PARTE SESTA Acqua e inchiostro

Uno

1

E così Gallice se ne andò; non posso dirvi dove. Se questo fosse un altro genere di libro, potrei inventare i dettagli del suo viaggio, copiandoli da libri e carte nautiche. Ma così facendo, approfitterei della vostra ignoranza, ben sapendo che non potete conoscere certi particolari.

Ma preferisco ammetterlo: Galilee se ne andò e non so dirvi dove. Quando chiudo gli occhi e cerco di immaginarmelo, di solito lo vedo seduto sul ponte della Samarcanda, un’espressione tormentata sul volto.

Devo confessarvi che ho cercato di capire dove fosse diretto servendomi della logica. Ho preso alcune delle mappe che ho collezionato nel corso degli anni (le più antiche erano appartenute a Galilee stesso; molto tempo prima che cominciasse a vagabondare per il mondo amava già tracciare percorsi di viaggi immaginari) e le ho spiegate sul pavimento del mio studio, camminandovi sopra con un volume sull’arte della navigazione in una mano e un libro sulle maree e sulle correnti nell’altro, cercando di determinare la rotta della Samarcanda. Ma è stato tutto inutile. Quelle carte nautiche erano troppo antiche; erano state disegnate in un tempo in cui la conoscenza non era ancora stata così drasticamente (e così tragicamente) separata dai piaceri della fantasia. Coloro che le avevano tracciate non avevano visto niente di male nell’aggiungere qualche tocco decorativo qua e là: bestie immaginarie che si levavano dall’oceano per aggredire le imbarcazioni; voli di angeli con i capelli al vento e le gote rosee; persino un calamaro gigante con gli occhi simili a fornaci gemelle e tentacoli lunghi come sei velieri.

In mezzo a tali meraviglie, i miei patetici tentativi di scoprire la rotta di Galilee sono falliti miseramente. Ho lasciato perdere tutti i miei calcoli e mi sono seduto in mezzo alle mappe come un venditore in attesa di un acquirente.

2

Galilee era già stato innamorato altre volte ed era sopravvissuto per raccontarlo. In una sola occasione era stato innamorato di una Geary, e questo cambiava ogni cosa. Amare una donna che apparteneva alla famiglia nemica non era per niente saggio; c’era un gran numero di tragedie a dimostrarlo. E nella sua esperienza, l’amore finiva sempre nel dolore e nell’amarezza. All’inizio era dolce, ma mai abbastanza da giustificarne le conseguenze: le settimane di recriminazioni, i mesi di notti insonni, gli anni di solitudine. Ogni volta che una storia d’amore finiva, Galilee giurava a se stesso che non si sarebbe innamorato mai più. Sarebbe rimasto in mare, al sicuro dai suoi stessi appetiti.

E dopotutto che cosa voleva davvero dall’amore? Una compagna o un luogo in cui nascondersi? Forse entrambe le cose. Odiava quella parte di sé che voleva essere avvolta dalle braccia di un’amante, che voleva essere cullata e perdonata. Che sciocchezze! Ma anche mentre inveiva contro se stesso e fuggiva attraverso il mare, non poteva fare a meno di rabbrividire al pensiero di ciò che lo attendeva adesso che l’amore era finito. Non solo notti insonni e solitudine, ma l’orrore di essere esposto alla luce feroce che bruciava sopra di lui, che ardeva, accesa dalla sua stessa natura divina.

Mentre la Samarcanda seguiva le correnti dell’oceano, Galilee si chiese quante volte ancora sarebbe riuscito a fuggire prima che il dolore della separazione diventasse intollerabile. Forse non ci sarebbe riuscito mai più. Quello non sarebbe stato un voto poi così terribile: giurare a se stesso che dopo Rachel non ci sarebbero state altre seduzioni, altri cuori infranti. Sarebbe stato un segno di rispetto nei suoi confronti, anche se lei non lo avrebbe mai saputo: decidere che dopo di lei ci sarebbe stato solo il mare.


Naturalmente, dimenticarla sarebbe stato tutt’altro che facile. Rimase seduto sul ponte della Samarcanda quella notte, e mentre si allontanava sempre più dalla terraferma ripensò a ciò che c’era stato tra di loro. Non aveva mai permesso a una donna prima di allora di mettere piede sulla Samarcanda, tenendo fede a una sua antica superstizione. Ma per Rachel aveva dimenticato quelle paure. Quale imbarcazione non sarebbe stata benedetta dalla presenza di una creatura come lei?

Tuttavia, Galilee non rimpiangeva la sua decisione. Seduto sotto le stelle, gli sembrava quasi di poterla vedere. Eccola, le braccia aperte pronte ad accoglierlo, le labbra dischiuse in un sorriso. Eccola, pronta a dirgli che lo amava. Qualunque meraviglia avesse visto d’ora in avanti — e Galilee ne aveva viste già molte: il mare reso argenteo da banchi di calamari, tempeste color oro e vermiglio — niente avrebbe mai potuto conquistarlo come aveva fatto lei.

Se solo non fosse stata una Geary.

Due

E così Galilee se ne andò e — come vi ho già detto — non ho idea di dove. Ma so dove terminò il suo viaggio. Dopo tre settimane, gettò l’ancora nel piccolo porto di Puerto Bueno. Nel mese appena trascorso, il villaggio era stato colpito da una serie di violente tempeste, molte case erano state danneggiate e una era persino crollata, uccidendo la vedova che vi abitava. Ma la casa di Galilee in cima alla collina quasi non era stata toccata dalla furia degli elementi, e fu là che mio fratello tornò, percorrendo le ripide strade della cittadina senza rivolgere la parola a nessuno.

La pioggia era filtrata attraverso il tetto e l’interno puzzava di umidità. C’era muffa ovunque e gran parte dei mobili del piano superiore avevano cominciato a marcire. Ma a Galilee non importava. Non gli importava più di niente. I sogni appena abbozzati di portare lì la sua compagna, di vivere in quella casa come una coppia qualsiasi, adesso gli sembravano stupidi, ridicoli. Che perdita di tempo.

Il giorno dopo il suo arrivo, il tempo cominciò a migliorare ma questo non gli procurò alcun piacere. Aveva già visto tutto. Non c’era niente di nuovo da cercare; non restavano più sorprese sulla faccia della terra. Avrebbe anche potuto chiudere gli occhi per sempre e morire senza rimpianti, sapendo di aver visto il meglio delle cose.

Oh, e anche il peggio. Aveva visto il peggio molte, molte volte.

Si aggirò da una stanza all’altra, da un piano all’altro, e dovunque andasse era perseguitato da visioni di cose che avrebbe voluto dimenticare. Alcune, un tempo, gli erano sembrate dimostrazioni di coraggio. Da giovane, gli avvenimenti sanguinosi lo avevano eccitato; allora perché adesso sembravano non dargli pace?

Perché, quando si sdraiava sul letto ammuffito, ripensava a un bordello di Chicago dove aveva inseguito due uomini e li aveva fatti a pezzi? Perché dopo tutti quegli anni ricordava ancora che uno dei due, prima di morire, lo aveva ringraziato per averlo sollevato dal peso della vita?

Perché, quando andava in bagno a svuotarsi gli intestini, gli tornava alla mente un cane giallo che aveva defecato per il terrore vedendo il suo padrone con la gola tagliata sul pianerottolo, mentre lui era seduto in fondo alle scale e beveva tranquillamente lo champagne dell’uomo che aveva assassinato?

E perché, quando tentava di prendere sonno — non sul letto ma sul divano consunto del salotto — ricordava una sera piovosa di febbraio, un uomo condannato a morire solo perché aveva sfidato qualcuno di più potente di lui, e Galilee, che doveva commettere quell’omicidio solo perché era alle dipendenze di quello stesso potente? Oh, quello era un terribile ricordo. Sotto certi aspetti era il più inquietante perché aveva comportato un incontro così intimo. Ricordava tutto così chiaramente: l’auto che ondeggiava investita dalle raffiche di vento che soffiavano dall’oceano; il rumore della pioggia sul tetto della macchina; il calore stantio dell’abitacolo e quello ancora più stantio che aveva emanato l’uomo che gli era morto tra le braccia.

Povero George; povero, innocente George. Aveva alzato lo sguardo su Galilee con una tale confusione sul viso, mentre le sue labbra tentavano di formulare un’ultima domanda sensata. Era ormai oltre la capacità di mettere insieme una frase, ma Galilee gli aveva risposto comunque.

“Mi ha mandato tuo padre”, aveva detto.

L’espressione confusa aveva abbandonato il suo volto, e George si era fatto stranamente sereno nel sentire che stava morendo per volere del suo stesso padre; quasi che quello fosse stato un ultimo perverso compito che doveva assolvere prima di potersi sottrarre per sempre al controllo di Cadmus.

Qualunque fantasia di paternità Galilee potesse aver avuto, era svanito in quel momento: essere la mano del padre che assassinava il figlio aveva ucciso ogni suo desiderio. Non solo quello di paternità — anche se quel desiderio era stata la vittima più triste di quella notte a Smith Point Beach, in quel preciso istante il desiderio stesso di vivere aveva perso tutte le sue attrattive. Distruggere un uomo per arrivare al potere era una cosa (tutti i re lo avevano fatto, presto o tardi); ma condannare a morte il proprio figlio perché si era rimasti delusi da lui, quella era tutta un’altra cosa, ed essere stato costretto a eseguire la sentenza aveva spezzato il cuore di Galilee.

E, anche dopo tanti anni, non riusciva a dimenticare quella scena. Il bordello di Chicago e il cane giallo sul pianerottolo erano ricordi già abbastanza terribili; ma non erano niente in confronto al ricordo dell’espressione di George Geary in quella notte di pioggia.


Continuò così per più di una settimana: ricordi di giorno e sogni di notte, e nessun’altra scelta se non quella di sopportarli. La sera, si avventurava fuori casa e scendeva al molo a controllare la Samarcanda, ma anche quel breve tragitto diventò sempre più faticoso col passare del tempo. Galilee era così esausto.

Non poteva andare avanti in quel modo. Era arrivato il momento di prendere una decisione. Non c’era alcun eroismo nella sofferenza a meno che non avesse uno scopo. Ma lui non aveva mai avuto uno scopo; niente per cui vivere, niente per cui morire. Non aveva mai avuto altro che se stesso.

No, non era vero. Se avesse avuto soltanto se stesso, non avrebbe provato quel tormento.

Era stata lei a renderlo così. Quella Geary; quella maledetta, dolcissima Geary che lui avrebbe voluto disperatamente cacciare dal suo cuore. Ma non poteva. Era stata lei a ricordargli che era ancora capace di provare dei sentimenti e così facendo lo aveva aperto, come se avesse impugnato un coltello, permettendo anche a quei terribili ricordi di raggiungere il suo cuore. Era stata lei a ricordargli la sua umanità e tutto ciò che aveva fatto ignorando la sua parte migliore. Era stata lei a risvegliare in lui la voce dell’uomo morente sul pavimento del bordello, il cane giallo e la vista di George Geary. Lei, la sua Rachel. La sua bellissima Rachel, che era con lui giorno e notte, che gli teneva la mano, che gli toccava il braccio, che gli ripeteva che lo amava.

Accidenti a lei! Non c’era niente per cui valesse la pena soffrire così. Non si sentiva più al sicuro nemmeno nella sua stessa pelle. In qualche modo, lei lo aveva invaso, lo aveva posseduto. La mancanza di sonno lo rendeva sempre più irrazionale. Cominciò a sentire la voce di Rachel che lo chiamava, come se fosse stata nella stanza accanto. Per ben due volte andò in sala da pranzo e trovò il tavolo apparecchiato per due.

Non ci sarebbe stato alcun lieto fine, lo sapeva. Non sarebbe riuscito a sfuggirle, per quanto pazientemente potesse aspettare. Rachel aveva una stretta troppo salda sulla sua anima.

Aveva l’impressione di essere invecchiato all’improvviso — quasi che i decenni in cui il tempo lo aveva lasciato intatto di colpo lo avessero raggiunto — e di non avere altra prospettiva che un lento declino, un’inevitabile discesa verso la follia ossessiva. Sarebbe diventato il pazzo della collina, segregato in un mondo di visioni in decomposizione; l’avrebbe vista, l’avrebbe sentita, sarebbe stato torturato giorno e notte dai ricordi spaventosi che erano riemersi con l’amore: la consapevolezza delle sue crudeltà, delle sue innumerevoli crudeltà.

Meglio morire, pensò. Sarebbe stato un atto di compassione verso se stesso, anche se probabilmente non meritava nemmeno la compassione.


La sera del sesto giorno, risalendo lungo la collina, mise a punto il suo piano. Aveva conosciuto diversi suicidi in vita sua e nessuno di loro aveva fatto un buon lavoro. Avevano lasciato il mondo senza dignità, mentre lui voleva andarsene nel modo più sommesso possibile.

Quella notte accese tutti i camini della casa e bruciò tutto ciò che avrebbe potuto ricondurre a lui. I pochi libri che aveva conservato nel corso degli anni, cianfrusaglie, figure che aveva intagliato nel legno per passare il tempo (niente di straordinario, ma chi poteva sapere come sarebbero state interpretate se qualcuno le avesse rinvenute?). Non c’era molto da distruggere, ma Galilee era così stanco e così confuso che ci volle comunque un po’ di tempo.

Quando ebbe finito, aprì tutte le porte e tutte le finestre, e poco prima dell’alba scese dalla collina e si diresse al porto. I suoi vicini avrebbero capito, vedendo la casa aperta in quel modo. Di lì a un paio di giorni, qualche anima coraggiosa si sarebbe avventurata all’interno e ben presto si sarebbe sparsa la voce della sua partenza definitiva. La casa sarebbe stata spogliata di tutto ciò che ancora conteneva di utile. O almeno così sperava lui. Meglio che qualcuno usasse le sedie e i tavoli e gli orologi e le lampade, meglio non consegnare ogni cosa alla putrefazione.

Soffiava un vento forte. Le vele della Samarcanda si gonfiarono subito; e molto prima che gli abitanti di Puerto Bueno si svegliassero e si preparassero il caffè del mattino o il whisky del pomeriggio, il loro misterioso vicino era scomparso.


Il suo piano era molto semplice. Avrebbe portato la Samarcanda il più lontano possibile dalla terraferma e poi — una volta sicuro che né il vento né la corrente potessero riportarlo indietro -avrebbe rinunciato al controllo sia sul suo corpo sia sulla sua barca, e avrebbe lasciato che la natura facesse il suo corso. Non avrebbe ripiegato le vele se si fosse abbattuta una tempesta. Non avrebbe manovrato il timone per evitare gli scogli o la barriera corallina. Avrebbe semplicemente permesso al mare di prenderlo quando e in qualunque modo avesse voluto. Se avesse scelto di rovesciare la Samarcanda e annegarlo, lo avrebbe accettato. Se avesse deciso di mandare in pezzi la barca e il suo capitano, non avrebbe avuto nulla da obiettare. E se avesse preferito essere passivo quanto lui e lasciarlo ad avvizzire a poco a poco sul ponte, non si sarebbe opposto.

Temeva una sola eventualità: se avesse cominciato a delirare per la fame e la sete, avrebbe potuto perdere la fermezza che ora lo muoveva e, in un momento di debolezza, tentare di riprendere il controllo della Samarcanda. Così spogliò la barca di tutto ciò che avrebbe potuto essergli di qualche utilità, gettando in mare le carte nautiche, il giubbotto salvagente, il compasso, i razzi di segnalazione, il canotto gonfiabile: tutto. Si concesse solo qualche lusso per rendere più dolci quei suoi ultimi giorni, pensando che il suicidio non dovesse per forza essere un’attività priva di raffinatezze. Tenne i sigari, il brandy e un paio di libri. Fatto questo, si preparò a consegnare il suo destino alla marea.

Tre

1

Gli omicidi, per la maggior parte, vengono commessi all’interno della famiglia. Le convenzioni della narrativa popolare raccontano una verità inesistente: la persona che più probabilmente vi toglierà la vita con la violenza non è un maniaco senza volto ma l’uomo o la donna con cui avete fatto colazione stamattina. Quindi non credo di rivelare qualcosa di sconvolgente se vi dico che a uccidere Margie era stato proprio Garrison Geary.

Non lo aveva fatto spinto dal disprezzo che comunque provava per lei. Non lo aveva fatto perché lei aveva un amante. Lo aveva fatto perché lei gli aveva negato la conoscenza, e se questo vi sembra un motivo futile per commettere un omicidio, vi assicuro che tra non molto vi sembrerà una stranezza di poco conto, in confronto al resto.


Quando Rachel arrivò a New York, Garrison aveva già confessato. Non si era trattato della confessione di un assassino gelido e calcolatore, ma piuttosto di una messinscena. Garrison aveva dichiarato che Margie era impazzita e aveva tentato di ucciderlo. Lui non aveva fatto altro che difendersi. Secondo la sua testimonianza, i fatti si sarebbero svolti in questo modo: era tornato a casa e aveva trovato Margie ubriaca e armata di una Colt calibro 38. Lei gli aveva detto di essere stanca di tutto, di non voler più vivere. Lui aveva cercato di farla ragionare ma era stato tutto inutile. Margie gli aveva sparato, mancandolo, e prima che potesse fare fuoco una seconda volta, Garrison aveva cercato di disarmarla. Nella lotta era partito un colpo che aveva ferito Margie. Lui aveva telefonato immediatamente alla polizia ma quando l’ambulanza era arrivata, era già troppo tardi. Il corpo di sua moglie — indebolito da anni di cattive abitudini — aveva ceduto.

Le prove a sostegno del racconto di Garrison erano numerose. La prima e più importante era questa: la pistola apparteneva a Margie. L’aveva acquistata sei anni prima dopo che una sua amica era stata aggredita in strada, era entrata in coma ed era morta. Margie non aveva mai nascosto la sua passione per quell’arma; era una “pistola graziosa” aveva detto, e si era dichiarata pronta a usarla se fosse stato necessario.

Secondo Garrison, era stato effettivamente così. Lei aveva deciso di ucciderlo e lui aveva fatto solo ciò che chiunque altro avrebbe fatto in simili ckcostanze. Non finse di essere addolorato. Ormai da anni il suo matrimonio era poco più che una formalità, aveva ammesso. Ma se avesse voluto far uscire Margie dalla sua vita, aveva fatto notare poi, si sarebbe servito di mezzi molto meno stupidi e pericolosi. Del divorzio, per esempio. Sarebbe stato assurdo assassinarla. Avrebbe solo rischiato di finire in galera.

Brani della sua testimonianza furono riportati sulle prime pagine del New York Times e del Wall Street Journal, insieme ad altre dichiarazioni che sembravano supportare la tesi di Garrison. I giornalisti non poterono fare a meno di riferire qualche aneddoto sgradevole circa i problemi di alcolismo di Margie, che comunque erano sempre stati di dominio pubblico. Non mancarono i pettegolezzi, che affollarono riviste e programmi televisivi. Vennero rievocati alcuni episodi poco piacevoli del passato di Garrison. Due sue vecchie fiamme accettarono di essere intervistate, così come un gran numero di ex impiegati. Il ritratto che fecero di lui fu tutt’altro che lusinghiero. Garrison veniva descritto come un uomo egocentrico, autoritario e dalla sessualità compulsiva. Ma immancabilmente, quando veniva posta la domanda più importante — secondo lei si è trattato di autodifesa o di omicidio? — tutti gli intervistati erano d’accordo nell’affermare che l’uomo che avevano conosciuto non avrebbe mai sparato a sua moglie a sangue freddo. Una delle sue ex aggiunse addirittura: “Garrison era molto sentimentale nei confronti di Margie, Mi raccontava spesso di quando si erano innamorati. Io gli dicevo che non volevo ascoltarlo ma penso che non potesse fare a meno di parlare di lei. Sì, un po’ ero gelosa, ma ripensandoci direi che era molto dolce”.

In quel periodo la famiglia stessa fu presa di mira dai media. L’omicidio Geary diede alla stampa di tutto il paese il pretesto ideale per rispolverare una lunga serie di vecchie storie sui Geary. “Ricchi come i Rockefeller e influenti come i Kennedy”, diceva un articolo del Newsweek, “I Geary sono un’istituzione americana fin dalla conclusione della guerra civile, quando in brevissimo tempo hanno raggiunto una posizione predominante nella storia del paese. In ogni epoca, i Geary non hanno mai avuto eguali. Guerrafondai e pacifisti, tradizionalisti e radicali, edonisti e puritani; alcuni sostengono che all’interno della famiglia Geary si possa trovare ogni possibile esempio di eccesso americano. Ma ora con le indagini della polizia sull’omicidio di Margaret Geary, una nuvola di dubbi ha offuscato la reputazione della famiglia; comunque qualsiasi sia la conclusione a cui arriveranno gli investigatori, una cosa è certa: la famiglia sopravviverà così come l’eterno interesse del pubblico americano per le sue vicende.

2

Rachel non aveva detto a nessuno che stava tornando, ma era sicura che la notizia l’avrebbe preceduta grazie a Jimmy Hornbeck. Aveva ragione. L’appartamento di Central Park era decorato con fiori freschi e sul tavolo c’era un biglietto di Mitchell che le dava il benvenuto e la ringraziava per essere tornata. Era una missiva stranamente distaccata, ma Mitchell ormai non riusciva più a sorprenderla. Rachel era piuttosto ottimista riguardo ciò che l’aspettava. Era determinata ad affrontare la vita con lo stesso distacco divertito che era stato tipico di Margie.

Quella sera telefonò a Mitchell per informarlo del suo arrivo. Lui la invitò a cena al palazzo. Loretta voleva vederla, disse; e anche lui. Lei accettò. Bene, disse lui, avrebbe mandato Ralphie a prenderla.

“La casa è assediata dai giornalisti”, l’avvertì poi.

“Sì, stavano aspettando anche me quando sono arrivata.”

“Cosa gli hai detto?”

“Assolutamente niente.”

“Chi diavolo gli sta raccontando tutte queste cose su di noi, è questo che vorrei sapere. Quando sarà finita, scoverò i responsabili.”

“E cosa farai?”

“Li licenzierò! Sono stanco di essere sempre sotto i riflettori e di sentirmi fare sempre le stesse stupide, fottute domande.” Rachel non lo aveva mai sentito così esasperato; Mitch aveva sempre dato l’impressione di considerare l’interesse del pubblico un male inevitabile. “Sai che un figlio di puttana è riuscito a fotografare Garrison in prigione? E quel fottuto giornale ha anche pubblicato la foto! Una foto di mio fratello dietro le sbarre. È da non crederci!”

Quello sfogo sconvolse Rachel; non tanto per la fotografia scattata di nascosto, ma perché, fino a quel momento, non lo aveva mai immaginato rinchiuso in una cella. Aveva dato per scontato che Cecil o un altro componente della falange di avvocati che i Geary avevano assunto per difendere Garrison fosse riuscito a farlo rilasciare su cauzione.

“E quando uscirà?” domandò Rachel.

“Stiamo facendo il possibile”, rispose Mitch. “Voglio dire, è innocente. Su questo non ci sono dubbi. E stato un incidente orribile e nessuno di noi vorrebbe che fosse accaduto, ma è ridicolo continuare a tenerlo rinchiuso come un delinquente qualsiasi.”


Un delinquente qualsiasi: era quello il punto. Qualunque cosa Garrison avesse fatto, sembrava sostenere Mitchell, suo fratello apparteneva comunque alla famiglia reale americana e meritava di essere trattato con il dovuto rispetto. Quell’impressione fu confermata quando Rachel si recò al palazzo: l’atmosfera era quella di un assedio; le tende chiuse per proteggersi dagli occhi dei curiosi, mentre i nobili Geary discutevano su come affrontare la crisi. Loretta sembrava imperiosa come al solito anche se la sua voce tradiva una certa stanca malinconia, quasi che fosse stata una martire pronta ad affrontare stoicamente il supplizio. Diede il benvenuto a Rachel con un bacio asciutto.

Presero posto attorno al tavolo in sala da pranzo, Loretta a capotavola e di fronte a lei, Cecil. Oltre a Deborah, Rachel e Mitch, c’erano altri tre membri del clan. C’erano Norah, abbronzata e brusca; Richard, il fratello di George, appena arrivato da Miami dove aveva difeso con successo un uomo che aveva fatto a pezzi una prostituta con un coltello elettrico; e Karen, giunta in volo dall’Europa. Era proprio quest’ultima l’unica componente della famiglia che Rachel non aveva mai incontrato; era all’estero quando lei e Mitchell si erano sposati. Era una donna gentile e poco appariscente. Rachel ebbe l’impressione che non fosse tornata per amore di Garrison o della famiglia ma perché era stato emanato un editto che esigeva la sua presenza. Non contribuì attivamente al dibattito, anzi, quasi non disse una parola per tutta la cena, e tenne gli occhi quasi sempre fissi sul piatto.

Era Loretta la vera star della serata: non c’erano dubbi. Quando tutti ebbero preso posto attorno al tavolo, esordì con una dichiarazione d’intenti.

