto verso est e si trasferì a Boston. Quando, in seguito, una rivista idiota le chiese perché avesse scelto quella città, rispose che aveva sentito dire che da quelle parti l’autunno era piacevole. Trovò un altro posto come cameriera e andò a vivere con due ragazze che, come lei, erano appena arrivate in città. Dopo due settimane, trovò un lavoro in un’elegante gioielleria di Newbury Street, dove lavorò per tutto l’autunno — che a Boston era davvero bellissimo — finché, il 23 dicembre, nel tardo pomeriggio, il Natale arrivò sotto forma di Mitchell Geary.
Quel pomeriggio cominciò a nevicare verso le due, mentre Rachel tornava al lavoro dopo aver pranzato. Le previsioni del tempo per il resto del giorno e per la notte si facevano più fosche di ora in ora: stava per arrivare una tormenta.
Gli affari andavano a rilento; la gente si affrettava a lasciare la città, anche se le ore rimaste da dedicare allo shopping natalizio si potevano contare sulle dita di una mano. Il direttore della gioielleria, un certo signor Erickson (un uomo di quarant’anni che aveva la stanca eleganza di un sessantenne), era nel suo ufficio e stava discutendo al telefono con il suo capo sull’eventualità di chiudere in anticipo, quando davanti al negozio si fermò una limousine da cui scese un ragazzo dai capelli scuri, che indossava un pesante cappotto e che teneva gli occhi bassi, quasi che temesse di essere riconosciuto nel tragitto di non più di dieci metri che separava l’auto dalla gioielleria. Entrò, scrollandosi la neve di dosso. Erickson era ancora nel suo ufficio e stava contrattando l’ora di chiusura. La sua assistente, Noelle, era uscita a prendere un caffè. Toccò a Rachel occuparsi di quel cliente. Naturalmente, sapeva chi era. Chi non lo avrebbe riconosciuto? Quei lineamenti classici e regolari — gli zigomi delicati, gli occhi profondi, la bocca forte e sensuale, i capelli ribelli — comparivano più o meno ogni mese sulla copertina di qualche rivista: Mitchell Monroe Geary era uno degli uomini più osservati, discussi e desiderati d’America. E ora era là, in piedi davanti a Rachel, con fiocchi di neve che gli si scioglievano sulle ciglia scure.
Cosa accadde allora? Be’, ci fu uno scambio di battute piuttosto semplice. Geary le spiegò che stava cercando un regalo di Natale per la moglie di suo nonno, Loretta. Qualcosa coi diamanti. Poi, scuotendo leggermente la testa, aggiunse: “Loretta adora i diamanti”. Rachel gli mostrò una serie di spille tempestate di brillanti, pregando che Erickson non finisse la sua telefonata proprio in quel momento e che la coda alla caffetteria fosse lunga abbastanza da ritardare il ritorno di Noelle di qualche altro minuto. Voleva avere il principe Geary tutto per sé ancora per un po’. Rachel non chiedeva altro.
Lui disse che gli piacevano sia la farfalla sia la stella. Lei tolse le spille dai cuscini di velluto nero per permettergli di esaminarle più da vicino. Cosa ne pensava, le chiese lui. Io?, si stupì lei. Sì, lei. Be’, disse Rachel, sorpresa da quanto fosse facile parlare con lui: se è per sua nonna, allora direi che la farfalla probabilmente è troppo romantica.
Lui la guardò dritto negli occhi, con un luccichio malizioso nello sguardo. “Come fa a sapere che non sono follemente innamorato di mia nonna?” disse.
“Se così fosse, non sarebbe ancora alla ricerca dell’anima gemella”, replicò Rachel prontamente.
“E cosa le fa pensare che sia così?”
Fu lei a sorridere, ora. “Leggo le riviste”, rispose.
“Non dicono mai la verità”, ribatté lui. “Vivo come un monaco. Glielo giuro.” Lei non fece commenti, pensando di aver già detto troppo, probabilmente: forse aveva perso la vendita, forse aveva perso persino il lavoro, se Erickson aveva sentito il loro scambio di battute. “Prenderò la stella”, decise lui. “Grazie per il consiglio.”
Acquistò il gioiello e se ne andò, portandosi via il suo fascino, la sua presenza e il luccichio dei suoi occhi. Rachel si sentì stranamente tradita, quando Geary se ne fu andato, come se le avesse tolto qualcosa che le apparteneva, per quanto assurdo potesse sembrare. Noelle rientrò con i caffè, proprio mentre Geary si allontanava dalla gioielleria.
“Era proprio chi penso io?” disse, con gli occhi sgranati.
Rachel annuì.
“È semplicemente stupendo di persona, non ti pare?” commentò Noelle. Rachel annuì. “Stai sbavando.”
Rachel scoppiò a ridere. “Sì, è davvero bellissimo.”
“Era da solo?” volle sapere Noelle. Si voltò a guardare la strada, mentre la limousine si allontanava dal marciapiede. “C’era anche lei?”
“Lei chi?”
“Natasha Morley. La modella. Quella anoressica.”
“Sono tutte anoressiche.”
“Le modelle non sono felici”, affermò Noelle con assoluta certezza. “Non si può essere così magre ed essere felici allo stesso tempo.”
“Non era con lui. È venuto a comprare qualcosa per sua nonna.”
“Oh, quella puttana”, sbottò Noelle. “Quella che si veste sempre di bianco.”
“Loretta.”
“Esatto. Loretta. È la seconda moglie di suo nonno.” Noelle parlava come se i Geary fossero i suoi vicini di pianerottolo. “Ho letto su People che è lei che controlla la famiglia, in realtà. Controlla tutti.”
“Non posso immaginare qualcuno capace di controllare lui”, obiettò Rachel, continuando a fissare la strada.
“Ma non ti piacerebbe poterlo controllare almeno una volta?” replicò Noelle.
Erickson emerse dall’ufficio proprio in quel momento. Sembrava di pessimo umore. Benché la bufera continuasse a peggiorare, avevano ricevuto l’ordine di tenere aperta la gioielleria fino alle otto e trenta. Ma quello era un problema secondario: di solito, due giorni prima di Natale, dovevano restare aperti fino alle dieci per non lasciarsi scappare quelli che Erickson definiva “gli acquisti da mariti colpevoli”. Secondo lui, più costoso era il regalo, più atti di adulterio aveva commesso il cliente nel corso dell’anno. E quando il direttore era di umore particolarmente pungente, quando quel tipo di cliente lasciava il negozio, provava anche a indovinare il numero dei tradimenti.
Così, diligentemente, rimasero in negozio e la neve, come previsto, cominciò a cadere sempre più fitta. Arrivò qualche altro cliente, ma non fecero vendite importanti.
E poi, proprio mentre Erickson cominciava a togliere i gioielli dalla vetrina per la notte, entrò un uomo con una busta per Rachel.
“Il signor Geary dice che gli dispiace, ma non ha afferrato il suo nome”, le disse il messaggero.
“Mi chiamo Rachel.”
“Glielo dirò. Sono il suo autista e la sua guardia del corpo. Mi chiamo Ralph.”
“Salve, Ralph.”
Ralph — che era alto un metro e novanta e aveva l’aria di aver lavorato con successo come sacco da pugile — sogghignò. “Salve, Rachel. Piacere di conoscerla.” Si tolse un guanto di pelle e strinse la mano alla ragazza. “Be’, buona notte a tutti.” Raggiunse la porta. “A proposito: vi consiglio di evitare il Tobin Bridge. C’è stato un incidente ed è completamente intasato.”
Rachel non aveva intenzione di aprire la busta davanti a Noelle e a Erickson, tuttavia non sopportava l’idea di aspettare altri diciannove minuti prima di farlo. Così l’aprì. All’interno c’era un breve biglietto scritto a mano da Mitchell Geary, che l’invitava all’Algonquin Club a bere un drink la sera successiva, la vigila di Natale.
Tre settimane più tardi, in un ristorante di New York, Mitchell le regalò la spilla di diamanti a forma di farfalla e le disse di essersi innamorato di lei.
Questo è un momento buono come un altro per tentare una descrizione a grandi linee della famiglia Geary. La strada che divide l’ultima generazione dalle radici della famiglia è molto, molto lunga; e quelle radici scendono così profondamente nella terra, che non sono sicuro di essere pronto a disseppellirle. Quindi permettetemi di occuparmi — almeno per il momento — di quella parte dell’albero genealogico che è più facilmente visibile: della parte di cui parlano i libri che trattano dell’ascesa e dell’influenza dei Geary.
Quasi subito diventa chiaro che per diverse generazioni i Geary si sono comportati (e sono stati trattati) come una sorta di famiglia reale americana. Come autentici reali, hanno sempre agito come se fossero stati al di sopra della legge; e questo sia nella vita privata sia in quella pubblica. Nel corso degli anni, diversi membri della dinastia si sono comportati in modi che a chiunque altro avrebbero assicurato la prigione: tutto, dalla guida in stato di ubriachezza ad abusi sulle mogli. Come autentici reali, c’è sempre stata una notevole grandeur sia nelle loro passioni sia nei loro fallimenti, che hanno sempre galvanizzato le persone comuni, le cui vite sono confinate dalla necessità. Anche le persone che avevano vessato per anni — o nella vita privata o in quella economica — erano affascinate da loro; pronte a perdonare e a dimenticare, se solo lo sguardo dei Geary si fosse posato nuovamente su di loro.
E, proprio come autentici reali, avevano le mani sporche di sangue. Nessun trono è stato mai conquistato senza violenza; e anche se i Geary non erano benedetti dagli stessi dèi che avevano incoronato i re d’Europa o gli imperatori della Cina e del Giappone, nella loro anima collettiva c’era uno spirito oscuro e sanguinario, il demone dei Geary, se mi concedete l’espressione, che li investiva di un’autorità del tutto sproporzionata ai loro diritti secolari. Li rendeva aggressivi nell’amore e ancora più aggressivi nell’odio, li rendeva ostinati e longevi; li rendeva inconsciamente crudeli e talvolta altrettanto inconsciamente carismatici.
Per la maggior parte del tempo, era come se non sapessero che cosa stessero facendo, nel bene, nel male o nell’indifferenza. Vìvevano in una sorta di trance, come se il resto del mondo fosse solo uno specchio davanti ai loro volti, come se tutti loro vivessero le loro vite vedendo solo se stessi.
Sotto certi aspetti, l’amore era la manifestazione assoluta del demone dei Geary; perché l’amore era il modo in cui la famiglia accresceva se stessa, arricchiva se stessa.
Per i maschi era quasi un punto d’onore tradire le loro compagne e fare in modo che il mondo lo sapesse, anche se l’argomento non doveva essere più che una semplice voce. Quella dubbia tradizione era stata inaugurata dal bisnonno di Mitch, Laurence Grainger Geary, che era stato un donnaiolo leggendario e aveva generato, secondo alcuni, almeno due dozzine di bastardi con le amanti più disparate. Alla sua morte, due donne nere del Kentucky, sorelle, per giunta, dichiararono di avere avuto figli da lui; una ricca e rispettabile ebrea di New York, che aveva partecipato con il vecchio Geary a un comitato per la Riabilitazione della Pubblica Morale, aveva tentato il suicidio e aveva rivelato nella sua lettera d’addio quale fosse il vero padre delle sue tre figlie, mentre la maitresse di un bordello del New Mexico aveva mostrato suo figlio alla stampa locale, facendo notare quanto somigliasse ai figli di Geary.
Verna, la moglie di Laurence, non rispose pubblicamente a quelle dichiarazioni, che comunque ebbero il loro peso su quella donna già profondamente infelice. Un anno più tardi, venne ricoverata nello stesso istituto che aveva ospitato Mary Lincoln nei suoi ultimi anni. Là Verna Geary sopravvisse per poco più di un decennio, prima di abbandonare miseramente questo mondo.
Solo una dei suoi quattro figli (Verna ne aveva persi altri tre quando erano ancora molto piccoli) si prese cura di lei in quegli anni: Eleanor, la figlia maggiore. Comunque, a Verna poco importava delle continue gentilezze di Eleanor. Amava soltanto uno dei suoi figli abbastanza da implorare la sua presenza, lettera dopo lettera: il suo adorato Cadmus. Ma lui non ricambiava in alcun modo il suo affetto. Solo una volta andò a farle visita. Si potrebbe anche dire che era stata Verna la causa della crudeltà del suo stesso figlio. Lo aveva cresciuto come se fosse stato uno spirito eccezionale, e gli aveva insegnato che non avrebbe mai dovuto posare lo sguardo su qualcosa che non gli piacesse. Così ora, trovandosi di fronte a una simile vista — sua madre in uno stato di confusione mentale — Cadmus si limitò a distogliere lo sguardo.
“Voglio circondarmi di cose che mi piace guardare”, disse a sua sorella, lasciandola senza parole, “e non mi piace guardare lei.”
Ciò che appagava i sensi del ventottenne Cadmus, a quel tempo, era una donna di nome Katherine Faye Browning — Kitty per gli amici -, la figlia di un magnate dell’acciaio di Pittsburgh. Cadmus l’aveva conosciuta nel 1919 e l’aveva corteggiata instancabilmente per due anni, durante i quali aveva cominciato ad applicare la sua straordinaria abilità negli affari alla già considerevole ricchezza di suo padre. Questo non fu un caso. Più Kitty Browning giocava con i suoi sentimenti (rifiutandosi di vederlo per quasi due mesi nell’autunno di quell’anno, semplicemente perché — come scrisse in una lettera — “Voglio scoprire se posso vivere senza di te. Se è così, lo farò, perché significa che non sei l’uomo che possiede il mio cuore.”), più l’ambizione del giovane Cadmus cresceva. La sua reputazione di geniale stratega della finanza — e di avversario demoniaco per coloro che lo sfidavano — nacque proprio in quegli anni. Anche se con gli anni si raddolcì, in una certa misura, quando la gente pensava a Cadmus Northrop Geary, pensava al giovane Cadmus: l’uomo che non perdonava mai.
Mentre costruiva il suo impero, agì come una divinità secolare. Comunità intere che dipendevano dalle sue industrie vennero distrutte per un suo puro capriccio, mentre altre prosperarono, protette dalla sua benevolenza. Ancor prima di arrivare alla mezza età, aveva raggiunto traguardi che la maggior parte degli uomini non riuscirebbe nemmeno a sognare nell’arco di cento vite. Non c’era luogo di potere in cui non fosse conosciuto e idolatrato. Influenzava l’economia e la politica, comprando allo stesso modo Democratici e Repubblicani; faceva apparire insulsi grandi uomini e — quando gli serviva, e talvolta poteva accadere — affidava a idioti cariche importanti.
Non c’è bisogno che vi dica che alla fine Kitty Browning cedette alle sue insistenze e lo sposò. Né che Cadmus la tradì per la prima volta mentre erano in luna di miele.
Un uomo dotato del potere e dell’influenza di Cadmus — per non dire della sua classica bellezza americana — un uomo del genere è sempre circondato da ammiratrici. Non c’era niente di languido o debole in lui; niente che tradisse mai dubbi o fatica: quello era il cuore del suo potere. Se fosse stato un uomo migliore, disse una volta sua sorella, o un uomo di gran lunga peggiore, sarebbe potuto diventare presidente. Ma a Cadmus non interessava la politica. Non quando c’erano così tante donne da sedurre (sempre che seduzione sia il termine esatto per qualcosa che non richiedeva alcuno sforzo da parte sua). Divideva il suo tempo tra i suoi uffici di New York e Chicago, le sue case in Virginia e nel Massachusetts, e i letti di diverse centinaia di donne ogni anno, corrompendo o assumendo i mariti che scoprivano di essere stati traditi.
Quanto a Kitty, aveva la sua vita: quattro figli da crescere e un calendario sociale estremamente pieno. L’ultima cosa che voleva era un marito tra i piedi. Finché Cadmus non la metteva in imbarazzo, Kitty non aveva niente da obiettare sul modo in cui viveva.
Vi fu un’unica storia d’amore — o meglio, un’unica storia d’amore fallita — che mise in pericolo quello strano equilibrio. Nel 1926, su invito di Lionel Bloombury, che era a capo di un piccolo studio indipendente di Hollywood, Cadmus si recò a Los Angeles. Si considerava piuttosto esperto in materia di film, e Lionel gli aveva suggerito di investire nell’industria cinematografica. In seguito avrebbe seguito quel consiglio e avrebbe investito nella Metro Goldwyn Mayer; inoltre avrebbe acquistato diversi appezzamenti di terreno che più tardi sarebbero diventati Beverly Hills e Culver City. Ma l’unico affare che gli interessava veramente a Hollywood gli sfuggì: un’attrice chiamata Louise Brooks. La conobbe alla prima di Beggars of Life, un film prodotto dalla Paramount in cui lei aveva recitato accanto a Wallace Beery. Agli occhi di Cadmus, Louise era apparsa quasi come una presenza soprannaturale; per la prima volta, aveva detto a un amico, aveva creduto all’esistenza del Paradiso; di un giardino perfetto da cui gli uomini sarebbero stati esiliati a causa delle manipolazioni di una donna.
L’oggetto di questi discorsi metafisici, Louise, era senza dubbio una bellezza straordinaria: i sui capelli lisci e scuri dal taglio quasi mascolino incorniciavano un volto pallido dai lineamenti squisiti. Ma era anche una donna ambiziosa, intelligente e astuta, che non aveva alcun interesse nel diventare un objet d’art per Cadmus o per chiunque altro. Partì per la Germania l’anno successivo per recitare in due film, uno dei quali, Die Büchse de Pandora, l’avrebbe resa immortale. Cadmus ormai era talmente rapito da lei che si recò in Europa sperando di poter stare in sua compagnia, e a quanto pare le avance di Geary non le furono del tutto sgradite. Cenarono insieme e fecero delle gite quando i suoi impegni cinematografici lo permettevano. Ma per lei, Cadmus non era che una distrazione. Quando tornò sul set, Louise si lamentò con il regista, Pabst, dicendo che la presenza di Geary le impediva di concentrarsi e che desiderava che fosse allontanato. In seguito, quella stessa settimana, Cadmus — che aveva tentato senza successo di comprare lo studio che stava producendo Die Büchse de Pandora — si presentò sul set nella speranza di poterle parlare, ma lei si rifiutò di vederlo e lui venne allontanato con la forza. Tre giorni dopo, Cadmus salì su una nave e fece ritorno in America.
La sua “follia”, come in seguito avrebbe definito quell’episodio, finì così. Tornò ai suoi affari con un appetito ancora più rapace. Un anno dopo il suo ritorno, nell’ottobre del 1929, ci fu il crac della borsa che segnò l’inizio della Grande Depressione. Cadmus passò indenne attraverso quella crisi. Altri uomini d’affari si indebitarono e, ridotti sul lastrico, alcuni arrivarono al suicidio, ma nell’arco di quei pochi anni, mentre il paese attraversava la peggiore crisi economica dai tempi della guerra civile, Cadmus riuscì a trasformare le sconfitte che lo circondavano addirittura in vittorie personali. Acquistò per somme irrisorie le rovine di altre attività; offrì salvezza a pochi fortunati che stavano annegando, assicurandosi la loro eterna fedeltà.
E non limitò le sue trattative d’affari a coloro che erano stati relativamente onesti, ma che comunque erano caduti in disgrazia; trattò anche con uomini che avevano le mani sporche di sangue. Erano gli ultimi giorni del Proibizionismo; era il momento giusto per fare soldi fornendo liquori alle gole riarse d’America. E dove c’era profitto, c’era anche Cadmus Geary. Nei quattro anni che trascorsero tra il suo ritorno dalla Germania e la revoca del Diciottesimo Emendamento, investì i fondi della famiglia Geary in alcool rigorosamente illegale e nell’industria dell’“intrattenimento”, guadagnando soldi in nero e riciclandoli nelle sue attività legittime.
Fu molto cauto nella scelta dei suoi soci d’affari, evitando la compagnia di individui troppo compiaciuti della notorietà. Non trattò mai con Al Capone o con gente come lui, preferendo tipi più tranquilli come Tyler Burgess e Clarence Filby, i cui nomi non sono mai apparsi su un giornale o in un libro di storia. Ma in realtà, Cadmus non aveva lo stomaco per il crimine. Anche se quei traffici illeciti gli facevano guadagnare enormi somme di denaro, nella primavera del 1933, poco prima che il Congresso approvasse l’abrogazione, interruppe ogni contatto con “Gli Uomini del Midwest”, come era solito chiamarli.
Fu proprio Kitty a spingerlo in quella direzione. Di norma, non si immischiava nelle questioni finanziarie, ma quella, gli disse, non era una questione finanziaria: la reputazione della famiglia avrebbe subito un danno irreparabile se qualcuno fosse riuscito a provare un qualche collegamento tra i Geary e quella feccia. Cadmus cedette quasi subito a quelle pressioni; non gli piaceva fare affari con gente del genere, comunque. Per la maggior parte erano persone rozze che, una generazione prima, secondo Cadmus, sarebbero state in qualche desolato angolo d’Europa a mangiare le zecche dei loro asini. Quel commento aveva divertito molto Kitty che l’aveva usato ogni volta che si sentiva particolarmente cattiva.
Così, passato il Proibizionismo e gli anni cupi della Grande Depressione, i Geary erano una delle famiglie più ricche della storia del continente americano. Possedevano acciaierie, cantieri e mattatoi. Possedevano piantagioni di caffè e di cotone, e immensi appezzamenti di terreno. Possedevano proprietà immobiliari nelle trenta più grandi città d’America. Possedevano cavalli da corsa, piste da corsa e auto da corsa. Possedevano calzaturifici, conservifici e catene di chioschi di hot dog. Possedevano riviste e giornali, i distributori che consegnavano quelle riviste e 1 quei giornali, e le edicole che vendevano quelle riviste e quei giornali. E su ciò che non potevano possedere, mettevano il loro nome. Come per distinguere la sua nobile famiglia dalla gentaglia con cui nel ’33 aveva smesso di fare affari, Cadmus permise 1 a Kitty di usare decine di milioni di dollari per attività di beneficenza, al punto che nei due decenni successivi il nome dei Geary comparve su reparti di ospedali, scuole, orfanotrofi. Tutte quelle opere di bene non riuscirono comunque a distrarre gli occhi i degli osservatori più cinici dall’inarrestabile scalata al potere di | Cadmus. Nonostante il passare degli anni, non sembrava intenzionato a rallentare il ritmo. Attorno ai sessantacinque anni, un’età in cui uomini meno motivati cominciano a pensare alla pesca e al giardinaggio, Cadmus rivolse i suoi appetiti a Oriente, verso Hong Kong e Singapore, dove usò lo stesso schema con cui era riuscito a ottenere così tanti successi in America. Il suo tocco di Mida non lo aveva abbandonato: la magia di Cadmus continuava a trasformare industria dopo industria. Era un invasore silenzioso, che non amava la pubblicità, ma la sua reputazione era quasi leggendaria.
Continuò con i suoi tradimenti, come aveva sempre fatto, anche se ora le conquiste sessuali gli sembravano meno importanti. Era ancora un amante notevole (in quegli anni cominciò a frequentare donne meno discrete delle sue prime conquiste; per far parlare della sua virilità, forse), ma dopo l’episodio di Louise Brooks non riuscì più a trovare quello stato di grazia simile all’amore che invece continuava a provare negli affari. Solo nel lavoro si sentiva vivo come quando aveva visto Kitty per la prima volta o come quando aveva seguito Louise in Germania; e solo nel lavoro si esaltava o sfiorava l’esaltazione.
Nel frattempo, naturalmente, stava crescendo un’altra generazione di Geary. Il primo fu Richard Emerson Geary, nato nel 1934, dopo due aborti spontanei di Kitty. Poi, un anno più tardi, nacque Norah Faye Geary, e due anni dopo fu la volta di George, il padre di Mitchell e Garrison.
Sotto molti aspetti, Richard, Norah e George furono la generazione di maggior successo dal punto di vista emotivo. Kitty era sensibile alla corruzione della ricchezza: aveva visto vite distrutte dal denaro nella sua stessa famiglia. Quindi fece del proprio meglio per crescere i suoi figli nel modo più normale possibile; e la sua capacità di amare, ostacolata nel matrimonio, sbocciò rigogliosa con i bambini. Dei tre, fu Norah a essere la più viziata; e viziare era la specialità di Cadmus. In poco tempo, Norah diventò una bambina ribelle, e non c’era niente che Kitty potesse fare per insegnarle un po’ di disciplina. Ogni volta che non riusciva a ottenere quello che voleva, Norah andava a piangere da suo padre, che le dava esattamente ciò che lei chiedeva. Quello schema di comportamento raggiunse proporzioni grottesche quando Cadmus organizzò per la figlia di undici anni — che si era messa in testa di diventare attrice — un provino che venne girato in uno studio della MGM. Gli effetti di quella venerazione sarebbero stati evidenti solo di lì a molti anni, ma sarebbero stati tragici.
Nel frattempo, Kitty divise il suo amore estremamente pratico tra Richard e George, e li vide crescere e diventare uomini dalle capacità straordinarie. Non fu certo un caso che nessuno dei due volesse avere molto a che fare con l’impero Geary; Kitty aveva sottilmente inculcato in entrambi una profonda sfiducia nel mondo che aveva fatto la fortuna di Cadmus. Solo quando, attorno ai settantacinque anni, Cadmus cominciò a mostrare i primi segni di deterioramento mentale, George, il più giovane, accettò di lasciare la sua compagnia di investimenti per occuparsi della razionalizzazione di quello che era diventato un impero ingombrante. Ben presto si rese conto che quel compito si addiceva al suo temperamento molto più di quanto avesse previsto. Fu accolto dagli investitori, dai sindacati e dai membri del consiglio di amministrazione come un nuovo tipo di Geary, che si preoccupava più del benessere dei suoi impiegati e delle comunità che spesso dipendevano dagli investimenti della famiglia che del mero profitto.
George ebbe fortuna anche nella vita privata. Sposò una certa Deborah Halford, la sua ragazza del liceo, e insieme vissero una vita che traeva ispirazione da quell’ambiente solido e pieno d’amore che Kitty aveva cercato di costruire con tutte le sue forze. Il fratello maggiore di George, Richard, era diventato un avvocato, appassionato di omicidi e di retorica; la sua vita sembrava l’interminabile atto di un’opera piena di eccessi emotivi. Quanto alla povera Norah, passò da un matrimonio all’altro, nell’incessante e vana ricerca di un uomo che potesse dimostrarle la stessa devozione incondizionata che le aveva dimostrato suo padre.
Per contrasto, George viveva una vita quasi banale, pur gestendo la maggior parte delle fortune dei Geary. La sua voce era pacata, i suoi modi gentili e il suo sorriso accattivante. Benché fosse molto abile nel trattare con i suoi dipendenti, prendere il posto di Cadmus fu un compito tutt’altro che facile. Prima di tutto, il vecchio non aveva smesso di cercare di influenzare la gestione degli affari, e quando la sua salute migliorò pensò di poter tornare a capo del consiglio di amministrazione. Fu Loretta, la seconda moglie di Cadmus, a convincerlo che sarebbe stato più saggio lasciare George alla guida dell’impero, mentre Cadmus avrebbe potuto assumere il ruolo di consigliere. Il vecchio accettò quella soluzione, ma non di buon grado: prese a criticare pubblicamente George quando disapprovava le decisioni del figlio, e in più di un’occasione mandò a monte contratti che George aveva trascorso mesi a negoziare.
Allo stesso tempo, mentre Cadmus faceva del proprio meglio per offuscare le glorie del suo stesso figlio, si manifestarono altri problemi. Prima vi furono le indagini su alcune società di proprietà dei Geary accusate di insider trading, poi vi fu il crollo definitivo degli affari in Estremo Oriente, in seguito al suicidio di un dirigente alle dipendenze di Cadmus, che aveva nascosto la perdita di diversi miliardi di dollari; e, dopo mezzo secolo di assoluta segretezza, la rivelazione delle attività illecite di Cadmus durante il Proibizionismo in un libro che rimase per un po’ nella classifica dei best-seller nonostante i tentativi di Richard di farlo ritirare dal mercato.
Ogni volta che le cose si facevano troppo frenetiche, George si rifugiava in una vita familiare quasi idilliaca. A Deborah interessava solo creare un nido confortevole dove accudire suo marito e i suoi figli. Una volta che la porta d’ingresso era chiusa, era solita dire, il resto del mondo non poteva entrare a meno che non fosse stato invitato; e questo valeva anche per qualsiasi altro membro del clan dei Geary. Se George aveva bisogno di solitudine — tempo per rilassarsi e ascoltare i suoi dischi jazz, tempo per giocare con i bambini — Deborah difendeva la soglia di casa con le unghie e coi denti. Nemmeno Richard, che in tribunale aveva convinto più di una giuria dell’impossibile, riusciva a persuaderla a violare la privacy di George.
Per i quattro figli di quel sereno matrimonio — Tyler, Karen, Mitchell e Garrison — c’erano affetto e pragmatismo in abbondanza, ma anche una serie di tentazioni che la generazione precedente non aveva conosciuto. Furono loro i primi Geary a essere seguiti regolarmente dai paparazzi durante la loro adolescenza; i primi Geary traditi dai compagni di scuola che raccontavano ai quattro venti se fumavano droga o facevano sesso; i primi Geary a comparire sulle copertine di riviste patinate. Nonostante gli sforzi di Deborah, non c’era modo di proteggerli da quel genere di intrusioni. E non sarebbe nemmeno stato saggio provarci, secondo George. I loro figli avrebbero dovuto imparare a loro spese il dolore dell’umiliazione pubblica. Se fossero stati abbastanza in gamba, avrebbero modificato il loro comportamento.
