Marietta è venuta a farmi visita ieri notte. Mi ha portato della cocaina che ha detto di aver acquistato a Miami e mi ha assicurato che era della migliore qualità. Mi ha anche portato una bottiglia di Benedictine, insieme alle istruzioni su come sciogliere la droga nel liquore per creare, mi ha promesso, un intruglio molto potente. Era ora che ci avventurassimo fuori insieme, secondo lei; e quella miscela mi avrebbe messo dell’umore adatto. Io le ho detto che non avrei potuto andare da nessuna parte. Avevo troppe idee in testa; fili della mia storia che dovevo seguire per impedire che si ingarbugliassero.
“Lavorerai meglio dopo un po’ di svago”, mi ha fatto notare.
“Certamente è così, comunque la risposta è no.”
“Qual è la vera ragione?” ha voluto sapere.
“Be’ ”, ho detto, “il fatto è che… sto per cominciare a scrivere di Galilee e ho paura che se mi fermassi adesso — prima ancora di aver affrontato questa parte — non riuscirei più a ricominciare.”
“Non ti capisco”, ha commentato Marietta. “Pensavo che scrivere di lui sarebbe stato meraviglioso.”
“È una prospettiva che mi intimidisce.”
“Come mai?”
“Perché è stato così tante persone in vita sua. Ha fatto così tanto. E ho paura che non riuscirò a catturarlo; ho paura che finirà per sembrare soltanto un ammasso di contraddizioni.”
“Forse è proprio quello che è”, ha detto lei, saggiamente.
“I lettori penseranno che l’errore è mio”, ho protestato.
“Oh, Eddie, è soltanto un libro.”
“Non è… soltanto un libro. È il mio libro. È un’opportunità di raccontare qualcosa che nessuno ha mai raccontato.”
“Va bene, va bene”, ha detto lei, sollevando le mani in segno di resa, “non agitarti tanto. Sono sicura che sarà fantastico.”
“Sta’ zitta. Mi metti in imbarazzo.”
“Oddio. E allora cosa posso dire?”
“Assolutamente niente. Lasciami lavorare e basta.”
Ma non le ho detto tutto. Sì, avevo paura dell’argomento che mi aspettava — di Galilee — ed ero nervoso al pensiero che, se avessi perso il ritmo della storia, non mi sarebbe stato facile ritrovarlo con la sua apparizione sempre più vicina. Ma avevo ancora più paura di accompagnare Marietta oltre i confini della casa, di tornare nel mondo dopo così tanti anni. Avevo paura di trovare ciò che mi aspettava là fuori così affascinante che sarei stato come un bambino perduto. Avrei pianto, avrei tremato, mi sarei bagnato i pantaloni. Per quanto tutti questi pensieri possano sembrare ridicoli a voi che vivete nel cuore delle cose e presumibilmente date per scontato tutto quello che vedete e ogni vostra esperienza, per me erano preoccupazioni assolutamente reali. Come ricorderete, ero stato una sorta di prigioniero volontario dell’Enfant per così tanto tempo da diventare simile a un uomo che ha vissuto in una piccola cella per gran parte della sua vita e che quando viene rilasciato — anche se per decenni e decenni non ha sognato altro che spazi aperti — viene colto dal terrore alla vista del suo sogno, all’idea di essere spogliato delle pareti della sua prigione.
In breve, Marietta mi ha lasciato di pessimo umore, con la sensazione che non avrei potuto trovare conforto in niente. Se fossi rimasto, avrei affrontato Galilee. Se fossi andato, avrei affrontato il mondo. (Il che implica, ripensandoci ora, che Galilee è tutto ciò che il mondo non è e viceversa. Quindi, senza volere, ho detto una grande verità sul suo conto.)