“Dobbiamo ricominciare a comportarci come una famiglia”, disse. “Questa faccenda di Garrison è un richiamo all’ordine per tutti noi. È tempo che mettiamo da parte le nostre differenze. È tempo che dimostriamo alla gente di cosa siamo fatti. Cadmus, sono sicura che lo sapete tutti, in questo momento è costretto a letto e temo che sia molto debole. Da qualche giorno non riesce nemmeno a ricordarsi chi sono, il che naturalmente è molto doloroso. Ma ha degli improvvisi periodi di lucidità, in cui sa ancora essere eccezionalmente acuto. Oggi, nel tardo pomeriggio, mi ha detto che sentiva delle voci nella casa. E io gli ho risposto che sì, stavamo facendo una piccola riunione di famiglia. Com’è naturale, non gli ho detto il motivo. Non sa niente di quello… che è successo… e io non ho alcuna intenzione di raccontarglielo. Ma quando gli ho parlato della riunione, lui mi ha detto che vi avrebbe senz’altro partecipato. E sono sicura che in un certo senso lui sia qui con noi. Dovrebbe esserci d’ispirazione, in questo difficile momento.” Seguirono alcuni mormorii di assenso, soprattutto da parte di Richard. “Sappiamo tutti che cosa direbbe Cadmus se sapesse quello che sta accadendo”, continuò Loretta.

“Sì, direbbe: vadano tutti a farsi fottere”, intervenne Mitch. Norah scoppiò a ridere nel suo bicchiere di vino.

Loretta riprese senza nemmeno voltarsi verso Mitchell. “Direbbe: gli affari devono continuare come sempre. Dobbiamo dimostrare la forza della nostra famiglia. L’unità della nostra famiglia. Ed è per questo che sono particolarmente grata a te, Rachel, per averci raggiunto così prontamente. So che le cose tra te e Mitchell non sono facili in questo momento, quindi devo ammettere che mi fa ancora più piacere che tu sia qui. Ora, Cecil, saresti così gentile da aggiornarci sulla situazione di Garrison?”

L’ora successiva fu interamente dedicata alle questioni di carattere legale: la storia del giudice che avrebbe presieduto l’udienza, raccontata da Richard; alcune valutazioni del pubblico ministero, riferite da Cecil; e poi i problemi lavorativi dovuti all’assenza temporanea di Garrison. Era evidente che non era facile gestire gli affari di famiglia ora che non c’era Garrison a dare ordini.

Alla fine, la conversazione si spostò su Rachel.

“Mitchell ti ha già parlato del galà di beneficenza di venerdì sera?” le chiese Loretta.

“No, io…”

Loretta gettò a Mitchell un’occhiata stanca. “E per l’ospedale. Il reparto di pediatria. Era l’unica attività di beneficenza a cui Margaret sembrava interessarsi, e penso che sia importante per noi essere presenti.”

“Volevo parlarne a Rachel più tardi”, s’intromise Mitchell.

“Non più tardi, Mitchell, adesso”, ribatté Loretta. “Ci sono già stati fin troppi ‘più tardi’ in questa famiglia. Cose che sono state rimandate all’infinito…” Di cosa diavolo stava parlando?, si chiese Rachel. “Dobbiamo andare avanti e fare ciò che dobbiamo fare. Anche se questo ci può mettere a disagio o…”

“D’accordo, Loretta”, disse Mitchell. “Calmati adesso.”

“Non parlarmi con quel tono condiscendente”, replicò Loretta con voce priva d’inflessione. “Farai meglio ad ascoltarmi per una volta nella tua viziatissima vita. Siamo nei guai. Mi capisci?” Mitchell si limitò a fissarla e questo infiammò Loretta ancora di più. “MI CAPISCI?” gridò, sbattendo la mano sul tavolo. Le posate d’argento tintinnarono.

“Loretta”, disse Cecil a bassa voce.

“Lascia perdere, Cecil, è inutile. Questo non è il momento di fare i carini. Siamo in guai terribili. Tutti noi. Tutta la famiglia. In guai veramente terribili.”

“Garrison uscirà entro una settimana”, disse Mitchell.

“Sei solo testardo oppure sei troppo stupido per capire cosa sta succedendo sotto il tuo naso?” continuò Loretta in tono più controllato ma tutt’altro che conciliante. “Non si tratta solo di quello che è successo alla povera Margie…”

“Oh, non cominciare a fare la Cassandra, Cristo santo”, la interruppe Mitchell con voce carica di disprezzo.

“Mitchell”, disse Cecil, “un po’ di rispetto…”

“Se Loretta vuole che la rispetti, deve cominciare a essere pratica e smetterla di ripeterci che è tutto scritto nelle fottutissime stelle.”

“Non sto dicendo questo”, ribatté Loretta.

“Oh, scusami. Allora oggi è il giorno dei tarocchi?”

“Se tuo padre potesse sentirti…”

“Mio padre ti considerava una pazza”, proseguì Mitchell, alzandosi di scatto. “E io non ho intenzione di sprecare il mio tempo ad ascoltarti blaterare degli affari di famiglia come se ci capissi qualcosa.”

“Quello che non capisce sei tu”, disse Loretta.

“Io capisco benissimo”, gridò Mitchell. “Credi che non sappia che stai cercando di portare Rachel dalla tua parte?”

“Oh, per l’amor di Dio.”

“L’hai mandata su quell’isola del cazzo, come se fosse una specie di segreto.”

Rachel gli posò la mano sul braccio. “Mitch”, mormorò. “Ti stai rendendo ridicolo. Sta’ zitto.”

Lui la guardò come se lei gli avesse appena dato uno schiaffo. Ritrasse bruscamente il braccio. “Allora sei dalla sua parte?” disse, guardando Rachel e indicando Loretta. “Questa è una specie di congiura? Cecil, aiutami tu. Voglio sapere cosa sta succedendo.”

“Non sta succedendo niente”, rispose Cecil in tono stanco. “Siamo solo tutti sfiniti e nervosi. E tristi.”

Lei non è triste”, replicò Mitchell, tornando a guardare Loretta che aveva assunto un’espressione altera e distaccata. “Lei è fottutamente contenta che Margie sia morta e che mio fratello sia in prigione.”

“Credo che dovresti farle le tue scuse”, disse Cecil.

“Ma è la verità”, protestò Mitchell.

Ora fu Cecil ad alzarsi in piedi. “Mi dispiace, Mitchell, ma non posso permetterti di parlare a Loretta in questo modo.”

Siediti!” gridò Mitchell. “Chi diavolo credi di essere?” Cecil tornò a sedersi e rimase zitto. “Sai cosa succederà quando il vecchio morirà? Ci saremo solo io e Garrison. Saremo noi a capo di tutto. E se Garrison resterà in prigione, ci sarò solo io.” Fece un sorriso privo di allegria. “Quindi ti consiglio di stare attento, Cecil. Ho intenzione di soppesare con grande attenzione il sostegno che riceverò. E se noterò una mancanza di lealtà nei miei confronti, non ci penserò due volte.” Cecil abbassò lo sguardo. “Benissimo”, concluse. “Rachel, noi ce ne andiamo.”

“Vai pure, allora”, disse lei, “ci sentiamo domani.” Mitchell esitò. “Non vengo con te”, aggiunse.

“È una tua decisione”, replicò Mitchell, ostentando indifferenza in modo poco convincente.

“Lo so”, disse lei. “E voglio restare.”

Mitchell non tentò di convincerla. Se ne andò senza aggiungere altro.

“Moccioso”, commentò Loretta a bassa voce.

“Forse dovrei andare da lui e provare a calmarlo”, propose Richard.

“Perché non ce ne andiamo tutti, invece?” intervenne Norah.

“Probabilmente è una buona idea”, disse Loretta. “Rachel… Potresti trattenerti ancora per un paio di minuti? Dovrei parlarti.”

Quando furono sole, Loretta osservò: “Non hai toccato cibo”.

“Non avevo fame.”

“Pene d’amore?” Rachel non rispose. “Passeranno”, continuò Loretta. “Nei prossimi giorni, non ti mancheranno i motivi di distrazione.” Bevve un sorso di vino bianco. “Non hai niente da nascondere. Ci siamo passate tutte.”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

“Di lui”, replicò Loretta. “Di Galilee. Sto parlando di Galilee.” Rachel alzò lo sguardo e trovò gli occhi di Loretta pronti a scrutarla. “È stato come lo volevi?” le chiese.

“Te l’ho detto… Non so…”

Loretta sembrò addolorata. “Non hai bisogno di mentire”, sospirò. “Mentì pure a Mitchell. Ma non a me.” Continuò a fissare Rachel come in attesa di sentire il suo dolore. Anzi, ansiosa di percepirlo.

“Perché dovrei mentire a Mitchell?” chiese Rachel, decisa a sottrarsi a quello sguardo inquisitorio.

“Perché non si merita altro”, disse Loretta in tono piatto. “È nato con tutte le fortune di questo mondo. E questo lo ha reso stupido. Se avesse avuto un labbro leporino sarebbe stato due volte l’uomo che è.”

“Quindi devo pensare che ritieni stupida anche me.”

“E perché?”

“Perché l’ho sposato.”

“Accade ogni giorno che donne brillanti sposino perfetti idioti. A volte è una necessità. Se sei una ragazza che lavora in un negozio di scarpe e non hai altre prospettive nella vita, allora è naturale che tu faccia tutto ciò che è in tuo potere per cambiare la situazione. Non c’è niente di cui vergognarsi. Hai fatto quello che dovevi fare. E adesso fra voi è finita. Non c’è ragione di vergognarsi nemmeno di questo.” Fece una pausa, come per dare a Rachel il tempo di replicare ma quel breve discorso l’aveva confusa. “È davvero così difficile da ammettere?” continuò. “Se fossi al tuo posto, sarei fiera di me.”

“Fiera di cosa?”

“Non fare l’ottusa”, disse Loretta, “non ti si addice. Di cosa hai paura?”

“Non capisco… Non capisco perché mi parli in questo modo quando ci conosciamo a malapena e… be’, per la verità pensavo di non piacerti affatto.”

“Oh, invece mi piaci. Ma ormai il punto non è più questo. Abbiamo bisogno l’una dell’altra, Rachel.”

“Per cosa?”

“Per proteggerci. Qualunque cosa pensi tuo marito, non sarà lui a guidare l’impero Geary.”

“Perché no?”

“Perché erediterà più di quanto sia in grado di gestire. Si sgretolerà. Sta già andando in pezzi adesso che non c’è più Garrison a tenergli la mano.”

“E se Garrison uscisse?”

“Non credo che sia una questione di ‘se’. Uscirà. Ma verranno alla luce altre cose. Le sue donne, per esempio.”

“E allora? Ha un’amante? Non importerà a nessuno.”

“Lo sai cosa gli piace fare?” disse Loretta. “Paga delle donne perché fingano di essere morte. Le fa truccare come se fossero cadaveri e poi se le scopa. E questa è una delle sue ossessioni meno preoccupanti.”

“Oh, mio Dio…”

“Sta diventando sempre meno cauto. Credo che voglia essere scoperto, in effetti. Ci sono alcune fotografie…”

“Di cosa?”

“Non c’è bisogno che tu lo sappia. Ma fidati di me; se anche la meno disgustosa diventasse di dominio pubblico, tutta l’influenza di Garrison svanirebbe all’istante.”

“E chi ha queste fotografie?” Loretta sorrise. “Le hai tu?”

Loretta lisciò una piega della tovaglia, e parlò in tono completamente distaccato: “Non ho intenzione di restarmene con le mani in mano a guardare un necrofilo e un idiota prendere il controllo di tutto ciò che la famiglia possiede. Di tutto ciò che la famiglia rappresenta”. Alzò lo sguardo dalla tovaglia. “Il punto è: tutti dobbiamo prendere una posizione. Tu puoi lavorare con me per assicurarti che non perderemo tutto quando Cadmus morirà, oppure puoi precipitarti da Mitchell e dirgli che sto tramando contro di lui e contro Garrison, e correre i tuoi rischi con lui. Sta a te decidere.”

“Perché ti fidi di me adesso?” chiese Rachel. “Solo perché Margie è morta?”

“Oh Dio, no. Lei non mi sarebbe stata di alcuna utilità. E bisogna ringraziare Garrison anche per questo. Dio solo sa cosa le avrà fatto passare.”

“Lei non avrebbe mai accettato di…”

“Di interpretare la parte del cadavere il sabato sera? Penso che un sacco di donne farebbero anche di peggio per rendere felici i loro mariti.”

“Comunque non hai ancora risposto alla mia domanda: perché mi stai raccontando tutto questo?”

“Perché c’è qualcosa che vuoi e io posso aiutarti a ottenerlo.”

Vi fu un lungo silenzio. Alla fine Rachel disse: “Galilee?”

Loretta annuì. “Chi altri? Alla fine, tutto ritorna a Galilee.”

Quattro

1

In circostanze normali, Rachel avrebbe odiato il galà di beneficenza per l’ospedale. Era proprio uno di quegli eventi sfarzosi che, dopo qualche mese di matrimonio, avevano cominciato ad apparirle come uno sgradevole dovere coniugale: sguardi vitrei e sorrisi gelidi. Ma le cose erano cambiate. Prima di tutto Mitchell la guardava con sospetto e questo le faceva piacere. Ogni volta che Rachel si allontanava per una qualche banale ragione, lui la raggiungeva immediatamente e le sussurrava di stargli vicino. Quando lei gli chiese perché, lui rispose che voleva evitare che qualche ficcanaso figlio di puttana cercasse di carpirle informazioni su Garrison, e lei rispose che era perfettamente in grado di cavarsela da sola. E comunque lei non sapeva niente di interessante per gli appassionati del pettegolezzo.

“Mi stai facendo fare la figura dell’idiota”, le disse, quando la raggiunse la quarta volta. I suoi occhi erano pieni di rabbia e contrastavano con l’espressione di assoluta calma dipinta sul suo viso; quell’accusa era emersa da un sorriso smagliante. “Non voglio che parli con nessuno — mi hai capito?, con nessuno — senza che ci sia anch’io insieme a te. Parlo sul serio, Rachel.”

“Vado dove diavolo mi pare e dico quello che mi va, Mitchell, e né tu né tuo fratello né Cecil né Cadmus né nessun dannatissimo Geary potrà impedirmelo.”

“Garrison ti distruggerà, lo sai”, replicò Mitchell. Ora il suo sorriso era scomparso.

Rachel era incredula. “Sembri la brutta imitazione di un gangster.”

“Ma sai che è la verità. Non te la farà passare liscia.”

“Dio mio, come sei infantile. Vai a chiedere aiuto al fratello maggiore?”

“Sto solo cercando di metterti in guardia.”

“No. Stai cercando di spaventarmi. E non funziona.”

Lui distolse lo sguardo per un attimo, per controllare che non ci fosse nessuno vicino a loro. “Chi credi che vorrà aiutarti quando sarai nei guai?” sibilò. “Noi siamo l’unica vera famiglia che hai, piccola. Siamo i soli a cui ti potrai rivolgere se le cose si metteranno male.”

Rachel cominciava ad avvertire un leggero senso di nausea. Le parole di Mitchell erano inequivocabili.

“Penso che tornerò a casa”, gli disse.

“Sei rossa in faccia, sai?” notò lui, accarezzandole una guancia. “Va tutto bene?”

“Sono solo stanca”, rispose lei.

“Ti accompagno a prendere una boccata d’aria.”

“Sto bene, non è necessario.”

“No”, insistette lui prendendola sottobraccio. “Vengo con te.”

Insieme attraversarono la sala affollata di invitati, fermandosi un paio di volte perché Mitchell doveva salutare qualcuno che conosceva. Rachel non tentò nemmeno di interpretare la parte della moglie devota; si allontanò da lui dopo pochi secondi, costringendolo a seguirla.

“Dobbiamo parlare”, disse lui quando furono in strada.

“Di cosa? Non ho niente da dirti.”

“Solo perché abbiamo avuto dei momenti difficili — ascoltami, Rachel, ti prego — non significa che dobbiamo gettare la spugna e perdere tutto quello che avevamo, tutto quello che provavamo l’uno per l’altra. Dobbiamo parlare. Sul serio.” Le posò un bacio leggero sulla guancia. “Voglio solo il meglio per te.”

“È per questo che prima mi stavi minacciando?” ribatté Rachel.

“Mi spiace che tu abbia avuto questa impressione, mi spiace davvero. Voglio solo che tu consideri le cose dal mio punto di vista.” Lei lo fissò, sperando di comunicargli tutto il suo disprezzo. “Ho un quadro molto più chiaro della situazione adesso”, continuò lui. “Ho delle… nuove informazioni. E so — fidati di me, Rachel — che non sei al sicuro.”

“Correrò il rischio.”

“Rachel.”

“Va’ all’inferno”, gli disse lei in tono estremamente calmo.

L’autista scese dalla limousine per aprirle la portiera.

“Chiamami domani”, disse Mitchell. Lei lo ignorò. “Non abbiamo ancora finito, Rachel.”

“Può chiudere la portiera, per favore?” chiese lei all’autista che obbedì, tagliando fuori le parole di Mitchell, che rimase lì sul marciapiede, con un’espressione allo stesso tempo irritata e sconfitta.

2

Quando scese dall’auto, davanti a casa, un giovane con gli occhiali — che si era nascosto dietro uno dei cipressi davanti al palazzo — le si avvicinò.

“Signora Geary? Devo parlarle.”

Indossava quello che la madre di Rachel avrebbe definito il vestito della domenica: un completo blu; una sottile cravatta nera; scarpe lucide. Aveva i capelli biondi molto corti, ma l’austerità di quel taglio non riusciva a nascondere la dolcezza dei suoi lineamenti.

“Mi ascolti, la prego”, continuò anche se lei non aveva dato l’impressione di volerlo ignorare. “È molto importante.” Lanciò un’occhiata nervosa all’addetto della sicurezza che sorvegliava l’ingresso del palazzo ventiquattr’ore al giorno. “Non sono pazzo. E non sto chiedendo la carità. Si tratta…”

“C’è qualche problema, signora Geary?” volle sapere la guardia.

“… si tratta di Margie”, si affrettò a concludere il giovane.

“Cosa?”

“Io e lei ci conoscevamo. Mi chiamo Danny.”

“Il barman?”

“Sì, il barman.”

“Vuole entrare, signora Geary?” la invitò la guardia. “Posso occuparmi io di questo signore.”

“No, va tutto bene”, disse Rachel, poi si rivolse a Danny. “Salga da me.”

“No. Saremo più al sicuro se facciamo due passi.”

“D’accordo.”


Dopo aver attraversato la strada, cominciarono a camminare tra gli alberi che circondavano il parco.

“Perché tutta questa segretezza?” domandò Rachel. “Non penso che lei sia in pericolo.”

“Non mi fido dei Geary. Margie diceva che erano peggio della mafia.”

“Margie esagerava sempre.”

“Diceva anche che era l’unica che valesse qualcosa.”

“Mi fa piacere.”

“Le voleva molto bene, sa?”

“Anch’io gliene volevo”, disse Rachel. “Era fantastica.”

“Così le aveva parlato di me?”

“Un po’. Mi aveva detto che aveva conosciuto un uomo più giovane. Ne andava molto fiera, in effetti.”

“Stavamo così bene insieme. A lei piacevano i miei Martini, e per me… per me lei era come una star del cinema, sa? Margie era così… appassionata. Non avevo mai conosciuto una donna come lei. Non che avessi frequentato molto spesso donne più grandi di me — intendo dire, non voglio che pensi che sono una specie di gigolò o qualcosa del genere.”

“Che termine antiquato.”

“Be’, comunque io non sono così.”

“Ne sono sicura, Danny”, disse Rachel con dolcezza. “So che provava davvero qualcosa per Margie.”

“E lei provava qualcosa per me”, continuò Danny. “Lo so. Ma non voleva che la gente cominciasse a spettegolare. Sapeva cosa avrebbero pensato gli altri. Sa, del fatto che ero più giovane di lei ed ero solo un barman.”

“Mi sta chiedendo di non raccontare niente a nessuno? Non lo farò, non si preoccupi.”

“Oh, lo so. Margie si fidava di lei. E anch’io mi fido.”

“Allora che cosa vuole?”

Lui rimase a fissare il marciapiede per qualche istante. Poi rispose: “Avevo scritto alcune lettere a Margie, in cui parlavo delle cose che avevamo fatto insieme. A letto, voglio dire.” Si passò una mano sul volto e si accarezzò i baffi. “È stata una cosa stupida, lo so; ma c’erano giorni in cui ero così preso da lei che dovevo scriverle.”

“E dove sono queste lettere?”

“Nel suo appartamento, immagino.”

“E io dovrei recuperarle, giusto?”

“Sì. Se fosse possibile. E… ci sono anche alcune fotografie.”

“Quante?”

“Non più di cinque o sei. Le lettere invece saranno una dozzina. Non ho tenuto il conto. Ecco, non mi aspettavo certo…” gli si incrinò la voce; si mise una mano in tasca e prese un fazzoletto. “Dio mio, sono a pezzi.”

“Io credo che stia reagendo bene, invece”, disse Rachel.

“Probabilmente pensa che stessi con Margie solo per quello che poteva darmi, e forse all’inizio è anche stato così. Voglio essere onesto. Non mi dispiaceva il fatto che avesse tanti soldi. Ma a un certo punto ha smesso d’importarmi. Volevo solo lei.” Le lacrime gli offuscarono lo sguardo. “E quel bastardo figlio di puttana di suo marito! Gesù! Gesù! Come si può credere a quello che dice quell’uomo? Dovrebbero mandarlo sulla sedia elettrica!”

“Temo che la passerà liscia, invece”, mormorò Rachel.

“Allora non c’è giustizia. Perché lui l’ha uccisa a sangue freddo.”

“Sembra molto sicuro di quello che dice”, disse lei. Danny rimase in silenzio. “Era con Margie quella sera?”

“È meglio non parlarne.”

“A me sembra che ne stiamo già parlando.”

“E se dovesse testimoniare sotto giuramento?”

“Mentirei”, rispose Rachel.

Danny le lanciò un’occhiata obliqua. “Come mai lei è così?”

“Così come?”

“Così… gentile con me. In fondo sono solo un barman.”

“E io sono una ragazza che lavorava in una gioielleria.”

“Ma adesso è una Geary.”

“Questo è un errore a cui intendo porre rimedio.”

“Non ha paura di loro?”

“Non voglio che nessuno infanghi il nome di Margie, esattamente come lei. Non posso assicurarle che troverò le lettere e le fotografie, ma farò il possibile.”

Danny le diede il suo numero di telefono e poi si salutarono. Se non avesse avuto notizie di Rachel, disse, avrebbe capito che aveva cambiato idea, e comunque non l’avrebbe biasimata date le circostanze.

Ma Rachel non aveva alcuna intenzione di cambiare idea. Mentre tornava a casa, cominciò a riflettere sul modo migliore per introdursi nell’appartamento di Margie e Garrison alla Trump Tower senza farsi scoprire. Sarebbe stato pericoloso, senza dubbio; stava facendo un favore a qualcuno che la polizia avrebbe voluto senz’altro interrogare, se solo avesse saputo della sua esistenza. Probabilmente il suo silenzio sarebbe stato considerato un crimine; e recarsi sul luogo del delitto per sottrarre delle prove significava rischiare una condanna per intralcio alla giustizia. Ma non le importava. La posta in gioco non erano soltanto le lettere d’amore di Danny e una manciata di foto osé.

Rachel aveva la sensazione di essersi persa in un labirinto di possibili alleanze: Loretta la voleva dalla sua parte, Danny aveva bisogno del suo aiuto, Mitchell era disposto a minacciarla pur di averla al suo fianco. All’improvviso, si ritrovava a essere un elemento fondamentale negli equilibri familiari; ma non ne capiva del tutto la ragione. Né aveva idea di quali sarebbero state le conseguenze se avesse scelto l’alleato sbagliato. Cosa avrebbe ottenuto il vincitore di quella guerra tra figli e matrigna? Solo l’incalcolabile ricchezza dei Geary? Certo, quello era un bottino per cui molta gente sarebbe stata disposta a uccidere; ma i giocatori di quella partita erano già tutti ricchi oltre ogni immaginazione.

C’era qualcos’altro a spingerli, e non si trattava del denaro. Né si trattava dell’amore; e, secondo Rachel, non si trattava nemmeno del potere. Finché non avesse scoperto la verità, non sarebbe stata al sicuro, di questo era certa. Forse, recandosi nel luogo in cui Margie era morta, avrebbe scoperto la natura di quel segreto. Era una speranza primitiva, lo sapeva; una forma di superstizione. Ma cos’altro avrebbe potuto fare? La razionalità non le era stata di nessun aiuto. Era tempo che ricominciasse a fidarsi del suo istinto, e il suo istinto le diceva di andare a indagare sul luogo della tragedia; di entrare nel cuore nero di Garrison Geary per scoprire le speranze e le paure che lo avevano spinto all’omicidio.