In caso contrario, sarebbero finiti come sua sorella Norah, che aveva avuto tante copertine di tabloid quanti psicanalisti. Era un mondo difficile, quello, e l’amore non poteva proteggere nessuno. Tutto ciò che poteva fare era, talvolta, accelerare la guarigione delle ferite.
Dovete perdonarmi. Avrei voluto scrivere un capitolo breve e asciutto per darvi un’idea schematica dell’albero genealogico della famiglia Geary, e invece ho finito per perdermi tra i suoi rami. Non posso dire che ogni ramoscello abbia a che fare con la storia di cui stiamo parlando, ma ci sono legami sorprendenti tra ciò che vi ho raccontato e alcuni degli eventi che verranno. Per esempio: Rachel, quando sorride in un certo modo, ha qualcosa di Louise Brooks nello sguardo; così come ha gli stessi capelli scuri e lucidi di Louise. È bene che sappiate quanto Cadmus fosse innamorato di Louise, perché questo vi permetterà di capire meglio l’effetto che Rachel avrà su di lui.
Ma ancora più importante di questi dettagli è il senso generale degli schemi creati da queste persone mentre passavano il loro carattere, sia buono che cattivo, ai loro figli. Il modo in cui Laurence Grainger Geary (che, per inciso, morì all’Avana tra le braccia di una prostituta) insegnò a suo figlio Cadmus a essere coraggioso e crudele. Il modo in cui Cadmus diede forma a una creatura di pura autodistruzione con Norah, e a un uomo segretamente impegnato nella rovina del suo stesso padre con George.
George: forse è il caso di concludere brevemente la sua storia in queste pagine. È un finale triste per un uomo dalla natura così generosa; una morte attorno alla quale gravitano ancora innumerevoli misteri. Il 6 febbraio 1981, invece di raggiungere la casa di Caleb’s Creek per trascorrere il fine settimana con la sua famiglia, si recò a Long Island. Fu lui a guidare, fatto alquanto insolito. Non gli piaceva guidare, soprattutto quando il tempo era inclemente proprio come quella sera. Telefonò a Deborah per dirle che sarebbe arrivato tardi: avrebbe dovuto occuparsi di una “questione fastidiosa”, ma le promise che l’avrebbe raggiunta nelle prime ore del mattino. Deborah rimase ad aspettarlo. Lui non arrivò. Alle tre del mattino, Deborah chiamò la polizia; prima dell’alba, le ricerche erano già iniziate e continuarono sotto la pioggia per tutto il fine settimana, senza che si fosse trovata anche solo una minima traccia. Finché alle sette e trenta di lunedì mattina, un uomo, che stava portando fuori il suo cane dalle parti di Smith Point Beach, casualmente diede un’occhiata in una macchina che era rimasta parcheggiata sul limitare della spiaggia per tre giorni. All’interno c’era il corpo di un uomo. Si trattava di George. Aveva il collo spezzato. L’omicidio aveva avuto luogo sulla spiaggia — c’era della sabbia nelle scarpe e nei capelli e nella bocca di George — poi il corpo era stato riportato all’auto ed era stato lasciato lì. Più tardi, sulla spiaggia, venne ritrovato il suo portafogli. La sola cosa che mancava era una fotografia di sua moglie.
L’assassino di George venne cercato per anni (in un certo senso la caccia continua ancora oggi; il suo fascicolo non è mai stato archiviato), ma, nonostante una ricompensa da un milione di dollari offerta da Cadmus per qualsiasi informazione avesse portato alla cattura del killer, il responsabile non fu mai trovato.
Gli effetti della scomparsa di George — o almeno, gli effetti più importanti rispetto a questo libro — furono tre. Primo, Deborah si ritrovò stranamente alienata da suo marito a causa delle circostanze sospette della sua morte. Che cosa le aveva nascosto? Qualcosa di vitale; qualcosa di letale. Nonostante tutta la fiducia che avevano sempre riposto l’uno nell’altra, c’era stato qualcosa di terribile, qualcosa che George non aveva voluto condividere con lei. Per qualche mese, Deborah riuscì a tirare avanti abbastanza bene, sostenuta anche dalla necessità di essere una buona vedova in pubblico, ma una volta che i media cominciarono a dedicarsi a nuovi scandali e a nuovi orrori, rapidamente cedette all’oscurità dei suoi dubbi e del suo dolore. Per diversi mesi viaggiò per l’Europa, dove fu raggiunta da sua cognata Norah, con la quale fino a quel momento non aveva avuto niente in comune. Negli Stati Uniti, nuovi pettegolezzi cominciarono a circolare: Deborah e Norah vivevano come due dive di mezza età, e si aggiravano per le strade malfamate di Roma e Parigi in cerca di compagnia. Quel che è certo è che quando, nell’agosto 1981, ritornarono a casa, Deborah aveva l’aria di una donna che aveva visto ben più del Vaticano e della Torre Eiffel. Aveva perso più di dieci chili, indossava un vestito adatto a una donna di dieci anni più giovane di lei e prese a calci il primo fotografo che le si avvicinò all’aeroporto.
Il secondo effetto della morte di George, naturalmente, fu sui suoi figli. Mitchell, all’epoca quattordicenne, si era trovato al centro dell’attenzione pubblica: aveva già la bellezza tipica dei Geary, e il modo in cui affrontava l’invadenza della stampa suggeriva una maturità e una dignità sorprendenti per un ragazzo così giovane. Era un principe; tutti erano d’accordo su questo; un principe.
Garrison, che aveva sei anni più di lui, era sempre stato molto più riservato, e non cercò di nascondere il suo sconforto in quel periodo. Mentre Mitchell rimase vicino alla madre per tutto il periodo del lutto, accompagnandola a galà di beneficenza e occasioni mondane, Garrison si allontanò dai riflettori quasi completamente. Quanto a Tyler e a Karen, entrambi erano più giovani di Mitchell e, almeno per alcuni anni, i giornalisti non si interessarono di loro. Tyler morì nel 1987 insieme a suo zio Todd, il quarto marito di Norah, quando l’aereo che Todd stava pilotando cadde durante una tempesta improvvisa nei pressi di Orlando, in Florida. Karen — che col senno di poi, probabilmente, era quella che di più assomigliava a suo padre per il suo carattere gentile — diventò archeologa, e ben presto riuscì a distinguersi nel suo campo.
La terza conseguenza dell’improvvisa scomparsa di George Geary fu la nuova ascesa di Cadmus Geary. Aveva saputo affrontare la fragilità fisica e mentale giunta con l’età, e ora che l’impero Geary aveva bisogno di un leader, era pronto a riprendere il comando. Aveva più di ottant’anni ma, in un decennio di avidità come quello, il suo fu un ritorno trionfale. Dopotutto, era lui l’uomo che aveva dettato le regole moderne del combattimento nel mondo degli affari. In certi momenti sembrava che cercasse di porre rimedio alla generosità dimostrata da suo figlio George. Chiunque cercasse di sfidarlo veniva annientato senza tanti complimenti; Cadmus non aveva né il tempo né la voglia di trattare con i suoi avversati.
Wall Street rispose positivamente a quel cambiamento. Il Vecchio Cadmus Torna al Timone, titolò il Wall Street Journal. In un paio di mesi, i giornali e le riviste furono affollati di articoli su di lui e di inevitabili elenchi delle sue crudeltà. A Cadmus non importava. Non gli era mai importato e non gli sarebbe mai importato. Quello era il suo stile, e andava più che bene per il mondo in cui aveva resuscitato se stesso.
C’è ancora molto da dire sul Vecchio Geary; ma torneremo a lui più tardi. Per il momento, permettetemi di lasciarlo così, col suo trionfo, e di tornare all’argomento della mortalità. Vi ho già detto della morte di Laurence Geary (con la prostituta all’Avana) e di quella di Tyler (l’aereo dello zio Todd, in Florida), e naturalmente di quella di George (sulla sua Mercedes, a Long Island), ma ci sono altri decessi che dovrebbero essere raccontati in questa sede. Vi ho parlato di Verna, la madre di Cadmus? Certo. Come ricorderete, morì in manicomio. Ma non vi ho detto che si trattò quasi certamente di un omicidio, a quanto sembra commesso da un’altra paziente, una certa Dolores Cooke, che si suicidò sei giorni dopo la morte di Verna. Eleanor, sua figlia, morì in tarda età, proprio come Louise Brooks che abbandonò il cinema all’inizio degli anni Trenta perché quell’ambiente era ormai troppo squallido perché lo potesse sopportare.
Quindi rimane solo Kitty che morì di cancro all’esofago nel 1979. Aveva settantasette anni. L’anno successivo, Cadmus si risposò con una donna di vent’anni più giovane di lui, Loretta Talley. Anche Loretta era stata un’attrice, e in gioventù aveva lavorato a Broadway per qualche tempo.
Quanto a Kitty, il suo ruolo in ciò che seguirà sarà di scarsissima importanza, e mi dispiace, perché sono in possesso di una copia di uno straordinario documento che scrisse poco prima di morire, un documento che potrebbe dare vita a innumerevoli, interessanti speculazioni. Il testo è a dir poco caotico, ma non c’è da sorprendersi se si pensa ai medicinali che le venivano somministrati nel periodo in cui lo scrisse. Pagina dopo pagina, la sua testimonianza documenta il suo struggimento per qualcosa di più importante dei suoi doveri di madre, moglie e benefattrice, una fame profonda e inestinguibile di qualcosa di poetico nella sua vita. Talvolta il testo perde completamente di significato e diventa una serie di immagini sconnesse. Ma anche in questi casi non manca di potenza. Ho l’impressione che stesse cominciando, proprio alla fine della sua esistenza, a vivere in un continuo presente: un luogo in cui la memoria, l’esperienza e le aspettative si fondevano in un unico delirante fiume di sentimenti. In certi brani, scrive come una bambina intenta a osservare, grottescamente affascinata, il proprio corpo devastato.
Parla anche di Galilee.
Solo quando ho riletto il documento per la terza volta (in cerca di qualche traccia di ciò che pensava dell’omicidio di George Geary) mi sono reso conto che parlava del mio fratellastro. Entra ed esce dal racconto di Kitty come la brezza che proprio in questo istante soffia tra le carte che occupano la mia scrivania; qualcosa che è reso visibile solo dal suo effetto. Ma non ci sono dubbi: Galilee le offrì una breve visione di tutto quello che le era stato negato; fu, se non l’amore della sua vita, almeno un’affascinante visione dei cambiamenti che un autentico grande amore avrebbe potuto operare in lei.
Ora lasciate che vi accompagni in una breve visita guidata tra le proprietà dei Geary, dal momento che molti degli avvenimenti di cui vi parlerò hanno avuto luogo in quelle case. Nel corso degli anni la famiglia ha acquistato un gran numero di beni immobili e, visto che non ha mai avuto bisogno di farli fruttare, raramente ha venduto qualcosa. Talvolta i Geary hanno ristrutturato queste proprietà per poi occuparle. Ma più spesso le loro case sono rimaste vuote — per quanto pulite e riordinate regolarmente — per interi decenni, senza che nemmeno un membro della famiglia vi mettesse piede. Sono a conoscenza delle ville e degli appartamenti che i Geary possiedono a Washington, a Boston, a Los Angeles, nel Montana, in Louisiana, nel South Carolina e alle Hawaii; e in Europa, a Vienna, a Zurigo, a Londra, a Parigi; e in luoghi ancora più lontani, a Il Cairo, a Bangkok e a Hong Kong.
Per ora, comunque, mi limiterò a descrivervi solo le loro proprietà di New York. Mitchell ha un pied a terre a Soho, un luogo che al suo interno è molto più elaborato e molto meno sorvegliato di quanto l’esterno dell’edificio lascerebbe supporre. Margie e Garrison occupano due dei piani più alti della Trump Tower. Acquistare quell’appartamento fu un’idea di Margie (in quel periodo la Trump Tower era uno degli spazi più costosi al mondo e a lei piaceva l’idea di far spendere a Garrison una tale quantità di denaro) che comunque non fece mai niente per dare un po’ di calore all’ambiente. L’arredatore, un uomo di nome Jeffrey Penrose, morì un mese dopo aver finito il lavoro, e in alcuni articoli che vennero scritti su di lui l’appartamento della Trump Tower fu descritto come la sua “ultima grande creazione; in tutto e per tutto simile alla donna che lo aveva assunto — eccessiva, appariscente e selvaggia”. E in effetti Margie, a quel tempo, era proprio così. Gli anni che da allora sono trascorsi non sono stati clementi, comunque, ciò che all’epoca sembrava eccessivo e brillante oggi ha un’aria irrimediabilmente datata.
La sola grande e autentica residenza dei Geary in città è il luogo che tutti i membri della famiglia chiamano semplicemente “il palazzo”; una grande casa del tardo diciannovesimo secolo nell’Upper East Side. La zona in cui si trova è chiamata Carnegie Hill, ma avrebbe potuto benissimo prendere il nome dei Geary; Laurence abitava lì già da vent’anni quando Andrew Carnegie fece costruire la sua casa tra la Quinta e la Novantunesima. Molte delle case che circondano la residenza dei Geary oggi ospitano ambasciate di vari paesi; sono davvero troppo grandi e costose per una normale famiglia. Ma Cadmus era nato e cresciuto in quel palazzo e l’idea di venderlo non lo aveva mai sfiorato. Prima di tutto, la quantità di oggetti contenuti in quella casa non potrebbe mai essere trasferita in un luogo dalle dimensioni più modeste: mobili, tappeti, orologi, objets d’art; abbastanza da riempire un museo. E poi ci sono i quadri che, a differenza del resto, è stato proprio Cadmus a collezionare personalmente. Tele enormi, tutte di pittori americani. Magnifiche opere di Albert Bierstadt, Thomas Cole e Frederick Church, grandi dipinti che immortalano paesaggi americani straordinariamente evocativi. Alcuni potrebbero giudicare retorici e antiquati questi lavori, opere di talenti non proprio eccezionali che hanno cercato di superare se stessi in cerca di una visione sublime. Ma appesi nella grande casa di New York, quei quadri (alcuni dei quali occupano intere pareti) assumono un’autorità innegabile. Sì, quello è un luogo buio e pesante; talvolta è difficile riprendere fiato, perché l’aria è così densa, così viziata. Ma non è questo che gli ospiti ricordano del palazzo, una volta che lo hanno lasciato. Ricordano i dipinti, che sembrano quasi vere e proprie finestre aperte su grandi paesaggi incontaminati.
La casa è gestita da sei persone, sotto la supervisione di Loretta naturalmente. Per quanto duro lavorino, la casa è davvero troppo grande. C’è sempre della polvere da qualche parte; potrebbero lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana, senza mai riuscire a coprire l’enormità di quel luogo.
E così queste sono le residenze di New York City. In effetti non vi ho detto tutto. Garrison ha un luogo segreto di cui nemmeno Margie è a conoscenza, ma ve lo descriverò più avanti, quando vi spiegherò la ragione per cui è costretto a non parlarne con nessuno. C’è anche un’altra casa fuori città, nei pressi di Rhinebeck, ma anche quel luogo sarà importante solo in un secondo momento, quindi per ora non lo descriverò.
La sola altra dimora a cui devo accennare in queste pagine è molto lontana da New York, ma penso che meriti di essere citata perché nella mia immaginazione costituisce una sorta di trinità insieme al palazzo e all’Enfant. Si tratta di una casa molto più modesta delle altre due. Probabilmente è la meno appariscente delle abitazioni di cui vi parlerò in questa storia. Ma sorge a pochi metri dal blu del Pacifico, in una foresta di palme, e per i pochi fortunati che hanno trascorso una notte o due sotto il suo tetto rappresenta un ricordo paradisiaco.
Ma anche questa casa sarà importante, in seguito, così come i suoi segreti, che sono ben più scottanti di qualunque cosa nasconda Garrison, eppure così enormi nel loro significato, che metterebbero in difficoltà l’abilità degli uomini che hanno dipinto i paesaggi appesi nel palazzo. Siamo ancora lontani da quel momento, ma voglio che abbiate in testa un’immagine di quell’angolo di paradiso, come un pezzo sgargiante di un puzzle che non sembra avere un vero e proprio posto nello schema generale, ma che non può essere accantonato e deve essere osservato di tanto in tanto finché il suo significato non diviene evidente e l’immagine assume finalmente un senso che senza quel pezzo non avrebbe mai avuto.
Ma devo andare avanti. O meglio, indietro; devo tornare al personaggio con cui ho iniziato questa parte, Rachel Pallenberg. Negli ultimi due capitoli ho tentato di creare un contesto per la storia d’amore tra Rachel e Mitchell. E spero che proviate un po’ più di comprensione per Mitchell di quanto le sue azioni future potrebbero meritare. Non fu, almeno all’inizio, un uomo crudele o criticabile. Ma aveva vissuto gran parte della sua vita sotto lo sguardo del pubblico, nonostante gli sforzi di sua madre, e questo genere di notorietà crea qualcosa di artificiale nel comportamento di una persona. Ogni gesto diventa una specie di messinscena.
Nei diciassette anni trascorsi dalla morte di suo padre, Mitchell aveva imparato a interpretare la propria parte alla perfezione; in questo era geniale. Sotto ogni altro aspetto — a parte la bellezza — era un uomo nella media, o talvolta al di sotto della media. Uno studente poco ispirato, un amante non eccezionale, un conversatore scarso. Ma quando l’argomento della discussione svaniva e nell’aria restava solo il fascino, Mitch sapeva essere fantastico. Per usare le parole di Burgess Motel, che aveva trascorso mezza giornata con lui per scrivere un pezzo per Vanity Fair: “Meno sostanza c’era in quello che stava dicendo, più sembrava a suo agio; e, sì, ancora più perfetto. Se avete l’impressione che stia dicendo qualcosa di pericolosamente insensato, è solo perché bisogna esserci, bisogna guardarlo mettere in scena il suo trucco quasi zen dell’essere niente, per capire quanto può essere persuasivo e sexy. E se vi sembro affascinato è perché lo sono!”
Non era la prima volta che un giornalista di sesso maschile faceva la figura della ragazzina parlando di Mitchell in un articolo, ma era la prima volta che qualcuno descriveva con tanta precisione il modo in cui Mitchell dominava la situazione. Nessuno sapeva affascinare come Mitchell, e nessuno sapeva bene quanto lui che quel fascino funzionava molto meglio nel vuoto.
Niente di tutto questo, però, potreste obiettare, fa onore a Rachel. Come poté innamorarsi di un uomo così banale? Come poté gettarsi tra le braccia di un uomo che era al suo meglio quando non aveva niente di importante da dire? Fu facile, credetemi. Fu affascinata, fu inebriata, fu sedotta non solo da Mitchell ma anche tutto ciò che lui rappresentava. C’era stato un tempo in cui i Geary non avevano fatto parte della sua idea di America: e ora la stavano invitando a entrare nel loro gruppo, a diventare parte del loro mistero. Chi avrebbe potuto rifiutare un’offerta simile? Era esattamente il genere di sogno a occhi aperti in cui si ritrovava lontana dal grigiore e dalla banalità della sua esistenza, in un luogo di colori e agi e ricchezza. Immergersi in quel paesaggio di sogno non fu per niente difficile. Era come se, in fondo al suo cuore, avesse sempre saputo che quella era la vita che un giorno avrebbe vissuto e, per tutti quegli anni, si fosse preparata per viverla.
Questo non significa che non vi fossero momenti di tensione e di preoccupazione per lei. Il suo primo incontro con tutta la famiglia il giorno del novantacinquesimo compleanno di Cadmus; la prima volta che si trovò a camminare letteralmente su un tappeto rosso, a una serata di beneficenza al Lincoln Center, non molto tempo dopo l’annuncio del fidanzamento; la prima volta che viaggiò sul jet privato della famiglia e scoprì di essere la sola passeggera. Tutto era così strano e allo stesso tempo così stranamente familiare.
Da parte sua, Mitchell sembrava capace di intuire la sua preoccupazione in ogni circostanza e si comportava di conseguenza. Se Rachel era a disagio, lui era lì accanto a lei, a insegnarle con il suo esempio come ribattere con gentilezza a domande impertinenti e come rendere più fluida e piacevole una conversazione. D’altra parte, quando Rachel dava l’impressione di divertirsi, Mitchell la lasciava fare. Lei ben presto si guadagnò la reputazione di persona amabile che poteva stare in compagnia di chiunque. La grande rivelazione per Rachel fu questa: che i magnati e gli uomini d’affari con cui ora stava prendendo confidenza avevano fame di conversazioni semplici. Più di una volta si sorprese a pensare: non sono diversi dal resto di noi. Soffrivano di mal di stomaco e le scarpe facevano male anche a loro, si mangiavano le unghie e si preoccupavano dei chili di troppo. Naturalmente c’erano alcuni che la consideravano un’inferiore — in genere si trattava di donne di una certa età — ma le capitava di rado di scontrarsi con atteggiamenti simili. Molto più spesso, veniva accolta con gentilezza, si sentiva dire che era proprio la donna perfetta per Mitchell e che tutti erano contenti che finalmente si fossero incontrati.
Quanto alla sua storia personale, be’, in un primo momento cercò di non parlarne più di tanto. Se qualcuno le chiedeva del suo passato, Rachel si limitava a dare risposte vaghe. Ma quando cominciò a sentirsi più sicura di sé, prese a parlare più apertamente della sua vita a Dansky e della sua famiglia. C’erano persone che sembravano quasi incredule al pensiero che esistesse qualche luogo a ovest dell’Hudson, ma quelle stesse persone erano ansiose di sentir raccontare di un mondo meno formale, meno chiuso del loro.
“Avrai notato”, le disse Margie, la moglie di Garrison, una donna famosa per la sua pungente ironia, “che si continuano a vedere le stesse vecchie facce dovunque si vada. Sai perché? Ci sono solo venti persone importanti rimaste a New York, anzi ventuno adesso che ci sei tu, e andiamo tutti alle stesse feste e partecipiamo tutti alle stesse iniziative di beneficenza. Siamo tutti molto stufi gli uni degli altri.” Fece quel commento proprio mentre lei e Rachel erano in piedi su una terrazza e guardavano in basso una folla luccicante di forse migliaia di persone. “Non dire niente”, continuò Margie, “è solo un trucco con gli specchi.”
Inevitabilmente, talvolta, qualcuno diceva qualcosa che la metteva a disagio. Di solito quel tipo di commenti non erano rivolti a lei, ma a Mitchell davanti a lei.
“Dove l’hai trovata?” diceva qualcuno, senza voler consapevolmente offendere Rachel, facendola sentire come se Mitchell l’avesse comprata da qualche parte ed esistessero altri esemplari di quell’articolo.
“Sono solo stupiti da quanto sono stato fortunato”, le disse Mitchell quando lei gli fece notare quanto trovasse di cattivo gusto quel genere di commenti. “Nessuno vuole offenderti.”
“Lo so.”
“Possiamo smetterla di andare a tutte quelle feste, se preferisci.”
“No. Voglio conoscere tutte le persone che conosci tu.”
“Per la maggior parte sono tipi noiosi.”
“È quello che ha detto anche Margie.”
“Mi sembra che voi due andiate d’accordo.”
“Oh sì. L’adoro. È così sfacciata.”
“È una terribile ubriacona”, disse Mitchell bruscamente. “Da un paio di mesi sta abbastanza bene, ma è sempre imprevedibile.”
“È sempre stata…?”
“Un’alcolizzata? Sì.”
“Forse potrei aiutarla”, disse Rachel.
Lui la baciò. “La mia buona samaritana.” La baciò di nuovo. “Puoi anche provarci, ma fossi in te non ci spererei troppo. Ha così tanti problemi da risolvere. Loretta non le piace per niente. E anch’io credo di non piacerle affatto.”
Fu Rachel a baciarlo, ora. “E come mai non le piaci?”
Mitchell sogghignò. “Che Dio mi fulmini, non lo so”, rispose.
“Egocentrico che non sei altro.”
“Io? No. Starai pensando a qualcun altro. Io sono il più umile della famiglia.”
“Credo che non esista qualcosa come…”
“… un Geary umile?”
“Esatto.”
“Mmm.” Mitchell rimase a riflettere per un istante. “Nonna Kitty forse lo era.”
“E ti piaceva?”
“Sì”, rispose Mitchell, la voce d’improvviso riscaldata dall’affetto. “Era dolce. Forse un po’ pazza verso la fine, ma dolce.”
“E Loretta?”
“Lei non è pazza. E la persona più sana di mente di questa famiglia.”
“No, voglio dire, ti piace?”
Mitchell scrollò le spalle. “Loretta è Loretta. È una forza della natura.”
Fino a quel momento, Rachel aveva incontrato Loretta solo due o tre volte, ma non era quella l’idea che si era fatta di lei. Anzi. Le era sembrata una donna piuttosto riservata, schiva persino, un’impressione supportata dal fatto che vestiva sempre di bianco o di grigio argento. Gli unici tocchi teatrali erano i turbanti che era solita indossare e la precisione immacolata del suo trucco che metteva il risalto il viola dei suoi occhi. Era stata gentile con Rachel, ma in modo alquanto distaccato.
“So cosa stai pensando”, disse Mitchell. “Stai pensando che Loretta è solo una signora d’altri tempi. E lo è davvero. Ma prova a metterti contro di lei e…”
“E cosa succederebbe?”
“È come ti ho detto: è una forza della natura. Soprattutto se c’è di mezzo Cadmus. Se qualcuno della famiglia dicesse qualcosa contro di lui, e lei lo sentisse, potrebbe anche tagliargli la gola. ‘Non avreste nemmeno due centesimi senza di lui’, dice sempre. E ha ragione. La famiglia sarebbe andata in pezzi senza di lui.”
“Cosa accadrà dopo la sua morte?”
“Cadmus non morirà”, disse Mitchell senza alcuna traccia di ironia. “Andrà avanti e avanti, finché qualcuno di noi lo porterà in macchina a Long Island. Scusami. Battuta di pessimo gusto.”
“Ci pensi spesso?”
“A quello che è successo a papà? No. Non ci penso affatto. Solo quando esce qualche libro, sai, il genere di cose che sostiene che a ucciderlo è stata la mafia oppure la CIA. Quella robaccia mi deprime. Nessuno saprà mai davvero quello che è successo. Quindi a cosa serve pensarci?” Le scostò una ciocca di capelli dalla fronte. “Non devi preoccuparti. Se il vecchio muore domani, ci divideremo la torta: un po’ andrà a Garrison, un po’ a Loretta e un po’ a noi. Poi tu e io… spariremo. Saliremo su un aereo e ce ne andremo via.”
“Possiamo farlo anche adesso, se vuoi”, disse Rachel. “Non ho bisogno della famiglia e certamente non ho bisogno di vivere nell’alta società. Ho solo bisogno di te.”
Lui sospirò; un sospiro profondo e tormentato. “Ah. Ma dove finisce la famiglia e comincia Mitchell? Questo è il dilemma.”
“Io so chi sei”, disse Rachel avvicinandosi a lui. “Sei l’uomo che amo. Semplicemente l’uomo che amo.”
Ma naturalmente non era tutto così semplice.
Rachel era entrata a far parte di un’elite piccola e tutt’altro che invidiabile: quel gruppo di persone le cui vite private erano considerate di pubblico dominio. L’America voleva sapere tutto della donna che aveva rubato il cuore di Mitchell Geary, soprattutto perché fino a poco tempo prima era stata una creatura a dir poco ordinaria. Ma ora era tutto diverso. E la prova di quella trasformazione era là, nelle pagine patinate dei settimanali scandalistici: Rachel Pallenberg che indossava abiti che sei mesi prima le sarebbero costati il salario di un anno di lavoro, il suo sorriso quello di una donna felice al di là dei suoi sogni più selvaggi. Ma una simile felicità non poteva essere celebrata a lungo; ben presto, perse le sue attrattive. Gli stessi lettori, che erano rimasti affascinati in febbraio e in marzo dalla sua ascesa improvvisa e stupiti dal modo in cui una ragazza qualunque era diventata una principessa in aprile e in maggio e che si erano commossi quando in giugno era stata annunciata la data delle nozze, all’inizio di luglio volevano già la sporcizia.
Che tipo di donna era veramente quella ladra che aveva rubato al mondo il Principe Mitchell? Non poteva essere perfetta come sembrava; nessuno era così piacevole. Doveva avere dei segreti, senza dubbio. Subito dopo l’annuncio delle nozze, gli investigatori si misero al lavoro. Prima che Rachel Pallenberg indossasse il suo abito bianco per diventare Rachel Geary, avrebbero trovato qualcosa di scandaloso da raccontare, anche a costo di passare al setaccio l’intero stato dell’Ohio.
Mitchell non rimase immune a quel genere di interesse. Ricomparvero vecchi fantasmi sulle sue varie relazioni. La sua breve storia con la figlia tossicomane di un membro del Congresso; i suoi vari viaggi tra le isole dell’Egeo con un piccolo harem di modelle parigine; il suo appassionato legame con Natasha Morley che recentemente aveva sposato un nobile europeo, spezzandogli così il cuore (secondo alcune fonti). Uno dei giornali più accaniti arrivò persino a scovare un compagno di Mitchell dei tempi di Harvard, che dichiarò che il giovane Geary aveva un debole per le minorenni.