Per procrastinare il momento in cui avrei dovuto tornare a scrivere, ho deciso di sperimentare gli effetti dell’afrodisiaco lasciatomi da Marietta. Seguendo le sue istruzioni, ho versato una certa quantità di Benedictine in un bicchiere e poi, dopo aver aperto il sacchetto di cocaina, ho scelto un piccolo grumo di polvere bianca e l’ho lasciato cadere nel liquore. Ho rimescolato il tutto con la penna. La cocaina non si è sciolta completamente e ho ottenuto soltanto un liquore leggermente rannuvolato. Ho brindato al mio testo che aspettava là sulla scrivania davanti a me, e ho bevuto la mistura. Mi ha bruciato la gola e il mio primo pensiero è stato che avevo commesso un grave errore. Mi sono seduto con gli occhi pieni di lacrime. Potevo sentire la traccia del liquore giù lungo l’esofago, o almeno così immaginavo, fino alle pareti dello stomaco dove bruciava ancora.
“Marietta…” ho ringhiato. Ma perché davo ascolto a quella dannata lesbica? Era del tutto inaffidabile. Ma non appena ho mormorato il suo nome, la droga ha cominciato a fare effetto. Ho provato un piacevole senso di calore alle membra; e una sorta di improvvisa chiarezza nei pensieri.
Mi sono alzato, sentendo un’ondata di energia avvolgermi gli arti inferiori. Avevo bisogno di allontanarmi dalla mia stanza, di uscire nel fresco della sera. Avevo bisogno di camminare per un po’ sotto i rami dei castagni, di riempirmi la mente dei profumi della notte. Solo allora avrei potuto tornare al lavoro, pronto ad affrontare Galilee.
Prima di andare mi sono preparato un altro bicchiere di liquore, aumentando la quantità di cocaina. Ma non l’ho bevuto subito, l’ho portato con me giù per le scale e fuori, attraverso una porta laterale, sul prato. La serata era bellissima, calma e dolce. Le zanzare erano uscite in forze, ma la coca e il brandy mi avevano reso indifferente ai loro assalti. Mi sono avventurato tra gli alberi fino a raggiungere i luoghi in cui la cura del giardino cede il passo al glorioso disordine della palude. Lì, il profumo mielato dei fiori del giardino viene sopraffatto da aromi più intensi: le fragranze mescolate della putredine e dell’acqua stagnante.
Gradualmente i miei occhi si sono abituati alla luce delle stelle e al chiarore di quei soli lontani che scorgevo oltre il fitto degli alberi. Ho osservato gli alligatori, alcuni sulla riva, alcuni intenti a nuotare pigramente nelle acque scure; ho osservato i pipistrelli solcare il cielo sopra di me.
Vi prego di capire che il piacere che ho provato per quello spettacolo — gli animali notturni, gli alberi putrefatti, il miasma generale — non aveva niente a che fare con la cocaina. Ho sempre amato i paesaggi e le specie che la gente comune tende a considerare sgradevoli se non addirittura di cattivo auspicio. Parte di questo piacere è puramente estetico; ma un’altra parte è dovuta all’empatia che provo verso la natura più cruda, non addomesticata, perché forse anch’io mi sento così. L’odore del mio corpo è forte, non dolce, e il mio aspetto è decadente, non fresco.
Comunque, eccomi, intento a vagare lungo il limitare del prato, a scrutare la palude e a godermi quella vista. Avevo portato con me il bicchiere senza berne neanche un sorso (talvolta la parte migliore di una droga — così come di molte altre cose — non è nella sua consumazione ma nell’attesa della consumazione). Ne ho bevuto un sorso. Era notevolmente più forte del primo bicchiere. Anche mentre mi scivolava lungo la gola, ho avuto l’impressione di sentire il mio corpo che reagiva alla sua presenza: la stessa agitazione nelle mie membra, la stessa accelerazione dei miei pensieri. Ho sentito dire che quest’ultimo effetto non è altro che un’illusione, che la cocaina non fa altro che ingannare la mente convincendola che sta funzionando più in fretta quando invece non fa altro che girare su se stessa. Mi permetto di dissentire. Grazie alla polverina bianca, mi è capitato di compiere notevoli esercizi intellettuali che non hanno niente da invidiare alle mie riflessioni pure e semplici, fatte in condizioni normali.