Cinque

1

Rileggendo gli ultimi capitoli, mi sono reso conto di non aver ancora trattato una delle storie a cui ho accennato (sono certo di averne tralasciate molte altre, ma anche queste saranno narrate a tempo debito). Sto parlando delle avventure di mia sorella. Ricorderete che l’ultima volta che l’ho vista stava fuggendo da Cesaria, che si era infuriata con lei per un qualche crimine non meglio identificato. Lasciate che vi spieghi cos’è accaduto. La mia paura è che, se non approffito di questo momento per parlarvene, la portata di ciò che sta per accadere ai Geary mi impedirà di farlo più avanti. In breve, questo potrebbe essere l’ultimo istante di tregua a mia disposizione. Dopo di che, il diluvio.

Quindi veniamo a Marietta. Tre o quattro giorni dopo il mio incontro con Cesaria si è presentata nella mia stanza. Sul volto aveva un sorriso sognante.

“Che cos’hai preso?” le ho chiesto.

“Mi sono fatta un paio di funghi”, ha risposto lei.

Vederla in quello stato mi ha infastidito e gliel’ho detto. Non aveva alcun senso della responsabilità: sempre in cerca di un qualche stato alterato.

“Oh, senti chi parla. Allora non hai preso la cocaina con il Benedictine?”

Ho ammesso di averlo fatto. Ma avevo avuto un’ottima ragione: mi aveva aiutato a restare sveglio nelle mie lunghe ore di lavoro. E non lo facevo certo tutti i giorni come lei, ho detto.

“Esageri sempre”, ha replicato Marietta.

Per dimostrarle che si sbagliava, le ho fatto un elenco dei suoi eccessi. Non c’era niente che non avesse provato. Aveva fumato oppio e masticato foglie di coca; aveva sgranocchiato antidolorifici come caramelle, bevendo litri di rum e tequila; aveva un debole per l’eroina sciolta nel brandy e per i dolci all’hashish.

“Dio mio, Maddox, come sei noioso certe volte. Se ascolto della musica ed è musica che vale qualcosa, mi trovo in uno stato alterato. Se mi tocco e mi do piacere, mi trovo in uno stato alterato.”

“Non è la stessa cosa.”

“E perché no?” Ho preso fiato come per ribattere ma non ho detto niente. “Lo vedi? Non sai neanche cosa rispondere.”

“Aspetta, aspetta, aspetta”, ho protestato.

“Comunque”, ha continuato lei, “non vedo come tutto questo possa riguardarti.”

“Mi riguarda se sono io a dover placare tua madre.”

Marietta ha alzato gli occhi al cielo. “Ah, sapevo che ci saremmo arrivati prima o poi.”

“Credo che tu mi debba una spiegazione.”

“Mi ha sorpreso mentre frugavo tra certi vecchi vestiti, tutto qui”, ha risposto Marietta.

“Vecchi vestiti?”

“Sì. È stato talmente assurdo. Insomma, a chi importa dopo tutto questo tempo?”

Nonostante i suoi modi arroganti, mi sono reso conto che mi stava nascondendo qualcosa che la faceva sentire in colpa. “E di chi erano quei vestiti?” ho domandato. “Prova a indovinare.”

“Di Galilee?”

“No… di nostro padre.”

“Hai trovato dei vestiti di nostro padre e li hai toccati?”

“Oh, Cristo santo, Maddox, non cominciare. Erano solo vestiti. Vecchi vestiti. Non penso nemmeno che li abbia mai messi. Sai che razza di vanitoso era.”

“Non mi pare che lo fosse.”

“Be’, forse lo era solo con me”, ha detto con un sorriso malizioso. “Ho avuto il piacere di tenergli compagnia mentre si vestita, molte volte.”

“Ho sentito abbastanza, grazie”, l’ho interrotta. Non mi piaceva la piega che stava prendendo la conversazione; e nemmeno lo scintillio negli occhi di Marietta. Ma era troppo tardi. Il suo lato ribelle era stato stuzzicato e non sarebbe stato così facile placarla.

“Hai cominciato tu”, mi ha stuzzicato. “Quindi adesso, dannazione, mi starai a sentire.”

“Io non…”

Stammi a sentire”, ha insistito. “È giusto che tu sappia quello che faceva quando gli altri non guardavano. Era un vecchio bastardo affetto da satinasi. Hai già usato questa parola nel tuo libro? Satiriasi.

“No.”

“Be’, adesso puoi farlo, citami.”

“Questo non farà parte del libro.”

“Cristo, certe volte ti comporti come una vecchietta, Maddox. Fa parte della storia.”

“Non ha niente a che fare con quello che sto scrivendo.”

“Il fatto che il nostro beneamato padre fondatore fosse così orgoglioso della sua enorme virilità da pavoneggiarsi davanti alla figlia di sei anni mentre aveva un’erezione? Oh, io penso di sì invece.” Ha sogghignato, felice di avermi sconvolto ancora una volta.

“Naturalmente, io ero affascinata. Conosci l’etimologia della parola affascinare? Viene dal latino fascinare, gettare un incantesimo. Era un termine che veniva attribuito di solito ai serpenti.”

“Perché insisti?”

“Lui aveva quello stesso potere, senza dubbio. Mi agitava davanti il suo serpente e io restavo… incantata.” Ha sorriso. “Non riuscivo a staccare gli occhi da lui. Lo avrei seguito dovunque. Avrei voluto toccarlo, ma lui mi diceva di no. Quando sarai un po’ più grande, mi diceva, allora ti mostrerò cosa può fare.”

È rimasta in silenzio e ha guardato fuori dalla finestra. Pur sentendomi in colpa per la mia curiosità, non sono riuscito a impedirmi di chiederle: “E lo ha fatto?”

Lei non si è voltata a guardarmi: “No, mai. Avrebbe voluto — glielo leggevo negli occhi certe volte — ma non ne ha avuto il coraggio. Una volta l’ho raccontato a Galilee e quello è stato il mio grande errore. Gli ho detto che avevo visto il serpente di papà e che era meraviglioso. Gli ho fatto giurare che non ne avrebbe parlato con nessuno, ma naturalmente lui lo ha detto a Cesaria e con ogni probabilità lei ha reso la vita di nostro padre un inferno. E sempre stata gelosa di me.”

“Ma è ridicolo.”

“Eppure è così. Ed è ancora gelosa. Quando mi ha sorpresa a frugare tra quei vestiti, si è messa a gridare. Anche se sono passati così tanti anni, non vuole nemmeno che mi avvicini alle cose di papà.” Alla fine, ha distolto gli occhi dalla finestra e mi ha guardato. “Amo le donne più della vita stessa”, ha continuato. “Amo tutto di loro. La loro vicinanza, il loro profumo, il modo in cui si muovono quando le accarezzi… Non riesco davvero a sopportare gli uomini. Non sotto quell’aspetto. Ma per papà avrei fatto un’eccezione.”

“Sei grottesca, lo sai, vero?”

“E perché?” Ho fatto una smorfia. “Non dobbiamo vivere seguendo le regole che seguono tutti gli altri”, ha detto Marietta. “Perché non siamo come tutti gli altri.”

“Forse saremmo un po’ più felici se lo fossimo.”

“Felici? Io sono in estasi. Sono innamorata. E dico sul serio questa volta. Sono innamorata. Di una ragazza di campagna, nientemeno.”

“Una ragazza di campagna.”

“So che non sembra molto promettente ma lei è straordinaria, Maddox. Si chiama Alice Pennstrom, l’ho conosciuta a un ballo in un granaio a Raleigh.”

“Ci sono balli nei granai per lesbiche oggigiorno?”

“No, era un ballo aperto a uomini e donne. Ma sai come sono fatta. Mi è sempre piaciuto aiutare le ragazze etero a scoprire la loro vera natura. Comunque, Alice è meravigliosa. E io volevo indossare qualcosa di particolare per festeggiare la nostra terza settimana insieme.”

“È per questo che stavi frugando tra gli abiti di papà?”

“Già. Speravo di trovare qualcosa di speciale. Qualcosa di eccitante per Alice”, ha risposto lei. “Comunque grazie per esserti occupato di Cesaria. Ricambierò la cortesia uno di questi giorni.”

“Lo terrò a mente.”

“Nessun problema. So mantenere le promesse.” Ha controllato l’orologio. “Ehi, devo andare. Ho appuntamento con Alice tra mezz’ora. Sono venuta qui a cercare un libro di poesie.”

“Poesie?”

“Mi piacerebbe recitarle qualcosa. Qualcosa di sexy e di romantico, che la metta dell’umore giusto.”

“Fai pure”, ho detto io indicando la libreria. “A proposito, immagino che questo significhi che abbiamo fatto pace?”

“Perché, abbiamo litigato?” ha detto Marietta, quasi stupita dalla mia domanda. “Dove sono i libri di poesie?”

“Sono sparsi qua e là.”

“Hai bisogno di un po’ di organizzazione qui dentro.”

“Grazie, ma la mia stanza mi va bene così com’è.”

“Allora consigliami un libro di poesie.”

“Ne vuoi uno di una poetessa lesbica? Là, sullo scaffale in alto c’è Saffo, e anche un libro di Marina Tsvetaeva.”

“Ma sono abbastanza eccitanti? Voglio dire, faranno bagnare la mia Alice?”

“Oh, certe volte sei così volgare.”

“Allora, sì o no?”

“Non lo so”, ho risposto stizzito. “Comunque pensavo che l’avessi già sedotta.”

“Infatti”, ha risposto Marietta scrutando gli scaffali. “Ed è stato favoloso. Così favoloso che ho deciso di chiederle di sposarmi.”

“Stai scherzando?”

“No. Voglio sposare la mia Alice. Voglio vivere con lei e adottare dei bambini. Decine di bambini. Ma prima mi serve una poesia, per farla sentire… sai cosa intendo… no, adesso che ci penso, probabilmente non lo sai… voglio farla innamorare così tanto da farla soffrire.”

Le ho indicato un punto della libreria. “Alla tua sinistra…”

“Cosa?”

“… quel libriccino con la copertina turchese.” Marietta l’ha preso.

“Sono poesie scritte da una monaca.”

“Da una monaca?” Marietta ha fatto per metterlo giù.

“Aspetta”, le ho detto, “dagli un’occhiata prima. Ecco.” ho raggiunto mia sorella e le ho preso il libro, che lei non aveva ancora aperto. “Lascia che te ne trovi una, poi potrai andartene e lasciarmi in pace.” Ho sfogliato le pagine che odoravano di muffa. Erano passati molti anni dall’ultima volta che lo avevo letto, ma ricordavo una poesia che mi aveva colpito in modo particolare.

“Chi è l’autrice?” ha chiesto Marietta.

“Te l’ho già detto: una monaca. Si chiamava Mary-Elizabeth Bowen. È morta negli anni Quaranta all’età di centoun anni.”

“Era vergine?”

“Ha importanza?”

“Ne ha, se devo trovare qualcosa di sexy.”

“Prova questa”, le ho detto, restituendole il libro.

“Quale?”

Ero una piccola creatura.”

Marietta l’ha letta ad alta voce.


“Ero una piccola creatura nel cuore

Prima di incontrarti,

Niente entrava e usciva facilmente da me;

Eppure quando hai pronunciato il mio nome

Sono stata liberata, come il mondo…”


Marietta ha alzato lo sguardo su di me. “Oh, mi piace. Sei proprio sicuro che fosse una monaca?”

“Leggila e basta…”


“Sono stata liberata, come il mondo.

Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti,

Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri.

Stupidamente sono scappata da te;

Ho cercato in ogni angolo un riparo.

Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito.

Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto.

Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto,

Restituendomi

Al tuo abbraccio.”


“Oh mio Dio”, ha detto Marietta.

“Ti piace?”

“Per chi l’ha scritta?”

“Per Cristo, immagino. Ma non devi per forza dirlo ad Alice.”

2

Marietta se n’è andata soddisfatta e io, nonostante tutto, mi sono accorto che la sua visita mi aveva rinfrancato. La sua idea di sposare Alice Pennstrom mi sembrava ancora assurda, ma in fondo chi ero io per giudicare? Era passato così tanto tempo da quando avevo provato un amore come quello che provava ora lei; e probabilmente una parte di me la invidiava.

Non c’è niente di più personale, credo, della forma assunta dal vuoto che è dentro di noi; e non c’è niente di più intimo dei metodi con cui lo riempiamo. Questo libro è il mio metodo: quando racconto il dolore delle altre persone e l’imminenza del disastro, mi sento confortato. Grazie a Dio, non sta succedendo a me, penso, e mi lecco le labbra pregustando la prossima catastrofe.

Ma prima di narrarvi la prossima catastrofe, devo finire di parlarvi di Marietta. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, è tornata a farmi visita. Era chiaro che non aveva chiuso occhio la notte precedente — aveva profonde occhiaie attorno agli occhi e la voce rauca — ma era raggiante. La poesia aveva funzionato. Alice aveva accettato di sposarla.

“Non ha avuto un attimo di esitazione. Mi ha detto che mi ama più di quanto abbia mai amato qualcuno in vita sua e che vuole stare con me per tutta la vita.”

“E tu le hai detto che la tua vita sarà dannatamente più lunga della sua?”

“Non me ne importa niente.”

“Ma prima o poi dovrai dirglielo.”

“Lo farò non appena sarà pronta. Anzi, dopo che ci saremo sposate, voglio portarla qui. Voglio mostrarle tutto. E sai una cosa, fratellino?”

“Cosa?”

“Troverò il modo di tenerla con me. Gli anni non potranno portarmi via Alice. Non permetterò che succeda.”

“È un processo naturale, Marietta. Come pensi di poterlo fermare?”

“Una volta papà mi ha detto che esiste un modo.”

“Quando?”

“Poco prima che Galilee tornasse a casa.”

Ero davvero colpito. Mia sorella non stava scherzando. “Cosa ti ha detto?”

“Che aveva pensato di usare quel metodo per tenere con sé tua madre, ma che Cesaria gliel’aveva proibito.”

“E ti ha anche spiegato di cosa si tratta?”

“No. Ma lo scoprirò”, ha risposto lei con noncuranza. Poi ha aggiunto in un sussurro: “E se dovrò profanare la sua tomba per farmelo rivelare da lui, non esiterò a farlo. Resterò con Alice fino alla fine del mondo”.


Che posso dire? A essere sincero, sto facendo del mio meglio per non pensare troppo alle parole di Marietta. Mi mettono a disagio. Oltretutto, ho altre storie da raccontare: Garrison è in prigione, Margie all’obitorio e Loretta sta tramando un’insurrezione. Abbastanza da tenermi occupato e da non pensare alle ossessioni di Marietta.

Detto questo, sono sicuro che ci sia un po’ di verità in quello che mi ha raccontato. Mio padre possedeva indubbiamente delle capacità straordinarie. Era un essere divino, a suo modo, e la divinità porta con sé abilità e ambizioni che non riguardano il resto di noi. Così sembra abbastanza plausibile che a un certo punto della sua relazione con mia madre, che penso amasse molto, abbia preso in considerazione l’idea di donarle l’immortalità.

Ma se mia sorella crede di poter convincere le ossa di nostro padre a rivelarle quel segreto avrà una grande delusione. L’anima di nostro padre si trova in un luogo in cui Marietta, per quanto possa ostentare sicurezza, non oserebbe mai avventurarsi.

Sei

1

Il funerale fu celebrato il giorno dopo l’incontro di Rachel con Danny. Qualche anno prima, Margie aveva detto ai suoi avvocati in che modo avrebbe voluto essere sepolta: accanto a suo fratello Sam — che era morto in un incidente stradale all’età di ventidue anni — e a sua madre e a suo padre, nel piccolo cimitero di Wilmington, in Pennsylvania. Il significato di una simile disposizione testamentaria non sfuggì a nessuno. Si trattava dell’ultimo rifiuto di Margie. Quali che fossero state le scelte che aveva fatto in vita, aveva saputo esattamente dove avrebbe voluto essere da morta: lontana dai Geary.

La mattina presto, Rachel ricevette una telefonata da Mitchell che le proponeva di andare al funerale insieme ma lei declinò quell’offerta e si recò a Wilmington da sola. Quel giorno il tempo era pessimo e solo i curiosi più incalliti avevano sfidato la pioggia per raggiungere il cimitero. Ma i giornalisti erano arrivati in forze: non capitava spesso di vedere così tante celebrità tutte insieme. Rachel si rese conto solo in quel momento di quanti personaggi famosi e influenti avessero conosciuto Margie e fossero rimasti così colpiti e affascinati da lei da lasciare le loro case calde e lussuose, il loro eleganti uffici, i loro ricchi cottage al mare o in montagna, per venire a porgerle l’estremo saluto. Si sorprese a chiedersi se per caso lo spirito di Margie non fosse lì, ad aggirarsi tra tutti quei potenti. In tal caso, era molto probabile che stesse facendo commenti poco caritatevoli su lifting malriusciti e chili di troppo. Ma sicuramente era anche fiera della vita che aveva vissuto e che le aveva fatto guadagnare l’affetto, la gratitudine e le lacrime di così tanta gente.

Mitchell non era ancora arrivato, ma Loretta era già seduta nel banco in prima fila e stava fissando la bara coperta di fiori. Rachel non aveva voglia di parlare con lei ma non voleva neanche dare adito a chiacchiere tenendosi troppo in disparte, così percorse la navata, restò per qualche istante davanti alla bara e andò a sedersi accanto a Loretta.

La matrigna di Mitchell aveva il volto impeccabilmente truccato rigato di lacrime e tra le mani stringeva un fazzoletto fradicio. Quella non era la donna fredda e calcolatrice che qualche sera prima aveva presieduto la riunione di famiglia. La sua tristezza sembrava sincera: aveva gli occhi gonfi e le colava il naso. Rachel le strinse la mano per confortarla. Loretta soffocò un singhiozzo.

“Mi chiedevo se saresti venuta”, disse poi a bassa voce.

“Non ho intenzione di lasciare la città”, replicò Rachel.

“Non potrei biasimarti se lo facessi”, disse Loretta. “È un tale disastro.” Continuò a tenere lo sguardo fisso sulla bara. “Almeno ora Margie è in pace. E ora siamo rimaste solo noi.” Seguì un lungo silenzio. Poi: “Mi odiava”.

Rachel pensò che fosse meglio dire la verità: “Lo so”.

“Sai perché?”

“No.”

“A causa di Galilee.”

Quello era l’ultimo argomento che Rachel si sarebbe aspettata di affrontare in circostanze simili. Galilee apparteneva a un altro mondo; un mondo caldo, incantato, dove l’aria aveva il profumo del mare. Chiuse gli occhi e per un attimo tornò in quel luogo con la mente. Il ponte della Samarcanda di sera: l’oceano che accarezzava lo scafo con onde sonnolente, lo scricchiolio delle funi che chiamava le stelle e Galilee che l’abbracciava. Desiderava tornare in quel mondo con tutta se stessa; ascoltare le promesse di Galilee anche sapendo che non le avrebbe mantenute.

Fu riportata alla realtà quando udì Loretta mormorare oh Signore, ci mancava anche questa. Aprì gli occhi, si girò e in fondo alla chiesa notò subito Cecil e dopo un istante si accorse che l’uomo in piedi accanto a lui era Garrison. Era diverso dall’ultima volta che lo aveva visto: aveva i capelli corti e il volto tirato. Aveva un aspetto quasi fragile.

Qualcosa cambiò nell’atmosfera che regnava nella chiesa. Il responsabile della morte della donna che tutti i presenti erano venuti a piangere era là e si stava avvicinando alla bara, accompagnato da Mitchell che lo sosteneva, tenendolo per un braccio.

“Quando è uscito?” chiese Rachel a Loretta in un sussurro.

“Questa mattina. Avevo detto a Cecil di impedirgli di presentarsi.” Scosse la testa. “È una situazione grottesca.”

Garrison ora era davanti alla bara di Margie. Si avvicinò al fratello e gli sussurrò qualcosa. Mitchell fece un passo indietro. A quel punto Garrison appoggiò entrambe le mani sul coperchio. Non c’era niente di teatrale in quel gesto, e lui non sembrava consapevole della presenza di coloro che lo circondavano. Si limitò a rimanere lì, la testa china, come se stesse cercando di comunicare con il cadavere. Rachel si guardò attorno. Tutti, anche coloro che in un primo momento avevano distolto lo sguardo, ora stavano fissando Garrison. Quanti di loro, si chiese, credevano alla sua innocenza? La maggior parte, probabilmente.

Quando tornò a voltarsi, si accorse che Mitchell la stava guardando. Aveva un’aria esausta. Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto si accorse in cosa somigliasse a Garrison: nella fierezza dello sguardo e nella stanca forma delle spalle. In altre circostanze, Rachel avrebbe pensato che dopo un paio di settimane ai Caraibi sarebbe tornato quello di sempre, ma ora sapeva che non era così. Mitchell si stava distaccando dalla levigata illusione di sé che presentava al mondo; stava scivolando via verso il triste luogo di ombre in cui Garrison viveva ormai da anni.

Come li aveva definiti Loretta? Un necrofilo e un idiota? Una definizione forse eccessiva ma non troppo lontana dalla realtà. I due fratelli erano inestricabilmente legati l’uno all’altro, i frutti avvelenati di un albero avvelenato.

Mitchell aveva smesso di fissarla e ora stava allontanando con gentilezza Garrison dalla bara. Il fratello lo seguì docile come un agnellino. Presero posto sulla stessa panca su cui sedevano Rachel e Loretta. Mitchell si voltò a guardarla, lei abbassò gli occhi.

Quando la cerimonia funebre terminò, il feretro venne portato al cimitero. Quella era la parte che Rachel aveva temuto di più; ma quando la bara venne calata nella terra e scomparve alla sua vista, si rese conto che l’angoscia e il dolore avevano lasciato il posto a una pace profonda. Ci furono altre preghiere, fiori gettati nella fossa. E poi fu tutto finito.

2

Mentre Rachel tornava in città, cominciò a piovere a dirotto. Aveva la mente occupata da ciò che l’aspettava il giorno seguente: la ricerca delle lettere di Danny. Con un po’ di fortuna, Garrison sarebbe stato a messa com’era solito fare la domenica: ora aveva un motivo più che valido per ringraziare Dio e fare il bravo ragazzo cattolico. Nel frattempo lei si sarebbe recata alla Trump Tower e si sarebbe messa in cerca delle lettere e delle foto. Se non avesse trovato niente al primo tentativo, avrebbe dovuto aspettare un’altra settimana per essere sicura che Garrison non fosse in casa, altrimenti avrebbe dovuto informarsi sui suoi spostamenti. Sarebbe stato difficile introdursi nella Trump Tower senza che qualcuno la notasse. I giornalisti avrebbero continuato a ronzare attorno all’edificio ancora per un po’; e naturalmente ci sarebbero stati i domestici, anche se qualcuno le aveva raccontato che due delle cameriere se n’erano andate subito dopo l’omicidio di Margie e che la terza aveva cominciato a raccontare di tutto ai peggiori giornali scandalistici e con ogni probabilità era già stata licenziata.

In definitiva, le sarebbe servita solo un po’ di fortuna e avrebbe dovuto avere un’ottima scusa pronta per spiegare la sua presenza se qualcuno l’avesse scoperta nell’appartamento. Ma il fatto era che si sentiva assurdamente eccitata al pensiero di quella ricerca. Per troppo tempo era stata solo un oggetto, una parte insignificante del grandioso schema dei Geary. Persino il suo viaggio a Kaua’i era stato organizzato da un membro della famiglia. Aiutando Danny — o almeno, provando ad aiutarlo — si stava liberando del ruolo che le era stato assegnato; il suo solo rimpianto era di non averlo fatto prima. Le seduzioni del lusso.

Così ora Rachel non poteva fare a meno di chiedersi se anche Galilee, il principe del suo cuore, non fosse stato parte di quelle seduzioni. Quel lusso esagerato le era stato offerto per impedirle di vedere cose che non avrebbe dovuto vedere? Come avrebbe voluto poter parlare con Margie, condividere con lei le sue elucubrazioni. Margie era sempre riuscita ad arrivare al cuore di ogni problema, spogliandolo di tutte le apparenze. Che cosa avrebbe pensato delle teorie di Rachel? Probabilmente che erano irrilevanti e che non potevano aiutarla in nessun modo. Che il suo tentativo di comprendere il grande disegno rifletteva un’illusione prettamente maschile: la convinzione che gli eventi potessero essere modellati e diretti secondo la propria volontà. Ma la filosofia di Margie era stata molto diversa. Secondo lei, gli unici aspetti della vita che potevano davvero essere controllati erano le piccole cose, come il numero delle olive nel Martini o l’altezza dei tacchi delle scarpe. E gli uomini che la pensavano diversamente — i potenti e i plutocrati — prima o poi sarebbero andati incontro a una terribile delusione; una certezza che le aveva dato non poco piacere.

Forse nell’aldilà le cose non funzionavano così, pensò Rachel. Forse il Grande Disegno era oggetto di chiacchiere quotidiane e gli spiriti dei morti amavano studiare i vasti schemi del comportamento umano. Ma ne dubitava. Certamente, non riusciva a immaginare Margie interessarsi più di tanto a questioni del genere. Forse il destino era materia di dibattito da qualche parte nel cielo, ma sicuramente il luogo in cui si trovava Margie era affollato di allegri edonisti che si divertivano a prendere in giro i teorici e i filosofi del fato.