Nel caso Rachel fosse stata tentata di prendersela per quel tipo di attenzioni, Margie le portò una pila di riviste che la sua governante, Magdalene, aveva raccolto nei primi anni del suo matrimonio con Garrison, riviste che contenevano storie al vetriolo praticamente identiche a quelle che ora venivano scritte su lei e Mitchell. Le due donne erano diverse quasi in tutto: Rachel era minuta ed elegante, riservata; Margie era alta, appariscente e volubile. Eppure, in quella tempesta erano come sorelle.
“All’epoca me l’ero presa veramente a male”, disse Margie. “Ma ben presto ho cominciato a rimpiangere che nemmeno il dieci per cento di quello che dicevano su Garrison fosse vero. Sarebbe stato un uomo dannatamente più interessante.”
“Se sono tutte menzogne, perché qualcuno non li denuncia?” chiese Rachel.
Margie scrollò le spalle con aria rassegnata. “Se non si occupassero di noi, si occuperebbero di qualche altro povero figlio di puttana. E comunque se smettessero di scrivere questa merda, sarei costretta a ricominciare a leggere dei libri.” Finse di rabbrividire con fare teatrale.
“Allora tu leggi questa roba?”
Margie inarcò un sopracciglio. “E tu no?”
“Be’…”
“Tesoro, a tutti noi piace sapere chi si scopa chi. Fino a quando non siamo noi quel chi. Ma tieni duro. Tra non molto passeranno alla prossima fortunata concorrente.”
Margie l’aveva rassicurata proprio al momento giusto, perché la settimana successiva a quella conversazione cominciarono a giungere le prime notizie da Dansky. Niente di particolarmente doloroso; solo un ritratto alquanto squallido della città natale di Rachel e qualche fotografia della casa di sua madre, il prato incolto, la vernice scrostata. C’era anche un breve riassunto della vita di Hank Pallenberg. La particolare brevità di quel resoconto era una forma di crudeltà, pensò Rachel. Suo padre si sarebbe meritato qualcosa di meglio. Tuttavia il peggio doveva ancora venire. Un reporter rintracciò una donna che era stata in classe con Rachel alla scuola di odontotecnica. Il ritratto che la donna fece di lei fu tutt’altro che gradevole.
“Era sempre in cerca di un uomo ricco da accalappiare. Ritagliava un sacco di fotografie dai giornali — fotografie di uomini ricchi che sperava di conoscere, sapete — e le appendeva alle pareti della sua camera da letto e le fissava a lungo ogni notte prima di andare a dormire.” E Mitchell Geary era stato uno di quegli uomini?, aveva voluto sapere il reporter. “Oh, certo”, aveva risposto la ragazza, e aveva aggiunto di avere avuto una brutta sensazione quando aveva saputo che il piano di Rachel aveva funzionato. “Io sono una ragazza cristiana, e ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in quello che Rachel faceva con quelle fotografie. Come del voodoo o roba del genere.”
Naturalmente, era tutta una stupida invenzione, e tuttavia conteneva una serie di elementi di grande richiamo. Il titolo, accompagnato da una recente foto di Rachel scattata a una serata di beneficenza, gli occhi virati al rosso per via del flash del fotografo, diceva: “Sesso e Magia Nera per la Promessa Sposa di Mitchell Geary!” Quel numero andò esaurito in un giorno.
Rachel fece del proprio meglio per sopportare quella situazione, ma era molto difficile — proprio come il fatto di essere stata una consumatrice di quel tipo di riviste e di averle persino apprezzate a suo tempo. Ora su quei giornali c’èrano la sua faccia e la sua vita, e la gente sembrava credere alle menzogne e alle mezze verità che venivano scritte sul suo conto.
“Ma perché sprechi il tuo tempo anche solo a guardare quelle stronzate?” le chiese Mitchell quando Rachel sollevò l’argomento a cena quella sera. Erano da Luther’s, un ristorantino esclusivo non lontano dall’appartamento di Mitchell a Park Avenue.
“Potrebbero dire qualsiasi cosa”, disse Rachel, prossima alle lacrime. “E non solo su di me. Anche su mia madre o su mia sorella, o su di te.”
“Ci sono già i nostri avvocati che se ne occupano. Se Cecil avesse la sensazione che si stanno spingendo troppo oltre.”
“Troppo oltre? E quant’è troppo oltre?”
“Qualcosa per cui valga la pena battersi”, rispose Mitchell. Le prese la mano.
“Non vale la pena piangere per queste cose, piccola”, le disse dolcemente. “Sono solo un branco di idioti che non hanno di meglio da fare che cercare di distruggere la gente. Il fatto è che non lo possono fare. Non con noi. Né con i Geary. Siamo troppo forti per loro.”
“Lo so…” mormorò Rachel asciugandosi le lacrime. “Io vorrei essere forte, ma…”
“Non voglio sentire nessun ma, piccola”, replicò Mitchell, la voce ancora tenera nonostante la fermezza delle parole. “Devi essere forte, perché gli altri ti guardano. Sei una principessa.”
“Io in questo momento non mi sento affatto come una principessa.”
Lui sembrò deluso. Spinse da parte il suo piatto di rognoni e si passò una mano sul viso. “Allora significa che non sto facendo il mio lavoro”, disse. Rachel lo fissò, confusa. “Il mio lavoro è quello di farti sentire come una principessa. La mia principessa. Cosa posso fare?” Alzò lo sguardo su di lei con una sorta di dolce disperazione dipinta sul volto. “Dimmi: cosa posso fare?”
“Amami”, rispose lei.
“Io ti amo, tesoro.”
“Lo so.”
“E odio il fatto che quegli imbrattacarte ti facciano soffrire ma, credimi, non possono toccarti. Possono gettare fango e alzare la voce, ma non possono toccarti.” Le strinse la mano. “È questo il mio lavoro. Nessuno può toccarti, tranne me.”
Rachel si sentì attraversare da un lieve tremore, come se le mani di Mitchell l’avessero accarezzata in mezzo alle gambe. Lui se ne accorse. Si passò la lingua sul labbro inferiore, inumidendolo.
“Vuoi sapere un segreto?” le disse poi, sporgendosi verso di lei.
“Sì, ti prego.”
“Hanno paura di noi.”
“Chi?”
“Tutti quanti”, rispose lui, continuando a fissarla. “Noi non siamo come loro, e loro lo sanno. Noi siamo i Geary. Loro no. Noi siamo potenti. Loro no. E questo li spaventa. Quindi dobbiamo permettere che ogni tanto si prendano le loro piccole rivincite. Altrimenti impazzirebbero.” Rachel annuì. Qualche mese prima il discorso di Mitchell non avrebbe avuto senso, ma ora lo capiva perfettamente.
“Smetterò di preoccuparmene”, promise. “E cercherò di non parlarne mai.”
“Sei in gamba, lo sai?” proseguì Mitchell. “È questo che ha detto di te Cadmus dopo la sua festa di compleanno. Ha detto: ‘E in gamba. Ha la stoffa per essere una Geary’. Ha ragione. E sai una cosa? Una volta che sarai un membro di questa famiglia, niente potrà più ferirti. Niente. Sarai intoccabile. Te lo giuro sulla mia stessa vita. È così che funziona, quando sei un Geary. Ed è questo che sarai tra nove settimane. Una Geary. Per sempre.”
Poco fa è entrata Marietta a leggere quello che ho scritto. Pur sapendo che me ne sarei pentito, quando mi ha chiesto di farle leggere un po’ di quanto avevo scritto, le ho passato qualche pagina. È andata in veranda, si è accesa uno dei miei sigari e ha cominciato. Io ho finto di continuare a lavorare, come se la sua opinione non fosse di alcun interesse per me, ma i miei occhi continuavano a scivolare verso di lei, cercando di interpretare l’espressione del suo viso.
Di tanto in tanto, mi è parsa divertita ma non a lungo. Per la maggior parte del tempo, si è limitata a scorrere il testo riga dopo riga (troppo in fretta, secondo me, per poter davvero apprezzare la prosa), il volto impassibile. Man mano che il tempo passava, la mia irritazione cresceva e sono stato sul punto di alzarmi e uscire in veranda. Alla fine, con un piccolo sospiro, Marietta è tornata da me e mi ha restituito le pagine.
“Scrivi frasi molto lunghe”, è stato il suo commento.
“È tutto quello che hai da dire?”
Da una tasca ha estratto una confezione di fiammiferi, e ne ha usato uno per riaccendere il sigaro. “Cosa vuoi che ti dica?” ha scrollato le spalle. “È pieno di pettegolezzi, non ti pare?” Ha cominciato a fissare la scatola di fiammiferi. “E penso che sia difficile da seguire. Tutti quei nomi. Tutti quei Geary. Non era necessario andare così indietro nel tempo, ti pare? Voglio dire, a chi importa?”
“Serve per dare un contesto alla storia.”
“Mi chiedo di chi sia questo numero”, ha detto lei, continuando a studiare i fiammiferi. “È un numero di Raleigh. Chi diavolo conosco a Raleigh?”
“Se non riesci a essere un po’ più costruttiva…”
Lei ha alzato lo sguardo e si è accorta della mia delusione. “Oh, Eddie”, ha detto sorridendo. “Non fare quella faccia. Penso che quello che hai scritto sia bellissimo.”
“No, non è vero.”
“Te lo giuro. È solo che quei matrimoni, sai”, ha fatto una smorfia con le labbra. “Non li amo molto.”
“Ma ci sei andata”, le ho rammentato.
“Scriverai anche di questo?”
“Assolutamente sì.”
Mi ha accarezzato una guancia. “Sai, credo che la mia presenza ravviverà un po’ le cose. Come vanno le tue gambe?”
“Piuttosto bene.”
“Ti sei ripreso del tutto?”
“Pare di sì.”
“Mi chiedo perché Cesaria ti abbia guarito dopo tutto questo tempo.”
“Non mi importa. Le sono solo molto grato.”
“Zabrina mi ha detto che ti ha visto uscire.”
“Vado a trovare Luman ogni due giorni. Si è messo in testa che dobbiamo collaborare a un libro quando avrò finito di scrivere questo.”
“Su cosa?”
“Sui manicomi.”
“Che allegria. Ah! Adesso ricordo! È Alice.” Ha lanciato in aria la confezione di fiammiferi e l’ha ripresa al volo. “Alice la bionda. Vive a Raleigh.”
“A giudicare dal tuo entusiasmo, deve piacerti molto”, ho commentato.
“Alice è adorabile. Voglio dire, è davvero… sontuosa.” Si è tolta un frammento di tabacco dai denti. “Dovresti uscire con me, uno di questi giorni. Andiamo a bere qualcosa. Ti presento le ragazze.”
“Penso che non mi troverei a mio agio.”
“E perché? Di sicuro nessuna ti farà delle avance, non in un bar per sole donne.”
“Non posso.”
“E invece sì.” Mi ha indicato con l’estremità umida del sigaro. “Ti porterò fuori a divertirti.” Si è rimessa in tasca i fiammiferi. “E forse ti presenterò Alice.”
Naturalmente, mi ha lasciato in preda all’insicurezza. Adesso ero di umore pessimo, e così ho raggiunto la cucina per affogare i miei dolori nel cibo. Era quasi l’una di notte, e Dwight si era ritirato in camera sua già da diverse ore. L’Enfant era immerso nel silenzio. L’aria era viziata, così ho aperto la finestra sopra il lavandino. Sono rimasto lì in piedi per qualche istante, la brezza leggera che mi rinfrescava il viso. Poi sono andato al frigorifero, e ho cominciato a prepararmi un sandwich principesco: strati di prosciutto affumicato, senape, sottili fette di melanzana, pomodorini e olio d’oliva, il tutto chiuso tra due fette di pane di segale.
Rimpinzarmi mi ha aiutato a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Perché mi preoccupavo dell’opinione di Marietta? Non era certo una grande critica letteraria. E quello era il mio libro, erano le mie idee e la mia visione. Se non le piaceva, erano solo affari suoi. Il suo parere era irrilevante. Quasi senza accorgermene, ho cominciato a borbottare tra me e me, mescolando parole e prosciutto in bocca.
“Che cosa stai blaterando?”
Ho smesso di parlare di colpo e mi sono voltato a guardare. Là, sulla soglia, c’era Zabrina. Indossava un’enorme camicia da notte, e aveva il viso struccato. I suoi occhi erano piccoli, la sua bocca larga ma dalle labbra sottili; Marietta, una volta, in un momento di rabbia, le aveva dato della rana obesa e per quanto questa descrizione possa essere crudele, in qualche modo è calzante. Il suo unico attributo di grande fascino sono i capelli, di un rosso profondo e luminoso, lunghi fino alla vita. Quella sera li aveva sciolti e le coprivano le spalle e il petto come un mantello.
“È tanto che non ci vediamo”, le ho detto.
“Oh no, ci siamo visti”, ha ribattuto lei, con la sua strana voce affannosa, “ma non ci siamo parlati.”
Stavo per dirle — è solo perché tu sei sempre di fretta — ma mi sono trattenuto. Zabrina era una creatura nervosa. Una parola sbagliata e sarebbe scomparsa all’istante. È andata a ispezionare il frigorifero. Come al solito, Dwight le aveva lasciato un’ampia scelta di torte e dolci.
“Non ho alcuna intenzione di aiutarti”, ha detto all’improvviso.
“Aiutarmi?”
“Certo”, ha replicato lei, continuando a studiare il contenuto del frigorifero. “Non penso che sia giusto.” Ha afferrato due torte poi, piroettando con una grazia sorprendente per una donna delle sue dimensioni, si è voltata e ha chiuso il frigo con un colpo del fianco. “Quindi non aspettarti niente da me.”
Stava parlando del libro, naturalmente. La sua irritazione non mi stupiva per niente, dal momento che sapeva che l’idea di scriverlo era in parte di Marietta. Ma io non ero dell’umore di ascoltare le sue rimostranze.
“Meglio che non ne parliamo, allora”, ho detto.
Ha appoggiato le torte — una di ciliegie e una di noci — sul tavolo, una accanto all’altra. Poi è tornata al frigo e, con un piccolo sospiro di irritazione, ha preso un recipiente pieno di panna montata. La forchetta era già nel recipiente. Si è seduta e ha cominciato a mangiare: con la forchetta ha preso un po’ di torta di ciliegie, un po’ di torta di noci e una dose generosa di panna montata. Doveva averlo già fatto innumerevoli volte; osservarla mentre creava quelle piccole, ordinate torri di eccesso culinario, senza far cadere briciole di torta nella panna montata e senza far gocciolare la panna sul tavolo, era affascinante.
“Allora, hai sentito Galilee di recente?”
“No, è da molto che non ho sue notizie.”
“Ah!” Si è messa una montagnola di torta e panna in bocca, socchiudendo le palpebre, deliziata.
“Ti scrive mai?”
Lei ha masticato e inghiottito il boccone con calma prima di rispondere. “Di tanto in tanto, mi mandava qualche riga. Ma è molto tempo che non lo fa più.”
“Ti manca?”
Si è accigliata. “Non cominciare”, ha risposto. “Te l’ho già detto.”
Ho alzato gli occhi a cielo. “In nome di Dio, Zabrina, ti ho soltanto chiesto.”
“Non voglio esserci, nel tuo libro.”
“Me l’hai già detto.”
“Non voglio essere nel libro di nessuno. Non voglio che… si parli di me. Vorrei essere invisibile.”
Non sono riuscito a trattenere un sorrisetto ironico. L’idea che proprio Zabrina sognasse di essere invisibile era tragicamente divertente. Forchettata dopo forchettata, si allontanava sempre più dalla realizzazione del suo desiderio. Quando ha sollevato di nuovo lo sguardo su di me, nonostante i miei sforzi, il sorrisetto c’era ancora.
“Cosa c’è di tanto buffo?” mi ha chiesto.
Ho scosso la testa. “Niente.”
“Sono grassa. Vorrei essere morta. E allora?”
“Non parli sul serio quando dici che vorresti essere morta”, ho detto io, serio ora. “Ne sono certo.”
“Che ragioni ho per vivere?” ha replicato lei. “Non ho niente, non c’è niente che io voglia.” Ha posato la forchetta e ha cominciato a mangiare con le mani. “Ogni giorno è la stessa storia. Faccio la serva a mia madre. Mangio. Faccio la serva a mia madre. Mangio. Di notte sogno di essere lassù con lei, mentre parla dei vecchi tempi.” Con improvvisa veemenza ha aggiunto: “Odio i vecchi tempi! E il domani? Perché non fare qualcosa pensando al domani?” Il suo volto ora era paonazzo. “Siamo tutti così passivi”, ha continuato, con la voce che sfumava verso la tristezza. “Tu hai recuperato l’uso delle gambe e che cosa hai fatto? Te ne sei andato di qui? No. Sei rimasto seduto, esattamente come hai fatto per tutti questi anni, come se fossi ancora un invalido. E in realtà lo sei ancora. Io sono grassa e tu sei un invalido, e andremo avanti così giorno dopo giorno a vivere le nostre esistenze inutili, finché qualcuno non verrà da là fuori…” ha fatto un gesto come per indicare il mondo esterno “… e ci farà la gentilezza di piazzarci una pallottola in testa.”
Detto questo, si è alzata abbandonando quel che rimaneva delle torte e ha lasciato la cucina. Non ho cercato di fermarla. Mi sono appoggiato allo schienale della sedia e l’ho guardata sparire oltre la soglia.
Poi, devo ammetterlo, mi sono preso la testa tra le mani e ho pianto.
Dopo essere stato assalito sia da Marietta sia da Zabrina, del tutto incerto del mio talento ormai, ho fatto ritorno nella mia stanza e sono rimasto sveglio per il resto della notte. Vorrei potervi dire che è stato così perché stavo lottando con problemi letterari, ma la verità è ben più prosaica: avevo la diarrea. Non ho idea se sia stato colpa del prosciutto o delle melanzane o della conversazione con Zabrina, so soltanto che ho trascorso le ore che mi separavano dall’alba seduto sul mio trono di porcellana avvolto dai miei miasmi privati. Verso l’alba, esausto e demoralizzato, mi sono trascinato fino al letto e mi sono riposato per un paio d’ore. Al mio risveglio, ho deciso che avrei dovuto scrivere del matrimonio di Rachel e Mitchell con uno stile molto più asciutto di quello che avevo usato fino a quel momento. Dopotutto, un matrimonio è un matrimonio. Non c’è ragione di dilungarsi sull’argomento.
Quindi: i fatti nudi e crudi. Il matrimonio fu celebrato la prima settimana di settembre, in una piccola città dello stato di New York chiamata Caleb’s Creek. Credo di aver già accennato a questo luogo nei capitoli precedenti. Si trova poco lontano da Rhinebeck, vicino all’Hudson. È una regione che è sempre stata molto amata dalle varie generazioni di reali americani. I Van Cortandts vi fecero costruire una villa, e così anche gli Astor e i Roosevelt. Residenze stravaganti, dove si poteva ospitare duecento ospiti per un piacevole week-end. In confronto a quelle dimore, la proprietà che George Geary aveva acquistato a Caleb’s Creek era un luogo modesto, cinque camere da letto, una costruzione in stile coloniale. George aveva amato molto quella casa; e così anche Deborah. Dopo la morte del marito, lei aveva ripetuto più volte che in quella casa avevano trascorso i mornenti più felici della loro vita; momenti in cui il resto del mondo doveva aspettare fuori dalla porta. In effetti era stato Mitchell a proporre di riaprire la casa — quasi nessuno vi aveva più messo piede dai tempi della morte di George — e di tenere i festeggiamenti del matrimonio proprio lì. Sua madre aveva accolto con entusiasmo quell’idea. “George ne sarebbe felice”, aveva detto, come se immaginasse che lo spirito del marito si stesse ancora aggirando per la casa, tra gli echi di tempi più lieti.
Mitchell aveva portato Rachel a Caleb’s Creek a metà luglio ed erano rimasti lì per una notte. Una coppia di coniugi che vivevano in città, i Rylander, e che da sempre si occupavano della proprietà, avevano tenuto tutto in ordine durante quegli anni di abbandono e avevano lavorato alacremente per dare alla casa una seconda chance di vita. Quando Mitchell e Rachel erano arrivati, si ritrovarono in un rifugio da sogno. Eric Rylander aveva piantato centinaia di fiori e cespugli di rose e aveva sistemato il prato; le finestre, le porte e gli infissi, così come la staccionata, erano stati ridipinti. Il piccolo frutteto dietro la casa era in piena fioritura; tutto era perfetto. E quanto all’interno della casa la moglie di Eric, Barbara, non era stata meno scrupolosa del marito. Aveva fatto prendere aria a tutte le stanze, aveva pulito le tende e i tappeti e aveva lucidato i pavimenti fino a farli brillare.
Rachel, naturalmente, era rimasta incantata. Non solo dalla bellezza della casa e del giardino, ma anche dal fatto che dovunque c’erano tracce del padre del suo futuro marito. Deborah aveva dato istruzioni di lasciare la casa come era sempre piaciuta a George. Le sue centinaia di album di jazz erano ancora sugli scaffali, tutti in ordine alfabetico. La sua scrivania, dove secondo Mitchell aveva preso appunti per una sorta di libro di memorie su sua madre Kitty, era ancora come l’aveva lasciata, con le fotografie incorniciate della sua famiglia che ormai avevano cominciato a sbiadire.
Quella visita non era servita solo a confermare la decisione di Mitchell di celebrare lì il matrimonio; era diventata anche una sorta di nido per gli innamorati. Quella sera, dopo una splendida cena preparata da Barbara, erano usciti a guardare il cielo di mezza estate scurirsi, sorseggiando whisky e parlando delle rispettive infanzie e dei rispettivi padri. Era così buio che non riuscivano quasi a vedere l’uno il volto dell’altra, ma avevano continuato a parlare mentre la brezza si muoveva tra i meli: dei momenti in cui avevano riso, dei momenti che avevano perduto. Quando, alla fine, erano andati a letto (Mitch non voleva dormire nella stanza padronale, benché Barbara avesse preparato il letto per loro; avevano invece dormito nella camera che lui aveva occupato da bambino), erano rimasti l’una nelle braccia dell’altro, in quella sorta di meraviglioso sfinimento che segue l’amore, anche se non avevano fatto l’amore.
Quando erano tornati a New York il mattino successivo, Rachel aveva tenuto la mano di Mitchell per tutto il tempo. Non aveva mai provato in vita sua un amore simile a quello che provava per lui.
Venerdì sera, con la residenza di Caleb’s Creek — la casa, il giardino, il frutteto, il prato — affollata di addetti ai preparativi per il ricevimento, Barbara Rylander si avvicinò al marito che si trovava vicino al cancello e guardava i camion che andavano e venivano. A bassa voce, gli disse di aver visto George in piedi tra i meli del frutteto che osservava il viavai. Stava sorridendo, disse Barbara.
“Sei una vecchia sciocca”, disse Eric a sua moglie, “ma ti amo alla follia.” Le diede un grande bacio proprio davanti a tutti quegli sconosciuti, cosa del tutto atipica per il suo carattere.
Si fece giorno e fu un giorno spettacolare. Il sole era caldo ma non troppo. La brezza era costante ma mai troppo forte. L’aria profumava ancora d’estate ma aveva una sfumatura pungente che suggeriva l’approssimarsi dell’autunno.
Quanto alla sposa, era ancora più sfolgorante di quella giornata. Al mattino, aveva sofferto di nausea, ma non appena aveva iniziato a vestirsi, il nervosismo era svanito. Ebbe una breve ricaduta quando sua madre, Sherrie, scoppiò in lacrime per la felicità, e per poco Rachel non fece altrettanto. Ma Loretta prese in mano la situazione, e con decisione mandò Sherrie a prendersi un brandy. Poi si sedette con Rachel e le parlò, in modo semplice e affettuoso.
“Non potrei mai mentirti”, disse Loretta solennemente. “Credo che tu ormai mi conosca abbastanza bene per saperlo.”
“Certo.”
“Quindi credimi quando ti dico che andrà tutto bene; niente potrà andare per il verso sbagliato, e tu sei… semplicemente stupenda.” Scoppiò a ridere e baciò Rachel sulla guancia. “Ti invidio. Davvero. Hai tutta la vita davanti a te. So che è un cliché terribile, ma quando sarai vecchia ti accorgerai di quanto è vero. Si vive solo una volta. Abbiamo una sola opportunità per essere noi stessi. Per gioire. Per amare. Quando è finita è finita.” Fissò Rachel intensamente come se ci fosse stato un significato più profondo che le sue sole parole non avrebbero mai potuto esprimere. “Adesso andiamo in chiesa”, concluse allegramente. “C’è un sacco di gente che non vede l’ora di ammirare la tua bellezza.”
La promessa di Loretta fu mantenuta. La cerimonia fu celebrata nella piccola chiesa di Caleb’s Creek con tutte le porte spalancate in modo che i membri della congregazione che non erano riusciti a trovare posto a sedere potessero comunque ascoltare la breve cerimonia. Alla fine, rispettando la tradizione di Caleb’s Creek, tutti gli invitati, al seguito della sposa e dello sposo che si tenevano mano nella mano, si incamminarono lungo Main Street ricoperta di petali di fiori “per addolcire la loro strada”. Main Street era affollata di curiosi che applaudivano e sorridevano osservando quel corteo. Tutto era meravigliosamente informale. A un certo punto, una bambina — una bambina di Caleb’s Creek, che non doveva avere più di quattro anni — sfuggì all’abbraccio di sua madre e corse a guardare la sposa e lo sposo. Mitchell la prese in braccio e la portò per una decina di metri con grande divertimento dei presenti e della bambina stessa, che cominciò a lamentarsi solo quando sua madre andò a riprenderla.
Inutile dire che c’era un gran numero di fotografi a immortalare quel momento, e che fu proprio quell’immagine che quasi tutte le redazioni scelsero per i loro articoli sulle nozze. Il simbolismo della scena non era difficile da capire. Quella bambina anonima sbucata dalla folla e sollevata dalle braccia forti e sicure di Mitchell Geary avrebbe potuto essere Rachel.
Quando la tensione dei preparativi e della grande solennità della cerimonia scomparve, l’evento si trasformò in una festa. Le ultime formalità — i discorsi, i brindisi — fortunatamente non durarono a lungo, poi ebbe inizio il divertimento. L’aria era ancora calda, la brezza faceva ondeggiare le lanterne appese ai rami degli alberi; il cielo si fece dorato mentre il sole calava dietro l’orizzonte.
“È tutto perfetto, Loretta”, disse Deborah, quando le due donne si trovarono sedute una accanto all’altra.
“Grazie”, rispose Loretta. “Ci vuole solo un po’ di organizzazione, davvero.”
“Be’, è fantastico”, aggiunse Deborah. “Vorrei solo che George fosse qui.”
“Gli sarebbe piaciuta?”
“Rachel? Oh sì. Avrebbe adorato Rachel.”
“È una ragazza senza pretese”, commentò Loretta. Stava osservando la sposa: a braccetto con il suo amato, rideva per qualcosa che aveva detto uno degli amici di Harvard di Mitchell. “Una ragazza qualsiasi.”
“Non penso proprio”, replicò Deborah. “Penso che sia molto forte.”
“Dovrà esserlo”, disse Loretta.
“Mitchell l’adora.”
“Ne sono certa. Almeno per adesso.”
Deborah strinse le labbra. “Loretta, dobbiamo…?”
“Dire la verità? No, se tu non vuoi.”
“Noi abbiamo avuto la nostra felicità”, sospirò Deborah, “Adesso tocca a loro.” Si alzò.
“Aspetta”, disse Loretta. Allungò la mano e prese delicatamente Deborah per il polso. “Non voglio che litighiamo.”
“Io non litigo mai.”
“No. Tu te ne vai e basta, il che è anche peggio. È ora che diventiamo amiche, non ti pare? Ecco… ci sono alcune cose che dovremo cominciare a programmare.”
Deborah si liberò dalla mano di Loretta. “Non capisco cosa intendi”, disse, il suo timbro di voce che metteva perfettamente in chiaro che non aveva intenzione di continuare a discutere.
Loretta cambiò argomento. “Siediti un attimo. Ti ho raccontato dell’astrologo?”
“No…” rispose Deborah, “Garrison mi ha solo detto che avevi trovato qualcuno che ti piaceva.”
“È straordinario. Si chiama Martin Yzerman; vive a Brooklin Heights.”
“Cadmus sa che vai da gente del genere?”
“Dovresti andare anche tu da Yzerman, Deborah.”
“E perché mai?”
“Consigli come i suoi sono molto utili quando si fanno progetti a lungo termine.”
“Ma io non ne faccio più. Ho smesso di provarci. Le cose cambiano troppo rapidamente.”
“Lui potrebbe aiutarti a conoscere i cambiamenti in anticipo.”
“Ne dubito.”
“Credimi.”
“Sarebbe stato in grado di predire quello che è successo a George?” chiese Deborah aspramente.
Loretta lasciò trascorrere un momento di silenzio prima di rispondere: “Senza dubbio”.
Deborah scosse la testa. “Non è così che funzionano le cose. Non sappiamo che cosa succederà domani. Nessuno lo sa.” Si alzò di nuovo. Questa volta Loretta non cercò di fermarla. “Mi stupisce che una donna intelligente come te creda a cose del genere. Davvero. Non ha alcun senso, Loretta. È solo un modo per convincersi di avere il controllo della propria vita.” Abbassò lo sguardo sull’altra donna, quasi compatendola. “Ma non è così. Nessuno di noi ha il controllo della propria vita. Domani, a quest’ora, potremmo essere tutti morti.”
Detto questo, se ne andò.
Quel bizzarro scambio di battute non fu l’unica nota stonata nella beatitudine di quel giorno. Ci furono altri tre incidenti che vale la pena riferire, anche se nessuno di essi fu così grave da rovinare i festeggiamenti.