Ma ieri sera non avrei potuto discutere con qualcuno nemmeno se ne fosse andato della mia vita. Forse era la potente mistura di cocaina e Benedictine; forse era il fatto di trovarmi là fuori, solo, circondato dalla natura; forse era semplicemente una sorta di prontezza dentro di me, ma mi sono sentito d’improvviso eccitato. La testa mi pulsava piacevolmente, il cuore mi batteva forte nel petto, quasi che si stesse preparando per qualcosa, e il mio cazzo che, a parte il giorno della visita di Cesaria, era rimasto tranquillo per molti mesi, si era drizzato nei pantaloni informi, e premeva contro la lampo nella speranza di essere liberato.
Lasciatemi aggiungere che il mio desiderio non aveva alcun oggetto, né reale né immaginario. L’intruglio di Marietta aveva semplicemente dato una scossa generale al mio corpo e i suoi primi pensieri, adesso che era sveglio, erano sessuali. Sono scoppiato a ridere, perfettamente felice di come mi sentivo in quel momento, senza desiderare niente di più di ciò che avevo: le stelle, la palude, il bicchiere, il mio cuore e un’erezione. Era tutto meraviglioso; e risibile.
Forse avrei dovuto tornare alla mia scrivania, mentre ero ancora in una condizione mentale positiva. Se fossi stato coraggioso e avessi scritto superando i miei dubbi, forse avrei potuto cominciare a tracciare Galilee sulla pagina — tracciarne lo scheletro, per così dire — prima che gli effetti della cocaina svanissero. Avrei aggiunto carne a quello scheletro in seguito. L’importante era cominciare. E naturalmente, se avessi avuto bisogno di un altro po’ di coraggio lungo la strada, avrei sempre potuto prepararmi un altro bicchiere.
Quel piano mi piaceva. Ho deciso di finire il mio drink e l’ho fatto (gettando il bicchiere nell’acqua della palude), poi mi sono diretto verso casa. O almeno così credevo. Dopo una cinquantina di metri, mi sono reso conto che la mia mente, innamorata della sua stessa eccitazione, mi aveva giocato e invece di condurmi al sicuro sul terreno solido del prato mi stava accompagnando nel fitto della palude. La parte più cauta di me mi ha sussurrato che quella non era una buona idea; ma la parte più forte, quella sotto l’effetto del brandy e della cocaina, ha dichiarato che se quella era la strada su cui mi aveva portato l’istinto, allora avrei dovuto percorrerla e godermi il viaggio. La terra era umida sotto i miei piedi e produceva ridicoli rumori risucchianti; i rami degli alberi erano così intricati sopra di me che solo una minima parte della luce della luna riusciva a filtrare illuminando il sentiero. Eppure l’istinto continuava a spingermi avanti, sempre più vicino al cuore della palude. Nonostante l’eccitazione, sapevo bene che stavo scherzando col fuoco. Il terreno non era adatto a una passeggiata neppure con la luce del giorno, e meno che mai lo era ora. Da un momento all’altro, il fango glauco sotto i miei piedi avrebbe potuto cedere e io mi sarei ritrovato immerso fino al collo in acque maledette, torbide e piene di alligatori.
Ma che diavolo! Avevo sempre la mia erezione a confortarmi, dopotutto; e avrei accettato la morte come il modo che Dio aveva per dirmi che non ero lo scrittore che credevo di essere.
Poi, qualcosa di strano. Dentro di me si è accesa la consapevolezza di non essere solo. C’era un altro essere umano nei paraggi; potevo sentire uno strano sguardo sfiorarmi la nuca. Mi sono fermato e mi sono voltato a guardare.
“C’è qualcuno?” ho chiesto a bassa voce.
Non mi aspettavo una risposta (chiunque cominci a seguire un viandante nell’oscurità quasi totale, solitamente non risponde a una domanda), ma con mia grande sorpresa ne ho ottenuta una. Non sotto forma di parole, almeno non in un primo momento. È arrivata come una sorta di fremito nell’oscurità, come se il mio compagno invisibile avesse avuto degli uccelli nascosti sotto la giacca, come un illusionista. Ho osservato quel movimento cercando di capirne il senso e, ben presto, mi sono convinto di sapere esattamente di chi si trattava. Dopo decenni di esilio, il figlio dolente dell’Enfant, Galilee il viaggiatore, era tornato a casa.