Quel pensiero la fece sorridere; il primo sorriso di quella lunga, infelice giornata. Margie si era guadagnata la libertà. Che la sua sofferenza fosse stata autoinflitta o meno, il punto era che l’aveva sopportata senza smarrire la dolce anima che era stata prima che i Geary la trovassero. Margie l’aveva fatta sembrare una cosa semplice ma, come Rachel aveva scoperto, era un’impresa ardua. Il mondo era come un labirinto in cui era facile perdersi, abbandonare la propria identità. Rachel era stata fortunata. Aveva riscoperto se stessa sull’isola; aveva trovato la Rachel selvaggia, la donna di carne e sangue e appetito. Per quanto oscuro potesse diventare il labirinto o minacciosi i suoi occupanti, non avrebbe mai più lasciato andare la creatura che era diventata; non adesso che Galilee l’amava.

Sette

Domenica mattina, la pioggia era più scrosciante che mai, così fitta che talvolta si faticava a vedere a più di un isolato di distanza. Se c’erano stati dei fotografi in attesa attorno alla Trump Tower, avevano cercato riparo altrove mentre l’oggetto delle loro attenzioni era a messa; o forse lo avevano seguito. Margie aveva dato a Rachel una chiave dell’appartamento quando si erano presentate le prime difficoltà con Mitchell, dicendole di usarlo a suo piacimento.

“Garrison non è quasi mai a casa”, le aveva detto, “quindi non devi preoccuparti di sorprenderlo mentre è ancora in mutande. Il che è comunque uno spettacolo notevole.”

A Rachel non era mai piaciuto quell’edificio e nemmeno l’appartamento. Le sembrava un posto piuttosto deprimente nonostante lo sfarzo, anche nelle giornate di sole. E, in una mattina piovosa come quella, era cupo e malinconico. Il fatto che le stanze fossero arredate con mobili antichi e che le pareti fossero soffocate dai grandi, inutili quadri che Garrison aveva comprato nei primi anni Ottanta sperando di fare un investimento, rendeva tutto ancora più desolante.

Restò in attesa nell’atrio per qualche istante, cercando di capire se c’era qualcuno in casa. Ma i soli rumori che sentiva venivano da fuori; la pioggia che batteva sulle finestre, il gemito lontano di una sirena. Era sola. Era ora di cominciare.

Salì le scale, addentrandosi in un territorio ancora più buio. In cima alla rampa c’era una pendola antica e trasalì quando la scorse, immaginando per un attimo che si trattasse di Garrison. Si fermò per qualche secondo mentre i battiti del suo cuore rallentavano. Ho paura di lui, pensò. Era la prima volta che lo ammetteva: aveva paura di ciò che Garrison avrebbe potuto farle se l’avesse scoperta lì. Una cosa era ascoltare Loretta che parlava delle sue perversioni o vederlo pallido e debole davanti alla bara di Margie; un’altra era immaginare di incontrarlo lì, nel luogo in cui aveva massacrato sua moglie. Che cosa gli avrebbe detto se di colpo se lo fosse trovato davanti? Aveva pronta una sola menzogna plausibile? Probabilmente no. In quel momento, in piedi in cima alle scale, Rachel era assolutamente convinta che Garrison avrebbe ucciso anche lei, se lo avesse ritenuto necessario.

Ripensò a ciò che Mitchell le aveva detto due giorni prima; quel commento sui rischi che avrebbe corso se non ci fosse stato lui a proteggerla. Non era stata una minaccia a vuoto. Anche lei era sacrificabile, proprio come Margie.

“Calmati”, mormorò a se stessa. Quello non era né il luogo né il momento per riflettere sulla sua vulnerabilità.

Doveva fare ciò che era venuta a fare e andarsene il più in fretta possibile. Sfidando il volto pallido della pendola (che non funzionava fin dagli ultimi anni della guerra civile, le aveva detto Margie una volta), raggiunse il secondo piano. Lì si trovavano le stanze di Margie: il salotto, la camera da letto e il bagno in cui era morta.

Rachel aveva deciso di non entrare nel bagno a meno che non avesse trovato niente nelle altre stanze, ma ora, ferma sul pianerottolo, si rese conto che la vicinanza di quel luogo l’avrebbe ossessionata per il resto dei suoi giorni a meno che non l’avesse affrontato. Accese la luce ed entrò in camera da letto. Gli investigatori avevano lasciato la stanza nel caos più totale; dovevano averla passata al setaccio in cerca di prove. Quello era l’unico luogo in tutta la casa decorato da quadri che riflettevano i gusti eclettici di Margie: uno Chagall, un Pissarro che ritraeva un villaggio francese, due Kandinsky. A creare uno strano contrasto con tutto quel colore, c’erano anche due Elegie di Motherwell, forme spoglie e nere su sfondi bianco sporco, appese come memento mori gemelli alla destra e alla sinistra del letto.

Rachel scavalcò i molti cassetti che erano stati abbandonati sul pavimento dai poliziotti e si diresse verso la porta del bagno. Quando afferrò la maniglia, il cuore prese a martellarle nel petto, ma lei cercò di non farci caso e aprì la porta.

Era un ambiente spazioso, tutto marmo rosa e decorazioni dorate; la vasca da bagno, in cui Margie aveva amato immergersi, era enorme. “Mi fa sentire come una puttana da un milione di dollari”, le aveva confidato, divertita.

Dovunque si notavano innumerevoli segni della sua presenza. Bottiglie di profumo e posacenere, una foto di suo fratello Sam infilata nella cornice di uno specchio veneziano, un’altra fotografia (di Margie con indosso della costosa biancheria intima, scattata da un fotografo alla moda) appesa accanto alla porta della doccia. La polizia era stata anche lì. Tracce di polvere per il rilevamento delle impronte digitali sul marmo nero; avanzi di pizza — presumibilmente consumata dagli investigatori mentre erano al lavoro — in una scatola unta vicino alla vasca da bagno. Il contenuto dei cassetti era stato esaminato con estrema cura e sparpagliato su ogni superfìcie disponibile. Una pletora di bottigliette di medicinali, un piccolo specchio quadrato, una lametta (probabilmente conservata per ragioni sentimentali: Margie aveva smesso di usare cocaina diversi anni prima) e una collezione di oggetti sessuali: un piccolo vibratore rosa, una confezione di lubrificante profumato alla ciliegia, alcuni preservativi.

Rachel fu turbata da quello spettacolo. Non poteva evitarsi di immaginare gli agenti che sogghignavano frugando nei cassetti, facendo battute di dubbio gusto su Margie. A lei sicuramente non sarebbe importato.

Aveva visto abbastanza. Non sarebbe più stata ossessionata da quel luogo; tutto il potere che avrebbe potuto avere su di lei era scomparso. O almeno così pensò finché non andò a spegnere la luce. Là, sulla parete, c’era una macchia scura. Si disse di distogliere lo sguardo ma i suoi occhi non le obbedirono e si spostarono su un’altra macchia di sangue secco, ancora più grande. La toccò. Il sangue le si sbriciolò sotto i polpastrelli, come vernice vecchia. Era il sangue di Margie. E ce n’era altro, molto altro, di cui fino a quel momento non si era accorta, sul marmo screziato.

Di colpo, non le importò più che i poliziotti avessero sporcato quella stanza con la loro pizza e le loro dita invadenti. Margie era morta lì. Oh, Dio del cielo, Margie era morta lì. Quello era il suo sangue: una macchia vicino alla spalla di Rachel, dov’era caduta o forse dove si era aggrappata per impedirsi di cadere, una macchia più ampia sul pavimento, proprio tra i piedi di Rachel, scura quasi quanto il marmo.

Distolse lo sguardo, in preda alla nausea, ma le difese che aveva eretto per impedirsi di immaginare la scena avevano irrimediabilmente ceduto. Adesso quella scena era davanti a lei in ogni suo orrido dettaglio. Il suono dei colpi che rimbalzava sul marmo, sugli specchi; l’espressione di incredulità sul volto di Margie mentre cercava di sfuggire a suo marito; il sangue che le scorreva tra le dita, gocciolando sul pavimento.

Che cosa aveva fatto Garrison quando i colpi erano stati esplosi? Aveva gettato via la pistola ed era caduto in ginocchio accanto a lei? Oppure aveva barcollato fino al telefono per chiamare un’ambulanza? Più probabilmente aveva chiamato Mitchell o un avvocato; aveva ritardato il più possibile ogni richiesta d’aiuto per essere certo della morte della moglie.

Rachel si coprì il viso con le mani ma quell’immagine si rifiutava di abbandonarla. Pulsava davanti a lei: il volto di Margie, la bocca spalancata, le mani che si agitavano, il corpo derubato di ogni movimento o di ogni prospettiva di movimento, che si scuriva a poco a poco per il sangue.

“Smettila”, si impose.

Avrebbe voluto uscire dal bagno senza guardare, ma sapeva che sarebbe stata una pessima idea. Doveva affrontare ciò che aveva visto. L’unica cosa che poteva ferirla lì era la sua stessa superstizione.

Con riluttanza, si scoprì il viso e si costrinse a osservare di nuovo la scena. Prima il lavandino, poi lo specchio e la vasca da bagno. Infine il sangue sul pavimento. Solo allora si voltò e lasciò la stanza.

E ora, dove? La camera da letto era davanti a lei, con tutti i cassetti accatastati a terra. Avrebbe potuto passare ore a setacciarla, ma sarebbe stato assurdo. Se le lettere erano lì, erano state nascoste tanto bene da sfuggire anche alla polizia e quindi era improbabile che lei riuscisse a trovarle.

Si diresse invece verso il salotto. Controllò l’ora. Era lì già da dodici minuti. Non aveva tempo da perdere.

Aprì la porta del salotto e arretrò immediatamente, quando Didi, il carlino di Margie, le si avventò contro, abbaiando con la ferocia di un cane tre volte più grande di lui.

“Shh, shh!” Rachel si chinò per farsi annusare la mani. “Sono io.”

Didi smise di abbaiare all’istante e cominciò a scodinzolare, zampettandole attorno. Lei non si era mai curata molto di quel cane, ma ora le faceva tenerezza. Senza dubbio si stava chiedendo dove fosse finita la sua padrona e stava interpretando la presenza di Rachel come un segno del suo ritorno.

“Vieni con me”, disse al cane. Didi obbedì, seguendola in salotto dove un piatto di cibo per cani non mangiato e un giornale sporco di escrementi testimoniavano il suo dolore. Il resto della stanza era in condizioni migliori rispetto al bagno e alla camera da letto. O la polizia non l’aveva esaminata a dovere, o a esaminarla era stata una donna.

Rachel non perse tempo. Perlustrò il salotto, aprendo ogni cassetto, controllando ogni mobile. C’erano diversi luoghi dove potevano essère state nascoste le lettere — schiere di libri (romanzi rosa perlopiù), pile di programmi di spettacoli di Broadway, persino una serie di lettere (tutte di associazioni benefiche che imploravano l’aiuto di Margie) — ma niente di anche solo vagamente sospetto. Didi le rimase vicino per tutto il tempo, determinato a non perdere la sua nuova amica ora che era con lui. Solo una volta la lasciò e si diresse verso la porta scodinzolando come se avesse sentito qualcuno in casa. Rachel si fermò e si avventurò sul pianerottolo, le orecchie tese come quelle del cane ma, evidentemente, era stato solo un falso allarme. Tornò alla sua ricerca, controllando di nuovo l’ora. Era rimasta mezz’ora in sala; non poteva rischiare di trattenersi ancora per molto. Ma se se ne fosse andata a mani vuote, avrebbe avuto il coraggio di tornare? Non sarebbe stato per niente facile; non ora che sapeva cosa l’aspettava in quella casa: il sangue, l’oscurità, l’abbandono.

Quando tornò nel salotto, Didi non era più accanto a lei. Rachel lo chiamò ma lui non venne. Lo chiamò ancora e questa volta sentì un rumore umido che proveniva dal fondo della stanza. C’era un’altra porta che si apriva su un piccolo bagno che riusciva a malapena a contenere un water e un lavandino. In qualche modo Didi era riuscito a salire sulla tavoletta e stava bevendo l’acqua del water, uno spettacolo allo stesso tempo triste e assurdo. Lei gli disse di scendere. Lui sollevò la testa e le rivolse uno sguardo interrogativo. Lei gli ripeté di scendere e questa volta il cane obbedì e uscì dal bagno.

Rachel si guardò attorno: non c’erano possibili nascondigli tranne il piccolo mobile che racchiudeva il lavandino. Si chinò e lo aprì. Sapeva di disinfettante. C’era un piccolo assortimento di detergenti e di rotoli di carta igienica. Rachel li spostò sul pavimento e scrutò tra le ombre. I tubi che sporgevano dal lavandino erano umidi, ma c’era qualcos’altro lì sotto; qualcosa che era stato avvolto in un pezzo di carta. Allungò una mano e afferrò l’oggetto, ma era incastrato tra un tubo e il muro dall’intonaco ammuffito e non riuscì a smuoverlo. Imprecò, facendo scappare Didi che era ritornato per vedere cosa stava succedendo. All’improvviso, l’oggetto si spostò e le sue dita fredde non furono abbastanza veloci per afferrarlo prima che cadesse a terra. Ci fu il suono attutito di una bottiglia che andava in frantumi e un forte odore di brandy impregnò il mobiletto. Chiaramente quella era una bottiglia che Margie aveva nascosto durante uno dei suoi inutili tentativi di smettere di bere. Didi era tornato e stava annusando il liquore.

“Vattene di qui!” gli ordinò Rachel, prendendolo per la collottola per allontanarlo. Didi squittì come un maialino. Lei gli disse di smetterla di lamentarsi e senza troppe cerimonie lo spinse verso la porta. Poi cominciò a rimettere i detergenti al loro posto. Se avesse chiuso per bene le ante del mobile, nessuno avrebbe sentito l’odore del brandy. E se anche lo avessero sentito, si disse, cosa avrebbero trovato? Solo una bottiglia rotta. Stava per richiudere le ante, quando vide qualcos’altro accanto al brandy. Non una ma ben due buste, entrambe spesse. O Danny scriveva lettere molto lunghe, pensò Rachel, oppure le foto erano più numerose di quanto ricordasse. Prese le buste che erano state a contatto con il muro ed erano coperte di frammenti di intonaco marcio. Ma per il resto erano intatte. Una delle due era molto più pesante dell’altra. Non conteneva né lettere né fotografie, pensò; molto più probabilmente un piccolo libro.

Ma quello non era il momento per pensare al contenuto delle buste; le avrebbe esaminate a casa con calma. Chiuse il mobile, richiuse la porta e, dopo aver dato un saluto sbrigativo a Didi, lasciò il salotto.

Se Garrison fosse entrato ora, non sarebbe riuscita a raccontare una bugia plausibile. Aveva il piacere della scoperta dipinto sul viso. Si infilò le buste in una tasca del cappotto e si affrettò a scendere le scale, tenendo d’occhio la porta d’ingresso; ma la fortuna che le aveva permesso di trovare le buste non l’abbandonò. Arrivata nell’atrio, sbirciò fuori per assicurarsi che non ci fossero fotografi e, vedendo che il marciapiede era deserto, uscì sotto la pioggia battente, soddisfatta di se stessa.

Otto

1

Ancora una volta, anche se brevemente, devo interrompere la narrazione per parlarvi di mia sorella. Qualche ora fa è tornata in camera mia per raccontarmi i dettagli delle nozze.

“Non hai scuse”, ha esordito. “Ci devi essere.”

“Non sono mai stato a un matrimonio lesbico”, ho ribattuto io, “non saprei cosa fare.”

“Essere contento per me, per esempio.”

“Ma lo sono.”

“Voglio che tu balli e ti ubriachi e faccia un discorso sentimentale sulla nostra infanzia.”

“Su cosa? Su papà che ti mostrava le sue grazie?”

Lei mi ha lanciato un’occhiata feroce.

“Alice ti ha mai vista arrabbiata?” le ho domandato.

“Una volta o due.”

“No, voglio dire davvero arrabbiata, del genere potrei-strapparti-il-cuore-e-mangiarmelo. ”

“Mmm… no.”

“Non dovresti avvertirla prima del sì? Insomma, puoi essere terrificante certe volte.”

“Anche lei. È l’unica ragazza tra otto fratelli.”

“Ha sette fratelli?”

“Sette fratelli. E la trattano tutti con grande rispetto.”

“La sua famiglia è ricca?”

“No, sono dei poveracci. Due dei suoi fratelli sono in galera. Suo padre è un alcolizzato e beve birra a colazione.”

“Sei sicura che non stia con te solo per i soldi?” le ho chiesto. Marietta mi ha fulminato con lo sguardo. “Gesù, era soltanto una domanda. È solo che non voglio vederti soffrire.”

“Se sei così sospettoso, allora vieni a conoscerla. Vieni a conoscere tutte le mie amiche.”

“Sai che non posso farlo.”

“Perché no? E non dirmi che non puoi perché stai lavorando.”

“È la verità. Lavoro giorno e notte.”

“Ma questo è molto più importante del tuo dannatissimo libro. Si tratta della donna che amo e adoro e idolatro.”

“Mmm. Ami, adori e idolatri, eh? Dev’essere brava a letto.”

“È la migliore, Eddie. E intendo dire la migliore in assoluto. Mi lecca come se fosse stata lei a inventarlo. Grido così forte da far tremare la roulotte.”

“Vive in una roulotte? Sei certa di fare la cosa giusta?”

“Per la maggior parte del tempo, sì”, ha risposto.

“Ma…?”

“Ma cosa?”

“No. Dimmelo tu. Per la maggior parte del tempo, hai detto. È abbastanza?”

“Va bene, furbacchione. Quando hai conosciuto Chiyojo eri assolutamente sicuro — senza ombra di dubbio — che fosse la donna giusta per te?”

“Assolutamente.”

“Ma hai avuto una relazione con suo fratello”, mi ha rammentato lei.

“E allora?”

“E allora eri così certo di voler sposare una donna quando ti scopavi suo fratello?”

“Era una cosa diversa. Lui era…”

“Un travestito.”

“No. Era un attore.” Marietta ha alzato gli occhi al cielo. “Ma come siamo arrivati a discutere di questo?” ho domandato.

“Stavi cercando di convincermi a non sposare Alice.”

“No. Tutt’altro. Volevo solo farti notare che… A essere sincero, non so cosa volevo farti notare. Lasciamo perdere.”

Marietta mi si è avvicinata e mi ha preso la mano. “Sai, parlare con te mi fa molto bene”, ha detto.

“Sul serio?”

“Sì, mi fai riflettere sulle cose. Mi ci fai pensare due volte.”

“Non so fino a che punto sia un bene. A volte rimpiango di aver riflettuto tanto in certe occasioni prima di agire. Avrei potuto fare di meglio in vita mia.”

“Penso che Alice sia la donna giusta per me, Eddie.”

“Allora sposala, Cristo santo.”

Lei mi ha stretto la mano con forza. “Voglio davvero che tu la conosca prima. Voglio la tua opinione. Significa molto per me.”

“Allora potresti portarla qui”, ho detto io. Marietta mi ha guardato, poco convinta. “Prima o poi dovrà vedere questo posto. E credo che sia tu sia io potremo farci un’idea più chiara di lei, vedendo le sue reazioni.”

“Vuoi dire che dovremmo raccontarle tutto?”

“Certo che no. Non tutto. Nessuno potrebbe sopportarlo. Ma abbastanza per capire se è pronta per la verità.”

“Mmm. E tu mi aiuterai?”

“In che modo?”

“Impedendo a Cesaria di spaventarla.”

“Non potrò fermarla, se deciderà di fare qualcosa. Nessuno c’è mai riuscito, nemmeno papà.”

“Ma sono sicura che farai del tuo meglio.”

“Sì. Sarò la voce della ragione, sempre che serva a qualcosa.”

“Dirai a Cesaria che è stata una tua idea?”

“Se proprio devo”, ho risposto con un sospiro.

“Allora siamo d’accordo. Vado subito a parlarne ad Alice.”

“Ti chiedo solo di avvertirmi con un po’ di anticipo. Così potrò organizzarmi.”

“Sono così eccitata.”

“Oh, Signore. Questo sì che mi preoccupa.”


Naturalmente adesso mi pento di aver accettato. Ma cos’altro posso fare? È chiaro che si tratta di una relazione seria. Marietta prova un sentimento molto profondo per questa donna. Glielo leggo negli occhi. Lo sento nella sua voce. E sarei un’ipocrita se, mentre scrivo con tanto entusiasmo della grande passione tra Rachel e Galilee, cercassi di ignorare ciò che sta accadendo proprio sotto i miei occhi.

Comunque ormai ho accettato. Alice verrà qui e accadrà quello che deve accadere.

Nel frattempo, ho una storia da raccontare.

2

L’appartamento di Central Park era deserto quando Rachel vi tornò dopo la sua spedizione alla Trump Tower. Tuttavia, decise di non aprire le buste in sala da pranzo in caso arrivasse qualcuno. Andò invece in camera da letto, chiuse la porta a chiave e tirò le tende. Poi si sedette a gambe incrociate sul letto per esaminare il suo bottino.

Nella busta più sottile, trovò le lettere e le fotografie. A giudicare da quello che aveva scritto, Danny era un virtuoso del sesso. Le sue preoccupazioni riguardo a ciò che avrebbe potuto accadere se qualcuno avesse messo le mani su quelle missive erano più che fondate. C’erano date e luoghi e orari; c’erano promesse e ricordi incandescenti di incontri appassionati. E tutto era descritto con un linguaggio inequivocabile. “Dovremo cominciare a scopare in una stanza isolata acusticamente visto quanto ti piace gridare”, diceva Danny in una delle lettere. “Sono seduto qui, duro come una roccia, e ripenso alle tue grida di piacere mentre entro ed esco da te senza fermarmi, come piace a te. Non c’è niente che non farei per te, lo sai? Quando siamo insieme, per me il resto del mondo non esiste — abbiamo bisogno solo I’una dell’altro. Vorrei essere un bambino, a volte, vorrei che mi allattassi con le tue bellissime tette. Oppure vorrei essere nato da te. Cazzo, so che sembra perverso, ma non sei stata tu a dirmi che non dobbiamo avere paura delle cose che sentiamo? Vorrei scoparti così tanto da perdermi dentro di te, e vorrei che tu mi portassi in giro per un po’, nel tuo grembo, come se fossi il tuo bambino. Così ogni volta che avessi voglia di me, dovresti solo aprire le gambe e io uscirei da te, pronto a soddisfarti.

Le fotografie non erano “artistiche” quanto le lettere, tuttavia erano notevolmente perverse. Danny doveva essere molto fiero della sua virilità e si era fatto immortalare a beneficio dei posteri, mentre il senso dell’umorismo di Margie era evidente nel modo in cui giocava con lui. In una foto, gli aveva dipinto col rossetto il basso ventre e parte della cosce; fiamme, forse, come se l’inguine di Danny stesse andando a fuoco. In un’altra, gli aveva persino fatto indossare i suoi collant, da cui spuntava il suo membro rosso come una ciliegia matura.

Rachel telefonò a Danny per dargli la buona notizia. Lui stava per andare al lavoro ma disse che sarebbe stato felice di darsi malato per andare a ritirare immediatamente le lettere e le foto, se Rachel era d’accordo. Lei gli disse di non fare niente di fuori dall’ordinario per non insospettire nessuno. Potevano incontrarsi alla fine del turno di Danny, verso mezzanotte, e lei gli avrebbe consegnato la busta. Decisero di trovarsi a un paio di isolati dal bar dove lavorava Danny.

Fatto questo, Rachel passò a studiare la seconda busta. Conteneva un diario rilegato in tessuto ed estremamente malridotto, la copertina macchiata e strappata, la costa spaccata, la rilegatura sfilacciata. Era stato legato con una piccola stringa di cuoio chiaro per tenerlo insieme: quando Rachel la sciolse, si accorse che tra le pagine del diario c’erano altri fogli. Alcuni erano stati piegati ordinatamente ed erano ben conservati, altri erano poco più che pezzetti di carta consunta. Alcuni erano coperti da una calligrafìa perfetta ed elegante, altri da scarabocchi caotici e illeggibili. Alcuni erano lettere, altri sembravano frammenti di un sermone (o almeno parlavano diffusamente di Dio e di redenzione). Alcuni erano persino illustrati con figure rozze che sembravano soldati della guerra civile. Non c’era alcun indizio sull’identità del proprietario all’inizio del diario che sembrava cominciare a metà di una frase. Ma quando Rachel lo sfogliò, si accorse che le prime quattro o cinque pagine dovevano essersi staccate e che il proprietario le aveva infilate a metà del libriccino. Sulla prima pagina c’era una dedica, scritta con un’elegante calligrafia femminile.


Questo è per i tuoi pensieri, mio adorato Charles.