Il primo, quasi inevitabilmente, coinvolse Margie. Lo champagne non era la sua bevanda preferita, così aveva fatto in modo che il bar fosse rifornito di buon whisky di cui si servì generosamente. Non ci mise molto tempo a ubriacarsi e a mettersi in testa di dire al senatore Bryson, che era volato fin lì da Washington con tutta la famiglia, che cosa pensasse delle sue proposte sulla riforma dell’assistenza sociale. Il suo fu un discorso preciso e articolato, e il senatore Bryson sembrò felice di impegnarsi in un argomento serio piuttosto che annoiarsi con chiacchiere di circostanza; così ascoltò i commenti di Margie con una certa attenzione. Margie ingollò un altro scotch e gli disse che secondo lei stava tenendo il piede in due scarpe. La moglie del senatore cercò di alleggerire il tono della discussione, facendo notare che molto probabilmente i Geary non avrebbero avuto bisogno di assistenza sociale nel prossimo futuro. Margie ribatté freddamente che il padre aveva lavorato in un’acciaieria per gran parte della sua vita ed era morto all’età di quarantacinque anni con soli dodicimila dollari sul conto corrente; e comunque, dove diavolo era finito il cameriere con il whisky? Anche Garrison provò a interrompere quella conversazione sempre più tesa, ma il senatore disse chiaramente che non gli dispiacevano affatto quei contretemps e che desiderava continuare. Il cameriere arrivò con il whisky e Margie si fece riempire il bicchiere ancora una volta. Dov’erano rimasti?, disse; ah sì, ai dodicimila dollari sul conto corrente di suo padre. “Quindi non mi venga a dire che non so quello che succede là fuori. Il guaio è che a voi potenti non ve ne frega un cazzo di niente. Ci sono problemi in questo paese e stanno diventando sempre più gravi, e voi che cosa state facendo per risolverli? A parte restare seduti sui vostri culi grassi a pontificare, voglio dire.”
“Non esiste una sola persona sensibile che le darebbe torto”, replicò il senatore. “Dobbiamo lavorare sodo per rendere migliore la vita degli americani.”
“E questo a cosa ci porta?” ribatté Margie. “A niente. Non c’è da meravigliarsi se nessuno in questo paese crede più a una sola parola di quello che dice la gente come lei.”
“Io credo invece che la gente sia molto più interessata al processo democratico.”
“Democratico un paio di palle!” esclamò lei. “La politica è solo lobby e mazzette e favoritismi. So come funziona. Non sono nata ieri. Voi volete soltanto arricchire quelli che sono già ricchi.”
“Penso che mi abbia scambiato per un repubblicano, signora”, ridacchiò Bryson.
“E penso che lei mi abbia scambiata per una deficiente pronta a credere alle stronzate che dite voi politici”, ribatté rabbiosamente Margie.
“Adesso basta”, tagliò corto Garrison, prendendo la moglie sottobraccio.
Lei cercò di liberarsi ma lui la tenne saldamente. “Va tutto bene, Garrison”, lo tranquillizzò il senatore. “Ha diritto ad avere la sua opinione.” Spostò lo sguardo su Margie. “Mi lasci dire un’ultima cosa. L’America è un paese libero. E nessuno la costringe a vivere nel lusso, se questo è in contrasto con le sue convinzioni politiche.” Sorrise, anche se non c’era più alcuna traccia di cordialità nei suoi occhi. “Mi chiedo davvero come una donna nella sua posizione possa parlare delle agonie dei lavoratori.”
“Gliel’ho detto, mio padre.”
“Appartiene al passato. Questa amministrazione appartiene al futuro. Non possiamo permetterci sentimentalismi. Non possiamo permetterci di essere nostalgici. E soprattutto non possiamo permetterci l’ipocrisia.”
Quelle parole segnavano la fine della discussione, Margie lo sapeva. Ormai troppo ubriaca per mettere insieme una risposta coerente, riuscì soltanto a dire: “Che cosa cazzo significa?”
Il senatore si stava già voltando, pronto ad andarsene, ma nel sentirla tornò a rivolgersi a Margie. Anche il suo sorriso ormai era scomparso.
“Significa, signora Geary, che non può dirmi che capisce i dolori della gente comune mentre se ne sta lì a bere indossando il suo vestito da cinquantamila dollari. Se vuole fare qualcosa di buono, forse potrebbe cominciare mettendo all’asta il contenuto dei suoi armadi e dare in beneficenza il ricavato che, ne sono sicuro, sarebbe alquanto sostanzioso.”
Dette quelle parole, il senatore se ne andò, insieme a sua moglie e al suo entourage. Garrison fece per seguirlo, ma Margie lo trattenne.
“Non osare fare una cosa simile”, gli intimò. “O gli dirò che una volta lo hai definito uno stronzo senza spina dorsale.”
“Sei spregevole”, disse Garrison.
“No. Tu sei spregevole. Io sono solo una patetica ubriacona. Vuoi accompagnarmi in casa prima che cominci con qualcun altro?”
Rachel non venne a sapere della conversazione di Margie con l’uomo di Washington fino a dopo la luna di miele, quando proprio Margie le raccontò l’accaduto. Ma Rachel fu al centro della seconda delle tre importanti discussioni di quel pomeriggio.
Accadde così: verso sera, Loretta andò da lei e le chiese di portare sua madre e sua sorella a conoscere Cadmus, che sarebbe partito quanto prima. Il vecchio si era unito ai festeggiamenti solo per il taglio della torta: era stato portato in giardino sulla sedia a rotelle e aveva fatto un breve ma sentito brindisi alla salute degli sposi. Poi era stato accompagnato in una zona ombrosa sul retro della casa, dove sarebbe stato più facile controllare il flusso costante delle persone che volevano rendergli omaggio. A quanto pareva, Cadmus aveva chiesto espressamente di conoscere la famiglia di Rachel già nel primo pomeriggio, ma solo adesso, alle nove di sera, la lunga coda di persone ansiose di stringergli la mano cominciava a diminuire. Era molto stanco, disse Loretta, avrebbero potuto intrattenersi con lui solo per pochi minuti.
Per la verità, secondo Rachel, Cadmus sembrava molto più in forze del giorno della sua festa di compleanno: era piuttosto in forma per essere un uomo di novantasei anni. Il suo volto era ancora bello, di una bellezza di altri tempi; invecchiando aveva assunto una sorta di grandeur scheletrica, la pelle così abbronzata da sembrare legno antico, gli occhi, infossati nelle orbite, simili a luccicanti pietre preziose. Parlava lentamente, con voce strascicata di tanto in tanto, ma aveva ancora più carisma di gran parte degli uomini presenti alla festa che avevano un quarto dei suoi anni, e sapeva benissimo come farne uso per impressionare l’altro sesso. Secondo Rachel, sembrava una vecchio divo del cinema, così adorato ai suoi tempi da credere ancora nella sua stessa magia. E quello era l’elemento più importante: la convinzione. Il resto erano soltanto ornamenti.
Loretta fece le presentazioni, poi tornò alla festa, lasciando re Cadmus in compagnia della sua corte.
“Volevo dirti quanto sono orgoglioso”, disse a Rachel, “di accogliere te, tua madre e tua sorella nella nostra famiglia. Se me lo concedete, vi trovo tutte veramente adorabili.” Cadmus passò il bicchiere di brandy che stava bevendo alla donna (un’infermiera, pensò Rachel) in piedi accanto alla sua sedia a rotelle, e prese la mano della sposa. “Devi perdonarmi, ho le dita gelate”, continuò. “La mia circolazione non è più quella di una volta. So quanto tu e Mitchell vi amate, e devo dirti che, secondo me, mio nipote è il più fortunato degli uomini. Ci sono così tante persone…” Si fermò per un attimo socchiudendo le palpebre. Poi trasse un profondo respiro, come se stesse attingendo a qualche riserva di energia sepolta, e quell’istante di fragilità passò. “Scusatemi”, proseguì. “Ci sono così tante persone, sai, che nella vita non proveranno mai il sentimento profondo che c’è tra te e Mitchell. Io l’ho provato una sola volta in vita mia.” Fece un breve sorriso malinconico. “Purtroppo, non è stato per nessuna delle due donne che ho sposato.” Rachel sentì Deanne alle sue spalle trattenere una risata. Si voltò a guardarla, accigliata, ma Cadmus non aveva perso il senso dell’umorismo. Il suo sorriso si allargò in un sogghigno malizioso. “In effetti, mia cara Rachel, tu somigli in modo straordinario alla signora che ho adorato. Così tanto che quando ti ho vista per la prima volta, ho pensato: io e Mitchell abbiamo gli stessi gusti in fatto di bellezza.”
“Posso chiederle chi era quella donna?” gli domandò Rachel.
“Sarò lieto di dirtelo. Anzi, farò di più. Verresti a trovarmi a casa la prossima settimana?”
“Naturalmente.”
“Ti mostrerò la donna che ho amato”, disse Cadmus a Rachel. “Sullo schermo, dove il tempo non può toccarla. E neanch’io, temo…”
“Non vedo l’ora.”
“Neanch’io…” sussurrò con voce più debole, adesso. “Bene, suppongo che ora dovrei lasciarvi tornare alla festa.”
“È stato un vero piacere conoscerla”, disse Sherrie.
“Il piacere è tutto mio”, rispose Cadmus. “Credetemi. Il piacere è tutto mio.”
“Non ci sono più uomini come lui”, commentò Sherrie mentre si allontanavano.
“Sembra che ti abbia davvero colpita”, disse Deanne.
“Ti dirò”, rispose sua madre, voltandosi a guardare Rachel, “se Mitchell è la metà dell’uomo che è Cadmus, non avrai niente di cui lamentarti.”
Il terzo e ultimo avvenimento di cui ho intenzione di parlarvi si verificò diverse ore dopo il tramonto, e fu l’unico che avrebbe potuto rovinare la gioia di quel giorno.
Lasciate che innanzitutto vi descriva la scena. La sera, come ho già detto, era dolce, e benché il numero degli ospiti lentamente fosse diminuito, molti si trattennero più a lungo del previsto a bere, a chiacchierare e a ballare. Anche se verso le nove e trenta il cielo prese a rannuvolarsi a nord-est, le lanterne appese agli alberi compensarono la mancanza di stelle; era come se ogni pianta avesse prodotto frutti luminosi che ondeggiavano dai rami. Era il momento adatto per sussurrare parole d’amore e, tra gli invitati più anziani, per rinnovare voti e fare nuove promesse. Sarò più gentile; sarò più premurosa; mi prenderò cura di te come facevo quando eravamo sposati da poco.
Nessuno si accorse di essere spiato. I controlli del servizio di sicurezza erano stati rigidissimi, ma ora che gran parte degli invitati più importanti avevano già lasciato la festa, l’attenzione delle guardie si era attenuata. Così nessuno notò i due fotografi che erano riusciti a scavalcare il muro a est della casa. I due non trovarono niente che i loro direttori avrebbero considerato interessante. Qualche ubriaco addormentato in giardino, ma niente di importante. Delusi, cominciarono ad aggirarsi per la festa nascondendo le macchine fotografiche sotto la giacca, finché non arrivarono al limitare della pista da ballo. Lì, decisero di dividersi.
Uno dei due — un uomo di nome Buckminster — si diresse al tendone principale, sperando di trovarvi almeno una celebrità in sovrappeso intenta a ingozzarsi. Il suo compagno, Penaloza, attraversò la pista da ballo, incamminandosi verso gli alberi.
Penaloza non vide nulla di promettente. Conosceva alla perfezione le regole sordide del suo mestiere. I lettori della rivista a cui sperava di vendere le sue fotografìe volevano solo vedere qualcuno di famoso commettere almeno uno — se non più d’uno — dei peccati capitali. La gola andava bene, l’avarizia anche; la lussuria e l’ira erano fantastiche. Ma lì non stava accadendo nulla di particolarmente peccaminoso, e Penaloza aveva deciso di provare a entrare in casa quando sentì la risata di una donna, poco lontano da lui. In quel suono c’era una certa misura di disagio che attirò subito la sua attenzione.
La risata risuonò ancora, e questa volta Penaloza riuscì a individuarne la fonte. E, oh mio Dio, poteva credere ai suoi occhi? Poco più in là, sotto un albero, c’erano Meredith Bryson, la figlia del senatore Bryson, ubriaca, con la camicetta slacciata e un’altra donna che le premeva il viso contro i seni.
Penaloza si affrettò a prendere la macchina fotografica. Quella sì che sarebbe stata una foto memorabile! Forse avrebbe potuto avvicinarsi ancora un po’, in modo da non lasciare dubbi sull’identità di Meredith. Con grande cautela, avanzò di qualche passo, pronto a scattare il più in fretta possibile e a darsela a gambe se fosse stato necessario. Ma le due donne erano completamente rapite l’una dall’altra; se la situazione si fosse riscaldata ulteriormente, la foto sarebbe stata impubblicabile.
Ormai non c’era più alcun dubbio sull’identità della giovane Bryson; non ora che aveva la testa gettata all’indietro in quel modo. Penaloza trattenne il fiato e scattò una foto. E un’altra ancora. Avrebbe voluto scattarne una terza, ma la seduttrice di Meredith ormai si era accorta di lui. Con una certa galanteria, si mise davanti alla giovane Bryson come per proteggerla, dando a Penaloza l’opportunità di scattarle una foto straordinaria, la camicia sbottonata fino alla vita. Il fotografo non rimase ad aspettare che la donna si mettesse a urlare.
“Via”, sogghignò; si voltò e si mise a correre. Ciò che accadde a quel punto lo confuse nel modo più assoluto. Invece di sentire le grida di una o di entrambe le donne, vi fu silenzio; il solo suono era quello dei suoi passi di corsa. E poi, all’improvviso, qualcuno lo afferrò per il colletto della camicia, lo fece girare su se stesso, e fu proprio lui a lanciare un grido quando il suo aggressore gli strappò di mano la macchina fotografica.
“Tu, pezzo dì merda!”
Era l’amante di Meredith, naturalmente; anche se doveva aver corso a una velocità soprannaturale per riuscire a raggiungerlo.
“Quella è mia!” esclamò lui, cercando di afferrare la macchina.
“No”, replicò la donna, e se la gettò alle spalle.
“Non toccarla!” gridò Penaloza. “Quella macchina fotografica è di mia proprietà. Se non vuoi che ti citi in tribunale.”
“Oh, sta’ zitto”, lo interruppe la donna, e lo colpì in pieno volto, così violentemente da fargli lacrimare gli occhi.
“Non puoi farlo”, protestò lui. “E una violazione del Quinto Emendamento.”
La donna lo colpì ancora. “Emenda questo”, disse.
Penaloza era un uomo relativamente morale. Non provava piacere nel colpire le donne, ma certe volte era una necessità. Sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime, finse un destro e assestò un sinistro alla mascella della donna. Quest’ultima lanciò un grido soddisfacente e arretrò barcollando, ma quasi subito, con grande sorpresa del fotografo, tornò ad avventarglisi contro con una forza tale da farli rotolare entrambi a terra.
“Gesù!” Penaloza sentì dire a qualcuno, e con la coda dell’occhio vide Buckminster in piedi a qualche metro da lui, impegnato a immortalare la scena.
Penaloza riuscì a liberare una mano e a indicare la macchina fotografica che era stata gettata nell’erba sul prato, non lontano dalla figlia del senatore. “Prendila!” gridò. “Buck! Testa di cazzo! Prendi la mia macchina fotografica!”
Ma era già troppo tardi. La figlia di Bryson si affrettò a raccogliere la macchina e Buckminster — che aveva deciso di aver già rischiato anche troppo — girò sui tacchi e si dileguò. Penaloza lottò per sfuggire alla morsa della donna, ma lei, seduta a cavalcioni sul suo petto, lo tenne inchiodato a terra. Il fotografo non riuscì a fare altro che gemere come un bambino mentre la donna chiamava Meredith Bryson in tono quasi distratto.
“Apri la macchina, tesoro.” Meredith obbedì. “Ora tira fuori la pellicola.”
Penaloza ricominciò a gridare; alcuni invitati si stavano avvicinando per scoprire la ragione di tutto quel chiasso. Se uno di loro fosse riuscito a impedire a Meredith di esporre la pellicola alla luce, avrebbe potuto ancora avere le sue prove. Troppo tardi! La giovane Bryson stava tirando fuori la pellicola.
“Soddisfatta?” ringhiò Penaloza.
La donna rimase appollaiata su di lui, a riflettere sulla domanda per un istante. “Non ti ha mai detto nessuno quanto sei adorabile?” disse poi. Allungò la mano verso l’inguine del fotografo e gli strinse i testicoli in una morsa. “Ti ha mai detto nessuno che meravigliosa, irresistibile specie di uomo sei?” Strinse più forte. Lui singhiozzò. “No?” insistette la donna.
“… no…
“Bene. Perché non è così. Sei un inutile pezzo di merda di topo.” Strinse di nuovo. “Che cosa sei?” Se in quel momento Penaloza avesse avuto una pistola avrebbe volentieri fatto saltare le cervella a quella puttana. “Che. Cosa. Sei?” ripeté la donna, strizzandogli i testicoli a ogni sillaba.
“Merda di topo”, sussurrò Penaloza.
La donna che aveva steso Penaloza non era altri che la mia adorata Marietta. E ormai probabilmente la conoscete abbastanza bene da sapere che fu molto fiera di se stessa. Quando tornò qui all’Enfant, raccontò tutto a me e a Zabrina fin nei minimi particolari.
“Ma comunque perché diavolo ci sei andata, in ogni caso?” ricordo che le chiese Zabrina.
“Volevo combinare un po’ di guai”, rispose Marietta. “Ma una volta che sono arrivata là e ho bevuto qualche bicchiere di champagne, avevo solo voglia di scopare. Così ho trovato quella ragazza. Non sapevo chi fosse.” Sorrise maliziosa. “E nemmeno lei lo sapeva, povero tesoro. Ma mi piace pensare di averla aiutata a scoprirlo.”
C’è un ultimo dettaglio che credo di dovervi riferire, e riguarda la successiva vita sentimentale della figlia del senatore.
Circa un anno dopo il matrimonio di Rachel e Mitchell, chi se non una radiosa Meredith Bryson apparve sulla copertina di People per annunciare il suo ingresso nella tribù di Saffo?
All’interno della rivista, c’era un’intervista di cinque pagine corredata da diverse fotografie della figlia del senatore. In una si trovava nella sua casa di Charleston; in un’altra, era nel giardino posteriore in compagnia dei suoi due gatti; e in una terza, era insieme alla sua famiglia a una cerimonia presidenziale, dove appariva terribilmente annoiata.
“Mi è sempre interessata la politica”, aveva dichiarato nell’intervista.
Il reporter si era affrettato a passare a qualche argomento più scottante. Quando si era resa conto di essere lesbica?
“Conosco un sacco di donne che dicono di averlo sempre saputo”, aveva risposto. “Ma onestamente non ho mai avuto il sospetto finché non ho incontrato la persona giusta.”
Poteva dire ai lettori chi era quella donna fortunata?
“No, in questo momento preferirei di no”, aveva risposto Meredith.
“L’ha mai portata alla Casa Bianca?”
“Non ancora. Ma lo farò, uno di questi giorni. Io e la First Lady ne abbiamo parlato e lei ha detto che la mia compagna sarà la benvenuta.”
L’articolo continuava per diverse pagine senza aggiungere un granché. Ma dopo quel riferimento a una visita alla Casa Bianca, non ho potuto fare a meno di immaginare Marietta e Meredith nella camera da letto di Lincoln, avvinghiate sotto il ritratto di Abramo. Quella sì che era una fotografia per cui i giornali sarebbero stati disposti a sborsare qualsiasi cifra.
Quanto a Marietta, non riuscii a farle dire molto altro sulla figlia del senatore. Mi chiedo comunque se a un certo punto il destino dell’Enfant e le vite segrete di Capitol Hill non si intrecceranno ancora una volta. Dopotutto, questa casa è stata costruita da un presidente. Non mi sento di sostenere che sia stato il suo capolavoro — quello è certamente la Dichiarazione d’Indipendenza — ma le radici dell’Enfant sono così vicine a quelle dell’albero della democrazia che non possono non intrecciarsi. E se, come disse una volta Zelim il Profeta, l’evoluzione di tutte le cose è come la Ruota delle Stelle e quello che sembra essere passato finisce per ritornare prima o poi, è così assurdo supporre che la rovina dell’Enfant possa essere causata o accelerata dallo stesso potere che l’aveva creato?
Così ora sapete come Rachel Pallenberg e Mitchell Geary diventarono marito e moglie — dal loro primo incontro ai voti pronunciati sull’altare. Conoscete il grande potere e l’immensa superbia della famiglia di cui Rachel era entrata a far parte; sapete che era profondamente innamorata di Mitchell e che i suoi sentimenti erano ricambiati.
Perché allora, vi starete chiedendo, una simile storia d’amore è finita miseramente? Perché, poco più di due anni più tardi, verso la fine di un ottobre piovoso, Rachel stava guidando per le tristi strade di Dansky, maledicendo il giorno in cui aveva sentito per la prima volta il nome di Mitchell Geary?
Se questa fosse un’opera di fantasia, potrei inventarmi qualche scenario drammatico per spiegarvi ogni cosa. Vi mostrerei Rachel che un giorno entra in casa sua e scopre il marito a letto con un’altra donna, oppure vi farei assistere a un litigio così tremendo da sconfinare nella violenza, oppure ancora vi narrerei di Mitchell che, in preda alla rabbia, le rivela di averla sposata solo per una scommessa con suo fratello. Ma non fu niente di tutto questo: nessun adulterio, nessuna violenza e nessun furioso litigio. Non era nella natura di Mitchell comportarsi in quel modo. Gli piaceva piacere, anche quando questo significava evitare un confronto che avrebbe fatto bene a tutti. E questo voleva dire chiudere un occhio sul disagio di Rachel, pur di non rischiare qualcosa di sgradevole. La sua empatia di un tempo, che era stata una delle ragioni per cui Rachel era rimasta incantata da Mitchell, finì per scomparire. Se lei era infelice, lui si limitava a distogliere lo sguardo. C’erano sempre gli affari della famiglia Geary a giustificare la sua mancanza di attenzioni; e c’erano sempre le inevitabili seduzioni del lusso ad ammorbidire la solitudine di Rachel quando lui non era con lei.
Sarebbe ingiusto dire che Rachel non fu in qualche modo complice della sua stessa infelicità. Ben presto si rese conto che la sua vita come moglie di Mitchell Geary non sarebbe stata emotivamente appagante come aveva sperato. Mitchell si dedicava anima e corpo agli affari di famiglia, affari in cui lei non aveva alcun ruolo, e Rachel si ritrovava sola molto più spesso di quanto avrebbe voluto. Invece di prendere da parte Mitch e discutere con lui del problema — dirgli, in sostanza, che voleva essere qualcosa di più di una moglie da sfoggiare in pubblico — lasciò che le cose seguissero il loro corso. E meno diceva, più difficile diventava parlare.
Comunque, come poteva sostenere che il matrimonio non funzionava quando agli occhi del mondo esterno le era stato servito il paradiso su un piatto d’argento? C’era forse un luogo al mondo dove non avrebbe potuto andare se lo avesse voluto? C’era forse un negozio in cui non poteva fermarsi finché non era stanca di dire lo prendo? Andavano a sciare ad Aspen, passavano i week-end nel Vermont in autunno per godersi i colori delle foglie. Andava a Los Angeles per la consegna degli Oscar e a Parigi per assistere alle sfilate. A Londra per il teatro e a Rio e a Bali per vacanze decise all’ultimo momento. Di cosa poteva lamentarsi?
L’unica persona a cui confidò la sua crescente infelicità era Margie, che però si dimostrò più fatalista che comprensiva.
“E un baratto”, le disse. “Ed è così da sempre. O almeno, è così dalla prima volta che un uomo ricco ha sposato una donna povera.”
Rachel si accigliò. “Io non sono…”
“Oh, tesoro.”
“Non è per questo che ho sposato Mitchell.”
“No, naturalmente no. Tu saresti comunque con lui anche se fosse brutto e povero, e io sarei con Garrison anche se si guadagnasse da vivere ballando il tip tap a un angolo di strada a Soho.”
“Io amo Mitchell.”
“Anche adesso?”
“Cosa vuoi dire?”
“Anche adesso, seduta qui, dopo che hai detto tutto quello che hai detto su come ti trascura e su come non vuole parlare dei suoi sentimenti, e così via, anche adesso, in questo momento, lo ami?”
“Oh, Signore…”
“Devo prenderlo come un forse?”
Ci fu una pausa mentre entrambe pensavano a ciò che Rachel stava provando in quel momento. “Non so che cosa provo”, ammise alla fine. “Il fatto è che lui non è… ”
“L’uomo che hai sposato?” Rachel annuì. Margie le riempì di nuovo il bicchiere di whisky e si sporse in avanti come per sussurrarle qualcosa, anche se nella stanza c’erano solo loro due. “Dolcezza, lui non è mai stato l’uomo che hai sposato. Ti ha solo dato il Mitchell che volevi vedere.” Tornò ad appoggiarsi allo schienale, facendo un gesto con la mano come per scacciare uno sciame di Geary fantasma. “Sono tutti uguali. Dio sa se è così.” Sorseggiò il whisky. “Sei libera di non credermi, ma Garrison può diventare la personificazione del fascino quando vuole. È una cosa che devono aver ereditato dal nonno.”
Rachel ripensò a Cadmus, come lo aveva visto al matrimonio, intento a dispensare charme come una benedizione.
“Se è tutta una messinscena”, disse, “dov’è il vero Mitchell?”
“Non lo sa più nemmeno lui. Se mai l’ha saputo. È tragico quando ci pensi. Tutto quel potere e tutto quel denaro, e non c’è nessuno che li usi.”
“Loro li usano continuamente”, obiettò Rachel.
“No”, disse Margie. “È il potere che usa i Geary. Loro non vivono. Nessuno di noi vive veramente. Facciamo solo finta.” Lanciò un’occhiata al suo bicchiere. “Bevo troppo, lo so. Mi sto rovinando il fegato e probabilmente ne morirò. Ma se non altro, quando ho buttato giù qualche whisky, non sono costretta a essere la moglie del signor Garrison Geary. Quando sono ubriaca, smetto di essere sua moglie e divento qualcuno che non vorrebbe conoscere. E questo mi piace.”
Rachel scosse la testa, disperata. “Se è così terribile”, chiese, “perché non te ne vai?”
“Non credere che non ci abbia provato. L’ho lasciato tre volte. Una volta sono stata via per cinque mesi. Ma… si finisce per abituarsi a un certo stile di vita.” Rachel sembrava più a disagio che mai. “Non ci vuole molto. Stammi a sentire, non mi piace vivere nell’ombra di Garrison, ma vivere senza le sue carte di credito mi piace ancora meno.”
“Potresti divorziare da lui e sistemarti bene, Margie. Potresti vivere in qualsiasi posto ti andasse di vivere, in qualsiasi modo ti andasse di vivere.”
Ora fu Margie a scuotere la testa. “Lo so”, mormorò. “Mi sto solo inventando delle scuse.” Prese la bottiglia di whisky e se ne versò un altro po’. “In realtà so che non me ne andrò perché in fondo in fondo non lo voglio fare. Forse quello che è rimasto della mia autostima si è perso nell’idea di far parte di una grande dinastia. Non lo trovi patetico?” Bevve un sorso di liquore. “Non fare quella faccia, tesoro. Solo perché io sono troppo in pezzi per andarmene, non significa che tu non lo possa fare. Quanti anni hai?”
“Ventisette.”
“Sei una bambina. Hai ancora tutta la vita davanti a te. Sai cosa dovresti fare? Dovresti dire a Mitchell che vuoi il divorzio, intascarti qualche milione di dollari e andartene in giro a vedere il mondo.”
“Non credo che vedere il mondo mi renderebbe felice.”
“D’accordo. E allora, cosa ti renderebbe felice?”
Rachel rimase a riflettere per un istante, e alla fine rispose: “Stare con Mitchell, come eravamo prima di sposarci”.
“Oh, Signore”, sospirò Margie. “Sai una cosa? Hai davvero un grosso problema.”
Parte del vecchio fascino di Mitchell ritornò, per quanto brevemente, quando parlò con Rachel dell’eventualità di avere dei bambini. Più di una volta raggiunse momenti di vero e proprio lirismo nel decantare le doti dei loro futuri figli: le femmine bellissime, i maschi immancabilmente forti. Voleva mettere su famiglia il prima possibile, e voleva che quella famiglia fosse numerosa. Rachel ebbe la sgradevole impressione che Mitchell volesse compensare la fertilità relativamente scarsa di Garrison (Margie aveva dato alla luce solo una figlia, Alexia, che ora aveva otto anni).
Ma fare l’amore con Mitchell era comunque bello, anche se quell’atto era al servizio della discendenza dei Geary e non del piacere puro e semplice. Quando Mitchell le era vicino, le mani sul suo corpo, le labbra contro le sue, Rachel ripensava a come si era sentita la prima volta che si erano toccati, al loro primo bacio. Come l’aveva fatta sentire speciale, preziosa.
Mitchell non era un amante straordinario. In effetti, Rachel era rimasta sorpresa da quanto fosse maldestro a letto, quasi timido. Certamente non si comportava come un uomo che aveva avuto relazioni con alcune delle donne più belle del mondo. Ma a Rachel piaceva la sua mancanza di raffinatezza sessuale. Prima di tutto, era simile alla sua, e poi era bello avere l’opportunità di imparare insieme come darsi piacere a vicenda. Tuttavia, anche quando dava il meglio di sé, non la lasciava mai del tutto appagata. Sembrava che Mitchell non capisse i ritmi del suo corpo; che non capisse quando voleva essere abbracciata teneramente e quando stretta con passione. Se Rachel tentava di esprimere a parole le sue necessità, Mitchell non faceva niente per nascondere il proprio disagio.