Ho pronunciato il suo nome, alzando leggermente la voce.
E di nuovo, ecco il fremito, e dal momento che il mio sguardo sapeva dove cercare, sono riuscito a vederlo. Era scolpito nell’ombra, non nella luce delle stelle; ombra nell’ombra. Ma senza alcun dubbio era lui. Non vi è un altro volto bello quanto il suo su questo pianeta. Vorrei che ci fosse. Vorrei che avesse eguali. Ma non è così, accidenti a lui. È una specie a sé stante, Galilee, e noialtri possiamo solo trarre un po’ di conforto nel percepire la sua infelicità.
“Sei veramente qui?” gli ho chiesto. Mi rendo conto che possa sembrare una strana domanda; ma Galilee aveva ereditato da sua madre la capacità di inviare la propria immagine dovunque desiderasse e, dal momento che per un istante avevo creduto che fosse lì in carne e ossa, ora avevo il sospetto che quella forma agitata non fosse proprio mio fratello, ma un messaggio che mi aveva inviato con la pura forza di volontà.
Questa volta, ho percepito delle parole tra i fremiti. “No”, ha risposto. “Sono molto lontano.”
“Ancora in mare?”
“Ancora in mare.”
“Allora a cosa devo questo onore? Stai pensando di tornare a casa?”
Il fremito è diventato una risata; una risata amara.
“A casa?” ha detto. “Perché dovrei tornare a casa? So di non essere il benvenuto.”
“Io ti accoglierei a braccia aperte”, ho ribattuto. “E anche Marietta.” Galilee ha grugnito. Chiaramente, non ne era per nulla convinto. “Vorrei poterti vedere meglio”, ho aggiunto.
“È colpa tua, non mia”, ha risposto l’ombra nell’ombra.
“Che cosa vuoi dire?” ho balbettato leggermente confuso.
“Fratello, ti appaio tanto chiaramente quanto potresti sopportare di vedermi”, ha risposto Galilee. “Né più né meno.” Ho immaginato che fosse la verità. Non aveva ragioni per mentirmi. “Ma nel prossimo futuro, non ho intenzione di avvicinarmi oltre alla casa.”
“Dove sei?”
“Da qualche parte al largo delle coste del Madagascar. Il mare è calmo, non soffia un alito di vento. E ci sono pesci volanti tutt’attorno alla barca. Mi basta allungare la padella e ci saltano dentro…” I suoi occhi luccicavano nell’oscurità, come se stessero riflettendo per me parte del mare scintillante che stava osservando.
“È molto strano?” gli ho domandato.
“Che cosa?”
“Essere in due posti contemporaneamente.”
“Lo faccio di continuo”, ha detto lui. “Lascio scivolare via la mia mente e me ne vado in giro per il mondo.”
“E se succedesse qualcosa alla tua barca mentre i tuoi pensieri stanno vagabondando?”
“Non lo so”, ha risposto. “Io e la mia Samarcanda ci capiamo. Comunque non c’è pericolo che accada qualcosa stasera. È tutto così calmo. Ti piacerebbe questo posto, Maddox. Quando sei qui, scopri una prospettiva diversa delle cose. Cominci a lasciare che i tuoi sogni prendano il sopravvento, a dimenticarti del male che hai fatto, a non preoccuparti più della vita, della morte e degli enigmi dell’universo…”
“Hai lasciato fuori l’amore”, ho detto io.
“Ah, be’, sì… l’amore è un’altra faccenda.” Ha distolto lo sguardo da me, nell’oscurità. “Non importa quanto lontano ci si spinga, ci sarà sempre l’amore, giusto? Ci viene a cercare, dovunque andiamo.”
“Non ne sembri così felice.”
“Be’, fratello, la verità è che non importa se sono felice oppure no. Non c’è via di fuga per me, e questo è tutto.” Ha allungato la mano verso di me. “Hai una sigaretta?”
“No.”
“Dannazione. Quando parlo d’amore mi viene sempre voglia di fumare.”
“Sono un po’ confuso”, ho detto. “Ammettiamo che avessi avuto una sigaretta…”
“Vuoi sapere se avrei potuto prendertela e fumarla?”