Riportamelo quando questa orribile guerra sarà finita e insieme lo metteremo via, per lasciarci alle spalle tutta questa sofferenza.

Ti amo più della vita stessa e ti dimostrerò il mio amore in mille modi quando tornerai da me.

Tua moglie,

Adina


Più in basso, c’era una data:


2 settembre, 1863


Allora quelli dei disegni erano soldati della guerra civile, pensò Rachel. Quel diario doveva essere appartenuto a un militare che vi aveva raccolto le sue esperienze di guerra. Non sapeva molto del conflitto tra gli stati; la storia non le era mai interessata più di tanto. Soprattutto quando trattava eventi brutali; e quel poco che ricordava dai temi della scuola riguardava le crudeltà che avevano dato inizio alla guerra e le crudeltà che ne avevano segnato la fine. Niente di tutto questo era riuscita ad appassionarla e così aveva dimenticato in fretta le date e i nomi che aveva dovuto imparare.

Ma un libro di storia e un diario erano cose molto diverse. Uno era pieno di fatti da apprendere meccanicamente. L’altro aveva una voce, una drammaticità, uno stile particolare. In breve, si ritrovò rapita non tanto dai dettagli che venivano descritti — per la maggior parte si trattava di elenchi di sofferenze e privazioni: cibo immangiabile, animali agonizzanti, marce interminabili, ferite infette e pidocchi — ma dalla presenza tangibile dell’uomo che li aveva descritti, il suo autoritratto sempre più nitido, riga dopo riga. Amava sua moglie, aveva fede in Dio e nella causa del Sud, odiava Lincoln (un “dannato ipocrita”) e quasi tutti i Nordisti (“fingono di essere nel giusto solo perché gli fa comodo”); era più affezionato al suo cavallo che agli uomini che comandava, eppure sembrava preoccuparsi più delle loro sofferenze che delle proprie.


Deve pur esistere un modo migliore per superare le nostre differenze, aveva scritto, che quello di armare uomini come questi che non hanno la più pallida idea di quale sia la posta in gioco, e che vogliono solo concludere questa maledetta faccenda per poter fare ritorno al destino che il Signore ha stabilito per loro: arare e bere e morire, circondati dai loro figli.

Quando li sento parlare tra loro, non discutono di politica né dell’importanza della nostra causa: parlano di acqua fresca e di torte alle fragole. A cosa serve condannare a morte queste anime semplici? Sarebbe stato meglio che avessimo scelto dieci principi del Sud e dieci gentiluomini del Nord (sempre che se ne riescano a trovare dieci) e li avessimo messi in un campo armati di spade a combattere finché non ne fosse rimasto soltanto uno. E la vittoria sarebbe andata a quella fazione, e si sarebbe versato il sangue di soli diciannove uomini invece di compiere questo massacro che insanguina il corpo stesso della nazione.


Qualche pagina dopo, in un passaggio datato 22 agosto 1864 (“una notte sudicia e soffocante”), tornava all’argomento della sofferenza dei suoi uomini ma affrontandolo da un diverso punto di vista.


Spesso perdo la pazienza al pensiero che questa guerra sia opera del Signore. C’è stato donato il libero arbitrio; e che cosa abbiamo scelto? Di farci soffrire I’un l’altro.

Ieri abbiamo raggiunto una collina che doveva essere stata, per una settimana o per un mese, chi può dirlo?, un punto di una qualche importanza strategica. Era disseminata di cadaveri. Blu e grigi, in numero apparentemente identico. Perché non avevano avuto una sepoltura cristiana? Perché, devo presumere, non erano rimasti vivi abbastanza soldati per poterlo fare, e perché nei cuori dei loro comandanti non era rimasta abbastanza compassione per chiamare rinforzi e seppellire quei morti. La battaglia si sposta su un’altra collina — che per una settimana o un mese sembrerà di vitale importanza strategica — e queste centinaia di uomini, figli di altri uomini e padri di altri figli, resteranno qui a diventare cibo per le mosche.

Mi vergogno di me stesso, stanotte. Se questi sono gli uomini, preferirei non essere un uomo.


Più Rachel procedeva nella lettura, più domande le affollavano la mente. Chi era l’autore del diario, che aveva trascritto i suoi sentimenti con tanta eloquenza su quelle pagine? Come aveva imparato a esprimersi in modo così potente, e per quale scopo aveva usato quella potenza una volta finita la guerra? Era stato un pastore? Un politico pacifista? O aveva fatto ciò che sua moglie aveva suggerito e aveva sigillato per sempre il contenuto di quel libro, con tutta la sua rabbia e la sua delusione?

C’erano anche altre domande che non avevano nulla a che fare con Charles e Adina. Come mai Margie aveva conservato quel diario, e perché lo aveva tenuto nascosto insieme alle lettere di Danny? Quel materiale era tutt’altro che scandaloso. Forse all’epoca della guerra civile, le opinioni di Charles sarebbero state ritenute radicali, ma quasi un secolo e mezzo dopo, che importanza potevano avere le sue parole?

Riprese a leggere. Di tanto in tanto, si fermava per scorrere le lettere e i biglietti infilati tra le pagine del diario. Alcuni non avevano niente a che fare con ciò che stava leggendo, altri sembravano pensieri che Charles aveva appuntato in fretta e furia. C’erano due lettere di Adina, entrambe tristi e stranamente brusche. La prima diceva:


Mio adorato marito,

ti scrivo per comunicarti la peggiore delle notizie e non conosco modo per cercare di raddolcirla. Due giorni fa, il Signore ci ha tolto il nostro amato Nathaniel, con una febbre arrivata tanto improvvisamente che se ne è andato prima che Henrietta avesse avuto il tempo di portare il dottor Sarris a visitarlo.

Avrebbe compiuto quattro anni il primo martedì del prossimo mese, e io gli avevo promesso che l’avresti fatto salire sul tuo cavallo come regalo di compleanno, una volta che fossi tornato a casa. È stata questa l’ultima cosa di cui ha parlato.

Non penso che abbia sofferto molto.


La seconda era ancora più breve:


Devo andare in Georgia, e spero che questo sia possibile. Ho saputo da Hamilton che la piantagione è in rovina e che nostro padre è caduto in tale stato di prostrazione che per ben due volte ha cercato di togliersi la vita. Lo porterò con me a Charleston e là mi prenderò cura di lui.


Quella era la stessa donna che aveva scritto la dedica sulla prima pagina del diario ma la sua calligrafìa era quasi irriconoscibile adesso. Rachel stentava a immaginare in quali condizioni dovesse essere ridotta Adina: il marito lontano, un figlio morto, le ricchezze della famiglia perdute; era un miracolo che non fosse impazzita. Ma forse lo era.

Rachel continuò a leggere. Di lì a un’ora avrebbe dovuto smettere per recarsi all’appuntamento con Danny, ma era riluttante all’idea di lasciargli il diario. Ne era affascinata; quelle vite tragiche che si dipanavano davanti a lei, come quelle dei personaggi di un romanzo. Solo che quel libro era privo dei classici elementi confortanti della narrativa. Nessuna voce esterna aveva inserito quegli eventi in un contesto più ampio; e non c’era alcuna certezza che il diario le avrebbe svelato la fine delle loro vicissitudini.

Qualche pagina più avanti, comunque, si ritrovò a leggere un brano che avrebbe cambiato radicalmente la direzione di tutto ciò che sarebbe seguito.


Stanotte non sono sicuro di essere ancora un uomo sano di mente, aveva scritto Charles. Ho vissuto un’esperienza così strana oggi e voglio trascriverla prima di andare a dormire per impedirmi di pensare, domani, che sia stata solo un’invenzione della mia mente esausta. Non è stato così. Ne sono certo. So che la fatica può suscitare certe visioni, ma questa è stata una cosa del tutto diversa.

Stiamo marciando verso sud-est, attraverso il North Carolina. Continua a piovere e il terreno è fangoso; gli uomini sono così stanchi che non hanno nemmeno la forza di cantare o di lamentarsi, riescono a malapena a camminare. Mi chiedo tra quanto tempo dovrò unirmi a loro; il mio cavallo è malato e credo che sia solo il suo amore per me a spingerlo ad andare avanti. Povera creatura ! Mi sono accorto che il cuoco, Nickelberry, di tanto in tanto gli lancia un’occhiata come se si chiedesse se riuscirà a trasformare la sua carcassa in qualcosa di commestibile.

Così, questa è stata la nostra giornata, ed è stata già abbastanza orribile. Ma poi, verso il tramonto, ed era quell’ora particolare in cui niente al mondo sembra solido e certo, ho abbassato lo sguardo — oh Dio del cielo, la mia penna quasi si rifiuta di scrivere queste parole — e ho visto mio figlio, il mio Nathaniel dai capelli d’oro, seduto sulla sella davanti a me.

Ho ripensato alla lettera di Adina, alla sua promessa di farlo salire sul mio cavallo, e il cuore ha preso a battermi più in fretta nel petto perché oggi era il compleanno di Nathaniel.

Ero certo che la sua presenza mi avrebbe abbandonato dopo qualche istante, ma non è stato così. La notte stava calando e lui è rimasto con me, come per cercare di darmi conforto. Nell’oscurità, ho sentito i suoi occhi su di me e ho visto il suo volto pallido.

Allora gli ho parlato. Ho detto: ti amo, figlio mio.

E lui mi ha risposto! Come se tutto questo non fosse già stato abbastanza prodigioso, ha risposto. Papà, ha detto, il cavallo è stanco e vuole che io lo porti via.

Era insopportabile sentire quella piccola voce nelle tenebre che mi diceva che il mio cavallo non sarebbe rimasto a lungo in questo mondo.

Io gli ho detto: allora devi prenderlo. E, non appena ho pronunciato quelle parole, ho sentito il mio cavallo rabbrividire sotto di me. La vita lo ha abbandonato ed è caduto a terra. Io sono caduto con lui, naturalmente, nel fango. Sono arrivati alcuni soldati con delle lampade e c’è stato un po’ di trambusto. Ma io, per fortuna, non ho riportato ferite, come se il mio stato alterato mi avesse protetto in qualche modo.

Di Nathaniel, naturalmente, non c’era traccia. Se n’era andato, accompagnando lo spirito del cavallo nel luogo dove riposano le anime delle creature fedeli e amorevoli.


Sotto quelle parole c’era uno spazio vuoto. Quando Charles aveva ripreso il suo racconto, era in uno stato di agitazione ancora peggiore.


Non riesco a dormire. Mi chiedo se riuscirò mai più a prendere sonno. Non riesco a pensare ad altro che a mio figlio. Perché è venuto da me? Che cosa voleva dirmi?

Nickelberry è un uomo migliore di quanto avessi immaginato. L’esperienza mi ha insegnato che i cuochi sono perlopiù uomini vili. Ma lui è diverso. I soldati lo chiamano Nub. Poco fa mi ha visto scrivere su questo diario ed è venuto da me e mi ha chiesto di scrivere una lettera per lui da mandare a sua madre. Io gli ho risposto che lo avrei accontentato. Lui mi ha detto che gli dispiaceva che il mio cavallo fosse morto ma che avrei dovuto trarre conforto dal pensiero che avesse nutrito tanti uomini che erano così malati che, se non avessero mangiato quella notte, sarebbero sicuramente morti. Io l’ho ringraziato per quel pensiero e mi sono accorto che avrebbe voluto dirmi qualcos’altro ma che non sapeva da che parte cominciare. Io l’ho invitato a parlare liberamente e lui lo ha fatto. Mi ha detto di aver sentito dire che non c’è speranza di vincere questa guerra. Io ho risposto che probabilmente era vero. Al che lui mi ha chiesto: allora perché continuiamo a combattere?

Una domanda così semplice. E io sono rimasto ad ascoltare il rumore della pioggia sulla tenda e i singhiozzi dei feriti, e ho pensato a Nathaniel che era venuto a cavalcare con me, e sono stato sul punto di piangere ma non ho osato farlo. Non perché mi vergognassi. Nickelberry è un brav’uomo; non mi preoccuperebbe piangere davanti a lui. Non ho osato piangere per paura che non sarei più riuscito a smettere.

Gli ho detto in tutta onestà: “Un tempo avrei detto che dobbiamo combattere fino alla morte per dimostrare che la nostra è una giusta causa. Ma ora penso che niente a questo mondo sia puro o lo sia mai stato, e che moriremo inutilmente proprio come abbiamo vissuto”.

Ho già detto che lui era leggermente ubriaco? Penso che lo fosse. Ma in qualche modo la mia ultima affermazione lo ha reso d’improvviso lucido e si è congedato, dicendo che sarebbe tornato da me domani per dettarmi la lettera per sua madre, e che ora mi avrebbe lasciato dormire.

Ma non ci riesco. Penso a quello che mi ha chiesto e a quello che ho risposto e mi chiedo se non farei meglio a sbarazzarmi di questa uniforme e della causa per cui ero pronto a morire, per cominciare a vivere come un uomo e non come un soldato; andandomene per la mia strada.

Stento a credere di aver scritto queste parole. Ma penso che sia per questo che Nathaniel è venuto a prendere il cavallo: è stato il suo modo di scuotermi dal mio torpore; di farmi smettere di marciare verso la morte. Per cosa sarei morto? Per niente.


Rachel guardò l’orologio. Era ora di andare ma non voleva smettere di leggere, così infilò le lettere e le fotografie in una busta, il diario nell’altra, e le portò entrambe con sé. Come spesso accade in questa città, il tempo era cambiato bruscamente: un vento caldo aveva spinto via le nuvole e una volta tanto le strade avevano un profumo dolce. Mentre il taxi avanzava verso Soho, Rachel riprese il diario e continuò a leggere.

Nove

1

La battaglia di Bentonville cominciò lunedì 21 marzo 1865. Non fu, rispetto agli standard della guerra tra gli stati, una battaglia particolarmente decisiva o sanguinosa, ma ha una sua peculiarità: fu l’ultima vittoria della Confederazione del Sud. Trentasei giorni dopo, il generale Joseph E. Johnston si sarebbe incontrato con William T. Sherman alla fattoria Bennett e si sarebbe arreso, segnando così la fine della guerra.


Il capitano Charles Rainwill Holt non disertò la notte prima della battaglia come aveva deciso di fare; preferì aspettare. Il tempo, che durante tutta la marcia era stato inclemente, era ancora peggiorato, e Holt pensò che le chance di potersi allontanare nell’oscurità senza essere scoperto fossero esigue.

Il giorno successivo iniziò la battaglia, e fin dal principio fu il caos. Il terreno su cui si combatteva in certi punti era coperto da una foresta e in altri da rovi e paludi. I soldati di entrambi gli eserciti erano esausti e gli scontri di quel primo giorno e di quella prima notte furono tragicamente confusi. Gli uomini si perdevano nel fumo, nella pioggia e nell’oscurità e sparavano ai loro stessi compagni d’armi. Le trincee venivano abbandonate ancora prima di essere completate. I feriti venivano lasciati nei boschi (illuminati dal fuoco dei cannoni nonostante la pioggia) e bruciati vivi a pochi metri dai loro compagni.

Ma il peggio doveva ancora venire, e il capitano lo sapeva bene. Tuttavia, col passare delle ore, la sensazione di straniamento, che si era impossessata di lui quando suo figlio gli era apparso, tornò. Più di una volta vide un’opportunità di fuga e non riuscì a coglierla. Non era la paura di una pallottola vagante a impedirgli di muoversi. C’era qualcosa di pesante in lui, qualcosa con cui la guerra lo aveva infettato, che lo allontanava dalla fuga.

Fu Nickelberry il cuoco, alla fine, a persuaderlo ad andarsene. Non con le parole ma con il suo esempio.

Il sole era tramontato sul secondo giorno, e Charles si era allontanato dall’accampamento per cercare di rimettere in ordine le idee. Alle sue spalle, gli uomini si radunavano attorno a fuochi cauti, cercando in ogni modo di non perdersi d’animo. Qualcuno stava strimpellando un banjo; un paio di voci sfinite cominciarono a intonare una canzone. Charles cercò di ripensare al giardino di Charleston in cui aveva chiesto ad Adina di sposarlo; si era calmato già molte altre volte ripensando a quell’episodio. La fragranza dell’aria; gli uccelli che cantavano tra gli alberi. Ma quella notte non riusciva più a ricordare il profumo di quel luogo né la sua musica. Era come se quell’eden non fosse mai veramente esistito.

Mentre fissava l’oscurità perso in quei pensieri malinconici, si accorse di una figura che si muoveva tra gli alberi a meno di dieci metri da lui. Stava per ordinargli di identificarsi, quando riconobbe il cuoco.

“Nickelberry…?” sussurrò.

La figura rimase immobile, a tal punto che il capitano quasi non riuscì più a distinguerla dagli alberi tra cui si nascondeva.

“Sei tu, Nickelberry?”

Non ottenne risposta, ma era certo che si trattasse del cuoco, così si incamminò verso di lui. “Nickelberry? Sono il capitano Holt.”

Nickelberry non disse nulla e si limitò ad allontanarsi.

“Dove stai andando?” domandò il capitano, allungando il passo per raggiungerlo. I rovi rallentavano l’avanzata di entrambi ma soprattutto di Nickelberry. Ben presto il cuoco rimase bloccato in un punto in cui i rovi erano particolarmente fitti e cominciò a imprecare, frustrato.

Il capitano lo aveva quasi raggiunto.

“Non si avvicini!” gli intimò Nickelberry. “Non voglio farle del male ma non ho intenzione di restare, e lei non può farci niente. Nossignore.”

“Va tutto bene, Nub. Calmati.”

“Ho chiuso con questa dannata guerra.”

“Abbassa la voce o ci sentiranno.”

“Non ha intenzione di fermarmi, allora?”

“No.”

“Se ci prova”, il capitano vide l’argento pallido di uno dei coltelli per la carne di Nub tra di loro, “la ucciderò senza pensarci due volte.”

“Ne sono sicuro.”

“Non m’importa più di niente. Mi ha sentito? Preferisco correre i miei rischi piuttosto che restare e farmi uccidere.”

Il capitano fissò il cuoco. Riusciva a malapena a scorgere l’espressione del suo viso nell’oscurità, ma con l’occhio della mente vedeva benissimo il suo volto largo ed espressivo. Quello era un uomo astuto e tenace. Non sarebbe stato poi tanto male come compagno di fuga, pensò Charles.

“Vuoi scappare da solo?” disse Holt.

“Cosa?”

“Potremmo andarcene insieme.”

“Insieme?”

“Perché no?”

“Un capitano e un cuoco?”

“Non farà differenza, una volta che saremo scappati. Saremo entrambi disertori.”

“Sta cercando di imbrogliarmi?”

“No. Io ho deciso di andarmene. Se vuoi venire con me, sei il benvenuto. Altrimenti…”

“Vengo”, disse Nickelberry.

“Allora metti via quel coltello.” Holt poteva sentire su di sé lo sguardo del cuoco, ancora dubbioso. “Mettilo via, Nub.” Vi fu un ultimo momento di incertezza, poi Nickelberry si assicurò il coltello alla cintura. “Bene”, disse Charles. “Ora… sai che ti stavi dirigendo verso le linee nemiche?”

“Pensavo che fossero a est.”

“No. Sono proprio laggiù”, disse Holt, indicando il fitto della foresta. “Se guardi con attenzione, noterai i loro fuochi.”

Nickelberry guardò. Era davvero possibile scorgere i fuochi; guizzi gialli circondati dalla notte.

“Dio mio, sarei finito dritto tra le loro braccia.” Anche le sue ultime perplessità adesso erano svanite. “Allora, da che parte andiamo?”

“A mio avviso”, rispose il capitano, “avremo più possibilità di farcela dirigendoci a sud. Io voglio tornare a Charleston.”

“Allora verrò con lei”, annunciò Nickelberry. “Non ho un altro posto dove andare.”

2

Niente di ciò che ho appena raccontato è mai stato riportato nelle pagine del diario di Holt. Il capitano non scrisse nulla per quasi due settimane, e quando riprese la battaglia di Bentonville era finita da tempo.

Questo è ciò che Rachel lesse mentre il taxi la portava lungo Madison Avenue.


La notte scorsa siamo arrivati a Charleston. Non riesco quasi a riconoscerla, tali sono state le violenze che gli Yankee hanno inflitto alla città. Nickelberry mi ha tempestato di domande per tutto il viaggio, ma io non avevo più la forza, di rispondergli. Quando penso a com’era questa nobile città prima della guerra e a come è ridotta ora, cado preda della disperazione, perché tutto ciò che un tempo era bello ora non esiste più. Questa città che era così splendida, adesso è una specie d’inferno: annerita dal fuoco e infestata dai morti. Sono state spazzate via intere strade. Le persone si aggirano tra le macerie, i volti inespressivi, le mani insanguinate per aver frugato tra i mattoni, incessantemente, in cerca di qualcosa che potesse ricordare loro la vita prima della guerra.

Ci siamo diretti verso Tradd Street aspettandoci il peggio, ma abbiamo trovato invece qualcosa di strano. Anche se gran parte della strada era in rovina, la mia casa era quasi intatta. Il tetto era danneggiato e le finestre erano rotte e il giardino naturalmente era avvizzito, ma niente di più.

Ma, oh, quando sono entrato, ho quasi desiderato che una cannonata l’avesse mandata in mille pezzi. La mia casa, la mia preziosa casa, era stata usata come asilo per i moribondi e per i morti. Non so perché fosse stata scelta — non sono disposto a credere che Adina avrebbe accettato una cosa simile; devo pensare che questo sia accaduto dopo la sua partenza per la Georgia. L’unica cosa che so è che ai miei occhi era offerto uno spettacolo orribile.

La sala era stata svuotata di tutti i mobili a parte un grande tavolo di mogano che era stato usato come tavolo chirurgico. Il pavimento attorno al tavolo era nero di sangue vecchio, così come il legno del ripiano. Nella stanza erano sparpagliati gli attrezzi da lavoro del chirurgo: seghetti, martelli e coltelli. La cucina era stata utilizzata per preparare cataplasmi e cose simili, e il fetore che emanava era talmente orribile che Nickelberry, che ha uno stomaco più forte della maggior parte della gente, ha vomitato. E lo stesso ho fatto io, ma poi ho continuato ad aggirarmi per la casa anche se Nub continuava a ripetermi che non avrei dovuto farlo.

Al piano di sopra, in quella che un tempo era la camera da letto in cui Adina e io avevamo dormito — la camera da letto dove Nathaniel era stato concepito e anche Evangeline e Miles — ho trovato una bara vuota. Il letto era scomparso; rubato, presumo, o usato come legna da ardere. Nelle altre camere da letto c’erano materassi sudici, coperte, recipienti e altre attrezzature mediche. Non riesco nemmeno a continuare la descrizione delle misere tracce che ho trovato delle anime che avevano passato lì i loro ultimi istanti.

Nickelberry continuava a insistere perché me ne andassi, e alla fine mi sono allontanato. Ma prima di lasciare la casa, ho voluto uscire in giardino. Mi ha pregato di non farlo, ha detto che gli piaceva la mia compagnia ormai e che temeva per la mia sanità mentale. Ma io non mi sono lasciato persuadere. In qualche modo sapevo che era lì che avrei trovato il peggio, ed ero intenzionato a vederlo, qualunque cosa fosse.

Non conosco nessun altro luogo che profumasse come quel giardino: gelsomini e magnolie, melaleuche e banani diffondevano una fragranza e una dolcezza tali da far girare la testa nelle sere d’estate. E ora, nonostante la devastazione, la natura stava ancora facendo del suo meglio per ingentilire l’aria. Alcune delle piante più piccole erano sopravvissute alla distruzione e i loro rami si stavano riempiendo di boccioli. C’era persino qualche fiore.

Ma quelle piccole vittorie non potevano competere con lo spettacolo terribile che attendeva al centro del giardino. Gli aiutanti dei chirurghi avevano scavato fosse lì per seppellire le parti cancrenose che erano state amputate ai feriti. Avevano fatto un lavoro sommario. Quando se ne erano andati, i cani avevano dissotterrato quella carne putrescente e se ne erano cibati. Lì, dove avevano giocato i miei bambini e la mia adorata Adina aveva passeggiato, c’erano decine e decine di ossa umane. Penso che il mio arrivo abbia disturbato alcuni animali, perché in certi punti la terra era stata smossa da poco a rivelare trofei non ancora divorati. Una gamba con tanto di stivale. Un braccio amputato all’altezza del bicipite. E molto altro a cui non sono riuscito nemmeno a dare un senso, né ho voluto.

In questi tre anni, ho assistito a ogni genere di miseria, facendo appello a tutte le mie forze per sopportare l’orrore. Ma trovare cose ancora peggiori nel luogo in cui i miei bambini avevano giocato, in cui avevo pronunciato parole d’amore per mia moglie, in cui — in breve - avevo costruito il mio paradiso, è stato più di quanto potessi tollerare.

Se non fosse stato per Nub, mi sarei senz’altro tolto la vita.