“Non mi piace quando parli in quel modo”, le disse una volta dopo aver fatto l’amore. “Forse sono solo un uomo antiquato, ma non penso che le donne dovrebbero parlare così. Non si addice…”
“A una signora?” chiese lei.
Lui era in piedi davanti alla porta del bagno e si stava annodando la cintura dell’accappatoio attorno alla vita. Cercò di evitare il suo sguardo e disse: “Già. Non si addice a una signora”.
“Io voglio solo poter dire quello che voglio, Mitch.”
“Intendi quando siamo a letto?” domandò lui.
“È vietato?”
Lui sospirò, esasperato. “Rachel… Te lo ripeto. Puoi dire quello che vuoi.”
“No, non posso”, ribatté lei. “Tu dici così ma non lo pensi sul serio. Sei pronto a sbranarmi se ti faccio un’osservazione.”
“Non è vero.”
“Lo stai facendo proprio in questo momento.”
“No. Sto solo dicendo che sono stato cresciuto in modo diverso da te. Quando sono a letto con qualcuno, non voglio che mi si diano ordini.”
Ora Mitchell stava cominciando a infastidirla. Rachel non era dell’umore giusto per mascherare l’irritazione. “Se pensi che il fatto che io ti chieda di scoparmi un po’ più forte…”
“Ecco che ricominci.”
“… significhi che ti sto dando un ordine, allora abbiamo un problema, perché…”
“Non voglio ascoltarti.”
“… e questo è parte del problema.”
“No, il problema è che ti esprimi in modo volgare.”
Lei si alzò dal letto. Era ancora nuda, ancora luccicante di sudore (era sempre lui il primo a volersi fare la doccia). La sua nudità sembrò intimidirlo. Era lo stesso corpo a cui si era unito solo dieci minuti prima, e ora sembrava incapace di guardarla al di sotto del collo. Per la prima volta Rachel pensò che si comportava in modo assurdo. Era stato arrogante qualche volta, e in altre occasioni infantile. Ma mai fino a quel momento aveva agito così. Era un uomo adulto e stava distogliendo gli occhi da lei come uno scolaretto nervoso. Se la cosa non fosse stata così triste, probabilmente Rachel avrebbe riso.
“Vediamo di capirci, Mitchell”, gli disse con voce rabbiosa. “Io non mi esprimo in modo volgare. Se ti è difficile parlare di sesso…”
“Non dare tutta la colpa a me.”
“Lasciami finire.”
“Ho già sentito abbastanza.”
“Non ho ancora finito.”
“Be’, io ho finito di ascoltarti”, tagliò corto lui dirigendosi verso la porta della camera da letto.
Lei si mosse per intercettarlo, sentendosi stranamente più forte grazie alla sua nudità. Si accorse del disagio di Mitchell per la sua mancanza di vergogna e questo accese una punta di esibizionismo in lei. Se voleva trattarla come una donnaccia, allora, maledizione, si sarebbe proprio comportata così e si sarebbe goduta il suo imbarazzo.
“Abbiamo finito di provare a fare un bambino, per stanotte?” gli chiese.
“Non ho intenzione di dormire con te, se è questo che mi stai chiedendo.”
“Più spesso lo facciamo”, gli fece notare Rachel, “più probabilità avremo di mettere al mondo un piccolo Geary. Lo sai questo, vero?”
“Al momento non mi interessa”, rispose Mitch, e se ne andò.
Fu solo quando ebbe fatto la doccia e si fu asciugata che arrivarono le lacrime. Fu un pianto particolarmente inutile, visto ciò che era appena successo. Ma Rachel si abbandonò alle lacrime per un po’. Poi si lavò la faccia e andò a letto.
Aveva dormito da sola per molti anni e non era mai stato un problema, si disse. Se avesse dovuto continuare a farlo per il resto della sua vita, ci avrebbe fatto l’abitudine. Non aveva intenzione di implorare nessuno pur di avere compagnia tra le lenzuola; nemmeno Mitchell Geary.
Per ironia della sorte, avevano concepito un figlio proprio la notte in cui Rachel si ritrovò a dormire da sola. Sette settimane dopo Rachel era seduta nello studio del dottor Lloyd Waxman, il medico di famiglia dei Geary, che le stava dando la buona notizia.
“Lei è in ottima salute, signora Geary”, annunciò Waxman. “Sono sicuro che andrà tutto bene. A proposito, sa dirmi se sua madre ha avuto gravidanze problematiche?”
“Che io sappia no.”
“Bene, anche questo è un buon segno.” Aggiunse quell’informazione ai suoi appunti. “Potrebbe passare di nuovo a trovarmi tra, diciamo, un mese?”
“Non devo fare niente nel frattempo?”
“Cerchi di evitare gli eccessi”, rispose Waxman scrollando leggermente le spalle. “È questo che dico di solito ai miei pazienti. Lei è una donna sana, non c’è alcuna ragione per cui questa gravidanza debba causarle qualche problema. Cerchi di non andare fuori città con Margie. O comunque, lasci che sia solo lei a bere. È la cosa che le riesce meglio. Mio Dio, probabilmente l’alcool finirà per ucciderla.”
Rachel aveva tentato di riconciliarsi con Mitchell una decina di giorni dopo la discussione in camera, ma lo strappo tra di loro non era stato del tutto ricucito. Lei non si sentiva tanto offesa dal litigio quanto insultata, e non aveva intenzione di prendersi in giro cercando di convincersi che Mitchell avesse cambiato idea. Come aveva detto allora, il suo atteggiamento era dovuto al modo in cui era stato cresciuto. Non si trattava di qualcosa che sarebbe scomparso nel giro di qualche notte.
Ma la notizia della sua gravidanza fu accolta con tanto entusiasmo da tutti che, almeno per qualche settimana, Rachel riuscì a non pensare al litigio. Tutti erano talmente felici, sembrava che fosse accaduto un miracolo.
“È solo un bambino”, confidò a Deborah un giorno.
“Rachel”, disse Deborah in tono di dolce rimprovero. “Sai benissimo che è molto più di questo.”
“E va bene, è un bambino Geary”, sospirò Rachel. “Ma, mio Dio, tutto questo entusiasmo! Mancano ancora sette mesi.”
“Quando ero incinta di Garrison”, disse Deborah, “Cadmus mi ha mandato fiori ogni giorno per gli ultimi due mesi della gravidanza, con un bigliettino su cui c’era scritto il numero di giorni che mancavano al parto.”
“Come un conto alla rovescia?”
“Esattamente.”
“Più cose scopro di questa famiglia, più mi sembra strana!”
Deborah sorrise, distogliendo lo sguardo.
“Che cosa significa?” si incuriosì Rachel.
“Cosa?”
“Quel sorriso.”
Deborah si strinse nelle spalle. “Oh, è solo che più invecchio più tutto mi sembra strano.” Era seduta sul divano vicino alla finestra e il sole splendeva, quel giorno; era quasi difficile riuscire a distinguere i suoi lineamenti. “Sai, tutti credono che le cose diventino più chiare col passare degli anni. Ma non è così. A volte mi ritrovo a guardare i volti di persone che conosco da moltissimo tempo e mi sembrano assolutamente misteriosi. Quasi alieni.” Fece una pausa, bevve un sorso di tè alla menta e guardò fuori dalla finestra. “Di cosa stavamo parlando?”
“Di quanto sono strani i Geary.”
“Mmm… E probabilmente io ti sembro la più strana di tutti.”
“No”, protestò Rachel. “Non intendevo questo.”
“Di’ quello che hai voglia”, ribatté Deborah, in tono ancora distratto. “Non fare caso a Mitchell.” Si voltò a guardare Rachel. “Mi ha detto che avete litigato. Onestamente, non posso biasimarti. Sa essere molto autoritario. Non è un tratto che ha ereditato da George, lo ha imparato da Garrison. E Garrison lo ha ereditato da Cadmus.” Rachel non fece commenti. “Mi ha confidato che avete discusso piuttosto animatamente.”
“Adesso è tutto a posto”, disse Rachel.
“È stata un’impresa convincerlo ad aprirsi. Ma Mitch sa che è inutile provare a nascondere qualcosa a sua madre.”
Rachel aveva la testa affollata da molti pensieri e ciascuno di essi richiedeva la sua attenzione. Primo: se Deborah non trovava strano il fatto che suo figlio le riferisse della loro discussione in camera da letto, allora forse era davvero strana quanto il resto della famiglia. Secondo: non poteva fare affidamento su Mitchell in materia di questioni intime. E, terzo: d’ora in avanti avrebbe preso sua suocera alla lettera e avrebbe detto qualsiasi cosa le fosse passata per la testa, per quanto sgradevole potesse essere. Era una Geary a tutti gli effetti, adesso. Avrebbe messo al mondo un nuovo membro del loro clan. E questo le dava potere.
Margie descrisse la situazione in modo ancora più preciso, quando le disse: “Il bambino ti darà modo di poter trattare con loro”. Certo, era una visione piuttosto cupa delle cose ma ormai Rachel aveva rinunciato al romanticismo. Era pronta ad accettare l’idea che il bambino che portava in grembo le avrebbe permesso di fare a modo suo.
Verso fine gennaio, in una di quelle giornate cristalline che rendono più sopportabili gli inverni artici di New York, Mitchell arrivò all’appartamento verso mezzogiorno e disse a Rachel di volerle mostrare qualcosa; poteva andare con lui? Proprio adesso? chiese lei. Sì, rispose Mitchell, proprio adesso.
Il traffico era particolarmente congestionato, anche per New York. Stava cominciando a nevicare e il cielo prometteva tempesta. Rachel ripensò a quel primo pomeriggio, a Boston. I marciapiedi coperti di neve e un principe alla porta. Sembrava passata un’eternità.
La loro destinazione era la Quinta Avenue, all’incrocio con l’Ottantunesima: un palazzo di cui Rachel aveva solo sentito parlare.
“Ti ho comprato una cosa”, disse Mitchell mentre salivano sull’ascensore. “Penso che dovresti avere un posto tutto tuo. Un posto da cui siano banditi tutti i Geary.” Sorrise. “Escluso me, naturalmente.”
Il suo regalo si trovava all’ultimo piano del palazzo: era un attico su due piani. Era stato arredato con gusto squisito, le pareti coperte di quadri di maestri dell’arte moderna, i mobili raffinati ma confortevoli.
“Ci sono quattro camere da letto, sei bagni e, naturalmente…” L’accompagnò alla finestra. “… la migliore vista d’America.”
“Oh, mio Dio”, Rachel non riuscì ad aggiungere altro.
“Ti piace?”
Come avrebbe potuto non piacerle? Quell’attico era meraviglioso, perfetto. Rachel non riusciva a immaginare quanto potesse essere costato creare un ambiente così lussuoso.
“È tutto tuo, tesoro”, disse Mitchell. “Letteralmente. L’appartamento e tutto quello che contiene è a tuo nome.” Si fermò alle sue spalle e osservò il rettangolo illuminato dalla neve di Central Park. “So che è difficile per te certe volte vivere all’interno di questa fottuta dinastia. È difficile anche per me.” La circondò con le braccia, appoggiandole le mani sul ventre. “Voglio che tu possa avere il tuo piccolo regno quassù. Se i quadri non ti vanno, vendili. Ho cercato di scegliere cose che avrebbero potuto piacerti, ma se vuoi vendile e compra qualcosa di tuo gusto. Ho messo un paio di milioni di dollari su un conto corrente separato a tuo nome, in modo che tu possa fare i cambiamenti che desideri. Prendi un tavolo da biliardo. Uno schermo gigante. Tutto quello che desideri. Sei tu a decidere, qui.” Le avvicinò la bocca all’orecchio. “Naturalmente spero che mi darai una copia delle chiavi, così potrò venire a giocare con te qualche volta.” Aveva la voce leggermente rauca e si muoveva dolcemente ma insistentemente contro di lei. “Ehi, tesoro?”
“Sì?”
“Possiamo giocare un po’?”
“Hai bisogno di chiedermelo?” disse lei, voltandosi a guardarlo. “Naturalmente.”
“Anche nelle tue condizioni così delicate?”
“Non sono delicata”, rispose Rachel, premendosi contro di lui. “Mi sento bene. Splendidamente.” Lo baciò. “Questo posto è straordinario.”
“Tu sei straordinaria”, disse Mitchell. “Più ti conosco, più m’innamoro di te. Ma dimostrartelo non è il mio forte, lo so. Quando sono con te, mi sento come un ragazzino.” Premette la bocca sul viso di Rachel. “Come un ragazzino molto, molto, molto eccitato. ”
Non c’era bisogno che glielo dicesse; era così duro contro di lei. E il suo volto pallido adesso era arrossato. “Posso mettertelo dentro?”
Cominciava sempre così: posso mettertelo dentro? Quando era stata arrabbiata con lui, aveva pensato a quella frase e si era resa conto di quanto fosse assolutamente ridicola. Ma in quel momento, la sua sciocca semplicità la persuase. Lei voleva dentro di sé quella cosa di cui Mitchell non riusciva nemmeno a dire il nome.
“In quale camera da letto?” chiese Rachel.
Fecero l’amore senza svestirsi completamente, su un letto così grande che avrebbe potuto essere lo scenario per un’orgia, con i suoi innumerevoli cuscini. Lui fu appassionato come non era mai stato prima, le sue mani e la sua bocca che continuavano a ritornare al ventre serico di Rachel. Era come se fosse eccitato dalla prova della sua fertilità; mormorava parole di adorazione sul suo corpo. Non durò più di quindici minuti, Mitchell non riuscì a trattenersi oltre. E quando ebbero finito, lui si alzò subito e andò a farsi una doccia. Poi scese al piano inferiore per fare qualche telefonata. Era in ritardo per la riunione, disse; Garrison lo avrebbe crocifisso.
“Prendo un taxi e lascio la limousine per te”, le disse. Si chinò su di lei per baciarla sulla fronte. Aveva i capelli ancora umidi.
“Cerca di non prendere freddo. C’è una bufera là fuori.”
Mitchell gettò un’occhiata oltre la finestra. La neve cadeva così fitta da oscurare quasi la vista del parco.
“Me ne starò al caldo”, la rassicurò. “Mi basterà pensare a voi due, sdraiati qui.”
Quando se ne fu andato, Rachel ripensò al movimento della sua erezione dentro di lei, come se fosse un fallo fantasma che continuava a scivolare dentro e fuori dal suo corpo. E ripensò anche al modo in cui Mitchell parlava quando era eccitato. Spesso la chiamava piccola, e quel pomeriggio non era stato diverso. Piccola, oh piccola, oh piccola, aveva detto mentre la penetrava. Ma ora, ripensando alla sua voce, lei ebbe l’impressione che stesse parlando al bambino che era dentro di lei; alla nuova vita che portava nel grembo. Piccola, oh piccola, oh piccola.
Non sapeva se sentirsi commossa o turbata, così decise di non essere nessuna delle due cose. Si avvolse nelle lenzuola e nella trapunta e dormì, mentre la neve si adagiava sul parco come una spessa coperta bianca.
Da quando ho scritto l’ultimo passaggio — per la precisione ieri pomeriggio — Luman è passato a trovarmi ben tre volte, cosa che mi ha distratto al punto che non sono riuscito a calarmi nello spirito giusto per continuare la mia storia. Per cui ho deciso di raccontarvi il succo delle mie distrazioni: in questo modo forse riuscirò a dimenticarle.
Più tempo passo con Luman, più mio fratello mi appare problematico. Dopo la nostra ultima conversazione, ha deciso — dopo anni di straniamento — che sono il suo migliore amico: qualcuno con cui fumare (ha già consumato una mezza dozzina dei miei avana), un confidente e, naturalmente, un collega scrittore. Come ho detto a Zabrina, si è messo in testa che collaborerò con lui alla stesura del testo definitivo sui manicomi. Non ho mai accettato una proposta simile, ma non ho il coraggio di infrangere il suo sogno; era chiaro che per lui era molto importante. Viene a portarmi strani appunti che ha preso (in effetti, non irrompe nella mia stanza come farebbe Marietta; resta ad aspettare in veranda fino a quando non distolgo gli occhi dal mio lavoro e lo invito a entrare) dicendomi dove dovremmo inserirli nel grande schema del suo libro. Ovviamente, ha già progettato tutto fin nei minimi particolari, perché mi dice: questo va nel capitolo Sette; oppure: questo va insieme alle storie su Bedlam, come se la sua visione fosse perfettamente chiara anche a me. Ma non è così. Prima di tutto, non mi ha spiegato che cosa sarà questo suo libro (anche se lui è convinto del contrario), e poi ho già un mio libro a cui pensare in questo momento. Non posso dedicarmi a due progetti contemporaneamente. Riesco a malapena a proseguire con ciò che sto scrivendo ora.
Forse avrei fatto meglio a dirgli chiaramente che non ho intenzione di collaborare con lui. Così mi avrebbe lasciato in pace e avrei potuto continuare a raccontarvi di Rachel. Ma era talmente entusiasta che non ho avuto il coraggio di deluderlo.
Ma non è questa l’unica ragione per cui non gli ho raccontato la verità, devo ammetterlo. Anche se Luman è una continua distrazione per me, la sua è una compagnia stranamente stimolante. Più tempo passa con me, più si sente a suo agio, più gli torna difficile tenere la conversazione su binari coerenti. Mentre mi sta spiegando qualche assurdo dettaglio del suo libro, di punto in bianco salta a un argomento completamente diverso, e poi ancora e ancora, come se nella sua stessa vita vi fosse più di un solo Luman e stessero tutti cercando di accaparrarsi l’uso della sua lingua. C’è Luman il pettegolo che ha un modo di fare estroverso e vagamente effeminato. C’è Luman il metafisico che pontifica fissando il soffitto. C’è Luman l’enciclopedia che d’improvviso comincia a parlare di diritto romano o di arte topiaria. (Alcune delle cose che mi ha raccontato quando è in questa fase sono assolutamente affascinanti. Prima che me ne parlasse lui, non sapevo che in alcune specie di iena la femmina è indistinguibile dal maschio, il clitoride grande come un pene, le labbra della vagina gonfie e cascanti come uno scroto. Nessuna meraviglia che Marietta si fosse affezionata alle iene. Né sapevo che i templi in cui Cesaria era stata adorata spesso erano anche tombe; e che i matrimoni sacri, gli heiros gamos, venivano celebrati proprio lì, tra i morti.)
E poi c’è Luman il trasformista che di colpo può cambiare completamente voce, come se fosse posseduto. Ieri notte, per esempio, ha interpretato Dwight così perfettamente che se avessi chiuso gli occhi non sarei stato capace di distinguerlo dall’originale, e più tardi ancora, mentre stava per andarsene, ha parlato con la voce di Chiyojo, citando un passo di una poesia scritta da mia madre:
“Il mio Salvatore è il più diligente;
Mi ha segnata nel suo libro
Enumerando i miei torti,
E nelle sue pagine sono al sicuro.
Solo Colui Che Cadde
Ci vuole perfetti;
Perché allora non avremo più bisogno dette cure degli angeli”.
Potete immaginare che strana sensazione sia stata: la voce di mia moglie ancora chiaramente giapponese, che recitava un pensiero nato nel cuore di mia madre. Le due donne più importanti della mia vita che emergevano dalla gola di quell’uomo confuso e dallo sguardo selvaggio. Nessuna meraviglia che questo mi abbia distratto dal mio lavoro.
Ma le parti più strane di questi incontri sono altre, quelle in cui la conversazione sconfina nel metafisico. Luman, evidentemente, ha riflettuto a lungo sui paradossi della nostra condizione: una famiglia di divinità (nel mio caso, una semidivinità) che si nasconde da un mondo che non ci vuole più o non ha più bisogno di noi.
“La divinità non significa niente di niente”, mi ha detto. “Serve solo a farci impazzire.”
Io gli ho chiesto perché. (Non ho messo in dubbio la sua affermazione. So che ha ragione: tutti i Barbarossa sono un po’ pazzi.) Lui mi ha risposto che siamo soltanto dèi minori.
“Non siamo molto meglio della gente che vive là fuori, se ci pensi bene”, ha continuato. “Certo, viviamo più a lungo. E conosciamo qualche trucco. Ma niente di molto profondo. Non possiamo creare le stelle. Né possiamo distruggerle.”
“Nemmeno Nicodemus?” gli ho chiesto.
“Nah. Nemmeno lui. Ed era uno dei Primi Creati. Come lei.” Ha indicato il soffitto, in direzione delle stanze di Cesaria.
“ ‘Due anime vecchie come il paradiso…’ ’
“Chi lo ha detto, questo?”
“Io”, ho risposto. “È una frase del mio libro.”
“Niente male.”
“Grazie.”
Luman è rimasto in silenzio per qualche istante. Forse stava riflettendo sul mio stile, ma no, la sua mente come una cavalletta era già saltata a qualcos’altro; o meglio, era saltata indietro, tornando alla nostra problematica divinità.
“Credo che vediamo troppo lontano”, ha detto. “Siamo incapaci di vivere nel presente. Guardiamo sempre oltre i confini delle cose. Ma non siamo potenti abbastanza da riuscire a vederle veramente.” Ha ringhiato come un cane rabbioso. “È così fottutamente frustrante non essere né l’una né l’altra cosa.”
“Cioè?”
“Se fossimo veri dèi… voglio dire, quello che dovrebbero essere gli dèi, non ce ne staremmo certo qui a sprecare il nostro tempo. Saremmo da qualche parte là fuori, e avremmo ancora molto da fare.”
“Non intendi nel mondo, vero?”
“No. Si fotta il mondo. Voglio dire là fuori, al di là di ciò che chiunque su questo pianeta abbia mai visto o sognato di vedere.”
Ho pensato a Galilee. Era forse possibile che la stessa fame di cui stava parlando Luman — forse inarticolata, ma non per questo meno ardente — avesse spinto Galilee ad attraversare l’oceano sulla sua piccola barca, sfidando tutto ciò che conosceva, eppure senza sentirsi mai abbastanza lontano dalla terra o da casa?
Quelle riflessioni hanno messo Luman di umore malinconico, e d’improvviso ha detto di non volerne più parlare e se n’è andato. Ma verso l’alba, o poco dopo, è tornato a farmi visita per la terza volta. Non penso che avesse dormito. Probabilmente aveva continuato a vagare, immerso nei suoi pensieri.
“Ho preso qualche altro appunto”, mi ha detto, “per il capitolo su Cristo.”
“C’è anche Cristo nel tuo libro?” ho domandato.
“Deve esserci. Deve esserci”, ha risposto Luman. “Ci sono dei forti legami familiari.”
“Ma noi non apparteniamo alla stessa famiglia di Gesù, Luman”, ho obiettato. Poi, dubitando delle mie stesse parole: “O sì?”
“Nah. Ma anche lui era un pazzo, proprio come noi. Solo che gliene importava più di quanto abbia mai importato a noi.”
“Di cosa?”
“Di loro”, ha risposto Luman. “Dell’umanità. Del fottuto gregge. La verità è che non siamo mai stati dei pastori. Eravamo cacciatori. O almeno, lei lo era. Credo che a Nicodemus invece piacesse la vita domestica. Allevare cavalli. Era un ranchero, in fondo al cuore.” Ho sorriso a quelle sue ultime parole. Era vero. Nostro Padre, il costruttore di recinti.
“Forse avremmo dovuto curarci di più di loro”, ha continuato Luman. “Avremmo dovuto cercare di amarli, anche se loro non ci hanno mai amato.”
“Nicodemus li amava”, ho ribattuto. “Le donne, se non altro.”
“Ci ho provato”, ha detto Luman. “Ma poi muoiono, proprio quando cominci ad abituarli ad averle intorno.”
“Hai dei figli là fuori?” gli ho chiesto.
“Oh certo, ho dei bastardi.”
Non avevo mai pensato fino a quel momento che il nostro albero genealogico potesse avere rami ancora misteriosi. Ho sempre dato per scontato di conoscere tutto il clan dei Barbarossa. Ma evidentemente non era così.
“E sai dove si trovano?” ho domandato.
“No.”
“Ma potresti rintracciarli.”
“Suppongo di sì…”
“Se sono come me, sono ancora vivi. Invecchiano lentamente ma…”
“Oh certo, sono ancora vivi.”
“E non sei curioso di conoscerli?”
“Certo che lo sono”, ha risposto lui, con voce più aspra. “Ma riesco a malapena a restare sano di mente quando sono là, nella mia Casa del Fumo. Se uscissi a cercare i miei figli, sarei tormentato dai ricordi delle donne che mi sono portato a letto, e perderei anche quel poco equilibrio che mi è rimasto.” Ha scosso la testa con violenza, come per scrollarsi di dosso la tentazione.
“Forse… se mai me ne andrò di qui…” ho cominciato. Lui ha smesso di scuotere la testa e ha alzato lo sguardo su di me. Di colpo i suoi occhi hanno cominciato a luccicare: di lacrime ma, credo, anche di speranza. “Forse potrei cercarli per te…” ho continuato.
“Cercheresti i miei figli?”
“Sì.”
“Lo faresti davvero?”
“Sì. Naturalmente. Sarebbe… un onore.”
“ ‘Oh, fratello”, ha detto Luman. “Ma ci pensi? I miei figli.” La sua voce è diventata un sussurro rauco. “I miei figli.” Mi ha preso la mano; il suo palmo era elettrico contro il mio, come se l’agitazione gli stesse fuoriuscendo dai pori della pelle. “E quando lo faresti?” ha voluto sapere.
“Oh… be’… non potrei andarmene prima di aver finito il libro.”
“Il mio libro o il tuo?”
“Il mio. Il tuo dovrà aspettare.”
“Nessun problema. Nessun problema. Posso sopportarlo. E poi se sapessi che stai per riportarmi…” Non è riuscito a concludere la frase; era troppo emozionato. Mi ha lasciato andare la mano e si è coperto gli occhi. Le lacrime gli scorrevano sulle guance ora, e i suoi singhiozzi erano così forti che probabilmente lo hanno sentito tutti quelli che erano in casa. Alla fine si è ripreso abbastanza da riuscire a dire: “Ne parleremo ancora un’altra volta”.
“Quando vuoi”, gli ho detto.
“Sapevo che la nostra amicizia aveva uno scopo. Sei un grand’uomo, Maddox. E io non scelgo mai le parole a casaccio. Un grand’uomo.”
Dopodiché è uscito in veranda e si fermato solo un attimo per rubarmi l’ennesimo sigaro. Poi si è voltato. “Non so se questa informazione abbia una qualche utilità, ma ora che mi fido penso che dovrei dirtelo.”
“Che cosa?”
Luman ha cominciato a grattarsi la barba nervosamente, di colpo angosciato. “Ora penserai che sono davvero pazzo.”
“Coraggio, dimmi.”
“Be’… Ho una teoria. Su Nicodemus.”
“Sì?”
“Non credo che la sua morte sia stata un incidente. Penso che sia stato lui a organizzato tutto.”
“E perché mai avrebbe fatto una cosa simile?”
“Così avrebbe potuto fuggire da lei. Dalle sue responsabilità. So che può essere difficile per te sentire queste cose, fratello, ma credo che la presenza di tua moglie gli abbia fatto tornare in mente i bei vecchi tempi. Voleva un po’ di figa umana. E così ha dovuto andarsene.”
“Ma lo hai sepolto tu stesso, Luman, e io l’ho visto morire, proprio davanti ai miei occhi. Ero a terra, sotto gli stessi zoccoli che lo hanno ucciso.”
“Un cadavere non dimostra niente”, ha ribattuto Luman. “Lo sai. Ci sono modi di uscire, basta conoscerli. E se c’è qualcuno al mondo che li conosceva…”
“… quel qualcuno era lui.”
“Un imbroglione figlio di puttana, ecco chi era nostro padre. Imbroglione sessuomane.” Ha smesso di grattarsi la barba e ha scrollato le spalle, come per scusarsi. “Mi dispiace, forse è doloroso per te pensare a queste cose, ma…”
“No. Va benissimo.”
“Dobbiamo cominciare a essere onesti in questa casa, secondo me. Bisogna smetterla di fingere che fosse un santo.”
“Io non l’ho mai fatto, credimi. Ha preso mia moglie.”
“Vedi?” ha detto Luman. “Stai mentendo a te stesso. Lui non ti ha portato via Chiyojo. Sei stato tu a lasciargliela, Maddox.” Notando l’espressione rabbiosa nei miei occhi, ha esitato per un istante. Ma poi ha deciso di tenere fede al suo proposito e di dire la verità, per come la vedeva, per quanto sgradevole potesse essere. “Avresti potuto impedirlo, nel momento in cui la cosa stava succedendo tra loro. Avresti potuto andartene nel cuore della notte con lei e lasciare che lui si raffreddasse. Ma sei rimasto. Ti sei accorto che le aveva messo gli occhi addosso, e sei rimasto, anche se sapevi che lei non sarebbe stata in grado di dirgli di no. Sei stato tu a lasciargliela, Maddox, perché volevi che lui ti amasse.” Ha abbassato lo sguardo. “Non posso biasimarti. Probabilmente avrei fatto lo stesso al posto tuo. Ma non pensare di poterti staccare da tutto questo e restare a guardare. Sei immerso nella merda tanto quanto lo siamo noi altri.”