“Sì.”
“No. Non avrei potuto. Ma avrei potuto guardarti fumarla e sarei stato quasi altrettanto soddisfatto. Sai bene quanto mi piacciono le esperienze per procura.” Ha riso di nuovo. Questa volta nella sua voce non c’era amarezza, solo divertimento. “Anzi, più invecchio — e mi sento vecchio, fratello, mi sento molto, molto vecchio — più mi convinco che tutte le esperienze migliori sono di seconda se non addirittura di terza mano. Preferirei raccontare una storia d’amore o ascoltarne una, piuttosto che essere innamorato in prima persona.”
“E quindi preferisci guardare qualcuno che fuma una sigaretta invece di fumarla?”
“Be’… non proprio”, ha sospirato. “Ma ci sono quasi. Allora, veniamo a noi, fratello mio. Perché mi hai chiamato?”
“Io non ti ho chiamato.”
“Mi permetto di dissentire.”
“No, sul serio. Non ti ho chiamato. Non saprei nemmeno come fare.”
“Maddox”, ha detto lui, solo un tocco di condiscendenza nella voce. “Non mi stai ascoltando.”
“Ma ti sto ascoltando, dannazione.”
“Non alzare la voce.”
“Non la sto alzando.”
“Sì, invece. Stai gridando.”
“Mi hai accusato di non ascoltarti”, ho ribattuto, tentando di mantenere un tono di voce ragionevole anche se non mi sentivo per niente ragionevole. Non ci riuscivo mai in presenza di Galilee; è questa la semplice verità. Anche nei giorni gentili prima della guerra, prima che Galilee scappasse a cercare fortuna nel mondo, prima delle calamità seguite al suo ritorno, della morte di mia moglie e della fine di Nicodemus, anche allora — quando vivevamo in un luogo che, ripensandoci ora, era a dir poco paradisiaco — litigavamo spesso, aspramente, anche sui dettagli più insignificanti. Mi bastava cogliere un certo tono nella sua voce — o a lui bastava percepire una sfumatura non gradita nella mia — e ci saltavamo alla gola in un istante. L’argomento della discussione di solito era irrilevante. Litigavamo perché eravamo, nel profondo, l’uno l’antitesi dell’altro. Il passare degli anni, a quanto pareva, non aveva smussato quell’antipatia.
“Cambiamo argomento”, ho proposto.
“Benissimo. Come sta Luman?”
“Pazzo come sempre.”
“E Marietta? Sta bene?”
“Meglio che mai.”
“È innamorata?”
“Al momento no.”
“Dille che ti ho chiesto di lei.”
“Naturalmente.”
“Mi è sempre piaciuta Marietta. Vedo il suo volto in sogno molto spesso.”
“Le farà piacere saperlo.”
“E vedo il tuo”, ha detto Galilee. “Vedo anche il tuo.”
“E scommetto che mi maledici.”
“No, fratello, no. Nei miei sogni siamo di nuovo tutti insieme, prima che iniziassero tutte queste stupidaggini.”
Quel termine mi è parso particolarmente inappropriato — quasi insultante nella sua leggerezza. Non ho potuto fare a meno di commentare.
“Forse saranno sembrate stupidaggini a te”, ho detto. “Ma per tutti noialtri sono state qualcosa di più.”
“Non intendevo…”
“Tu te ne sei andato per inseguire le tue avventure, Galilee. E sono sicuro che questo ti ha dato molta gioia.”
“Meno di quanto immagini.”
“Avevi delle responsabilità”, gli ho fatto notare. “Eri il figlio maggiore. Avresti dovuto dare il buon esempio, invece di pensare solo a te stesso.”
“E da quando questo è un crimine?” ha ribattuto Galilee. “Ce l’abbiamo nel sangue, fratello. Siamo una famiglia edonistica.”
(Era innegabile. Nostro padre era stato un sensualista di proporzioni eroiche fin dalla prima infanzia. Io stesso avevo trovato in un libro di antropologia una storia sui suoi primi exploit sessuali raccontata dai nomadi curdi i quali sostenevano con fierezza che diciassette dei padri fondatori della loro tribù furono generati da mio padre quando era ancora troppo giovane per camminare. Siete liberi di crederci o meno.)