Dice che dovremmo andarcene domani stesso. Io sono d’accordo con lui. Passeremo questa notte qui, sui gradini della Chiesa di St. Michael, dove sto scrivendo queste righe. Nub è andato a elemosinare o a rubare del cibo (cosa che gli riesce molto bene), ma il pensiero di ciò che ho visto mi torce a tal punto lo stomaco che dubito che sarò in grado di mangiare.

3

Il piccolo club in cui Rachel e Danny si erano dati appuntamento era molto affollato, e lei impiegò diversi minuti a trovare il giovane. Si sentiva stranamente dislocata, come se una parte di lei fosse rimasta tra le pagine del diario del capitano Holt. Non aveva mai assistito a niente di nemmeno paragonabile agli orrori che il capitano aveva descritto, ma il semplice fatto di tenere tra le mani il diario, che era stato nella tasca dell’uomo quando era entrato nella sua casa di Tradd Street, rendeva quella visione ancora più tangibile. Era la folla che la circondava a sembrarle irreale, erano quei volti arrossati dall’alcool.

Persino Danny, quando alla fine riuscì a trovarlo, le sembrava remoto.

“Cominciavo a pensare che non sarebbe più venuta”, disse lui. Aveva la voce leggermente strascicata. “Vuole qualcosa da bere?”

“Prenderò un brandy”, disse Rachel. “Doppio, grazie.”

“Perché non si siede? Mi dispiace per tutta questa confusione. Penso che si tratti di una festa di compleanno. Vuole andare da qualche altra parte?”

“No, voglio solo bere qualcosa, darle le lettere e poi…”

“… non mi vedrà mai più”, concluse Danny. “È una promessa.” Non diede a Rachel il tempo di protestare, cosa che avrebbe fatto solo per educazione, e si addentrò nella folla per raggiungere il bar.

Rachel trovò un tavolo libero in fondo alla sala e si accomodò. Fu tentata di continuare a leggere il diario anche se quello non era affatto il luogo più indicato per farlo. Le luci erano così deboli che forse non sarebbe nemmeno riuscita a distinguere le parole, si disse. Per distrarsi, cercò Danny con lo sguardo. Era ancora al bancone del bar e stava sventolando una banconota per attrarre l’attenzione di qualcuno.

Senza quasi rendersene conto, infilò una mano nella busta e prese il diario. A pochi tavoli da lei, un gruppo di ragazzi ubriachi cominciò a intonare una canzone di buon compleanno. Quella cacofonia la disturbò fino alla fine della prima frase. Poi si ritrovò in compagnia dei due disertori, nella città silenziosa.


Sono passati due giorni da quando siamo arrivati a Charleston e non sono del tutto sicuro di sapere come descrivere ciò che è accaduto dall’ultima volta che ho avuto il tempo di scrivere.

Nub è tornato alla Chiesa di St. Michael poco prima dell’alba, portando non solo cibo, ottimo cibo, il migliore che abbia visto da molti mesi a questa parte, ma anche la notizia di uno strano incontro che aveva fatto.

A quanto pareva, aveva incontrato una donna che in un primo momento aveva scambiato per una sorta di apparizione, tanto era perfetta in quel luogo spettrale, tanto era bella e piena di grazia. Si chiamava Olivia, e Nickelberry era rimasto così affascinato da lei che quando lo aveva invitato dall’altra parte della città a conoscere un suo amico, lui l’aveva seguita.

Quando è tornato da me, non solo aveva conosciuto questo amico, che si fa chiamare Galilee, uno strano nome davvero…


Rachel smise di leggere di colpo. Alzò lo sguardo. La folla si agitava attorno a lei. Danny era riuscito a procurarsi un bicchiere di brandy per lei e un drink per sé, e stava faticosamente raggiungendo il tavolo di Rachel. Lei tornò ad abbassare lo sguardo sul diario, quasi aspettandosi di vedere scomparire le parole che aveva appena letto.

Ma no. Erano ancora là:

questo amico, che si fa chiamare Galilee, uno strano nome davvero…

Non poteva trattarsi dello stesso uomo, naturalmente. Quel Galilee doveva essere vissuto e morto molto prima della nascita del Galilee che conosceva lei.

Aveva ancora qualche istante prima che Danny la raggiungesse, abbastanza da poter leggere qualche altra riga:


ma aveva assaporato la generosità di quest’uomo, che lo aveva cambiato in un modo che non so descrivere. Mi ha detto che saremmo dovuti tornare da lui e che, incontrandolo, sarei stato sollevato dalle sofferenze che avevo patito in quella città…


“Cosa sta leggendo?”

Danny appoggiò i bicchieri sul tavolo. Rachel aveva ancora le parole di Holt negli occhi…

sarei stato sollevato dalle sofferenze che avevo patito in quella città…

“Oh, è solo un vecchio diario.”

“Un cimelio di famiglia?”

“No.”

Danny si sedette. “Il suo brandy”, disse, spingendo il bicchiere verso Rachel.

“Grazie.” Prese il brandy e ne bevve un sorso.

“Va tutto bene?” chiese Danny.

“Sì, tutto bene.”

“Sembra scossa.”

“No… è solo che… questi ultimi giorni…” Le era quasi impossibile mettere insieme una frase sensata, tanto era distratta da ciò che aveva letto. “Non vorrei sembrarle scortese”, disse a fatica. Prima fosse finita quella conversazione, prima sarebbe tornata al diario e avrebbe scoperto cosa attendeva il capitano. “È solo che ho molte cose per la testa. Questo è tutto quello che ho trovato nell’appartamento.” Porse a Danny la busta che conteneva le lettere e le fotografìe. Lui si guardò attorno per essere sicuro che nessuno lo stesse osservando e poi, con cautela, aprì la busta per controllarne il contenuto.

“Non le ho contate, ma penso che ci sia tutto.”

“Ne sono sicuro”, disse Danny, fissando le ultime prove del suo amore. “La ringrazio.”

“Che cosa ne farà?”

“Le terrò.”

“Faccia attenzione, Danny.” Lui la guardò. “Non parli con nessuno di Margie. Non vorrei mai che… sa…”

“Non vorrebbe che ritrovassero il mio cadavere nell’East River.”

“Non sto dicendo…”

“So cosa sta dicendo”, la interruppe lui, “e la ringrazio. Non deve preoccuparsi per me, davvero. Me la caverò.”

“Bene”, disse lei, finendo il brandy. “Grazie per il drink.”

“Se ne va già?”

“Ho alcune cose da sistemare.”

Danny si alzò e le prese la mano con un certo imbarazzo. “So che sembra un luogo comune, ma non so proprio come avrei fatto senza di lei.” Ora sembrava un ragazzino confuso. “So che ha corso dei rischi.”

“Per Margie…” disse lei.

“Sì”, mormorò lui con un sorriso triste. “Per Margie.”

“Le auguro buona fortuna, Danny”, disse Rachel, abbracciandolo. “Sono sicura che sarà felice.”

“Davvero?” replicò Danny dubbioso. “Penso di aver già avuto la mia dose di felicità con Margie.” La baciò sulla guancia. “Ci amava entrambi, vero? E questo è già qualcosa.”

“È molto, Danny.”

“Già”, disse lui, cercando di sembrare allegro. “Ha ragione. È molto.”

Dieci

Più o meno nel momento in cui Rachel saliva su un taxi per tornare a casa e apriva il diario per ricominciare a leggerlo, Garrison si stava versando il quarto scotch della serata. Appoggiò la bottiglia accanto alla poltrona che si trovava davanti alla finestra della sala da pranzo. Non stava bevendo da solo. Mitchell era seduto davanti al fuoco che aveva insistito per accendere, ubriaco come non lo era più stato dai tempi dell’università. Due ubriachi piagnucolosi che si lamentavano delle donne che li avevano traditi. Quella sera avevano parlato liberamente: avevano confessato la loro indifferenza per le fatiche del letto matrimoniale e la loro stanchezza di adulteri; si erano promessi eterna lealtà e, cosa ancora più importante, avevano stabilito una linea da seguire ora che erano così isolati.

“So che non fa bene guardarsi indietro…” disse Mitchell con voce impastata.

“No, infatti…”

“Ma non posso farne a meno. Quando penso a com’erano le cose…”

“Non erano bellissime come te le ricordi. I ricordi sono bugie. In particolare i bei ricordi.”

“Sei mai stato felice?” chiese Mitch. “Almeno un volta? Almeno un pomeriggio?”

Garrison emise un grugnito e rimase un attimo a riflettere. “Be’, adesso che mi ci fai pensare, ricordo quel giorno che ti ho fatto cadere su un formicaio in giardino e le formiche ti hanno morso il culo. Quel giorno sono stato maledettamente felice. Te lo ricordi?”

“Mi ricordo.”

“Mi sono guadagnato un bel po’ di lividi per quello scherzetto.”

“Papà?”

“No, mamma. Non lasciava mai che fosse George a occuparsi di queste cose perché sapeva che non avevamo paura di lui. Mi ha veramente fatto nero.”

“Te lo eri meritato”, disse Mitchell. “Io sono stato male per una settimana e a te non importava un cazzo.”

“Non mi piaceva quando eri al centro dell’attenzione. Però, sai una cosa? Quel giorno, mentre tutti ti stavano intorno, Cadmus mi ha detto: vedi cosa succede se fai preoccupare la gente per qualcuno? Me lo ricordo come se fosse successo ieri. Non era arrabbiato con me, voleva solo farmi capire che avevo fatto una cosa stupida. Da quel giorno ho evitato di farti del male per non farti ricevere troppe attenzioni.”

Mitchell si alzò e andò a prendersi la bottiglia.

“A proposito del vecchio”, disse, “Jocelyn mi ha detto che sei stato a tenergli compagnia l’altra sera.”

“Già. Sono stato seduto accanto al suo letto per qualche ora quando lo hanno riportato dall’ospedale. Credimi, è un osso duro. I dottori non pensavano che sarebbe mai più potuto tornare a casa.”

“E ti ha parlato?”

Garrison scosse la testa. “Perlopiù delirava… devono essere gli antidolorifici che gli hanno prescritto.” Rimase in silenzio per un lungo istante. “Sai cosa mi è venuto in mente?”

“Cosa?”

“Se gli togliessimo le medicine…”

“Ma non possiamo.”

“Voglio dire, se gli togliessimo solo le pillole.”

“Waxman non lo permetterebbe mai.”

“Non dovremmo dirlo a Waxman. Dovremmo farlo e basta.”

“Cadmus soffrirebbe terribilmente.”

Sul volto di Garrison comparve un sorrisetto. “Sì, ma potremmo fargli dire qualcosa di sensato, potremmo avere delle risposte.”

“Cazzo…” mormorò Mitchel.

“So che non è un’idea molto piacevole”, continuò Garrison, “ma che alternative abbiamo? Non può vivere per sempre. Quando se ne sarà andato…”

“Ci dev’essere un altro modo. Fammi provare a parlare con lui.”

“Non riuscirai a cavargli niente. Non si fida più di nessuno di noi. Se si è mai fidato. Credo che si fidi solo di se stesso.” Garrison rimase a pensare per un attimo. “Non è uno stupido.”

“Allora, come fai a sapere che quel diario esiste veramente?”

“Perché è stata Kitty a parlarmene. È stata l’unica che mi abbia mai parlato dei Barbarossa. E aveva visto il diario.”

“Quindi, il vecchio si fidava di lei.”

“Penso di sì. All’inizio, almeno. Penso che tutti noi all’inizio ci fidiamo delle nostre mogli…”

“Aspetta”, disse Mitchell. “Stavo pensando a una cosa.”

“Margie.”

“Già.”

“È venuto in mente anche a me, fratello.”

“Lei piaceva a Cadmus.”

“E quindi pensi che le abbia dato il diario? Già, come ti ho detto è venuto in mente anche a me.” Sprofondò ancora di più nella poltrona, in un bozzolo d’ombra. “Ma se lo avesse avuto, non me lo avrebbe detto di certo. Neanche se le avessi puntato una pistola alla testa.”

“Hai cercato nell’appartamento?”

“I poliziotti lo hanno già setacciato da cima a fondo.”

“Magari lo hanno preso loro.”

“Certo, è possibile…” disse Garrison senza troppa convinzione. “Cecil sta cercando di scoprire che cos’hanno preso da casa mentre io ero in prigione. Ma non credo che a loro possa interessare un vecchio diario.”

Mitchell sospirò. “Sono così stanco”, sussurrò.

“Di cosa?”

“Di tutte queste stronzate sui Barbarossa. Non so proprio perché non possiamo semplicemente dimenticarci di loro. Se fossero stati un vero problema per noi, il vecchio l’avrebbe risolto già da molto tempo.”

“Non avrebbe potuto”, obiettò Garrison, sorseggiando il liquore. “Sono troppo potenti.”

“Se sono così potenti, perché non li ho mai sentiti nominare?”

“Perché non vogliono che la gente sappia di loro.”

“E che cos’hanno da nascondere? Magari qualcosa che potremmo usare contro di loro.”

“Non credo”, disse Garrison. Mitchell fissò il fratello in attesa che continuasse, ma Garrison non disse niente. Trascorsero alcuni secondi. Infine mormorò: “Le donne ne sanno molto più di noi”.

“Perché si fanno scopare da quel figlio di puttana?”

“Penso che ci sia dell’altro”, disse Garrison.

“Voglio ammazzare quel bastardo”, fece Mitchell.

“Non voglio che tu faccia niente”, disse Garrison scandendo le parole con calma. “Sono stato chiaro, Mitch?”

“Si è scopato mia moglie.”

“Sapevi che prima o poi avresti dovuto permetterle di andare da lui.”

“Stronzate…”

“Non succederà più”, sentenziò Garrison in tono incolore. “Lei è stata l’ultima.” Guardò il fratello dritto negli occhi. “Li distruggeremo, Mitch. Lui e tutta la sua famiglia. È per questo che non voglio che provi a vendicarti. Non devono sospettare niente. Voglio scoprire tutto quello che posso sul loro conto, poi faremo la nostra mossa.”

“E questo ci riporta al diario”, disse Mitchell. Posò il bicchiere sul davanzale. “Sai, forse dovrei davvero parlare con Cadmus.”

Garrison non fece commenti. Svuotò il bicchiere, poi — la sua voce ora poco più di un sussurro — disse: “Sai che cosa mi ha raccontato Kitty?”

“Cosa?”

“Che non sono umani.”

Mitchell scoppiò a ridere; un suono duro e rauco.

Garrison attese che il fratello si calmasse, infine replicò: “Penso che avesse ragione”.

“Sono solo cazzate”, disse Mitchell, scoprendo i denti per il disgusto. “Come fai a berti delle stronzate del genere?”

“Credo che mi abbia portato nella casa dei Barbarossa quando ero molto piccolo.”

“Che si fotta la casa”, disse Mitchell. “Non voglio sentire una parola di più! D’accordo?”

“Dovremo affrontare la realtà prima o poi.”

“No”, replicò Mitchell con decisione. “Se hai intenzione di continuare a parlare di queste cose, preferisco andarmene.”

“Non possiamo più nasconderei”, continuò Garrison con calma. “Fa parte della nostra vita. È così da sempre. Solo che non lo sapevamo.”

Mitchell si fermò vicino alla porta. Intontito dall’alcool, non riuscì a mettere insieme una risposta coerente. Tutto ciò che poté dire fu: “Sono cazzate”.

Garrison lo ignorò. “Sai una cosa? Forse è meglio così. Siamo andati avanti in questo modo per troppo tempo. E arrivato il momento di provare qualcosa di nuovo.” Stava parlando alla stanza vuota, adesso; Mitchell se n’era già andato. Comunque finì il suo pensiero. “Qualcosa di nuovo”, ripeté, “o qualcosa di molto antico.”

Undici

Quella notte Garrison non dormì. Non aveva mai avuto bisogno di più di tre o quattro ore di sonno, e dalla morte di Margie quel numero era sceso a due e talvolta a una sola. Naturalmente era esausto e lo sapeva. Non avrebbe potuto continuare a negare al suo corpo il riposo di cui aveva bisogno senza risentirne. Tuttavia, insieme allo sfinimento era arrivato uno strano senso di lucidità. La conversazione con suo fratello, per esempio, sarebbe stata impensabile fino a poche settimane prima: la sua mente avrebbe rifiutato le idee che aveva esposto con la stessa veemenza con cui le aveva rifiutate Mitchell. Ma adesso le cose erano cambiate. Vìveva in un mondo di misteri ed era stata solo la paura a spingerlo a ignorarne la presenza. Ora gli sembrava che l’unico modo possibile per andare avanti fosse allungare una mano verso quei misteri e toccarli; scoprire che cos’erano, capirne il significato; lasciare che operassero su di lui le trasformazioni che desideravano.

Alla fine Mitchell avrebbe visto le cose come le vedeva lui. Non avrebbe avuto altra scelta. Il vecchio impero stava sparendo nell’oblio: i vecchi poteri stavano morendo e così le vecchie certezze. Qualcosa avrebbe dovuto prendere il posto di quei poteri, e non sarebbe stata una democrazia basata sull’amore e sulla verità; di questo Garrison era assolutamente certo. La nuova era, quando fosse giunta, sarebbe stata elitaria quanto quella che stava per concludersi. Solo pochi avrebbero avuto i mezzi e il coraggio per vivere esistenze superiori. Tutti gli altri avrebbero continuato a vivere e a morire inutilmente. A cambiare sarebbe stata solo la forma del potere. L’era delle ferrovie, del legname e del petrolio avrebbe ceduto il posto a un’epoca in cui il potere sarebbe stato misurato con altri sistemi; sistemi che Garrison non aveva ancora le parole per descrivere. Ne avvertiva l’imminenza come a volte, nei suoi sogni, sentiva di possedere una conoscenza che andava al di là dei suoi cinque sensi, al di là di ogni misurazione e persino al di là della materia. Non sapeva quale fosse l’origine del suo desiderio per quelle nuove possibilità ma era sempre stato in lui. Il giorno in cui sua nonna Kitty gli aveva parlato dei Barbarossa, Garrison aveva avuto la netta sensazione che una parte assopita della sua natura si fosse risvegliata. Ricordava ancora tutto di quella conversazione. Il modo in cui lei lo aveva fissato mentre parlava, attenta a ogni sua espressione, a ogni sfumatura; il modo in cui gli aveva accarezzato il viso, il suo tocco più gentile di qualunque cosa lui avesse mai conosciuto; il momento in cui gli aveva promesso di raccontargli segreti che un giorno avrebbero cambiato la sua vita per sempre. Era stata lei a parlargli del diario. C’era un libro, aveva detto Kitty, che svelava il modo per raggiungere il cuore della terra dei Barbarossa e gli orrori che celava. Orrori capaci di portare alla follia chiunque li avesse affrontati impreparato. Era quello il motivo per cui era essenziale entrare in possesso del diario: le informazioni che conteneva erano di vitale importanza per sfidare i Barbarossa.

Oh, quante notti era rimasto sveglio a pensare a quel diario! A cercare di immaginarselo. Era un libro grande o piccolo, e le sue pagine erano spesse o sottili? Avrebbe capito subito la saggezza che poteva impartire o era scritto in un codice che avrebbe dovuto interpretare? E la domanda più importante: dove lo conservava Cadmus? A volte si era intrufolato nello studio di suo nonno — cosa che gli era severamente proibito fare — e aveva fissato gli scaffali e i mobili senza osare toccare niente, chiedendosi dove fosse nascosto il diario.

Non era mai stato sorpreso ad aggirarsi nello studio. Era sempre stato troppo astuto. Sapeva quando aspettare e quando restare a guardare e quando pianificare; sapeva mentire. L’unica cosa che non aveva mai saputo fare era affascinare. Non ci era riuscito nemmeno con sua nonna. Quando, dopo la guarigione di Cadmus, aveva chiesto a Kitty di parlargli ancora del diario, lei si era rifiutata categoricamente di farlo, anzi era arrivata persino a negare quella loro lontana conversazione. Quando si era reso conto che non c’era niente che potesse dire o fare che l’avrebbe persuasa ad affrontare nuovamente l’argomento, il suo cuore si era riempito di amarezza. E col tempo quell’amarezza era diventata il suo tratto distintivo. In tutte le foto di famiglia, era sempre lui l’unico a non sorridere; l’adolescente astioso e corrucciato che tutti trattavano con prudenza per timore di scatenare la sua rabbia. Non che gli piacesse quell’atteggiamento o l’effetto che aveva sugli altri, ma sapeva che non avrebbe mai potuto competere col fascino spontaneo di Mitchell. Ma, se fosse stato paziente, sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe avuto il potere di indagare da solo su quei segreti. Nel frattempo avrebbe lavorato e avrebbe recitato la parte del nipote amorevole, attento a ogni indizio che potesse sfuggire inavvertitamente alle labbra di Cadmus.

Ma Cadmus non aveva mai detto nulla. Anche se aveva incoraggiato Garrison nella sua ascesa al potere e innumerevoli volte aveva dimostrato di fidarsi del giudizio del nipote, quella fiducia non lo aveva mai portato a parlargli dei Barbarossa. E Garrison non era riuscito a guadagnarsi la simpatia di Loretta. E il pensiero più frustrante era che lei, benché nuova alla dinastia Geary, avesse accesso a informazioni che a lui venivano negate. Loretta, come Kitty e Margie e la moglie di Mitchell, si era recata più di una volta a Kaua’i per stare con un membro del clan Barbarossa. Garrison non aveva mai capito la ragione dell’esistenza di quel rituale; sapeva solo che era una tradizione molto antica. Quando ne aveva sentito parlare per la prima volta, aveva sollevato qualche obiezione, ma Cadmus aveva messo in chiaro che quell’argomento non poteva essere messo in discussione. C’erano cose, aveva detto a suo nipote, che dovevano essere accettate senza fiatare, per quanto sgradevoli potessero essere. Facevano parte del modo in cui funzionava il mondo.

“Non il mio mondo”, aveva protestato Garrison, infuriato. “Non ho intenzione di permettere a mia moglie di andarsene su qualche isola tropicale a divertirsi con un perfetto sconosciuto.”

“Non ti agitare”, aveva detto Cadmus. Poi, in tono pacato, aveva aggiunto che, se non avesse fatto esattamente ciò che gli aveva ordinato, se ne sarebbe pentito. “Se non ti comporti come voglio che tu ti comporti, non c’è posto per te in questa famiglia”, aveva concluso.

“Non mi butteresti mai fuori”, aveva ribattuto Garrison. “Specialmente ora.”

“Tu credi? Se oserai mettere in discussione i miei ordini ancora una volta, ti caccerò senza pensarci due volte. È molto semplice. Dopotutto, non sei precisamente un marito devoto. La tradisci, vero?” Garrison non aveva risposto. “Allora?”

“Sì.”

“Quindi lascia che lei ti tradisca, se questo aiuta la famiglia.”

“Ma non capisco come.”

“Non ha importanza che tu capisca o no.”

Quella era stata la fine della conversazione, e Garrison se n’era andato senza il minimo dubbio sulla sincerità di suo nonno. Cadmus non era tipo da fare minacce a vuoto. E così Garrison, da quel momento in poi, aveva taciuto le sue obiezioni. Quel poco di fede che gli era rimasta nell’amore di suo nonno era morta quel giorno.


Ora, mentre le prime luci dell’alba cominciavano a rischiarare il cielo, Garrison ripensò al vecchio, ammalato ma incapace di rassegnarsi alla morte, e si chiese se fosse il caso di fare un ultimo tentativo di farsi raccontare da lui la verità. Senza dubbio, come aveva detto Mitchell, togliendogli le pillole per mezza giornata lo avrebbero condannato a terribili sofferenze; ma avrebbero potuto farlo parlare. E anche se non ci fossero riusciti, non sarebbe stato male costringere quel vecchio bastardo a implorarli di ridargli i suoi antidolorifici. Garrison sorrise a quel pensiero. Tuttavia, era giusto permettere a Mitchell di provare a parlare con Cadmus. Se suo fratello avesse fallito, allora non avrebbe avuto altra scelta che quella di indossare i panni del torturatore, e sarebbe stato grato per quell’opportunità.

Dodici

1

Acqua e inchiostro; inchiostro e acqua.

Ieri notte ho sognato Galilee. Non è stato uno di quei sogni a occhi aperti — di quelle visioni, se preferite — in cui divento testimone di quanto accade in queste pagine. È stato un sogno che mi ha visitato mentre dormivo ma che si è impresso con tanta forza nella mia mente che era ancora lì quando mi sono svegliato.

Stavo volando come un uccello sopra il mare, e nelle acque sotto di me, legato a una zattera di fortuna, nudo, c’era Galilee. Era coperto di ferite e il suo sangue scorreva nell’acqua. Non ho visto squali ma questo non significa che non ce ne fossero. Il mare nero come l’inchiostro della mia penna, tanto nero da nascondere i suoi abitanti.

Le onde scure colpivano la zattera, facendola a pezzi a poco a poco, e così a un certo punto il corpo di Galilee è rimasto legato a sole tre assi, la testa e le gambe immerse nel mare. Ora, per la prima volta, ha dato l’impressione di rendersi conto di essere sul punto di morire e ha cominciato a divincolarsi per liberarsi dai nodi. Il suo corpo luccicava di sudore, e mentre la scena diventava sempre più frenetica non sono più stato in grado di distinguere ciò che stavo vedendo. Quella forma nera e lucida sulle assi era ancora mio fratello o era l’onda che l’aveva trascinato via?