“Faresti meglio ad andartene”, ho replicato con calma.
“Me ne vado, me ne vado. Ma rifletti su quello che ti ho detto. Ti accorgerai che è la verità.”
“Non tornare per un po’ ”, ho aggiunto. “Perché non sarai il benvenuto.”
“Aspetta, Maddox.”
“Vattene”, gli ho intimato. “Cerca di non peggiorare le cose.”
Mi ha rivolto un’espressione addolorata. Ovviamente, si stava pentendo di ciò che aveva appena detto; con poche parole aveva distrutto la fiducia reciproca che avevamo instaurato da poco. Ma sapeva che sarebbe stato inutile cercare di rimediare. Ha distolto lo sguardo triste da me, si è voltato e se n’è andato.
Cosa posso dire della terribile accusa che mi ha mosso Luman? Molto poco, mi sembra. Ho riferito il più onestamente possibile i punti salienti delle nostre conversazioni, e tornerò a parlarne anche più avanti, quando avrò una visione più obiettiva delle cose. Probabilmente è inutile che vi dica che non sarei stato così distratto da tutto questo, e che non avrei sentito il bisogno di raccontarlo come ho appena fatto, se non pensassi che c’è qualcosa di vero nelle sue parole. Ma ammetterlo è tutt’altro che facile, per quanto possa sforzarmi di essere onesto con me stesso e con voi. Se credessi all’interpretazione di Luman, allora la colpa della morte di Chiyojo sarebbe mia; così come quella delle mie stesse ferite e degli anni di solitudine e dolore che ho trascorso seduto qui. È difficile accettare tutto questo e non sono sicuro di esserne in grado. Ma vi garantisco che se riuscirò a scendere a patti con questo sospetto, le pagine che state leggendo saranno le prime a saperlo.
Basta così. È tempo di tornare alla storia di Rachel e Mitchell Geary. Tra non molto, vi saranno grandi sofferenze. Molte pagine fa vi ho promesso di parlarvi di disperazioni così profonde da farvi sentire un po’ più felici di ciò che avete. Be’, adesso sono io ad avere bisogno del conforto delle lacrime altrui.
Il lunedì dopo il regalo di Mitchell, Rachel si svegliò con il peggior mal di testa della sua vita, così doloroso da annebbiarle la vista. Prese un’aspirina e tornò a letto, ma il dolore continuava a tormentarla, così telefonò a Margie che le disse che sarebbe stata da lei il prima possibile e che l’avrebbe portata dal dottor Waxman. Quando arrivarono allo studio, Rachel ormai stava tremando per il dolore: non solo per il mal di testa ma anche per gli spasmi terribili che le squassavano lo stomaco. Waxman era molto preoccupato.
“La farò subito ricoverare al Mount Sinai”, le disse. “C’è un certo dottor Hendrick là, è straordinario; voglio che la visiti il prima possibile.”
“Che cos’ho?” chiese Rachel.
“Niente di grave, mi auguro. Ma non voglio correre rischi.”
Nonostante la nebbia di dolore che l’avvolgeva, Rachel riuscì a percepire l’ansia nella voce del medico.
“Non sto per perdere il bambino, vero?” chiese.
“Faremo tutto il possibile.”
“Non posso perdere il bambino. ”
“In questo momento la cosa più importante è la sua salute, Rachel”, disse Waxman. “E nessuno è più in gamba di Gary Hendrick, mi creda. È in ottime mani.”
Un’ora più tardi, Rachel era in una camera privata del Mount Sinai. Hendrick andò a visitarla e le comunicò con estrema calma che c’erano alcuni segni preoccupanti — la pressione sanguigna troppo alta, una piccola emorragia — e che l’avrebbe tenuta sotto stretta osservazione. Le aveva somministrato un antidolorifico che ora stava cominciando ad agire. Deve solo riposarsi, le disse; ci sarà sempre un’infermiera qui con lei, se avrà bisogno di qualcosa dovrà solo chiedere.
Nel frattempo, Margie si era messa in cerca di Mitchell, e quando Hendrick se ne andò, informò Rachel che non era ancora riuscita a rintracciarlo ma che la sua segretaria le aveva detto che probabilmente era a un incontro d’affari e che avrebbe chiamato molto presto.
“Andrà tutto bene”, la consolò Margie. “Ogni tanto a Waxman piace essere melodrammatico. Lo fa sentire importante.”
Rachel sorrise. L’antidolorifico le faceva sentire le braccia, le gambe e le palpebre sempre più pesanti. Tuttavia resistette alla tentazione di dormire. Non era certa di come si sarebbe comportato il suo corpo in sua assenza.
“Mio Dio”, disse Margie, “questo è veramente strano per me.”
“Che cosa?”
“È l’ora del cocktail e non sto bevendo il mio cocktail.”
Rachel sogghignò. “Waxman dice che dovresti smettere.”
“Dovrebbe provare a essere sposato con Garrison e restare sobrio”, scherzò Margie.
Rachel aprì la bocca per replicare ma proprio in quell’istante una strana sensazione le riempì la gola, come se di colpo avesse inghiottito qualcosa. Si portò una mano alla gola e dalle labbra le sfuggì un grido spaventato.
“Che cosa c’è, tesoro?” volle sapere Margie.
Ma Rachel non riuscì a sentirla; un suono fragoroso le riecheggiava nella testa, come se una diga fosse crollata tra le sue orecchie. Con la coda dell’occhio vide l’infermiera alzarsi in piedi, un’espressione allarmata sul viso. Poi il suo corpo fu scosso da convulsioni così violente che quasi cadde dal letto. Rachel aveva già perso i sensi, quando gli spasmi cessarono.
Mitchell arrivò al Mount Sinai alle otto meno un quarto. Quindici minuti prima, Rachel aveva perso il bambino.
Quando Rachel si sentì abbastanza in forze da mettersi seduta e parlare — ci vollero otto o nove giorni — Waxman andò a farle visita e con i suoi modi gentili e paterni le spiegò che cos’era successo. Si era trattato di un caso di eclampsia, una condizione piuttosto rara; le cause non erano ancora note ma si dimostrava spesso fatale sia per la madre sia per il bambino. Era stata fortunata. Naturalmente, la perdita del bambino era una tragedia ed era profondamente addolorato, ma aveva parlato con Hendrick che gli aveva assicurato che Rachel stava riacquistando le forze ogni giorno di più e che ben presto avrebbero potuto dimetterla. Se avesse voluto conoscere altri dettagli su quanto le era capitato, sarebbe stato felice di spiegarglieli approfonditamente. Nel frattempo, il suo compito era uno solo: lasciarsi alle spalle quel tragico evento.
Quella spiegazione medica non significava molto per Rachel, e a dire il vero non ci credeva più di tanto. Qualunque cosa le raccontassero i dottori, Rachel aveva una sua teoria su quanto era accaduto: semplicemente il suo corpo si era rifiutato di generare un Geary. Il suo sé più profondo aveva mandato un messaggio al suo grembo, e il suo grembo al suo cuore, e insieme avevano cospirato per sbarazzarsi del bambino. In altre parole, era colpa sua se il piccolo era morto prima ancora di venire alla luce. Se solo fosse stata in grado di amarlo, il suo corpo avrebbe saputo difenderlo. Era stata colpa sua. Solo colpa sua.
Non parlò con nessuno di quella sua convinzione. Quando lasciò l’ospedale dopo due settimane di convalescenza, Mitch le propose di parlare con un terapeuta per riuscire a superare il trauma.
“Waxman mi ha detto che per un po’ le cose non saranno facili per te”, spiegò. “È come perdere qualcuno che si ama anche se non lo conoscevi ancora. Dovresti parlarne, sarà più facile superarlo.”
Rachel non poté fare a meno di notare che, per Mitch, tutto quello che era accaduto riguardava solo lei: era lei a soffrire, era lei ad aver perso il bambino, non lui. E tutto questo, da un punto di vista irrazionale, sembrava supportare la sua tesi. Mitch sapeva che cosa aveva fatto; probabilmente la odiava.
Comunque Rachel si rifiutò di parlare con un terapeuta: quel lutto era solo suo e non lo avrebbe diviso con nessuno. Forse sarebbe servito a riempire il vuoto lasciato dal bambino.
Non le mancarono le visite. Sherrie venne dall’Ohio il giorno dopo la morte del bambino e non lasciò quasi mai l’ospedale per tutto il periodo del suo ricovero. Deborah e Margie andavano e venivano. Persino Garrison andò a trovarla, anche se era talmente a disagio che alla fine Rachel gli disse che avrebbe fatto meglio ad andarsene. Lui fu felice di accettare quel consiglio e le promise che sarebbe tornato il giorno dopo. Ma naturalmente non tornò, e Rachel ne fu felice.
“Dove vuoi andare quando uscirai di qui?” le chiese Mitchell dopo una decina di giorni. “Vuoi stare nel tuo attico o stare da Margie per un po’?”
“Sai dove vorrei andare?” gli disse lei.
“Dimmi e sarà fatto.”
“Nella casa di George.”
“A Caleb’s Creek?” La guardò perplesso, chiedendosi perché avesse scelto proprio quel luogo. “È così lontano dalla città.”
“È questo che voglio”, rispose lei. “Non me la sento di ricevere visite in questo momento. Voglio solo… nascondermi per un po’. Riflettere su quello che è successo.”
“Non pensarci troppo”, disse Mitchell. “Non ti farà bene. Il bambino non c’è più, e niente può riportarlo in vita.”
“Era un maschio…?” chiese lei a bassa voce. Si era trattenuta dal domandarlo, anche se Waxman si era detto pronto a risponderle se solo avesse voluto saperlo.
“Sì”, rispose Mitchell, “era un maschio. Pensavo che lo sapessi.”
“Avevamo dei nomi migliori per un maschio che per una femmina”, mormorò Rachel, sentendosi prossima alle lacrime. “A te piaceva Laurence, giusto?”
“Rachel, non fare così…”
“A me piaceva Mackenzie.”
“Ti prego. Mio Dio. Rachel.”
“Il guaio di Mackenzie… è che tutti…” Non riuscì più a trattenere il pianto “… lo avrebbero chiamato Mac…”
Si mise una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Ma non ci riuscì. “A lui non sarebbe piaciuto Mac”, pianse, cercando un fazzoletto per asciugarsi gli occhi.
In quel momento, alzò lo sguardo su Mitchell. Lui si era voltato, ma Rachel riuscì comunque a vedere il suo viso straziato dal dolore, il corpo scosso dai singhiozzi. Sentì un’improvvisa ondata d’amore per lui.
“Oh, mio povero tesoro”, disse lei.
“Scusami. Non dovrei.”
“No. Tesoro. No.” Aprì le braccia per stringerlo. “Vieni qui.” Mitchell scosse la testa e non si girò verso di lei. “Non devi vergognarti. Piangere fa bene.”
“No. No, non voglio… Non voglio piangere. Voglio essere forte, per tutti e due.”
“Ti prego, vieni qua”, ripeté lei.
Riluttante, Mitch si voltò verso di lei. Aveva il volto umido e arrossato, il mento tremante. “Oh Dio, oh Dio, oh Dio. Perché è successa una cosa del genere? Non abbiamo fatto niente per meritarcelo.”
Sembrava un bambino che era appena stato punito senza sapere il perché. Un bambino che piangeva tanto per l’ingiustizia della sua sofferenza quanto per la sofferenza stessa.
“Lascia che ti stringa”, sussurrò lei. “Ho bisogno di abbracciarti.”
Lui le si avvicinò e lei lo strinse a sé. Mitch sapeva di sudore vecchio, e anche la sua acqua di colonia aveva un odore aspro.
“Perché?” singhiozzò. “Perché? Perché?”
“Non so perché”, rispose Rachel. In quel momento il suo stesso senso di colpa le sembrò orribilmente inutile. Mitchell aveva sofferto in silenzio per tutto il tempo, e lei aveva semplicemente scelto di non accorgersene. Ma adesso, guardandolo attraverso le lacrime, lo vedeva più chiaramente di quanto lo avesse visto da molte settimane a quella parte: i capelli grigi sulle tempie, le occhiaie profonde, le labbra screpolate.
“Povero caro…” mormorò, e gli baciò la fronte.
Lui le premette il volto sul seno, ed entrambi continuarono a singhiozzare, cullandosi a vicenda.
Da quel momento in poi le cose cominciarono a migliorare. Rachel in fondo non era sola col suo dolore. A modo suo, Mitchell soffriva quanto lei e quel fatto le era di conforto. In ospedale non fu l’ultima volta in cui piansero insieme — in molte altre occasioni capitò che qualcuno dicesse qualcosa che coglieva uno dei due con la guardia abbassata, e anche gli occhi dell’altro si riempivano subito di lacrime. Ma attorno a Rachel non c’era soltanto oscurità assoluta; si cominciava a intravedere la possibilità che presto o tardi la sua tristezza sarebbe sfumata e che avrebbe ricominciato a vivere.
Non avrebbe più potuto avere bambini; il dottor Waxman era stato assolutamente chiaro su quel punto. Se, per qualche sfortunato incidente, Rachel fosse rimasta di nuovo incinta, avrebbe dovuto abortire il prima possibile per evitare che il suo corpo fosse sottoposto a un’eccessiva quantità di stress.
“Sono così fragile?” domandò lei al dottore quando le ebbe spiegato la situazione. “Non mi sento affatto fragile.”
“È vulnerabile, diciamo così”, rispose Waxman. “In ogni altro aspetto della vita, può vivere un’esistenza perfettamente normale. Ma quanto ad avere figli…” Scrollò le spalle. “Certo, comunque ne potrà sempre adottare.”
“Non so se i Geary approverebbero.”
Lui inarcò un sopracciglio. “Forse in questo momento è ancora troppo sensibile”, disse. “Il che è del tutto normale, date le circostanze. Ma credo che se chiedesse a Mitch o a sua madre o persino al vecchio Cadmus cosa ne pensano, rimarrebbe sorpresa nello scoprire quanto possono essere aperti all’idea dell’adozione. E in ogni caso non deve pensarci adesso. Ora deve solo prendersi cura di se stessa. Mitch mi ha detto che si trasferirà per un po’ nella casa di suo padre.”
“Mi piacerebbe molto.”
“È una regione bellissima. Non mi dispiacerebbe trasferirmi da quelle parti quando andrò in pensione. A mia moglie non importava, ma adesso è morta…”
“Oh, mi dispiace. È successo di recente?”
Il sorriso di Waxman era scomparso. “L’anno scorso”, rispose. “Aveva il cancro.”
“Mi dispiace molto.”
Il dottore sospirò; un sospiro triste. “Non credo che abbia voglia di sentire il suo vecchio medico raccontarle banalità, ma lasci che le dica questo: si vive solo una volta, Rachel, e nessuno può vivere al posto nostro. Questo significa che deve pensare bene a quello che vuole. Una porta si chiude, e questo è uno choc terribile. Ma ci sono molte altre porte, specialmente per una donna nella sua posizione.” Si chinò in avanti, facendo scricchiolare il cuoio della sua poltrona. “Deve fare una cosa per me.”
“Che cosa?”
“Deve promettermi che non finirà come Margie. Sono anni che la vedo scavarsi la fossa bicchiere dopo bicchiere, senza poterci fare niente.” Gli sfuggì un altro sospiro addolorato. “Mi dispiace. Ora è meglio che chiuda il becco.”
“No…” mormorò Rachel. “Mi fa piacere ascoltarla.”
“Una volta non ero così incline alla malinconia. Ma da quando Faith mi ha lasciato, vedo le cose in modo diverso. Sa, sono stato con lei per quarantanove anni. Quando l’ho conosciuta ne aveva sedici. Così, ho visto tutta una vita passare e andarsene. E questo mi ha portato a pensare a certe cose in modo diverso.”
“Sì…”
“Dopo la morte di Faith ho detto a un mio collega che mi sentivo come se fossi stato catapultato nello spazio, come se stessi guardando tutto ciò che mi era sembrato così eterno solo per rendermi conto che non vedevo altro che una fragile roccia blu in tutto quel… niente.” Lo sguardo gli si svuotò, mentre parlava; e quando sollevò di nuovo gli occhi su Rachel, lei ebbe l’impressione di poter vedere dentro di lui, dentro una solitudine terrorizzante.
“Cerchi solo di essere felice”, le disse dolcemente. “Lei è una brava persona, Rachel. Ne sono certo. E merita di essere felice. Per cui faccia ciò che l’istinto le dice di fare, e se i Geary non sono d’accordo, se ne vada per la sua strada.” Quelle parole le tolsero il fiato. “Naturalmente se riferirà a qualcuno quel che le ho appena detto, negherò tutto. Spero che Cadmus mi regali un piccolo pezzo di terra quando me ne andrò in pensione, per essermi preso cura dei suoi figli e dei suoi nipoti in tutti questi anni.”
“Metterò una buona parola per lei”, gli promise Rachel.
Ci sono occasioni in cui la responsabilità di un narratore e quelle di un semplice testimone finiscono per contraddirsi a vicenda. Per esempio, se vi avessi detto fin dal primo momento che la ragione principale della separazione di Mitch e Rachel fu la morte del loro bambino, avrei privato di ogni suspense i capitoli precedenti. Ma non credo di aver distorto i fatti. Ho cominciato questa parte del mio racconto dicendovi che non vi fu un unico evento tragico alla base della fine del loro matrimonio, e sono ancora convinto di questo. Se il bambino fosse sopravvissuto, forse Rachel sarebbe rimasta con Mitchell ancora un po’, ma presto o tardi lo avrebbe lasciato. Il loro matrimonio era nei guai prima della gravidanza, e il solo effetto che ebbe la morte del bambino fu quello di accelerarne il crollo.
Mitchell accompagnò Rachel alla proprietà di Caleb’s Creek e rimase con lei per quasi dieci giorni, recandosi in città tre o quattro volte per partecipare ad alcune riunioni e tornando sempre la sera per stare con lei. Benché i Rylander fossero pronti a provvedere a tutte le necessità di Rachel, Barbara disse a Mitch che Rachel si occupava di quasi tutte le incombenze da sola. Era vero. L’atmosfera accogliente della casa — la mancanza di opere d’arte, la grandezza non eccessiva — fece emergere il lato domestico della sua natura. Usurpò la cucina che era stata il regno di Barbara e cominciò a cucinare. E un giorno disse a Mitchell di essersi resa conto che da quando si erano sposati non aveva più fatto bollire nemmeno una pentola d’acqua. Non era una cuoca particolarmente sofisticata ma se la cavava abbastanza bene. C’era una sorta di semplicità curativa nei rituali della cucina: verdure fresche prese in giardino, buon vino dalla cantina, piatti lavati e impilati ordinatamente alla fine della cena.
Dopo due settimane trascorse così, Mitchell le chiese cosa avesse intenzione di fare, e lei rispose: “Starò bene anche da sola, se è questo che ti preoccupa. Vuoi fermarti a dormire in città per qualche sera?”
“Stavo pensando di tornare qui il prossimo week-end. Verrò qui venerdì sera e, se ti sentirai abbastanza bene, domenica potresti tornare con me a New York.”
“Qualcuno ha bisogno di questa casa?”
“No”, rispose Mitch. “Nessuno viene più qui.”
“Allora perché non posso restare?”
“Ma tu puoi restare, piccola. Pensavo soltanto che forse ti farebbe piacere tornare a New York dai tuoi amici.”
“Non ho amici a New York.”
“Rachel, non essere sciocca. Tu hai un mucchio di…” Vide l’infelicità nei suoi occhi e alzò le mani in segno di resa. “D’accordo. Se dici che non hai amici, non hai amici. Pensavo che, dato che stai facendo progressi, sarebbe bello che gli altri ti vedessero.”
“Oh, adesso ho capito. Vuoi mostrarmi a tutti quanti così la famiglia non comincerà a pensare che sono diventata pazza.”
“Neanche per sogno. Perché devi essere così paranoica?”
“Perché so come ragioni. So come ragionate tutti voi. Siete sempre attenti alla reputazione della famiglia. Be’, in questo momento non me ne importa niente. Non voglio vedere nessuno. Non voglio parlare con nessuno. E certamente non voglio tornare a New York.”
“Vuoi calmarti?” disse Mitchell. “Volevo solo capire a che punto siamo. Adesso lo so.” Uscì dalla cucina senza aggiungere altro ma ritornò dieci minuti dopo. La sua rabbia non era scomparsa ma stava facendo del suo meglio per nasconderla. “Non sono tornato per litigare ancora”, continuò, “voglio solo farti notare che non puoi restare qui per sempre. Non è questa la vita che voglio per mia moglie, non voglio che si occupi di faccende domestiche e passi il suo tempo a potare le rose e a pelare le patate.”
“Mi piace pelare le patate.”
“Sei intrattabile.”
“No, sono solo sincera.”
“Be’, volevo dirti solo questo. Starò da Garrison per qualche giorno, così potremo sistemare tutta questa faccenda di Bangkok.” Rachel non aveva idea di che cosa stesse parlando; né le interessava. “Quindi se avrai bisogno di me…”
“Saprò dove trovarti”, rispose lei, anche se sapeva benissimo che non lo avrebbe cercato.
Dove sarebbe andata? Quel dilemma la tormentò durante i giorni successivi alla sua conversazione con Mitchell. Anche se avesse trovato il coraggio di fare ciò che un tempo avrebbe considerato impensabile, e cioè lasciare suo marito, dove sarebbe andata? Non avrebbe potuto restare a Caleb’s Creek, per quanto quel luogo fosse meraviglioso. Era proprietà dei Geary. Avrebbe potuto trasferirsi nell’appartamento, certo — dopotutto era suo — ma nemmeno là si sarebbe mai sentita a suo agio; o almeno non senza stravolgere l’attico da cima a fondo per renderlo più vicino ai suoi gusti, cosa che comunque non si sentiva di fare. Forse avrebbe fatto meglio a venderlo, magari anche a svenderlo e trovarsi un posto più modesto: magari in una cittadina lontana dalla confusione, come Caleb’s Creek.
Decise di dormirci sopra, ma non dormì bene. Passò la notte in un dormiveglia agitato, e quando si addormentò sognò la stanza stessa in cui si trovava, solo priva di ogni colore, come le fotografie sulla scrivania di George che per troppo tempo erano state lasciate al sole. C’erano persone che attraversavano la stanza e alcune abbassavano lo sguardo su di lei, i volti impassibili. Quelle erano persone che non conosceva anche se aveva il sospetto di averle conosciute una volta e di aver dimenticato i loro nomi.
Il giorno dopo, telefonò a Margie e le chiese di andarla a trovare.
“Non sopporto la campagna”, protestò Margie. “Ma se non hai intenzione di tornare qui nel prossimo futuro…”
“No.”
“Allora verrò.”
Arrivò il giorno dopo, la limousine carica di tutti i suoi vizi preferiti — paté di salmone affumicato, l’inevitabile Beluga, caffè viennese, cioccolato fondente — più, naturalmente, un vasto assortimento di alcolici.
“Questo non è il deserto”, le fece notare Rachel mentre Samuel, l’autista di Margie, scaricava le provviste. “C’è un ottimo supermercato a dieci minuti di macchina da qui.”
“Lo so, lo so”, disse Margie, “ma meglio non rischiare.” Da una delle scatole, prese una bottiglia di scotch e chiese: “Dov’è il ghiaccio?”
Margie aveva una montagna di pettegolezzi da riferirle. Loretta era diventata particolarmente bisbetica negli ultimi tempi. La settimana prima aveva litigato con Garrison a causa del modo in cui lui aveva gestito alcuni milioni di dollari del patrimonio di famiglia.
“Non pensavo che Loretta si interessasse di questioni finanziarie”, osservò Rachel.
“Oh, è da non credere. Le piace fingere di essere al di sopra di tutto. Ma nel frattempo tiene d’occhio l’impero. Anzi, ti dirò, più la conosco, più mi convinco che ci sia sempre lei dietro le quinte. Credo che fosse così anche quando era vivo George. Era sempre lui a parlare, ma era sempre lei a spiegargli cosa dire. E ora, quando vede qualcosa che non approva, lo dice apertamente.”
“Che cos’è successo con Garrison?”
“Oh, è stato un vero casino. Lui le ha detto che non sapeva di cosa stava parlando, e questa non è la cosa che si possa dire a Loretta. A quanto pare, il giorno dopo, è entrata nella sala del consiglio di amministrazione e ha licenziato in tronco cinque membri del consiglio.”
“E può farlo?”
“Lo ha fatto”, rispose Margie, “ha ordinato loro di prendere le loro cose e andarsene. Poi, in un’intervista al Wall Street Journal, ha detto che erano degli incompetenti. Le faranno causa tutti e cinque, naturalmente. Mi stupisce che Mitchell non ti abbia raccontato niente.”
“Non gli piace parlare d’affari. Non gli è mai piaciuto.”
“Questi non sono affari. Questa è una guerra civile. Garrison era fuori di sé come non lo avevo mai visto prima. È stato tutto davvero soddisfacente.” Si scambiarono un sorriso, come cospiratrici che traggono piacere dalla confusione. “Da come parlava”, continuò Margie, “non mi stupirei se se ne uscisse con un ultimatum. Sai: o io o lei.”
“E chi dovrà decidere?”
“Non ne ho idea”, rise Margie. “Soprattutto adesso che Loretta ha tolto di mezzo metà del consiglio di amministrazione. Suppongo che alla fine bisognerà vedere da che parte starà Mitchell, se con Garrison o con sua nonna.”
“Sembra tutto così antiquato.”
“Oh, è molto di più, è decisamente feudale”, la corresse Margie. “Ma è questo il sistema che ha instaurato il vecchio quando si è ritirato: tenere tutto il potere nelle mani della famiglia.”
“Cadmus ha voce in capitolo?”
“Oh, sicuro. Che tu ci creda o no, manda ancora dei memo a Garrison.”
“E dice cose sensate?”
“A seconda delle medicine che prende. L’ultima volta che l’ho visto stava praticamente volando. Parlava di cose successe cinquant’anni fa. Non credo che mi abbia riconosciuta. Comunque, secondo Garrison, ci sono giorni in cui è ancora lucidissimo.” Margie si fece più pensosa. “Sinceramente trovo che sia molto triste, è vecchio e non riesce a lasciar andare il suo piccolo impero.”
“Non è questo che lo tiene in vita?” chiese Rachel.
“Be’, comunque è patetico”, commentò Margie. “Ma sono fatti così. Sono drogati di potere.”
“Inclusa Loretta?”
“Specialmente Loretta. Non ha niente di meglio da fare.”
“Non è troppo vecchia per risposarsi, una volta che sarà morto Cadmus.”
“Le converrebbe prendersi un amante”, disse Margie. Con un’espressione maliziosa, aggiunse: “Ti fa sentire bene, sai?”
“Mi stai dicendo…” Rachel sorrise. “Hai un amante?”
“E chi non ne ha uno oggigiorno?” Margie scoppiò a ridere. “Si chiama Danny. Non è certo l’uomo della mia vita ma è una magnifica distrazione in un triste pomeriggio d’inverno.”
“E Garrison lo sa?”
“Be’, non ne abbiamo parlato da persone civili, se è questo che vuoi sapere, ma lo sa. Insomma, sono sei anni che io e Garrison non andiamo a letto insieme, se si esclude una notte particolarmente disgraziata dopo lo stramaledetto party di compleanno per Cadmus. A parte questo, lui va per la sua strada e io per la mia. È meglio così.”
“Capisco.”
“Sei sconvolta? Oh, ti prego, dimmi che sei sconvolta.”
“No. Sto solo pensando.”
“A cosa?”
“Be’… la ragione per cui ti ho chiesto di venire qui è che ho deciso di lasciare Mitchell.” Non era facile zittire Margie, ma Rachel con quell’ultima affermazioni ci riuscì. “È la cosa migliore”, aggiunse.
“Mitchell è d’accordo?”
“Non lo sa ancora.”
“E di preciso quando hai intenzione di dirglielo, tesoro?”
“Quando avrò le idee più chiare.”
“Sei sicura che non sia meglio fare come ho fatto io? Ci sono un sacco di baristi carini a New York.”
“Io non voglio un barman”, disse Rachel. “Con tutti il rispetto per… come si chiama?”
“Daniel”, sogghignò Margie.
“Con tutto il rispetto per Daniel, non è quello che sto cercando.”
“Com’era Mitchell a letto?”
“Non ho abbastanza esperienza per giudicare.”
“Mettiamola così: è stata un’esperienza irripetibile?”
“No.”
“E non vuoi nemmeno un barman. Che cosa vuoi allora?”
“Bella domanda”, disse Rachel.
Chiuse gli occhi per non lasciarsi distrarre dall’espressione perplessa di Margie. “Credo… forse voglio solo essere più appassionata.”
“Per quanto riguarda Mitchell?”
“Per quanto riguarda… alzarsi dal letto la mattina.” Riaprì gli occhi. Margie la stava scrutando, come se stesse cercando di decidere qualcosa.
“A cosa pensi?” le domandò Rachel.
“Solo che è facile parlare di passione, tesoro. Ma se arrivasse davvero — e parlo di autentica passione, non di robaccia da soap opera — cambierebbe tutta la tua vita. Te ne rendi conto? Cambierebbe tutto.”
“Credo di essere pronta per questo.”
“E così, hai deciso di rinunciare definitivamente a Mitchell?”
“Sì.”
“Non ti concederà il divorzio tanto facilmente.”
“Può essere. Ma sono sicura che non vorrà attirare troppo l’attenzione. E nemmeno io lo voglio. Voglio solo vivere la mia vita il più lontano possibile dai Geary.”
“E se potessi avere entrambe le cose?”