Nel frattempo, Galilee era passato ad altro.
“Mia madre…”
“Sì?”
“Sta bene?”
“E difficile dirlo”, ho risposto. “La vedo molto raramente.”
“È stata lei a guarirti?” ha chiesto Galilee, abbassando lo sguardo sulle mie gambe. L’ultima volta che mi aveva visto ero ancora un invalido che gli urlava contro.
“Credo direbbe che siamo stati entrambi.”
“Non è da lei.”
“Si è ammorbidita.”
“Abbastanza da perdonarmi?” Sono stato zitto. “Devo considerarlo un no?”
“Forse dovresti chiederglielo tu stesso”, gli ho suggerito. “Se vuoi posso parlarle io. Dirle che ci siamo parlati. Prepararla.”
Per la prima volta da quando mi era apparso, ho visto qualcosa di più del Galilee-ombra. Una sorta di luminescenza è sgorgata dalla sua carne gettando un chiarore freddo su di me e delineando così la sua sagoma. Mi è sembrato di scorgere la curva del suo torace, illuminata dall’interno; su, fino al suo collo robusto e alla caverna della sua bocca.
“Davvero mi aiuteresti?” mi ha chiesto.
“Naturalmente.”
“Pensavo che mi odiassi. Avresti anche le tue buone ragioni per farlo.”
“Non ti ho mai odiato, Galilee, te lo giuro.”
La luce aveva raggiunto i suoi occhi adesso, e gli scorreva giù, lungo le guance.
“Mio Dio, fratello…” ha mormorato, “… è passato tanto tempo dall’ultima volta che ho pianto.”
“Significherebbe così tanto per te tornare a casa?”
“Farmi perdonare da lei”, ha detto Galilee. “È questo che voglio, più di qualsiasi altra cosa. Semplicemente essere perdonato.”
“Non credo di poter fare molto per te in questo senso.”
“Lo so.”
“Posso soltanto dirle che vorresti vederla e poi riferirti la sua risposta.”
“È più di quanto avrei potuto aspettarmi”, ha detto Galilee, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. “E non pensare che non sappia che devo chiedere perdono anche a te. La tua dolce Chiyojo…”
Ho sollevato una mano per interromperlo. “Preferirei che non…”
“Mi dispiace.”
“Comunque, non è una questione di perdono”, ho detto.
“Ne dubito”, ha ribattuto Galilee con la stessa amarezza che inizialmente aveva segnato la sua voce. Odia se stesso, ho pensato. Dio, quest’uomo odia se stesso. “A cosa stai pensando?” mi ha chiesto.
Ero troppo confuso per confessargli la verità. “Oh… Niente di importante.”
“Pensi che sono ridicolo.”
“Cosa?”
“Mi hai sentito. Mi trovi ridicolo. Credi che io abbia vagabondato per il mondo per Dio solo sa quanti anni a scopare come un forsennato. Che cos’altro? Oh sì, pensi che io non sia mai cresciuto. Che io sia senza cuore. Che io sia stupido, probabilmente.” Mi ha fissato con gli occhi illuminati dal mare. “Continua. L’ho detto al posto tuo. Ora puoi anche ammetterlo.”
“D’accordo. Parte di quello che hai detto è vero. Pensavo che non t’importasse. Era quello che avevo intenzione di scrivere: che eri senza cuore e…”
“Scrivere?” mi ha interrotto lui. “E dove?”
“In un libro.”
“Quale libro?”
“Il mio libro”, ho risposto, sentendomi attraversare da un piccolo brivido di orgoglio.
“È un libro su di me?”
“È su tutti noi. Su di te, su di me, su Marietta, Luman, Zabrina.”
“Anche su mamma e papà?”
“Naturalmente.”
“E loro sanno che stai scrivendo questo libro?” Ho annuito. “E stai raccontando la verità?”
“Non è un romanzo, se è questo che vuoi sapere. Sto raccontando la verità come meglio posso.”
Galilee è rimasto a riflettere in silenzio per un istante. Chiaramente quella notizia lo aveva turbato. Forse aveva paura di ciò che avrei potuto svelare; che potevo aver già svelato.