Volevo svegliarmi; era una scena terribile. Non avevo alcun desiderio di osservare mio fratello mentre annegava. Mi sono detto svegliati. Non devi guardare per forza, apri gli occhi.

Ho cominciato a sentire il sogno ritrarsi, ma proprio in quel momento la lotta di mio fratello è diventata ancora più disperata — le ferite sul suo corpo riaperte mentre si dibatteva — e alla fine è riuscito a liberarsi una mano. Ha sollevato la testa dalle onde, gli occhi selvaggi, la bocca aperta in un urlo senza suono. Si è liberato l’altro polso e, dopo essersi seduto su quel che restava della zattera, ha cercato di sciogliere i nodi che gli stringevano le gambe.

Ma non è stato abbastanza veloce. Le assi sotto di lui si sono divise, Galilee è stato sopraffatto dalle onde ed è stato trascinato sott’acqua dai resti della zattera con i piedi ancora legati.

E poi si è verificato l’evento più strano del sogno. Mentre il suo corpo scompariva tra i flutti, le acque attorno a lui si sono fatte cristalline, come per rispetto verso la carne che stavano reclamando. Non erano trasparenti, ma la loro oscurità si è trasformata in una luce rivelatrice che ardeva così intensa da far invidia al cielo.

Potevo vedere il corpo di mio fratello che sprofondava in quegli abissi luminosi. Potevo vedere ogni forma vivente che nuotava nel mare attorno a lui stagliarsi contro il chiarore delle acque. Banchi di piccoli pesci che si muovevano come un’unica creatura; calamari enormi — i più grandi che avessi mai visto — che osservavano Galilee mentre si inabissava nel loro regno; e, naturalmente, innumerevoli squali che nuotavano in spirali attorno a lui come per proteggerlo.

E poi, come si dice nei libri di fantasia codarda, mi sono svegliato ed era stato solo un sogno.


Non sono pronto a negare la possibilità che, anche se le immagini che ho visto non erano reali, potessero essere vere. Che Galilee, se non è ancora annegato, stia per annegare.

Questo cosa comporta per la storia che vi stavo raccontando? Be’, la interrompe ancora prima che sia finita.

Torniamo a Rachel per un po’. Nel frattempo, lascerò sedimentare questo sogno e tra qualche ora lo riesaminerò. Forse avrà un senso diverso.

2

Quando abbiamo lasciato Rachel, si trovava su un taxi che la stava riaccompagnando all’appartamento di Central Park. Tra le mani teneva il diario che Garrison aveva trascorso tante ore a desiderare, immaginandone le dimensioni e il peso, interrogandosi sul contenuto. E là, tra quelle pagine, Rachel aveva scoperto un mistero: che c’era stato un uomo di nome Galilee nella primavera del 1865 a Charleston. Ora Nickelberry stava accompagnando Holt a conoscerlo, con la promessa che quell’incontro avrebbe alleviato il suo dolore.


Non avevo mai assistito a eccessi simili a quelli che stavo per vedere, sin dai primi giorni della guerra, quando mi era capitato di entrare in un bordello in cui era stato assassinato uno dei miei uomini. Per la verità non ho mai amato il lusso, soprattutto nelle sue forme più esagerate; solo in natura trovo affascinante la sovrabbondanza, le tracce della fonte infinita della creazione. E sempre stata la mia cara Adina ad amare le cose belle — vasi e sete e quadri. Per me, come credo accada alla maggior parte degli appartenenti al mio sesso, l’eleganza dev’essere moderata, altrimenti rischia di essere soffocante.

Quindi, immaginate questo: due case nell’East Battery, di fronte all’acqua, e così danneggiate dal fuoco nemico da sembrare poco più che involucri ma che, all’interno, contengono gli splendori delle cinquanta case più ricche di Charleston.

È stato in quel luogo che mi ha accompagnato Nickelberry; lo stesso luogo dove lo aveva condotto la sua guida, Olivia, che era solo una delle molte persone che occupavano quell’improbabile palazzo.

A quanto pare, Nub ha accettato l’abbondanza di quel luogo senza fare domande (forse questa è la natura dei cuochi, soprattutto in tempi di ristrettezze). Io invece ho cominciato subito a interrogare Olivia. Ho voluto sapere da dove provenissero tutte quelle ricchezze. La donna era nera e poco educata (era stata una schiava, anche se ora indossava un abito elegante e portava gioielli che qualunque signora di Meeting Street le avrebbe invidiato): non ha saputo rispondermi in modo coerente. Io mi sono innervosito ma prima che la mia agitazione crescesse ulteriormente, una donna bianca, molto più vecchia di Olivia, è comparsa al mio fianco. Si è presentata come la vedova del generale Walter Harris, un uomo sotto il cui comando avevo combattuto in Virginia. E stata più che felice di rispondere alle mie domande. Nessuna delle ricchezze in mezzo alle quali ci trovavamo era stata rubata o saccheggiata, mi ha spiegato, ma donata liberamente all’uomo che viveva lì, Galilee. Non le ho nascosto la mia sorpresa perché, oltre allo sfarzo della casa stessa, c’erano cibo e bevande in una quantità inimmaginabile. Le signore mi hanno invitato a sedermi e a mangiare, e dopo molti mesi passati a nutrirmi di gallette fritte nel grasso del bacon, non sono riuscito a trattenermi. Non ero solo al tavolo. C’erano anche un ragazzino negro di non più di dodici anni, un giovanotto dell’Alabama di nome Maybank e una donna molto pallida ed elegante che mangiava dalle mani di Maybank come se fosse stata la sua schiava. All’inizio ho mangiato con prudenza, come sopraffatto dalle pietanze che mi trovavo di fronte, ma il mio appetito ha avuto la meglio e alla fine ho mangiato abbastanza da saziare dieci uomini. Pane dolce con sherry, vitello impanato, ostriche e funghi, una squisita zuppa di granchio e stufato di ostriche e spezie. Per dessert, soufflé al cognac, crostata di mirtilli, pesche sotto spirito e frutta candita. Nickelberry, Olivia e la vedova del generale hanno mangiato con me, mentre la donna più giovane, una certa Katherine Morrow, si è ubriacata di brandy e alla fine se n’è andata in cerca del nostro ospite, solo per addormentarsi sul pavimento vicino alla porta. D’improvviso il giovane Maybank ha dichiarato che avrebbe voluto approfittarsi della donna mentre era in quello stato e ha chiamato il ragazzino negro, Thaddeus, perché lo aiutasse a spogliarla.

Io ho protestato ma Nickelberry mi ha consigliato di tenere a freno la lingua. Avevano tutto il diritto di fare ciò che volevano con la signorina Morrow, se era questo che desideravano, mi ha spiegato; così diceva la legge di quel luogo. Olivia ha confermato le sue parole. Se avessi cercato di intervenire, ha aggiunto, e Galilee mi avesse sentito, mi avrebbe senz’altro ucciso…


Rachel quasi non si accorse del viaggio in taxi né del tragitto in ascensore. Ora sedeva vicino alla finestra, con lo splendore di New York che si stendeva davanti a lei, e lei neanche lo vedeva. Tutto quello che vedeva era la casa dell’East Battery, quelle stanze cariche di eccessi; il capitano, seduto al tavolo, che si rimpinzava…


Le ho chiesto che genere di uomo fosse Galilee e Olivia mi ha sorrìso. Vedrai, mi ha detto. E capirai, quando ti parlerà, che genere di re sia.

Re?, ho detto io, di quale paese? Di ogni paese, ha risposto Olivia; di ogni città, di ogni pietra.

È nero, ha detto la vedova Harris, ma non è mai stato uno schiavo. Le ho chiesto come potesse esserne così sicura e lei mi ha risposto semplicemente che non c’era un uomo al mondo capace di mettere Galilee in catene.

Inutile dire che erano davvero strani discorsi; e nel frattempo i rumori che provenivano dalla stanza accanto diventavano sempre più forti, mentre Maybank e il ragazzo violavano la signorina Morrow.

Nickelberry ha lasciato la tavola ed è andato a guardare. Mi ha invitato a raggiungerlo, e con grande vergogna devo ammettere di aver preso la bottiglia di vino e di essermi avvicinato a lui.

La signorina Morrow non era più priva di sensi ma rispondeva con immenso vigore alle attenzioni dei suoi violentatori. Ormai il ragazzo era nudo e sedeva a cavalcioni sul petto della giovane, strofinandole tra i seni la sua piccola verga, mentre Maybank si soddisfaceva tra le sue gambe che aveva scoperto lacerandole l’elegante vestito di seta.

Quella scena era assolutamente bestiale ma voglio essere sincero: ero eccitato. Infuocato, per la verità.

Dopo anni di malattia e cadaveri, ero felice di vedere della carne sana che sudava un sudore sano. Il frastuono del loro mutuo piacere riempiva la stanza, riecheggiava tra le pareti creando l’illusione che fossero dieci e non tre gli amanti che stavo guardando. La testa ha cominciato a girarmi e mi sono voltato per scoprire che Nickelberry era tornato al tavolo con Olivia, che si era spogliata per lui. Lui pareva un bambino avido mentre immergeva le mani in dessert cremosi che poi spalmava sullo splendido petto della donna. Lei sembrava piuttosto felice di quel trattamento e si premeva contro il seno il volto del cuoco, in modo che le leccasse via la crema dalla pelle.

La vedova Harris è venuta da me e mi ha offerto la sua carne. Ho declinato. Lei mi ha subito detto che non potevo. Se ero in grado di darle piacere, ero obbligato a farlo. Era la legge.

Io ho risposto che ero un uomo sposato, al che lei è scoppiata a ridere e ha detto che in quel luogo non importava ciò che un uomo o una donna erano stati prima di entrarvi, che tutte le storie personali venivano dimenticate e che una persona poteva essere ciò che desiderava.

Allora questo non è il mio posto, ho replicato. Sei così orgoglioso di quello che eri là fuori?, mi ha chiesto con il volto arrossato. Sei sfuggito al tuo dovere; hai perso la tua famiglia e la tua casa. Vali meno di me là fuori. Pensaci! Tu che eri così nobile, ridotto a meno di una vecchia e brutta vedova.

Rabbioso e ubriaco, l’ho schiaffeggiata, con forza. Lei è andata a sbattere contro il muro, strillandomi oscenità che non avrei mai creduto possibili. Io ho scagliato a terra la bottiglia che stavo bevendo e per un istante, pensando forse che intendessi infierire su di lei, la vedova ha smesso di gridare. Ma, non appena le ho voltato le spalle, lei ha ricominciato, seguendomi come una furia. Confuso dall’alcool e desideroso di liberarmi di quella donna, mi sono smarrito. La strada, che credevo mi avrebbe condotto fuori dalla casa, mi ha invece portato a una rampa di scale immersa nell’oscurità. Ho cominciato a salire, barcollando, e a metà della rampa mi sono accovacciato tra le ombre. La vedova non mi aveva notato e io l’ho vista passare mentre continuava a maledirmi.

Sono rimasto ad aspettare, rabbrividendo non per paura della vedova ma per il dolore che aveva acceso in me con ciò che mi aveva detto. La donna aveva ragione, lo sapevo. Non sono niente ormai. Sono meno di niente.

E poi, come se avessi pronunciato ad alta voce la mia sofferenza, in cima alle scale è comparso un uomo e ha abbassato lo sguardo su di me. No, non su di me; dentro di me. Non avevo mai sentito uno sguardo come quello. All’inizio ne ho avuto paura, come se l’uomo avesse potuto usarlo per uccidermi.

Ma poi l’ho visto scendere qualche gradino. Si è seduto e con calma ha detto: “Un uomo che non è niente, non ha niente da perdere. Sono Galilee. Benvenuto”, e io ho avuto la sensazione di aver trovato una ragione per vivere.

Tredici

1

Una ragione per vivere.

Rachel posò il diario aperto sul tavolo e fissò le tenebre del parco oltre la finestra. Era impossibile che quel Galilee fosse la stessa persona che aveva conosciuto, ma era così facile immaginarlo là sulle scale, immaginarlo come l’uomo che aveva dato al capitano una ragione per vivere.

Non aveva fatto la stessa cosa con lei, in un certo senso? Non aveva risvegliato dentro di lei il suo significato, il suo potere?

Diede un’occhiata all’inizio del paragrafo successivo.

Come posso raccontare ciò che mi è successo a quel punto?

Rachel distolse lo sguardo. Non sarebbe riuscita a continuare a leggere, non quella notte. La sua testa era piena degli eccessi descritti dal capitano. La prosa di Holt era cambiata. Le prime pagine erano state scritte con lo stile di un uomo che cercava disperatamente di tenersi a una certa distanza dagli orrori che lo circondavano. Ma adesso il capitano aveva cominciato a scrivere come un narratore, descrivendo le scene con terribile immediatezza. Le immagini con cui le aveva riempito la testa, le danzavano davanti agli occhi: la casa, il cibo, gli accoppiamenti.

L’ultima volta che si era sentita così consumata da una storia era stato ascoltando Galilee…

Guardò di nuovo il diario, senza toccarlo; osservando le parole scritte ordinatamente sulle pagine. Troppo ordinatamente, forse. Quello era il diario di un uomo che narrava le sue esperienze di volta in volta dopo averle vissute? Oppure tutto questo era stato ricostruito più tardi da un uomo a cui era stata insegnata l’arte di raccontare? Che aveva avuto come maestro un uomo che amava le storie; che le raccontava per sedurre?

“No…” si disse. No, non era lo stesso uomo; una volta per tutte, c’erano due Galilee: uno nel diario, l’altro nei suoi ricordi. Abbassò nuovamente lo sguardo sulle parole di Holt:

Come posso raccontare ciò che mi è successo a quel punto?

Quella frase era un astuto bluff. L’autore sapeva esattamente come raccontare ciò che gli era successo; aveva già pronte tutte le parole. Ma la cronaca sarebbe sembrata ancora più vera se fosse stata narrata da un uomo in apparenza incerto delle sue capacità. Provò una fìtta di repulsione per quel diario, per la sua stessa complicità in quegli inganni. Lo aveva divorato, si era nutrita di ogni dettaglio decadente, come se quella vita così lontana avesse potuto svelarle qualcosa della sua.

Ma fino a quel momento, non le aveva mostrato nulla di utile. Sì, l’aveva stuzzicata con i suoi nonsense gotici; con le sue storie di bambini fantasma e di membra dissotterrate, ma le scene della casa erano troppo. Rachel non credeva più all’autenticità del diario. Era solo un’invenzione; i suoi eccessi lo avevano reso grottesco.

Era ancora arrabbiata con se stessa quando andò a letto, e così non riuscì a prendere sonno. Dopo circa un’ora e mezza si alzò, prese un sonnifero, tornò tra le coperte e tentò di nuovo. La pillola si rivelò una cattiva idea. C’era qualcosa in lei che semplicemente si rifiutava di riposare, e il suo corpo prese a combattere contro il sonnifero. Quando, alla fine, Rachel riuscì ad addormentarsi per qualche minuto, la sua testa era piena di frammenti caotici. Si risvegliò poco dopo in un bagno di sudore, preda di un’angoscia così profonda che dovette alzarsi di nuovo e accendere la luce per riuscire a calmarsi.

Scese in cucina, si preparò una tazza di Earl Grey e tornò al diario. Che senso aveva cercare di resistergli?, pensò, abbassando lo sguardo sulla pagina. Che fosse frutto della fantasia o meno, ormai l’aveva catturata e Rachel non sarebbe stata libera finché non l’avesse finito.

2

Dall’altra parte della città, sveglio nel suo letto, Cadmus Geary stava pensando alla sua amata Louise e a quei giorni di corteggiamento che talvolta gli sembravano così lontani e sfocati, come se fosse successo tutto in un’altra vita, mentre altre volte, come quella notte, il ricordo era vivido, intatto e quasi tangibile. Quanto era bella Louise! Assolutamente degna della sua devozione. Naturalmente, quella sera stava facendo la preziosa, ma quella era una delle prerogative della bellezza; e Cadmus non poteva fare altro che starle vicino e sperare che lei si accorgesse della sua sincerità.

“Louise…” mormorò.

Fu la voce pacata di un uomo a rispondere: “Non c’è nessuna Louise, qui”.

Quel tono condiscendente irritò Cadmus. “Lo so”, sbottò. Allungò la mano per prendere gli occhiali dal comodino.

“Vuoi un po’ d’acqua?” chiese l’uomo.

“No, voglio vedere con chi diavolo sto parlando.”

“Sono Mitchell.”

“Mitchell?” Trovò gli occhiali con le dita tremanti, se li mise e guardò il nipote. “Che ore sono?”

“È notte fonda.”

“E allora cosa ci fai qui?”

“Stavamo parlando.”

“E ho detto cose che avevano un qualche senso?”

“Certo”, lo rassicurò Mitchell. Non era esattamente vero. Anche se il vecchio era più in sé di quanto Garrison gli avesse detto, per la maggior parte del tempo era quasi sempre in uno stato di semidelirio. “Hai anche dormito.”

“E ho parlato nel sonno?”

“Sì”, disse Mitchell. “Niente di scandaloso. Stavi solo chiamando una donna di nome Louise.”

Cadmus si abbandonò sul cuscino. “La mia bellissima Louise”, sospirò. “È stata la cosa migliore che mi sia mai accaduta.” Chiuse gli occhi. “Cosa vuoi?” domandò poi. “Avrai sicuramente qualcosa di meglio da fare che stare qui. Non ho in programma di morire.”

“Lo so.”

“E allora va’ a divertirti. Ubriacati. Scopati tua moglie, sempre che lei te lo permetta.”

“No, lei non mi vuole più.”

“Allora scopati la moglie di qualcun altro.” Cadmus riapri gli occhi e rise, emettendo un suono simile a un sibilo. “È anche più divertente.”

“Preferisco stare qui con te.”

“Oh, davvero?” disse il vecchio, incredulo. “O io sono più interessante di quanto immaginassi o tu sei più stupido.” Sollevò la testa di qualche centimetro e scrutò il nipote. “Sei bello, lo sai, Mitchell? Sei davvero un bel giovanotto ma… non sei intelligente come tua madre e non sei onesto come tuo padre, e questo è un vero peccato perché avevo riposto delle speranze in te.”

“Aiutami, allora.”

“E come?”

“Dimmi come vuoi che sia e ci proverò.”

“Non puoi provarci”, disse Cadmus, in tono colmo di disprezzo. “Devi solo andare avanti con quello che hai. Nessuno può biasimarti. È una questione di fortuna.” Tornò ad appoggiare la testa sul cuscino, delicatamente, come se il suo cranio fosse troppo fragile. “Sei solo?” domandò.

“C’è un’infermiera…”

“No, parlo di tuo fratello.”

“Garrison non c’è.”

“Bene. Non voglio vederlo.” Chiuse gli occhi. “Tutti noi abbiamo fatto cose che rimpiangiamo ma… ma… oh Signore, oh Signore…” Fu attraversato da un brivido.

“Devi prenderti un’altra coperta?”

“Non servirebbe. Ho solo freddo, e non possiamo farci niente. L’unica cosa che voglio è la mia Louise…” Stirò le labbra in un sorriso malizioso. “Lei saprebbe come riscaldarmi.”

“Non so di chi tu stia parlando.”

“Tua moglie… somiglia alla mia Louise… lo sapevi?”

“Davvero?”

“Abbiamo gli stessi gusti in materia di donne. È già qualcosa.”

“Dov’è adesso?” domandò Mitchell.

“Tua moglie?” disse Cadmus. “Non sai dov’è tua moglie?” Rise di nuovo. “Scherzavo, Mitchell.”

“Oh.”

“Non mi ricordavo che fossi così privo di senso dell’umorismo.”

“Le cose sono cambiate. Io sono cambiato.”

“Be’, cerca di non perdere il senso dell’umorismo. Alla fine è tutto quello che ci resta. È tutto quello che resta a me, almeno.” Mitchell fece per protestare, ma il vecchio lo zittì. “Non dirmi quanto tutti mi vogliono bene perché so benissimo che non è così. Sono solo un inconveniente. Un ostacolo tra voi e la vostra eredità.”

“Noi vogliamo solo ciò che è meglio per la famiglia”, disse Mitchell.

“E noi significherebbe…?”

“Io e Garrison.”

“Allora dimmi, da quando l’omicidio è per il bene della famiglia?” domandò Cadmus con rabbia. “L’unica cosa che tuo fratello ha portato a questa famiglia è la vergogna. La vergogna. Io mi vergogno dei miei stessi nipoti.”

“Aspetta.” protestò Mitchell. “È stata solo colpa di Garrison. Io non ho niente a che fare con la morte di Margie.”

“No?”

“Assolutamente no. Volevo bene a Margie.”

“Era come una sorella per te.”

“Sì, infatti.”

“E tu non capisci come sia potuto accadere. E una tragedia. Povera Margie, povera, ubriaca Margie. Che cos’ha fatto per meritarsi di morire in quel modo?” Cadmus scoprì i denti marroni. “Vuoi sapere che cos’ha fatto? Te lo dico io. Ha partorito un negro, e tuo fratello non l’ha mai perdonata per questo.”

“Cosa?”

“Non lo sapevi? Ha avuto un figlio da Galilee. Almeno Garrison ne era convinto. Come poteva essere suo? Voglio dire, lui è un Geary. Quindi come poteva essere suo quel piccolo bastardo nero?”

“Non capisco…”

“Penso che sia la prima cosa onesta che tu abbia detto stanotte. Certo, sono sicuro che tu non capisca. Sono sicuro che sia tutto al di là della tua portata.” Scosse la testa. “Qual è la vera ragione per cui sei qui?”

“Aspetta. Torna indietro. Voglio sapere di Margie.”

“Ti ho già detto tutto quello che sono disposto a dirti. Adesso voglio sapere perché sei venuto qui.”

“Volevo solo parlare un po’ con te.”

“Di cosa?”

“Di qualunque cosa tu voglia. Un tempo eravamo così uniti e…”

“Smettila”, disse Cadmus. “Mi fai venire la nausea con tutte queste idiozie. Te lo chiedo ancora una volta: perché sei qui? Rispondimi onestamente oppure levati dai piedi e non tornare mai più.” Si sollevò dal cuscino. “E parlo sul serio.”

Mitchell annuì. “Be’ ”, sussurrò. “Allora… è molto semplice. Voglio sapere qualcosa dei Barbarossa.”

“Ora ci siamo”, disse Cadmus. Per la prima volta dall’inizio della conversazione, sembrava sinceramente compiaciuto. “Continua.”

“Garrison sostiene che c’è un libro…”

“Davvero?”

“… una specie di diario di cui gli avrebbe parlato la tua prima moglie.”

“Kitty non era capace di tenere la bocca chiusa.”

“Allora questo libro esiste?”

“Oh sì. Certo che esiste.”

“Sono venuto a prenderlo.”

“Non ce l’ho io, figliolo.”

Mitchell si chinò su Cadmus. “Dov’è? Coraggio, dimmelo. Sono stato onesto con te.”

“E io sto ricambiando la cortesia. Non ce l’ho. E se anche lo avessi non lo darei certo a te.”

“E perché no, dannazione? Che cosa t’importa di cosa facciamo a quella gente?”

“Con facciamo, intendi questa famiglia?” Socchiuse le palpebre. “Vuoi scatenare una guerra, Mitch? Perché se è così, non farlo. Non sai a cosa stai andando incontro.”

“So che i Barbarossa hanno un qualche potere su di noi.”

“Hanno molto di più”, replicò Cadmus con voce inespressiva. “Ci possiedono. E, lascia che te lo dica, siamo fortunati, siamo molto fortunati, perché ci hanno lasciato in pace per tutti questi anni. Perché se si mettessero in testa di distruggerci, non avremmo una sola possibilità di sopravvivere.”

“Sono dei mafiosi?”

“Oh Dio, sarebbe meraviglioso se fossero solo degli uomini armati di pistola.”

“E allora che cosa sono?”

“Non lo so”, rispose il vecchio. “Ma temo che lo scoprirò nell’istante stesso in cui il mio cuore smetterà di battere.”

“Non dire così.”

“Ti rendo nervoso?” disse Cadmus. “Be’, fai bene a esserlo.” Aveva gli occhi colmi di lacrime. “C’è molto di più riguardo a questa faccenda di quanto tu potresti mai capire, figliolo, quindi, per il tuo bene, lascia perdere. Non permettere a Garrison di trascinarti in questo disastro. Vedi, lui non ha scelta. È nella sua natura. Ma tu… tu puoi salvarti. Dio sa se per me non è già troppo tardi. E anche per tuo fratello. E, naturalmente, anche per tua moglie.”

“Lei non sa niente di tutto questo.”