“Non ti seguo.”
“Se potessi avere tutta la passione che puoi sopportare senza però perdere lo stile di vita dei Geary? Nessun divorzio; nessun giudice che esamina i vostri panni sporchi.”
“Non vedo come sia possibile.”
“Può accadere solo se prometti di rimanere con Mitchell. So che ha messo gli occhi su un posto al Congresso e non vuole ombre nella sua vita privata. Se lo aiuterai ad apparire come una specie di santo, forse chiuderà un occhio quando vorrai avere un’avventura.”
“Detto così sembra tutto molto civile.”
“E perché non dovrebbe esserlo?” disse Margie. “Sempre che lui non decida di diventare geloso. In quel caso… be’, potresti essere costretta a ragionarci. Ma sei abbastanza intelligente per riuscirci.”
“E dove troverò la mia avventura?”
“Di questo parleremo più tardi”, rispose Margie con un sorrisetto. “Prima devi decidere cosa vuoi fare, tesoro. Ma lascia che ti rammenti una cosa. Io ho provato ad andarmene, ci ho provato e riprovato. E, credimi, c’è un mondo crudele là fuori.”
Paradossalmente fu proprio quell’ultima affermazione a convincere Rachel che avrebbe dovuto andarsene. E anche se davvero ci fosse stato un mondo crudele là fuori? In quel mondo era riuscita a sopravvivere per i primi ventisette anni della sua vita senza i Geary. Avrebbe potuto farcela di nuovo.
Quando, alla fine, verso mezzogiorno, Margie si alzò e finì il suo primo Bloody Mary della giornata, Rachel le spiegò che aveva pensato e ripensato a tutto e aveva deciso di andare in macchina nell’Ohio. Quel lungo viaggio le avrebbe dato tempo per riflettere; tempo per capire che cosa voleva veramente.
“Vuoi che Mitchell sappia dove sei diretta?” domandò Margie.
“Preferirei di no.”
“Allora io non gli dirò niente”, promise Margie senza scomporsi. “Quando parti?”
“Ho già fatto le valigie. Volevo solo salutarti.”
“Oh, Signore. Certo che non perdi tempo. Comunque potrebbe essere la cosa migliore.” Margie aprì le braccia. “Lo sai che ti voglio bene, vero?”
“Sì, lo so”, rispose Rachel, abbracciandola forte.
“Quindi fa’ attenzione”, le raccomandò Margie. “Non caricare nessun autostoppista solo perché ha un culo carino. E non fermarti in motel pidocchiosi. C’è un sacco di gente strana in giro.”
E così ebbe inizio il suo viaggio verso casa. Le ci vollero quattro giorni e tre notti, e dovette fermarsi nonostante le raccomandazioni di Margie in un paio di motel tutt’altro che raccomandabili, lungo la strada. Anche se aveva pensato che il viaggio le avrebbe dato tempo per riflettere, la sua mente non voleva essere turbata dai problemi. Vagò, concentrandosi solo su questioni pratiche come mangiare e scegliere la strada migliore. Dopo due anni di limousine con chauffeur era bello trovarsi di nuovo dietro al volante, accendere la radio e cantare vecchie canzoni.
Ma quando raggiunse l’Ohio e si trovò a un paio d’ore di strada da Dansky, il suo buon umore cominciò a scemare. L’aspettavano momenti difficili. Cosa avrebbe detto se la gente le avesse chiesto come andava la vita nel grembo del lusso? Che cosa avrebbe detto se le avessero chiesto di Mitchell, del suo bellissimo marito che tra tutte le donne aveva scelto proprio lei? Oh Dio, che cosa avrebbe detto? Che tutto era andato in rovina e che ora stava scappando? Che dopotutto non lo amava? Che lui era un ipocrita e che tutto il suo dannato mondo era solo un vuoto spettacolo che non valeva niente? Non le avrebbero creduto. Come poteva lamentarsi, avrebbero chiesto, quando aveva così tanto? Quando lei viveva una vita da sogno e loro abitavano ancora in modeste case preoccupandosi del mutuo e del costo di un nuovo paio di scarpe da ginnastica per i bambini?
Be’, era troppo tardi per tornare indietro. Stava attraversando le rotaie che da sempre per lei rappresentavano il confine della città, il luogo in cui finiva il mondo che conosceva e ne iniziava un altro, più grande. Stava per tornare nelle strade che sognava ancora certe notti; stava per girovagare come aveva fatto negli anni difficili che avevano preceduto l’adolescenza quando non aveva ancora idea di cosa sarebbe stato di lei. Ecco il drugstore di Albert McNealy, che ora apparteneva a suo figlio Lance, con cui Rachel aveva avuto una relazione breve e innocente verso i quindici anni. Ecco la scuola dove aveva imparato un po’ di tutto ma niente in particolare, il cortile ancora chiuso da una rete metallica, come una prigione trasandata. Ecco il piccolo parco (così lo avevano soprannominato i padri della città; in realtà quel termine era decisamente eccessivo). Ecco la statua coperta di escrementi di uccello di Irwin Heckler, il padre fondatore della città, che nel 1903 si era messo in affari producendo piccole caramelle colorate che si erano dimostrate straordinariamente popolari. Ecco il municipio e la chiesa (l’unico edificio che non aveva perso del tutto la sua grandeur) e il piccolo centro commerciale dove c’erano il salone di bellezza e l’ufficio dell’unico avvocato della città, Marion Klaus, e il negozio di animali e un’altra mezza dozzina di attività.
Ora tutti i negozi erano chiusi; erano le nove di sera passate. L’unico luogo aperto a quell’ora doveva essere il bar di McCloskey Road, vicino all’agenzia di pompe funebri. Per un attimo fu tentata di farci un salto e bere un bicchiere di whisky prima di chiamare sua madre, ma sapeva bene che non aveva alcuna possibilità di entrare nel bar senza incontrare qualcuno che conosceva, così si diresse verso casa, a Sullivan Street. Il suo arrivo non era del tutto inatteso; si era fermata dalle partì di Youngstown per chiamare la madre e dirle che sarebbe andata a trovarla. La luce della veranda era accesa e la porta d’ingresso era socchiusa.
Vi fu un breve ma sublime istante in cui Rachel — dopo aver chiamato Sherrie e prima di ottenere una risposta — rimase lì, davanti a casa ad ascoltare i suoni della notte attorno a lei. Non c’era traffico: solo il sibilo gentile delle fronde degli alberi che erano cresciuti accanto alla casa e il rumore di una grondaia che sbatteva leggermente contro un muro sospinta dal vento. Tutti suoni familiari, tutti rassicuranti. Trasse un profondo respiro. Sarebbe andato tutto bene. Era amata lì; amata e capita. Forse in città ci sarebbe stato qualcuno che l’avrebbe guardata storto e avrebbe cominciato a spettegolare su ciò che era successo, tuttavia lì era al sicuro. Quella era la sua casa, dove le cose erano come erano sempre state.
Ed ecco Sherrie, leggermente nervosa ma felice di vederla.
“Be’, questa sì che è una sorpresa”, le disse sua madre con un sorriso.
La sera dopo la partenza di Rachel per l’Ohio, Garrison invitò Mitchell fuori a cena. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano fatto una chiacchierata tra fratelli, disse, e probabilmente non c’era momento migliore di quello.
Quando Ralph lo portò al ristorante che Garrison aveva scelto, Mitchell pensò che ci fosse stato un errore. Era un piccolo, sudicio ristorante cinese tra Canal Street e Mott; un quartiere tutt’altro che rassicurante. Ma Ralph non si era sbagliato. Garrison era là, seduto in fondo alla stretta sala, a un tavolo per sei che era apparecchiato per due. Davanti a sé aveva una bottiglia di vino bianco e stava fumando un avana. Offrì a Mitchell un bicchiere di vino e un sigaro, ma il fratello disse che voleva solo un bicchiere di latte per sistemarsi lo stomaco.
“Funziona davvero per te?” disse Garrison. “Il latte mi riempie di gas.”
“Tutto ti riempie di gas.”
“È vero”, ammise Garrison.
“Ti ricordi di quel ragazzo, Mario, che ti chiamava Geary la Puzzola?”
“Mario Giovannini.”
“Esatto, Giovannini. Mi chiedo che cosa cazzo ne sia stato di lui.”
“Chi se ne frega?” disse Garrison, appoggiandosi allo schienale della sedia. “Ehi, signor Ko?” Apparve il proprietario del ristorante, un uomo azzimato con i capelli impomatati con così tanta cura che sembrava quasi che gli fossero stati dipinti sul cranio ciocca dopo ciocca. “Potremmo avere un po’ di latte per mio fratello? E i menù.”
“Non ho fame”, disse Mitchell.
“Ne avrai. Dobbiamo tenerci in forze. Ci aspetta una lunga nottata.”
“Non ce la faccio, Gar. Domani ho due riunioni.”
“Mi sono preso la libertà di cancellarle.”
“E perché?”
“Perché dobbiamo parlare.” Prese una scatola di fiammiferi e si riaccese con cura il sigaro. “In particolare delle donne della nostra vita. Allora… dimmi di Rachel.”
“Non c’è molto da dire. Era su a Caleb’s Creek.”
“… con Margie.”
“Esatto. E poi ha deciso di mettersi in viaggio. Dio sa dov’è diretta.”
“Margie lo sa”, disse Garrison. “Probabilmente è stata proprio quella stronza a suggerirglielo.”
“Non capisco a che scopo.”
“Per creare problemi. È il suo sport preferito. Sai com’è fatta.”
“Puoi provare a farti dire qualcosa da lei?”
“Sarebbe meglio che ci provassi tu”, rispose Garrison. “Se le chiedessi qualcosa io, puoi scommetterci, non direbbe una parola.”
“Dov’è Margie stasera?”
Garrison scrollò le spalle. “Non gliel’ho chiesto perché non me ne importa niente. È probabile che sia uscita a bere. Lei e altre due o tre stronze come lei. Quella puttana che ha sposato Lenny Bryant.”
“Marilyn.”
“Già. È una di loro. E poi la donna che gestiva quei ristoranti.”
“Non la conosco.”
“Molto magra. Denti grossi, niente tette.”
“Lucy Cheever.”
“Lo vedi che hai buona memoria per le donne?”
“Ho avuto una storia con Lucy Cheever, ecco perché me la ricordo.”
“Scherzi? Ti sei fatto Lucy Cheever?”
“L’ho portata giù a New Orleans e me la sono sbattuta per una settimana.”
“Grossi denti. Tette piccole.”
“Ha delle belle tette!”
“Sono fottutamente minuscole. E poi non è mai sobria.”
“A New Orleans lo era. O almeno, la maggior parte del tempo.”
Garrison scosse la testa. “Non ti capisco. Insomma, avrà cinquant’anni.”
“Sarà stato cinque o sei anni fa.”
“E allora? Avresti potuto avere qualunque pezzo di figa avessi voluto, e vai a passare una settimana con una donna che ha dieci, quindici anni più di te? Perché cazzo?”
“Mi piaceva.”
“Ti piaceva.” Il signor Ko era tornato con i menù e con il latte. “Mi porti un brandy”, gli disse Garrison, “ordineremo dopo.” Quando Ko se ne fu andato di nuovo, Garrison tornò al mistero della relazione di suo fratello con Lucy Cheever. “Era brava a letto?”
“Ascolta, lasciamo perdere. Ho cose molto più importanti a cui pensare di Lucy fottuta Cheever.” Bevve metà del suo bicchiere di latte. “Voglio sapere dov’è Rachel.”
“Tornerà. Non preoccuparti.”
“E se non dovesse tornare?”
“Tornerà. Non ha scelta.”
“Invece sì. Potrebbe decidere per la separazione.”
“Sì, potrebbe. Sarebbe stupido ma potrebbe.” Trasse qualche boccata di fumo. “Sa qualcosa che non dovrebbe sapere?”
“Da me non ha saputo niente.”
“Cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che parla spesso con Margie. Chissà di cosa diavolo hanno discusso.”
“Margie sa tenere la bocca chiusa.”
“Forse quando è sobria.”
“Hai fatto firmare a Rachel un accordo prematrimoniale?”
“No.”
“E perché cazzo non lo hai fatto?”
“Non alzare la voce.”
“Ho detto a Cecil di farglielo firmare.”
“E io l’ho convinto che non era necessario”, ribatté Mitchell. Garrison sbuffò per l’assurdità della cosa. “Non volevo darle l’idea che fosse una specie di contratto d’affari. Cristo santo, ero innamorato di lei. Lo sono ancora.”
“Allora faresti meglio ad assicurarti che tenga la bocca chiusa.”
“Lo so”, disse Mitchell.
“Be’, se lo sai, perché cazzo non le hai fatto firmare l’accordo prematrimoniale?” Si sporse sul tavolo e afferrò il braccio di Mitchell. “Parliamoci chiaro. Se dovesse provare a parlare con qualcuno dei nostri affari, dei nostri affari di famiglia, dovrò riportarla all’ordine.”
“Non sarà necessario.”
“Come fai a saperlo? Non sai nemmeno dov’è, in questo momento. Per quanto ne sai, potrebbe essere a cena con qualche giornalista figlio di puttana.” Mitchell scosse la testa. “Parlo sul serio”, insistette Garrison. “Non mi dispiace andarci pesante se pensi che ci sia una possibilità di ricucire lo strappo.”
“Non è questione di ricucire uno strappo. Abbiamo attraversato un periodo difficile, ma non è una cosa definitiva.”
“Certo, certo…” disse Garrison in tono stanco, come se stesse ascoltando da ore i tentativi di Mitchell di convincersi della lealtà di Rachel. “Continua pure a ripeterti quello che vuoi.”
“L’ho sposata perché provo qualcosa per lei. E i miei sentimenti non sono affatto cambiati.”
“Ma cambieranno”, replicò Garrison, facendo un cenno al signor Ko, “credimi, cambieranno.”
Mitchell scoprì di essere molto più affamato di quanto avesse previsto. Il cibo era ottimo, anche se Garrison era in grado di tollerare piatti ben più speziati di quelli ordinati da Mitchell. Due volte durante la cena, spinse Mitchell a provare una forchettata di qualcosa che stava mangiando, lasciandolo senza fiato, con suo grande divertimento.
“Dovrò cominciare a educare il tuo palato”, disse.
“È un po’ troppo tardi per questo.” Garrison sollevò gli occhi dal piatto, le lenti degli occhiali leggermente annebbiate.
“Non è mai troppo tardi”, disse.
“E questo cosa significa?”
“Hai sempre avuto uno stomaco più delicato del mio. Ma questo è un fatto che deve cambiare. Per il bene di tutti noi.” Garrison posò la forchetta e prese il bicchiere di vino. “Sapevi che Loretta va da un astrologo?”
“Sì, Cadmus un giorno me ne ha parlato. Ma che cos’ha a che fare con tutto il resto?”
“Domenica scorsa, Loretta mi ha telefonato. Voleva vedermi. Il prima possibile. Era appena stata a trovare quel suo astrologo che l’aveva sommersa di cattive notizie.”
“E su cosa, Cristo Santo?”
“Su di noi. Sulla famiglia.”
“Che cos’ha detto?”
“Che le nostre vite stanno per cambiare, e che la cosa non ci piacerà.” Garrison si rigirò il bicchiere tra le mani, fissando un punto imprecisato alle spalle del fratello. “Non ci piacerà affatto.”
Mitchell alzò gli occhi al cielo. “Ma perché diavolo Loretta spreca i suoi soldi con queste stronzate?”
“Aspetta. C’è dell’altro. Il primo segno di questo”, Garrison fece una pausa in cerca della parola adatta “… grande cambiamento sarà che uno di noi perderà sua moglie.” Il suo sguardo tornò a fissarsi su Mitchell. “E a te è appena successo.”
“Tornerà.”
“Ne sei davvero convinto, vedo. Ma il punto è che se n’è andata, e non importa se tornerà o meno.”
“Mi stai dicendo che credi a quello che ha detto quel tizio?”
“Non ho ancora finito. Ha detto che un altro segno avrà a che fare con un uomo che viene dal mare.”
Mitchell sospirò. “Sciocchezze. Probabilmente Loretta gli ha detto qualcosa della situazione… e lui l’ha rimasticata e gliel’ha ripetuta come se fosse stata una sua scoperta.”
“Può darsi”, borbottò Garrison.
“Be’, qual è l’alternativa?” disse Mitchell, irritato. “Che questo testa di cazzo abbia ragione e siamo sull’orlo del disastro?”
“Già”, rispose Garrison. “Questa è l’alternativa.”
“Io preferisco la mia versione.”
Garrison sorseggiò il vino. “Come ti ho già detto…” mormorò, “hai sempre avuto lo stomaco delicato.”
“E questo cosa vorrebbe dire?”
Garrison sorrise. “Che non vuoi nemmeno prendere in considerazione la possibilità che stia succedendo qualcosa su cui dovremmo riflettere seriamente. Forse tutto sta davvero andando in pezzi.”
Mitchell sollevò le mani in un gesto di resa. “Non posso credere che stiamo davvero facendo questa conversazione. Che tu, proprio tu, stia dicendo queste cose. Sei sempre stato il più razionale di noi.”
“E guarda come mi sono ridotto”, ringhiò Garrison.
“A me sembra che tu stia benissimo.”
“Gesù.” Garrison scosse la testa. “Questo ti dà la misura di quanto ci comprendiamo l’un l’altro. Io mastico antidepressivi come se fossero caramelle, Mitch. Vado dall’analista quattro volte alla settimana. La vista di mia moglie nuda mi fa venire da vomitare. Rendo l’idea?” Abbassò gli occhi sul vino. “In realtà non dovrei nemmeno bere alcolici. Non con gli antidepressivi. Ma in questo momento non me ne frega un cazzo.” Fece una pausa, poi domandò: “Vuoi qualcos’altro da mangiare?”
“No, grazie.”
“Mi auguro che tu abbia ancora un po’ di posto per un gelato. Bisogna permettersi certi piaceri infantili, di tanto in tanto. Sono terapeutici.”
“Mi stanno venendo le maniglie dell’amore.”
“Non c’è una donna su tutto il fottuto pianeta che ti sbatterà fuori dal suo letto solo perché ti è venuto il culo grasso. Mangia un po’ di gelato.”
“Non cambiare argomento. Stavamo parlando dei tuoi cocktail di alcool e pillole.”
“No, stavamo parlando del fatto che sto impazzendo, perché restare sano di mente non mi è stato di alcun fottutissimo aiuto.”
“E allora impazzisci”, disse Mitchell. “Non me ne frega niente. Presentati nudo alla prossima riunione del consiglio. Licenzia qualcuno. Assumi dei sordomuti. Fai esattamente il cazzo che ti pare, ma non metterti ad ascoltare le stronzate di un dannato astrologo.”
“Stava parlando di Galilee, Mitch.”
“Un uomo venuto dal mare!? Potrebbe essere chiunque.”
“Ma non era chiunque. Parlava di lui. Di Galilee.”
“Credo che sarebbe meglio interrompere questa conversazione”, disse Mitchell.
“Perché?”
“Perché non stiamo arrivando da nessuna parte, e io comincio ad annoiarmi.”
Garrison lo fissò, poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro stranamente soddisfatto. “E allora cosa farai per il resto della serata?” domandò.
Mitchell gettò un’occhiata all’orologio. “Andrò a casa e mi infilerò a letto.”
“Da solo?”
“Sì. Da solo.”
“Niente sesso. Niente gelato. Morirai tremendamente infelice, lo sai? Potrei trovarti un po’ di compagnia per stanotte.”
“No, grazie.”
“Sei sicuro?”
Mitchell scoppiò a ridere. “Sono sicuro.”
“Cosa c’è di così buffo?”
“Tu. Tu che cerchi di farmi andare a letto con qualcuna come quando avevo diciassette anni. Ricordi quella puttana che portasti a casa per me?”
“Juanita.”
“Juanita! Esatto. Gesù, quanti ricordi!”
“L’unica cosa che voleva fare.”
“Ti prego, non ricordarmelo.”
“… era sedersi sulla tua faccia! Avresti dovuto sposarla”, aggiunse Garrison, spingendo indietro la sedia e alzandosi. “Avresti già una ventina di figli, adesso.” Mitchell lo guardò, risentito. “Non prendertela con me. Sai che è così. Abbiamo sbagliato tutti e due. Avremmo dovuto sposare un paio di stupide puttane con fianchi da fattrici. Ma invece no. Io mi sono scelto un’ubriacona, e tu una commessa.” Prese il bicchiere e finì l’ultimo sorso di vino. “Be’… passa una buona notte.”
“Dove vai?”
“Ho un impegno.”
“Qualcuna che conosco?”
“Non la conosco nemmeno io”, disse Garrison allontanandosi. “Ma sai, è molto più facile così.”
C’è stato un tempo — molti, molti anni fa; così tanti che quasi non mi interessa contarli — in cui niente mi dava più piacere delle canzoni d’amore. Sapevo persino cantarne qualcuna, quando ero abbastanza ubriaco. Di tanto in tanto, prima che perdessi l’uso delle gambe, uscivamo insieme, mia moglie Chiyojo, Marietta e io, e andavamo ad ascoltare i musicisti di passaggio a Raleigh, e in ogni spettacolo c’era sempre un punto in cui l’atmosfera diventava dolcemente malinconica e un cantante o un gruppo di cantanti o una cantante si portavano la mano al petto e intonavano qualcosa che commuoveva i nostri cuori. I’ll remember You, Love, In My prayers oppure White Wings; e per quanto mi riguardava, più le canzoni erano grottescamente sentimentali, meglio era. Ma ho perso il gusto per quel genere di intrattenimento quando è morta Chiyojo. Una ballata lamentosa su un amore irrimediabilmente perduto era facile da apprezzare quando l’oggetto dei miei affetti sedeva accanto a me e mi stringeva la mano. Ma da quando mi è stata tolta — in circostanze così tragiche da far impallidire l’immaginazione di qualunque autore di canzoni — mi bastano un paio di accordi tristi per cominciare a piangere.
Eppure, nonostante questa mia resistenza, l’amore si avvicina sempre di più, pagina dopo pagina, paragrafo dopo paragrafo; il momento in cui l’amore dovrà apparire per trasformare le vite dei personaggi di cui vi ho parlato. Alcuni saranno solo sfiorati dalle conseguenze di questo sentimento, ma non saranno molti.
E tra costoro, naturalmente, ci sono anch’io. Più di una volta mi sono chiesto se non sia stata la paura della mia stessa vulnerabilità a impedirmi di cominciare a scrivere prima. Ho sempre nutrito una grande passione per le parole, l’ho ereditata da mia madre e indubbiamente ho avuto molto tempo libero da un secolo a questa parte. Ma finora non ci sono mai riuscito. Avevo paura — e ne ho ancora — che una volta che avessi cominciato a scrivere d’amore mi sarei ritrovato consumato dallo stesso fuoco che voglio far ardere nei cuori altrui.
Ma a questo punto non ho altra scelta. L’amore si avvicina, inevitabile come l’apocalisse di cui Garrison stava parlando a Mitchell a cena: e questo perché, naturalmente, sono la stessa cosa.
Garrison lasciò Mitchell davanti al ristorante, diede la serata libera al suo autista e si incamminò verso un appartamento che aveva acquistato, in un luogo di cui nessun altro era a conoscenza e che aveva un utilizzo ben preciso. Entrò, felice di trovare la temperatura molto più bassa del normale, il che significava che i rituali erotici della serata erano già iniziati. Non si recò subito in camera da letto nonostante l’eccitazione crescente. In salotto, si versò un drink e rimase in piedi davanti alla finestra, sorseggiando il liquore e assaporando l’attesa. Oh, se solo tutta la sua vita fosse stata ricca e reale com’era in quei momenti; carica di significato e di emozioni. Domani, lo sapeva, avrebbe provato una punta di disprezzo per se stesso e si sarebbe comportato come un perfetto figlio di puttana con chiunque gli fosse capitato a tiro. Ma quella sera? Quella sera, immerso nella consapevolezza di ciò che lo aspettava, era più vicino alla felicità di quanto potesse pretendere. Alla fine, posò il bicchiere senza aver bevuto molto e, allentandosi la cravatta, si diresse verso l’elegante camera da letto. La porta era socchiusa. Nella stanza brillava una luce. Garrison entrò.
La donna era sdraiata sul letto. Gli era stato detto che si chiamava Melodie (anche se lui dubitava che una donna disposta a vendere il suo corpo per quel genere di pratiche usasse il nome con cui era stata battezzata davanti a Dio). Giaceva perfettamente immobile sotto un lenzuolo, gli occhi chiusi. Sul cuscino attorno alla sua testa c’era una dozzina di gigli bianchi e gialli; un delizioso tocco funerario aggiunto dall’uomo che organizzava quelle serate per Garrison, Fred Platt. Il profumo dei fiori non era abbastanza forte da competere con l’altro odore che permeava la stanza, quello del disinfettante. Anche quella era una trovata di Platt, quell’aroma di pino: un profumo che in un primo istante Garrison aveva trovato in parte inquietante, dal momento che spingeva le sue fantasie ancora più vicino alla dura realtà. Ma Platt conosceva bene la psiche di Garrison: quella prima volta con l’aroma acre del disinfettante che gli pungeva le narici era stata una vera e propria rivelazione erotica. Ora quel profumo era una parte indispensabile della sua fantasia.
Si avvicinò ai piedi del letto e rimase fermo, lo sguardo fìsso sulla donna, a studiare il suo corpo in cerca della traccia di un brivido. Ma riuscì a scorgere solo un lievissimo tremore che la donna stava chiaramente cercando di reprimere. Meglio per lei, pensò; era una professionista. Garrison ammirava il professionismo in tutte le sue forme: dagli affari in borsa, alla cucina, all’imitazione della morte. Se ne valeva la pena, come era solita dire Loretta, allora valeva la pena farlo bene.
Allungò una mano e fece scivolare il lenzuolo da sotto le mani di Melodie, che la ragazza teneva incrociate sul petto. Sotto era nuda, il corpo reso pallido dal trucco in modo che la sua pelle avesse una sfumatura cadaverica.
“Stupenda”, disse lui, senza alcuna traccia di ironia.
Era davvero una vista incantevole: i seni piccoli, i capezzoli eretti e induriti dal freddo. I peli pubici erano stati tagliati con cura, in modo da lasciargli intravedere le labbra della vagina che lui ben presto avrebbe leccato.
Ma prima, i piedi. Tolse completamente il lenzuolo e lo lasciò cadere sul pavimento. Poi si inginocchiò in fondo al letto e premette le labbra sulla carne della donna. Era fredda perché era rimasta sdraiata su un letto di ghiaccio sigillato nella plastica. Le baciò le dita, poi le piante dei piedi, mentre le accarezzava con le mani le caviglie sottili. Ora che aveva la pelle della donna contro la sua, poteva sentire i tremiti sepolti nei suoi tessuti, ma non erano violenti abbastanza da distrarlo dalla sua illusione. Non era molto difficile credere che fosse morta. Morta e fredda e incapace di resistere.
Non continuerò con questa descrizione; non ce n’è bisogno. Se qualcuno di voi desidera immaginarsi Garrison Geary intento a godere di una donna che si finge morta, deve solo evocare questa immagine. Per il resto di noi, basti sapere che quello era il suo piacere particolare, la gioia che attendeva con maggior trepidazione. Non posso dirvi perché. Non so quale strano sentiero avesse intrapreso la sua psiche da rendere così eccitante quel rituale per lui. Ma era così; ed è lì che lo lasceremo, intento a coprire di baci un finto cadavere, preparandosi a un atto di cosiddetto amore.
Quanto a Mitchell, decise di tornare a casa e di andare subito a dormire. Rachel sarebbe tornata da lui quella notte, pensava, e lui l’avrebbe perdonata. Avrebbe sentito un rumore in camera da letto e aprendo gli occhi avrebbe visto la sagoma di lei stagliarsi contro il cielo stellato (Mitchell odiava dormire con le tende chiuse, rendeva i suoi sogni soffocanti) e lei si sarebbe spogliata e gli avrebbe detto mi dispiace, mi dispiace tanto, e sarebbe scivolata tra le lenzuola insieme a lui. Forse avrebbero fatto l’amore ma probabilmente no. Probabilmente, lei gli avrebbe posato la testa sulla spalla e una mano sul petto, e si sarebbero addormentati così, come la prima notte che avevano dormito insieme.
Ma le sue aspettative romantiche furono deluse. Quella notte, Rachel non tornò a casa. Lui dormì solo, nel grande letto; o almeno dormì per circa un’ora, prima di svegliarsi con un dolore lancinante al basso ventre, tanto acuto da farlo piangere quasi come un bambino. Maledicendo Garrison e il suo dannato signor Ko, barcollò praticamente piegato in due fino al bagno e si mise alla ricerca di un medicinale che potesse alleviare il dolore. Aveva la vista appannata e gli tremavano le mani. Impiegò più di due minuti a trovare il farmaco adatto, e aveva appena inghiottito un paio di capsule quando uno spasmo terribile gli squassò l’intestino, ed ebbe a malapena il tempo di sedersi sul water, prima di emettere un getto maleodorante e acquoso di feci. Quando ebbe finito, rimase lì, sapendo che quel sollievo sarebbe stato solo temporaneo. Il dolore al ventre non era diminuito; aveva ancora la sensazione che degli aghi gli stessero trapassando l’intestino.
Cominciò a piangere, lacrime incerte all’inizio, ma che ben presto diventarono un fiume inarrestabile. Si coprì con le mani il volto che scottava per la febbre, e singhiozzò tra le dita. Non riusciva a immaginare una condizione più miserevole di quella in cui si trovava adesso: abbandonato, malato, confuso. Che cosa aveva fatto per meritare tutto questo? Niente. Aveva vissuto come meglio aveva potuto. Quindi perché era seduto lì come un’anima dannata, immerso nel suo stesso fetore, tormentato dalle profezie che Garrison gli aveva sussurrato all’orecchio? E perché non poteva sapere dov’era sua moglie quella notte? Perché non era lì a confortarlo, pronta ad accoglierlo tra le sue braccia una volta che le fitte fossero passate; le sue mani fresche, la sua voce piena d’amore? Perché era solo?
Oh Dio, perché era solo?
Dall’altra parte della città, Garrison uscì dalla camera da letto dove aveva appena sparso il suo seme. Il glaciale oggetto del suo amore era stato ammirevolmente inerte per tutto il tempo; non aveva emesso un solo suono anche quando le attenzioni di lui si erano fatte meno che galanti. Talvolta, insoddisfatto delle sue esplorazioni vaginali, Garrison metteva a pancia in giù i suoi “cadaveri” e li possedeva analmente. Anche quella sera era stato così, e di nuovo Garrison si era accorto che il signor Platt aveva previsto anche quell’eventualità. Quando aveva girato la ragazza, aveva scoperto che l’ano era già stato lubrificato. Lui l’aveva penetrata, rinunciando alla protezione che molti avrebbero ritenuto indispensabile in simili circostanze e con quel genere di donna, ed era venuto dentro di lei.
Poi si era alzato, si era pulito sul lenzuolo e si era richiuso i pantaloni (che non si era abbassato nemmeno a metà coscia durante tutto il rituale) e aveva lasciato la stanza. Mentre usciva aveva detto: “È finita. Puoi alzarti”, e aveva provato uno strano senso di conforto nell’intravedere i movimenti della donna. Era tutto un gioco in fondo, giusto? Non c’era niente di male. Ecco, era resuscitata! Si stava stiracchiando, sbadigliava e cercava la busta con il denaro che, come sempre, Garrison aveva lasciato sul comodino. Se ne sarebbe andata per la sua strada senza nemmeno sapere chi era stato quel cliente così particolare (o almeno, questo era ciò che lui preferiva immaginare. Alle donne veniva ordinato di tenere gli occhi chiusi per tutta la durata del gioco. Se avessero sbirciato, Platt avrebbe saputo essere crudele).
Garrison scese subito in strada, montò in macchina e partì. Chiunque lo avesse visto al volante dell’auto avrebbe pensato che quello era un uomo felice e soddisfatto.
Come ho già detto prima, la felicità non sarebbe durata. Il giorno dopo si sarebbe svegliato sentendosi disgustato da se stesso; quella sensazione lo avrebbe accompagnato per almeno ventiquattr’ore — quarantotto al massimo — e poi il desiderio che aveva appagato quella sera avrebbe ripreso vita e avrebbe riacquistato forza nel giro di una settimana o due, quando Garrison non sarebbe più riuscito a resistere e avrebbe telefonato a Platt in preda a una sorta di trance e gli avrebbe detto di aver bisogno di una delle sue “notti speciali”. E il rituale sarebbe stato ripetuto.
Com’era strano, pensava, essere Garrison Geary. Avere così tanto potere eppure essere tormentato dall’idea di avere così poca stima di sé da riuscire a fare l’amore solo con una donna che si fingeva morta. Era un essere umano davvero particolare! E in ogni caso non si vergognava del tutto di quella sua particolarità. Quella notte una parte di lui era perversamente fiera; fiera perché lui era in grado di fare quello che aveva appena fatto; fiera perché persino in quella città, che attirava come una calamità uomini e donne che vivevano vite bizzarre, la sua fantasia sarebbe stata condannata. Cosa avrebbe potuto fare con la sua perversione, si chiedeva, se l’avesse scatenata anche solo una volta al di fuori dei confini della sua vita sessuale? Quali cambiamenti avrebbe potuto operare sul mondo se avesse messo le sue energie più oscure al servizio di un proposito più alto del semplice scoparsi una figa ghiacciata?
Ma cosa, cosa? Se c’era un proposito più alto nella sua vita, allora perché non riusciva a vederlo? Se c’era una strada che avrebbe dovuto seguire, perché non l’aveva ancora imboccata? Talvolta si sentiva come un atleta che si era preparato all’inverosimile per una corsa a cui nessuno gli aveva chiesto di partecipare. E giorno dopo giorno le sue opportunità di vincere quella corsa — quando finalmente avesse scoperto quale strada seguire — diventavano più remote.
Presto, si disse; devo scoprire al più presto qual è il mio scopo, o in men che non si dica sarò troppo vecchio per farci qualcosa. Morirò senza aver davvero vissuto, e nel momento in cui la terra mi ricoprirà, verrò dimenticato.
Deve accadere presto.
La notte in cui Rachel tornò a casa, disse a sua madre che solo pochissime persone avrebbero dovuto sapere che era lì. Ma in una comunità piccola come quella di Dansky, nessun grande segreto rimaneva tale a lungo. Il mattino dopo, Rachel andò a imbucare qualche lettera per sua madre e venne vista dalla signora Bedrosian, la vedova che viveva nella casa accanto.
“Bene, bene”, disse la signora Bedrosian, “sei proprio tu, Rachel?”
“Sì. Sono io.”
La conversazione non si spinse oltre. Ma fu più che abbastanza. Mezz’ora più tardi il telefono cominciò a squillare: conoscenti che telefonavano in apparenza per chiedere come stava Sherrie e che a un certo punto della conversazione dicevano di aver sentito che Rachel era tornata a casa per il week-end; e, a proposito, c’era anche suo marito con lei?
Sherrie si limitò a mentire. Disse a tutti di non essersi sentita molto bene ultimamente e di aver chiesto a Rachel di venire a passare qualche giorno da lei. “E no”, aggiungeva immancabilmente, “Mitchell non è venuto con lei. Quindi puoi smetterla di sperare in un invito per conoscerlo.”
Quella menzogna funzionò bene. Dopo meno di una decina di telefonate, si sparse la voce che se anche ci fosse stato qualcosa su cui valesse la pena spettegolare, Sherrie Pallenberg non aveva intenzione di collaborare.
“Naturalmente questo non gli impedirà di parlare”, commentò Sherrie. “Sai, non hanno niente di meglio da fare. Maledetta città.”
“Credevo che ti piacesse, qui”, le disse Rachel.
Erano sedute in cucina e stavano pranzando.
“Se tuo padre fosse ancora vivo, le cose sarebbero diverse. Ma sono da sola. E che razza di amiche mi ritrovo? Solo altre vedove.” Alzò gli occhi al cielo. “Ci ritroviamo per giocare a bridge o per un brunch… e sono tutte care persone davvero e non vorrei sembrare un’ingrata ma, mio Dio, dopo un po’ rischio di morire di noia quando le ascolto parlare di tende e soap opera e di quanto raramente vedano i loro figli.”
“Questa è una delle tue lamentele?”
“No, no. Devi vivere la tua vita. Non mi aspetto che tu sia qui da me ogni cinque minuti.”
“Potresti vedermi più spesso nel prossimo futuro”, disse Rachel.
Sua madre scosse la testa. “Tu e Mitch state solo attraversando un brutto periodo. Ne verrete fuori quanto prima, vedrai.”
“Non credo che sia così semplice”, sospirò Rachel. “Non siamo fatti l’uno per l’altra.”
“Nessuno lo è mai”, replicò la madre con noncuranza.
“Non parli sul serio.”
“Sì, invece. Tesoro, ascoltami. Nessuno, e dico nessuno, è mai perfettamente fatto per qualcun altro. Bisogna accettare compromessi. Grandissimi compromessi. Io l’ho fatto con Hank e sono sicura che se Hank fosse vivo direbbe esattamente la stessa cosa per quanto riguarda me. Abbiamo deciso di far funzionare il nostro matrimonio. Credo…” si permise un piccolo sorriso malinconico, “… credo che ci fossimo resi conto che non avremmo mai avuto più di quanto avessimo insieme. So che non suona affatto romantico, ma è andata proprio così. E sai, una volta che ho accettato il fatto che non era il Principe Azzurro — che era soltanto un uomo qualunque che scorreggiava tra le lenzuola e non riusciva a non guardare le cameriere carine — sono stata molto felice.”
“Il fatto è che Mitch non guarda le cameriere.”
“Be’… sei fortunata. Allora qual è il problema?”
Rachel posò la forchetta e fissò il piatto. “Ho così tante cose per cui essere grata”, disse, come se stesse recitando una preghiera. “Lo so. Mio Dio, quando penso a quanto mi ha dato Mitchell…”
“Stai parlando di cose?”
“Sì, naturalmente.”
Sherrie fece un gesto come per scacciare quell’ultima affermazione. “Questo non significa niente. Avrebbe potuto regalarti mezza New York e non essere comunque un buon marito.”
“Ma lui è un buon marito. È solo che penso che non mi apparterrà mai nel modo in cui papà apparteneva a te.”
“A causa della sua famiglia?”
Rachel annuì. “Non voglio sentirmi in competizione con loro per ottenere la sua attenzione, ma è così che mi sento.” Sospirò. “Non posso nemmeno portarti un esempio di qualcosa che fanno per dimostrartelo. È solo che mi sento esclusa.”
“Da che cosa, tesoro?”
“Sai, non so dirtelo con precisione”, rispose Rachel. “È solo una sensazione…” Sbuffò. “Forse il problema è tutto qui.” Si toccò il petto con le dita. “Dentro di me. Non ho il diritto di non essere felice.” Alzò lo sguardo su sua madre, gli occhi che luccicavano di lacrime. “O forse mi sbaglio. Ecco, davvero, che diritto ho di essere infelice? Quando penso alla signora Bedrosian, a come ha perso la sua famiglia…”
Judith Bedrosian aveva perso suo marito e i suoi tre figli in un incidente d’auto quando Rachel aveva quattordici anni. Tutto ciò per cui aveva vissuto — il significato stesso della sua esistenza — le era stato tolto in un solo terribile istante. Eppure era riuscita ad andare avanti, giusto?
“Siamo tutti diversi”, rispose Sherrie. “Non so come abbia fatto la povera Judith ad accettare quello che le è successo, e sai cosa ti dico? Forse non l’ha mai accettato. Il modo in cui le persone si comportano e il modo in cui si sentono in fondo al cuore non sono mai la stessa cosa. Mai. Io so che passa ancora dei momenti tremendi anche dopo tutti questi anni. Ci sono periodi in cui non la vedo per giorni e giorni e so che passa le sue ore a piangere. E a Natale so che va nel Wisconsin da sua sorella, anche se quella donna non le piace per niente, perché non riesce a sopportare la solitudine. I ricordi sono troppi. E così…” Sospirò, come se sentisse su di sé anche il peso del dolore di Judith. “Chi lo sa? Tutto quello che puoi fare è affrontare le cose il meglio possibile. Personalmente, sono una grande sostenitrice del Valium, preso in dosi ragionevoli. Ma ciascuno ha il suo metodo.”
Rachel ridacchiò. Aveva sempre saputo che sua madre, a modo suo, era divertente, ma col passare degli anni la raffinatezza di Sherrie diventava sempre più evidente. Sotto quell’apparenza di donna di una piccola città di provincia, si celava una niente brillante capace di una forza e di una determinazione che la figlia sperava di aver ereditato.
“E adesso?” chiese Sherrie. “Chiederai il divorzio?”
“No, naturalmente no”, rispose Rachel.
“Perché ti sembra un’idea tanto assurda? Se non lo ami…”
“Non ho detto questo.”
“… se non puoi vivere con lui, allora.”
“Non ho detto nemmeno questo. Oddio, non lo so. Margie ha detto che dovrei divorziare. Ottenere un accordo vantaggioso. Ma non voglio restare sola.”
“Non resteresti sola.”
“Mamma, tu pensi che dovrei lasciarlo?”
“No, sto solo dicendo che non saresti sola. Non per molto. Quindi, non è una buona ragione per andare avanti con un matrimonio che non ti sta dando quello che vuoi.”
“Mi stupisci”, disse Rachel. “Sul serio. Ero assolutamente certa che mi avresti detto che avrei fatto meglio a tornare sui miei passi e a dare al nostro matrimonio una seconda possibilità.”
“La vita è troppo breve”, replicò Sherrie. “Non è questo che ti avrei detto qualche anno fa, ma col passare del tempo le opinioni cambiano.” Allungò una mano per accarezzare il volto di sua figlia. “Non voglio che la mia bellissima Rachel sia infelice per un istante di più.”
“Oh, mamma…”
“Per cui, se vuoi lasciare quell’uomo, lascialo. Al mondo ci sono molti altri bellissimi miliardari.”
Quella sera Deanne le aveva invitate a un barbecue della parrocchia, e aveva assicurato a Rachel che gli invitati sarebbero stati tutte persone che conosceva e che le piacevano, a cui aveva già spiegato che non avrebbero dovuto tempestarla di domande sulla sua nuova vita. Ma, nonostante questo, Rachel non era convinta. Deanne le aveva detto che avrebbe preso un suo rifiuto come un affronto personale, e alla fine l’aveva convinta. Quando arrivarono al barbecue, comunque, Rachel perse la protezione di sua sorella. I bambini si allontanarono per giocare e Deanne — nonostante la promessa di starle sempre vicino — la lasciò sola dopo meno di cinque minuti per andare a chiacchierare con l’ospite. Rachel rimase circondata da sconosciuti che sembravano conoscerla anche troppo bene.
“Ho visto te e tuo marito alla televisione qualche settimana fa”, disse una delle donne che si presentò come Kimberly, la seconda migliore amica di Deanne, qualunque cosa significasse. “Era una di quelle serate di gala. Sembrava che vi divertiste tutti un mondo. Ho detto a Frankie — quello è mio marito, Frankie, laggiù con l’hot dog; lavorava con il marito di tua sorella — gli ho detto: non ti sembra che si divertano tutti un mondo? Sai, era tutto così luminoso.”
“Luminoso?”
“Tutto”, ripeté Kimberly. “Così luminoso. Sai, scintillante.” I suoi occhi luccicavano al ricordo di quello spettacolo; Rachel non ebbe il cuore di dirle che il galà era stato un vero strazio; cibo orribile, discorsi interminabili, invitati noiosi. Si limitò a lasciarla blaterare per qualche minuto, annuendo e sorridendo quando le sembrava il caso. Fu salvata da quella conversazione deprimente da un uomo con un tovagliolo infilato nel colletto della camicia, un enorme spiedino di maiale in una mano e il volto sporco di salsa piccante.
“Scusate se mi intrometto”, disse, “ma è passato molto tempo dall’ultima volta che ho visto questa signorina.”
“Sei un disastro, Neil Wilkens”, disse Kimberly.
“Davvero?”
“Sei sporco tutto attorno alla bocca.”
L’uomo si pulì con il tovagliolo, dando tempo a Rachel di rendersi conto di chi era: Neil “Wilkens, il primo ragazzo che le aveva spezzato il cuore. Aveva una barba ispida, un accenno di pancetta da bevitore di birra e stava diventando calvo. Ma il suo sorriso, quando comparve da dietro il tovagliolo, era smagliante come sempre.
“Ti ricordi di me, vero?” le chiese.
“Neil.”
“Esatto.”
“Che bello rivederti. Deanne mi aveva detto che ti eri trasferito a Chicago.”
“È tornato con la coda tra le gambe”, commentò Kimberly con una punta di cattiveria.
Neil non sembrò curarsene. “Non mi piaceva vivere in una grande città”, disse, “credo di essere ancora un ragazzo di provincia nel cuore. Così sono tornato a casa e ho cominciato a lavorare con Frankie.”
“Frankie, mio marito”, s’intromise Kimberly, nel caso Rachel non l’avesse ancora capito.
“Ci occupiamo di riparazioni. Sistemiamo tubature, aggiustiamo tetti.”
“Litigano tutto il tempo”, disse Kimberly.
“Non è vero”, ribatté Neil.
“Litigano come cane e gatto un minuto prima, e un minuto dopo sono i migliori amici sulla faccia della terra.”
“Frankie è comunista”, spiegò Neil.
“Non è un comunista”, protestò Kimberly.
“Jack era un rosso con tanto di tessera del partito, Kimberly”, replicò Neil.
“Chi è Jack?” domandò Rachel.
“Il padre di Frankie. È morto qualche tempo fa.”
“Di tumore alla prostata”, aggiunse Kimberly.
“E quando Frankie si è messo a riordinare le carte del vecchio, ha trovato una tessera del partito comunista. Così adesso se la porta in giro e non fa che parlare del fatto che dovremmo insorgere contro il capitalismo.”
“Non dice sul serio”, disse Kimberly.
“Come lo sai?”
“È solo il suo stupido senso dell’umorismo”, rispose lei. Neil incrociò lo sguardo di Rachel e le rivolse un sorrisetto. Ovviamente si divertiva a stuzzicare Kimberly.
“Be’, puoi dire quello che vuoi”, fece Neil, “ma se un tizio ha una tessera del partito comunista, è un comunista.”
“Oh, mi fai talmente infuriare certe volte”, borbottò Kimberly, e senza aggiungere altro si allontanò.
“È anche troppo facile”, ridacchiò Neil. “Si scalda subito se dici qualcosa sul suo Frankie, ma gli dà il tormento giorno e notte, pover’uomo. Aveva ancora tutti i capelli quando si è sposato. Non che io abbia molto di cui vantarmi, comunque.” Si passò una mano sulla testa semicalva.
“Credo che ti doni”, osservò Rachel.
Neil sorrise raggiante. “Davvero? Lisa la odiava.”
“Lisa è tua moglie?”
“È la madre dei miei figli”, disse Neil con ironica precisione.
“Non siete sposati?”
“Lo eravamo. In effetti, tecnicamente lo siamo ancora. Ma lei è a Chicago con i bambini mentre io… be’, io sono qui. Avrebbero dovuto raggiungermi quando mi fossi sistemato, ma questo non succederà mai. Lei ha un altro adesso, e i bambini sono felici. Almeno stando a quello che mi racconta lei.”
“Mi dispiace.”
“Già”, disse Neil, sospirando. “Immagino che succeda di continuo, ma è dura quando vuoi far funzionare qualcosa e non ci riesci.” Si fissò gli stivali macchiati di vernice, come imbarazzato da quella confessione.
“Conoscevo Lisa?” domandò Rachel.
“Oh sì, la conoscevi”, rispose lui, continuando a studiarsi gli stivali. “Si chiamava Froman, Lisa Angela Froman. Ha la stessa età di tua sorella. Anzi, credo che siano state a scuola insieme per circa un anno.”
“Mi ricordo di lei”, disse Rachel, ripensando a una ragazza bionda, carina, con gli occhiali, di circa sedici anni. “Era molto tranquilla.”
“E lo è ancora. È molto intelligente e i bambini hanno preso da lei per fortuna, perché io non sono esattamente l’uomo più brillante che si possa immaginare.”
“Ti mancano?”
“Follemente. Tutto il tempo. Tutto il tempo.” Lo disse come se faticasse ancora a crederci. “Insomma, si pensa che dopo un po’ le cose diventino più facili ma…” scosse la testa “… Vuoi una birra o qualcos’altro?” Fece una risatina triste. “Ho uno spinello.”
“Fumi ancora?”
“Non come una volta. Ma sai, quando le cose diventano troppo noiose, mi piace rilassarmi. Riesco a non pensare troppo ai miei problemi. Ecco, possono spezzarti il cuore…”
Si spostarono in fondo al cortile. Là, su insistenza di Neil, scavalcarono il muretto e raggiunsero una striscia di terra che era stata usata come cimitero di automobili, tra le quali spiccava ancora un vecchio scuolabus. Era tutto piacevolmente furtivo, e Rachel era su di giri quando aspirò una boccata dallo spinello di Neil.
“Ah, adesso va meglio”, disse Neil. “Avrei dovuto farmene uno prima di venire al barbecue. Non mi piacciono più queste riunioni.” Aspirò una terza boccata prima di passarlo di nuovo a Rachel. “Non mi piacciono affatto. Finirò come mio padre. Ti ricordi di mio padre?”
“Everrett.”
“Esatto.”
“Certo che mi ricordo di lui”, disse Rachel con una risatina.
“Everrett Hancock Wilkens.”
“Hancock?”
“Ehi, non scherzarci sopra. Hancock è anche il mio secondo nome.”
Rachel ripeté quel nome, pronta a scoppiare a ridere. D’improvviso quelle semplici sillabe le sembravano la cosa più divertente del mondo. “C’è qualcuno che ti chiama mai Hancock?” Ridacchiò.
“Solo mia madre”, rispose lui, scoppiando a ridere a sua volta. “Quando ero piccolo sapevo di essere nei guai quando sentivo che mi gridava.”
Gridarono insieme — “Hancock!” — poi in perfetta sintonia si voltarono a lanciare un’occhiata colpevole in direzione del cortile. Diverse teste si girarono verso di loro.
“Ci stiamo rendendo ridicoli”, borbottò Rachel cercando di soffocare un’altra risata.
“È la storia della mia vita”, considerò Neil. Nonostante i suoi modi allegri, c’era qualcosa di sofferto in quella frase. “Ma ormai non m’importa più.”
Con grande fatica, Rachel assunse un’espressione seria. “Mi dispiace per come ti sono andate le cose”, disse. Poi perse completamente il contegno e cominciò a ridere a squarciagola.
“Cosa c’è di tanto buffo?” volle sapere Neil.
“Hancock”, ripeté Rachel. “È un nome così sciocco.” Si asciugò le lacrime dagli occhi. “Oddio, scusami. Stavi dicendo…”
“Non ha importanza”, la interruppe Neil. “Non era niente di importante.” Stava ancora sogghignando, ma c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo.
“C’è qualcosa che non va?” chiese lei.
“Niente”, rispose Neil. “Stavo solo pensando…”
Di colpo Rachel capì che cosa stava per dire, e desiderò che non lo facesse, per non rovinare quel momento. Ma inutilmente.
“… che idiota sono stato…”
“Neil.”
“… a lasciarti…”
“Neil, ti prego, non…”
“… no, lasciami finire. Potrei non avere un’altra occasione per dirti quello che provo…”
“Non pensi che dovremmo semplicemente farci un’altra tirata?”
“Ti ho pensata molto nel corso degli anni.”
“È carino da parte tua.”
“E la verità”, continuò lui. “Ho così tanti rimpianti. Così tante cose che avrei voluto fare diversamente, che avrei voluto fare nel modo giusto. E tu sei in cima alla lista, Rachel. Ogni volta che ti vedo su un giornale o alla televisione, penso: avrebbe potuto essere con me. Avrei potuto renderla felice.” La guardò dritto negli occhi. “Lo sai, vero? Avrei potuto renderti felice.”
“Abbiamo preso strade diverse, Neil.”
“Non solo diverse. Sbagliate.”
“Non penso.”
“Non tu. Non sto parlando di te. È stata una mossa intelligente sposare Geary. No, sto parlando dei miei fallimenti.” Scosse la testa, e Rachel si rese conto che aveva le lacrime agli occhi.
“Oh, Neil.”
“Non farci caso. È solo questa dannata erba.”
“Vuoi tornare alla festa?”
“Non particolarmente.”
“Però credo che dovremmo. Si staranno domandando dove siamo finiti.”
“Non me ne frega niente. Detesto quella gente. Li detesto tutti.”
“Credevo che pensassi che in fondo al cuore sei ancora un ragazzo di provincia”, ribatté Rachel.
“Non so cosa sono”, confessò Neil. “Una volta lo sapevo…” Gli occhi gli si annebbiarono; fissò l’oscurità tra i veicoli arrugginiti. “Avevo grandi sogni, Rachel…”
“Puoi ancora realizzarli.”
“No. È troppo tardi. Devi cogliere l’attimo. Se non lo fai, non tornerà mai più. C’è solo una possibilità. E io ho sprecato la mia.” Tornò a guardarla. “Tu sei stata la mia possibilità”, concluse.
“Sei dolce ma…”
“Non c’è bisogno che tu me lo dica, lo so. Tu non mi hai mai amato, quindi non avrebbe funzionato comunque. Ma ti penso ancora, Rachel. Non ho mai smesso di pensare a te. E ti giuro che avrei potuto farti innamorare di me. Se solo lo avessi fatto…” le rivolse un sorriso terribilmente triste. “Tutto sarebbe stato diverso.”
La mattina dopo il barbecue, Rachel venne rimproverata da Deanne. Che cosa le era saltato in mente? Allontanarsi così e con Neil Wilkens perdipiù, Neil Wilkens! Quel genere di cose forse andava benissimo a New York, ma Dansky era una piccola città e non ci si comportava in quel modo. Rachel aveva la sensazione di essere sgridata come una bambina disobbediente, e disse a Deanne che avrebbe potuto tenersi per sé le sue opinioni. Tra l’altro, cosa aveva Neil che non andava?
“È praticamente un alcolizzato”, rispose Deanne. “Ed era violento con sua moglie.”
“Non sono disposta a crederci.”
“Be’, è la verità”, ribatté Deanne. “Quindi davvero, Rachel, faresti meglio a stare lontana da lui.”
“Non avevo intenzione di…”
“Non puoi semplicemente piombare qui…”
“Aspetta.”
“… come se tu fossi la padrona.”
“Ma di che cosa stai parlando?”
Deanne stava facendo le pulizie. Si fermò e alzò lo sguardo su di lei, il volto arrossato. “Oh, lo sai fin troppo bene.”
“Mi dispiace ma non lo so.”
“Mi hai messa in imbarazzo.”
“Cosa? Quando?”
“Ieri sera! Mi hai lasciata con tutta quella gente che voleva sapere dov’eri. Cosa avrei dovuto rispondere? Oh, è da qualche parte con Neil Wilkens, a flirtare come una quindicenne?”
“Non ho fatto niente del genere.”
“Ti ho vista! Tutti ti hanno vista, che ridacchiavi come una scolaretta. È stato molto imbarazzante.”
“Be’, mi dispiace”, disse Rachel freddamente. “Non ti metterò in imbarazzo ancora per molto.”
Tornò a casa di sua madre e fece le valigie. Pianse. Un po’ per la rabbia dovuta al modo in cui Deanne le aveva parlato, ma più per la strana confusione dei suoi sentimenti. Forse Neil Wilkens aveva davvero picchiato sua moglie. Ma, Dio, le piaceva, in un modo che non riusciva completamente a spiegarsi. C’era forse una parte di lei ancora convinta di appartenere a quella città? Ancora convinta che la ragazza che era stata innamorata di Neil tanto tempo prima non fosse del tutto scomparsa ma fosse ancora dentro di lei, tremante nell’attesa di un primo bacio, con i suoi sogni di un amore perfetto ancora intatti? E ora quella ragazzina stava piangendo, perché sapeva che lei e il suo Neil avevano preso strade diverse?
Com’era assolutamente ridicolo tutto questo; e com’era prevedibile. Andò in bagno, si sciacquò il viso umido di lacrime e cercò di riordinare le idee. Quel viaggio era stato uno sbaglio fin dall’inizio. Avrebbe dovuto restare a New York e affrontare una volta per tutte i suoi problemi con Mitch.
D’altra parte, forse era stato salutare ricordare a se stessa che ora era un’esule. Non avrebbe più perso tempo con sciocchi sentimentalismi sul tornare alle sue radici; doveva essere pronta a percorrere la strada che aveva scelto. Sarebbe tornata a casa, decise, e avrebbe chiarito tutto con Mitch. Se fosse stata onesta, non avrebbe avuto niente da perdere. E nel caso avessero deciso che non potevano più stare insieme, lei avrebbe chiesto subito il divorzio. Margie le avrebbe spiegato quale sarebbe stato il suo valore sul mercato delle ex mogli. E poi? Be’, avrebbe dovuto decidere. La sola cosa di cui era certa era che non sarebbe tornata a Dansky. Qualunque cosa fosse in fondo al cuore (e in quel momento non ne aveva la più pallida idea), non era più una ragazza di provincia: di questo era assolutamente sicura.
Partì quel giorno stesso, nonostante le proteste di sua madre. “Fermati ancora un paio di giorni”, disse Sherrie. “Hai fatto tutta questa strada!”
“Ho bisogno di tornare a New York, davvero.”
“È per via di Neil Wilkens, non è vero?”
“La mia decisione non ha niente a che fare con Neil.”
“Ci ha provato con te?”
“No, mamma.”
“Perché se lo ha fatto…”
“Mamma, si è comportato da perfetto gentiluomo.”
“Neil non sa nemmeno cosa vuol dire la parola gentiluomo.” Fissò Rachel con rabbia. “Cento Neil Wilkens non valgono un solo Mitchell Geary.”
Quell’osservazione continuò a tormentare Rachel, e durante il viaggio verso New York si divertì a pensare ai due uomini come la principessa di una fiaba intenta a valutare i meriti di ciascuno dei suoi pretendenti. Uno bello, ricco e noioso; l’altro quasi calvo, col ventre gonfio di birra ma ancora capace di farla ridere. Erano diversi sotto ogni aspetto tranne in uno: erano entrambi uomini tristi. Quando pensava ai loro volti, vedeva facce tristi, sconfitte. Conosceva la ragione del fallimento di Neil: gliel’aveva rivelata lui stesso. Ma perché Mitchell, con tutti i doni che aveva ricevuto dalla storia dei suoi stessi geni, doveva essere altrettanto addolorato? Era un mistero per lei; e più pensava a quel mistero, più le sembrava che la ferita tra di loro non sarebbe guarita finché non fosse riuscita a risolverlo.