“Appartiene a loro”, disse Cadmus in tono piatto. “Come tutte le nostre donne. Qualche volta penso che siano state loro a salvarci dall’annientamento. Le donne Geary piacciono a Galilee. Galilee piace alle donne Geary.” Si passò le dita sulle labbra pallide per pulirsele dalla saliva. “È così che ho perso Kitty. Molto prima che il cancro me la portasse via, l’avevo già persa. Poi ho perso Loretta. È un fatto difficile da sopportare. Le amavo entrambe ma non è stato abbastanza.”

Mitchell si prese la testa tra le mani. “Garrison ha detto che i Barbarossa non sono come noi”, mormorò.

“Ha ragione e ha torto allo stesso tempo. Penso che siano più simili a noi di quanto non crediamo. Ma sono anche molto più di quanto noi potremo mai essere.” Le lacrime cominciarono a rigargli le guance. “Immagino che questo dovrebbe confortarmi. Non ho mai avuto una sola chance contro di lui. Qualunque cosa avessi fatto per le mie mogli, non sarebbe mai stato abbastanza. Mentre lui le ha avute, nell’istante stesso in cui i suoi occhi si sono posati su di loro.”

“Non piangere, nonno”, disse Mitchell. “Ti prego.”

“Piango sempre, non farci caso.”

Mitchell si avvicinò al letto. “Permettimi di essere parte di tutto questo”, disse con voce pacata ma decisa. “Ti prego. So che secondo te non valgo niente… ma… è solo perché nessuno mi ha mai spiegato niente. Così mi sono limitato a guardare dall’altra parte. Ho finto che non m’importasse. Ma mi importa. Nonno, mi importa. Voglio sapere chi sono queste persone; voglio farle soffrire come hai sofferto tu.”

“No.”

“Perché no?”

“Perché tu sei mio nipote e non voglio essere responsabile della tua morte.”

“Perché hai tanta paura di loro?”

“Perché sono quasi morto, figliolo. E se ho un’anima immortale, allora sono in guai seri. Non voglio averti sulla coscienza. È già abbastanza pesante.”

Mitchell trasse un profondo respiro. “D’accordo”, ribatté, alzandosi dalla sedia. “Non so cos’altro dire. Tu hai le tue idee, io ho le mie.”

“Cristo, figliolo, proprio non ti rendi conto”, disse Cadmus dolcemente. “Questo non è un contratto andato male. Queste sono le nostre vite.”

“Tu ci hai fatti così, nonno”, osservò Mitchell. “Tu l’hai insegnato a papà e papà l’ha insegnato a noi: gli affari prima del piacere. Gli affari prima di tutto.”

“Mi sbagliavo”, borbottò Cadmus. “Non me lo sentirai dire una seconda volta, ma mi sbagliavo.” Mitchell rimase in piedi accanto alla porta per un attimo, fissando la figura scheletrica che giaceva sul letto.

“Buonanotte, nonno.”

“Aspetta”, aggiunse il vecchio.

“Cosa?”

“Fallo per me”, lo pregò Cadmus. “Aspetta che io sia morto. Non sarà una lunga attesa, credimi. Solo… aspetta che io me ne sia andato. Per favore.”

“Se accetto…”

“Un altro contratto?”

“Se accetto, devi dirmi dov’è il diario.” Cadmus chiuse gli occhi di nuovo. E Mitchell per qualche lungo istante indugiò, senza sapere se andarsene o restare. Alla fine il vecchio emise un sospiro gracchiante e disse: “Va bene. Come vuoi tu. Ho dato il diario a Margie”.

“È quello che pensava anche Garrison. Ma non è riuscito a trovarlo.”

“Allora chiedi a Loretta. O a tua moglie. Forse Margie lo ha dato a una di loro. Ma ricorda… ti ho avvertito, e tu non hai voluto ascoltarmi.”

“Sono sicuro che con questo tu ti sia guadagnato un posto in paradiso, nonno”, disse Mitchell. “Buonanotte.”

Il vecchio non rispose. Aveva ricominciato a piangere. Mitchell non gli offrì altre parole di consolazione. Come aveva detto Cadmus, i vecchi piangevano; e non c’era niente da fare.

Quattordici

1

Uno dopo l’altro, tutti i segreti si svelano come le stelle al tramonto. Per la cronaca, quello che Cadmus aveva detto sulla gravidanza di Margie era in parte vero. Era rimasta incinta ma il bambino non era sopravvissuto. Aveva avuto un aborto spontaneo al quinto mese e i pochi che sapevano che il bambino era nero erano stati pagati profumatamente per il loro silenzio. Garrison aveva immaginato che il figlio fosse di Galilee. Quello era stato il più grande sbaglio che avesse mai commesso, forse; un errore che coinvolge la sua stessa natura e tutto ciò che con il tempo dovrà diventare. Quanto a Margie, non so dirvi cosa le avevano raccontato quando si era ripresa, ma credo che sia improbabile che abbia mai saputo che il suo grembo aveva prodotto una simile eresia. Cadmus, certamente, aveva cercato di proteggere l’equilibrio della famiglia e aveva fatto in modo che solo un ristrettissimo numero di persone venisse a conoscenza di quell’episodio. E Garrison non aveva alcuna ragione per parlarne ad anima viva: l’unico effetto che aveva avuto su di lui la vista del bambino morto — sì, aveva visto il cadavere; aveva voluto a tutti i costi andare all’obitorio e guardarlo, avvolto nel suo piccolo sudario — era stato quello di rendere più profonda la spaccatura tra lui e sua moglie. Il primo passo sulla strada che avrebbe condotto alla morte di Margie era stato fatto quel giorno.

Ci sarebbe altro da aggiungere, su questo argomento; ma alcune stelle impiegano più tempo a mostrarsi di altre. È questo il paradosso: più le tenebre si infittiscono, più segreti riusciamo a vedere. Alla fine si mostreranno in tutta la loro gloria; e saranno proprio le cose che abbiamo nascosto, le cose di cui più ci vergogniamo, che ci indicheranno la strada da seguire.

2

Trascorsero tre, quattro, cinque giorni e Galilee lasciò che la Samarcanda venisse trasportata dalla corrente. Per trentasei ore, la barca si mosse appena, quasi immobile sulle acque di seta. Per la maggior parte del tempo, Galilee rimase seduto sul ponte a fumare sigari e a scrutare nelle profondità dell’oceano. Comparve un grande squalo bianco che nuotò intorno all’imbarcazione varie volte prima di scomparire, ma perlopiù il cielo e il mare furono gli unici compagni di mio fratello. I soli suoni che poteva sentire di tanto in tanto provenivano dalla Samarcanda: un’asse che scricchiolava, un nodo che cigolava quasi che la barca, come il suo proprietario, stesse cominciando a dubitare della sua stessa esistenza e stesse producendo quei rumori per ricordare a se stessa che era ancora reale.

I suoi dubbi erano più che comprensibili dato che sul suo ponte si aggiravano così tante illusioni. Più lo stomaco di Galilee si svuotava, più cresceva il delirio, e più il delirio cresceva, più si moltiplicavano le visioni. Vide la sua famiglia, riunita. Discusse animatamente con me su una citazione di Eraclito — qualcosa che aveva a che fare con la bellezza delle macerie. Ebbe una conversazione ancora più lunga con Luman e per un po’ rimase in compagnia di Marietta e Zabrina, e insieme a loro cantò ballate sconce da marinaio, le guance rigate dal pianto.

“Perché non sei tornato a casa?” gli chiese l’allucinazione di Zabrina.

“Non avrei mai potuto. Non dopo quello che è successo. Mi odiavate tutti.”

“È una cosa che abbiamo superato”, disse Zabrina. “Almeno, io sì.”

Marietta non parlò. Era meno solida di Zabrina, e per qualche ragione Galilee si sentiva a disagio nei suoi confronti.

“Ho l’impressione”, continuò Zabrina, in tono piuttosto formale, “che tu abbia interpretato ogni ruolo possibile tranne quello del figliol prodigo. Sei stato un amante. Sei stato un pazzo. Sei stato un assassino.”

“E quindi?” disse lui.

“Potresti ancora tornare a casa, se lo volessi. Devi solo riprendere il controllo della barca.”

“Non ho il compasso. Non ho le carte.”

“Potresti navigare seguendo le stelle”, suggerì Zabrina.

Galilee sorrise alle parole del suo stesso delirio. “Ho interpretato anche questa parte”, disse. “Quella del tentatore. L’ho interpretata un’infinità di volte. So come funziona. Non sprecare il fiato.”

“È un vero peccato”, sospirò Zabrina. “Mi sarebbe piaciuto vederti un’ultima volta. Saremmo potuti andare insieme alle stalle a salutare nostro padre.”

“Pensi che sia solo una coincidenza?” chiese Galilee. “Cristo è nato in una stalla. Papà è morto in una stalla.”

“Un puro caso”, rispose Marietta. “Cristo e papà non avevano assolutamente niente in comune.”

E così le conversazioni allucinatorie continuarono, perlopiù semplici chiacchiere e solo di rado elucubrazioni impegnate. Gli apparvero altre persone al di fuori della famiglia. Margie rimase con lui per un po’, una notte, la voce impastata dall’alcool, mentre gli diceva quanto lo aveva amato. Kitty, la bellissima Kitty, apparve poco dopo ma non parlò: si limitò a fissarlo con un’espressione scettica dipinta sul viso, come incapace di credere che Galilee potesse essere così stupido. Lo aveva rimproverato spesso per il suo vizio di autocommiserarsi, e lo fece anche quella volta, solo non a parole ma con il silenzio.

Vi furono molti altri che non si spinsero fino al ponte, presenze spettarli che Galilee intravide sotto la superficie dell’acqua mentre scivolavano via. Si trattava di sue vittime perlopiù; uomini e donne a cui aveva tolto la vita, sempre il più rapidamente possibile; ma una morte violenta poteva davvero essere rapida abbastanza? Oh, quelle povere creature. Di molte era felice di non riuscire a ricordarsi il nome; qualche sguardo accusatorio gli fece venire voglia di nascondersi. Ma non cedette alla codardia: incrociò i loro occhi e sostenne i loro sguardi attraverso le lacrime finché non furono scomparsi.

Ebbe anche un’altra visione, diversa da quelle che l’avevano preceduto, ma questo accadde solo il pomeriggio del quinto giorno. Il mare non era più così calmo e la Samarcanda era sospinta da correnti violente. Galilee si era legato all’albero maestro per non essere scagliato fuoribordo. La mancanza di nutrimento lo aveva indebolito a tal punto che le gambe lo reggevano a malapena, e così si sedette, l’immagine stessa di un marinaio assediato dalle onde mentre la barca veniva scossa dai flutti. Gli battevano i denti per il freddo e gli occhi gli roteavano follemente nelle orbite.

Ma poi ebbe l’impressione di scorgere — in una valle che si apriva tra le onde ripide color acciaio — un gruppo di alberi dorati. Per un cupo istante pensò che la corrente gli avesse giocato uno scherzo crudele e lo avesse riportato a Kaua’i. Ma quando quell’immagine gli apparve di nuovo, si accorse che non si trattava di un’isola, ma della visione più bella e più dolorosa di tutte. Era la sua casa.

In fondo a un viale di querce coperte di muschio spagnolo, vide la casa costruita da Jefferson; la casa di sua madre; il luogo da cui non aveva fatto che fuggire senza mai riuscirci. E Cesaria era là, dietro una di quelle finestre. Lo vide, nel suo esilio. Forse lo aveva sempre visto, lo aveva sempre tenuto d’occhio con una parte della sua mente. Forse non lo aveva mai lasciato andare del tutto, anche se Galilee aveva tentato in ogni modo di liberarsi di lei.

Quasi subito quello spettacolo venne eclissato dalle onde sempre più alte e poi svelato di nuovo, e Galilee per un attimo pensò che forse avrebbe potuto intravedere Cesaria. Ma la visione non conteneva niente di vivo: nemmeno uno scoiattolo sul prato. O almeno niente che volesse manifestarsi a lui.

E dopo un po’ la visione scomparve del tutto. Cadde una nuova oscurità, e Galilee rimase dove si trovava, legato all’albero maestro, mentre il cielo ondeggiava sopra di lui.

Quindici

1

Rachel era tornata a immergersi nella lettura del diario di Holt con assoluto cinismo, decisa a non lasciarsi ingannare dalle sue manipolazioni, questa volta. Ma non ci riuscì. Le bastarono pochi paragrafi per ritrovarsi nel mondo evocato da quelle parole: la casa nell’East Battery, piena dei profumi del cibo e del sesso. E Galilee sulle scale, che dava il benvenuto a Holt nel suo mondo. Che quel racconto fosse autentico o pura fantasia, Rachel non riuscì a impedirsi di continuare a leggere.

I passaggi che seguivano descrivevano minuziosamente la vita che Holt e Nickelberry avevano vissuto in quella casa nei giorni che erano seguiti: un elenco quasi ossessivo dei piaceri goduti dai loro palati e dai loro inguini. Holt non faticava più a confessare i suoi eccessi. Benché un tempo fosse stato un devoto padre di famiglia, ora raccontava con orgoglio gli innumerevoli incontri con le donne che vivevano in quella casa. Era una lettura stupefacente, soprattutto perché tutti quei dettagli scabrosi erano stati scritti su un diario che gli aveva regalato proprio sua moglie. Povera Adina; era stata dimenticata, almeno per ora. Suo marito era entrato in un mondo le cui leggi non permettevano alcun attaccamento di tipo sentimentale. Tutti vivevano troppo disperatamente, spinti da appetiti troppo incontrollabili per preoccuparsi di ciò che erano stati prima di entrare in quella casa. Ogni riserva, ogni vergogna, ogni senso del pudore erano evaporati. Secondo il diario, avevano mangiato, avevano bevuto e si erano accoppiati mattina, mezzogiorno e sera, ispirati soprattutto da tre cose. Primo, il fatto che tutti gli abitanti della casa fossero impegnati nella stessa ricerca esasperata del piacere. Secondo, un nutrito assortimento di stimolanti erotici forniti da Galilee, molti dei quali Holt (e come lui Rachel) non aveva mai sentito nominare. E, terzo, la presenza di colui che aveva stabilito le leggi. Non c’era nessuno nella casa dell’East Battery, uomo o donna che fosse, giovane o vecchio, che non fosse stato con Galilee. Quel fatto era emerso da una conversazione tra Holt e Nickelberry, un uomo che fino a quel momento era sembrato senza alcun dubbio eterosessuale. Ma non era così. Aveva, per usare le parole di Holt, fatto la moglie per il nostro ospite e mi ha detto senza la minima vergogna che non si è mai sentito così amato come si è sentito tra le braccia di Galilee.

Rachel rimase sorpresa nello scoprire di poter essere ancora scioccata dopo la lunga litania di atti sessuali che aveva appena letto. Benché convinta che fosse ridicolo pensare che quel Galilee fosse lo stesso uomo che aveva conosciuto, ogni volta che leggeva il suo nome non poteva fare a meno di rievocarlo con l’occhio della mente. Era il suo Galilee che stringeva Nickelberry tra le braccia; che lo baciava, che lo seduceva, che lo possedeva.

Avrebbe dovuto capire cosa l’attendeva. Mentre lottava ancora con il disgusto per ciò che Holt aveva descritto, il capitano cominciò a raccontare qualcosa di molto più intimo e sconvolgente.


Sono andato da Galilee, ieri notte, come aveva fatto Nickelberry. Non so di preciso perché; non provavo alcun desiderio di stare con lui. Almeno, non lo stesso tipo di desiderio che provo quando sto con una donna. Né lui me lo aveva chiesto, anche se quando gli ho parlato, mi ha confessato di aver desiderato di sentire le mie braccia attorno a lui, le mie labbra sulle sue. Non dovevo vergognarmi, ha detto, di provare piacere in quel modo. Molti uomini se lo negavano; solo i più coraggiosi accettavano la sfida.

Io gli ho detto che non mi sentivo coraggioso. Avevo paura dell’atto che stavamo per compiere; paura dette sue conseguenze per la mia anima e, soprattutto, paura di lui.

Galilee non ha rìso per quella mia confessione. Invece mi ha preso teneramente tra le braccia, come se fossi stato qualcosa di infinitamente prezioso. Mi ha detto di ascoltarlo. Mi avrebbe raccontato una storia per allontanare le mie paure…


Una storia? Com’era possibile? Un altro Galilee che raccontava storie?


e io mi sono sentito come un bambino tra le sue braccia, e una parte di me ha desiderato fuggire. Ma la sua presenza era così confortante per il mio spinto tormentato che il bambino che era in me, che non parlava più da molti, molti anni, mi ha detto: resta. Voglio ascoltare la storia. E io sono rimasto, obbedendo al bambino, e tutti gli orrori a cui avevo assistito, la morte, il dolore, si sono trasformati in una specie di sogno fatto tra le braccia di Galilee.

La storia che mi ha narrato sembrava una favola ma a poco a poco è diventata sempre più strana, suscitando in me ogni genere di sentimenti. Era la stona di due principi che vivevano, ha detto Galilee, in un paese molto lontano da qui, dove i ricchi erano giusti…


e i poveri avevano Dio. Rachel conosceva quel paese. Era lì che aveva vissuto Jerusha, la sposa bambina. Era la terra inventata da Galilee.

Rachel rimase immobile, assordata dal lamento del suo stesso sangue, mentre leggeva e rileggeva quella riga, come in attesa che diventasse qualcos’altro.

Era la storia di due principi…

Ma no; le parole rimanevano le stesse. Non poteva più evitare la verità anche se era difficile — oh, più che difficile, quasi impossibile — affrontarla. Ma Rachel non aveva scelta. Ormai la somma delle prove portava a un risultato inequivocabile.

Quel Galilee, quello descritto nelle pagine davanti a lei, quell’uomo che aveva vissuto centoquarant’anni prima, quell’uomo era lo stesso Galilee di cui era innamorata. Non suo padre o suo nonno: lui. La stessa carne e lo stesso sangue e le stesse ossa; lo stesso spirito che animava quella carne e quel sangue e quelle ossa; la stessa anima.

Rachel accettò quell’idea, anche se gettava nel caos tutte le sue convinzioni sul mondo. Non avrebbe indugiato oltre nella speranza di scoprire qualcosa a cui sarebbe stato più facile credere. In quel caso, non avrebbe fatto altro che tormentarsi inutilmente; rimandando il momento in cui avrebbe dovuto affrontare la realtà e cercare di comprenderne il senso.

Non che lui le avesse mai mentito. Al contrario. Aveva detto più volte di essere diverso da lei. Aveva detto che i suoi genitori non avevano avuto genitori. Ma lei non aveva voluto capire. La sua infatuazione per lui era stata troppo profonda e l’aveva spinta a rifiutare qualsiasi cosa potesse rovinare il loro idillio.

Ma d’ora in avanti non avrebbe più negato la realtà. Era tempo di accettare la verità, per quanto strana potesse essere. Più di un secolo prima, Galilee aveva usato gli stessi trucchi, di cui si era servito con lei, per sedurre il capitano Holt. L’immagine dei due uomini avvinghiati le invase la mente: Holt simile a un bambino tra le braccia del suo amante, cullato in uno stato di passività dalla storia che Galilee stava narrando.

In un paese molto lontano da qui, vivevano due principi… A Rachel non importava cosa sarebbe successo, né ai principi né agli uomini che rappresentavano. Il desiderio di continuare a leggere l’aveva abbandonata di colpo. Quel diario le aveva detto tutto ciò che doveva sapere. Anche di più.

Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si alzò, chiudendo il diario di scatto. Le girava la testa e aveva caldo, come se avesse avuto l’influenza. Andò in cucina, bevve un bicchiere d’acqua, poi decise di tornare a letto. Forse, dopo qualche ora di sonno, si sarebbe sentita meglio. E adesso che era finalmente libera dalle parole del capitano, era molto più probabile che riuscisse a riposarsi davvero.

Con il bicchiere in mano, tornò in camera da letto. Erano passate da poco le cinque. Rachel posò il bicchiere e si sdraiò, pensando che avrebbe comunque potuto prendere un’altra mezza pastiglia di sonnifero se fosse stato il caso. Ma mentre dava forma a quel pensiero, lo sfinimento ebbe la meglio su di lei.

2

Un paio d’ore fa sono andato a dormire, convinto di aver raggiunto un’adeguata conclusione per la Parte Sesta. Ma eccomi qua ad aggiungere questi paragrafi.

Cosa mi ha spinto ad alzarmi per offrirvi un altro sogno? Lo racconto qui non perché sia profetico come il mio sogno su Galilee sulla zattera, ma perché mi ha commosso in modo strano.

Era un sogno sui figli di Luman.

Questo è già strano di per sé, perché sono diverse settimane che non penso alla nostra conversazione sui suoi bastardi. Ma è evidente che il mio inconscio si è soffermato sull’argomento e il risultato delle sue elaborazioni ha prodotto qualcosa di veramente bizzarro. Ho sognato di essere un pezzo di carta; un foglio di carta malconcio. Il vento mi aveva catturato e stavo volando attraverso un immenso paesaggio. In certi momenti, venivo sollevato in alto nell’aria e osservavo le città che erano sotto di me, e i loro abitanti erano come puntini; in altri, rotolavo lungo una strada polverosa insieme ad altri detriti. Ho visto canyon e città, ho penzolato da cancelli appuntiti e pali telefonici; ho languito nel calore dell’estate della Louisiana e sono sparito dentro pile di foglie cadute, in Vermont; sono rimasto congelato in Nebraska e sono stato trasportato da un fiume nel Wisconsin. A poco a poco, un senso di imminenza si è impossessato di me. Il paesaggio intorno a me continuava a mutare — picchi montagnosi, una spiaggia piena di palme, un campo di papaveri e violette — ma io sapevo che il mio viaggio stava per concludersi.

La mia destinazione era un luogo tutt’altro che promettente. Un quartiere misero di una cittadina dell’Idaho; una terra desolata fatta di edifici sventrati, macerie ed erba grigia. E là, un uomo sedeva nella carcassa di un furgone e, quando mi sono fermato ai suoi piedi, lui si è chinato a raccogliermi. È stata una strana sensazione essere stretto da quelle dita macchiate di nicotina, ma non appena ho visto il volto dell’uomo ho capito che era uno dei figli di Luman. Aveva qualcosa della febbre satirica di mio fratello e qualcosa della sua curiosità incessante, anche se entrambi i tratti erano stati offuscati dalle avversità.

Ho avuto l’impressione che l’uomo si rendesse conto che non ero solo una cartaccia sospinta dal vento, perché ha gettato via la sigaretta, si è alzato dal sedile del veicolo in rovina e ha gridato:

“Ehi! Ehi! Guarda cos’ho trovato!”

Non è rimasto ad aspettare una risposta ma si è diretto a grandi passi verso i resti di un’officina, le pompe di benzina come sentinelle arrugginite davanti a un edificio cadente. È comparsa una donna nera di mezza età e i suoi lineamenti mi hanno rivelato che senza ombra di dubbio doveva essere nipote di Cesaria.

“Cosa c’è, Tru?” ha chiesto all’uomo.

Lui le ha mostrato ciò che aveva appena trovato e lei mi ha esaminato.

“E un segno”, ha detto Tru con voce strascicata.

“Può darsi”, ha replicato la donna.

“Te l’avevo detto, Jessamine.”

La donna si è voltata in direzione dell’officina. “Ehi, Canny. Guarda cos’ha trovato Tra. Dove l’hai trovato?”

“Me l’ha portato il vento. E tu che mi davi del pazzo.”

“Io non ti ho mai dato del pazzo”, ha ribattuto Jessamine.

“No, sono stato io”, è intervenuta una terza voce, e un uomo con la stessa carnagione e circa la stessa età dei suoi compagni mi ha strappato dalle mani di Jessamine. Era calvo ma il resto del suo viso era coperto da una folta barba nera. Non c’erano dubbi su chi fosse suo padre. Non ha nemmeno abbassato lo sguardo su ciò che teneva in mano.

“È solo un pezzo di carta straccia”, ha detto e prima che gli altri due potessero protestare, si è voltato e si è allontanato.

Loro non lo hanno seguito, probabilmente erano intimiditi da lui. Ma non appena si è trovato da solo, Canny mi ha guardato con occhi sconsolati e velati di lacrime.

“Non voglio più sperare”, ha mormorato tra sé e sé.

Poi mi ha lasciato cadere in un piccolo falò che bruciava in mezzo ai mattoni. Sono stato colto dal panico quando il fuoco mi ha lambito. Il mio corpo si è arricciato tra le fiamme e si è annerito fino a farmi diventare del colore della pelle di Galilee. Quando mi sono svegliato, ero immerso in un tale bagno di sudore che se davvero fossi stato avvolto dalle fiamme, avrei potuto spegnerle.


Ecco, questo è il sogno. Una delle visioni notturne più strane che mi siano mai capitate. Non so cosa pensarne. Ma ora che l’ho trascritto, devo ritirare quanto ho detto prima. Forse si tratta davvero di un sogno profetico. Forse al centro del paese, i tre figli bastardi di Luman sono in attesa di un segno, persino in questo momento; e sanno di essere più di quanto il mondo prometta loro di essere, e stanno aspettando qualcuno che riveli loro chi sono. Stanno aspettando me.

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