“Prima che tu me lo chieda”, ho detto, “non è solo della nostra famiglia che sto scrivendo.”
A giudicare dall’espressone del suo viso, avevo toccato il tasto più dolente per lui. “Oh Cristo”, ha mormorato. “Quindi è per questo che sono qui.”
“Immagino di sì”, ho detto. “Stavo pensando a te e…”
“Come si intitola?”
“Oh… be’, sto prendendo in considerazione alcuni titoli”, ho risposto con il mio miglior tono da letterato. “Non c’è ancora niente di definitivo.”
“Tu sai che conosco un sacco di dettagli che potrebbero esserti utili.”
“Certo.”
“Conosco cose di cui non puoi fare a meno. Non se vuoi che sia una cronaca fedele.”
“Per esempio?”
Mi ha rivolto un sorriso malizioso. “Cosa avrò in cambio?” ha detto. Per la prima volta da quando era apparso riuscivo a intravedere parte del Galilee che ricordavo; una creatura la cui sicurezza e il cui fascino un tempo erano stati inviolati.
“Andrò da Cesaria per te, ricordi?”
“E pensi che questo valga tutte le informazioni che potrei darti?” ha replicato lui. “Oh no, fratello. Devi fare qualcosa di più.”
“Allora che cosa vuoi?”
“Prima devi dirmi che sei d’accordo.”
Mi sono limitato a dire: “Su cosa?”
“Dimmelo e basta, d’accordo?”
“Non stiamo arrivando da nessuna parte.”
Galilee ha scrollato le spalle. “Va bene. Se non vuoi sapere quello che so io, fa’ pure. Ma il tuo libro non sarà mai completo, ti avverto.”
“Credo che sia meglio interrompere questa conversazione, adesso”, ho detto.
Galilee mi ha osservato con grande serietà, aggrottando le sopracciglia. “Hai ragione. Mi dispiace.”
“Dispiace anche a me.”
“Stavamo andando così bene, mi sono lasciato trasportare.”
“Anch’io.”
“No, no, è stata tutta colpa mia. Nel corso degli anni, ho dimenticato le buone maniere. Passo troppo tempo da solo. E questo il mio problema. So che non è una scusante ma…” Ha lasciato la frase a metà. “Be’, vuoi che ci incontriamo di nuovo?”
“Mi piacerebbe.”
“Domani, a questa stessa ora? Avrai avuto il tempo di parlare con mia madre?”
“Farò il possibile”, ho risposto.
“Grazie”, ha detto Galilee a bassa voce. “Penso spesso a lei, sai. Ultimamente la penso di continuo. E penso alla casa. Alla casa.”
“Sei già stato qui?”
“Cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che saresti potuto venire qua a dare un’occhiata, senza che nessuno se ne accorgesse.”
“Lei se ne sarebbe accorta”, ha osservato lui. È vero, ho pensato. “Per cui la risposta è no. Non ne ho avuto il coraggio.”
“Non credo che troveresti la casa molto diversa da come l’hai lasciata.”
“Bene”, ha detto lui con un sorriso incerto. “Talmente tante cose… quasi tutte in realtà… dovunque io vada… le cose cambiano. E mai in meglio. Luoghi che un tempo amavo. Luoghi segreti. Angoli del mondo che nessuno ha mai visto. Adesso ci sono hotel dalle pareti rosa e crociere organizzate. Di tanto in tanto, ho provato a spaventare la gente per allontanarla.” La sua sagoma è stata scossa da un brivido e al centro della sua bellezza ho scorto un’altra forma, molto meno attraente. Fessure argentee per occhi e labbra di cuoio arricciate a scoprire denti simili ad aghi. Pur sapendo che non intendeva farmi del male, sono rimasto turbato e ho distolto lo sguardo. “Vedi, funziona”, ha detto Galilee non senza una punta di orgoglio. “Ma appena volto le spalle, la putredine ritorna immediatamente.” Ho alzato gli occhi su di lui; la sua forma rabbiosa stava svanendo. “E prima che tu possa accorgertene…”
“Hotel dalle pareti rosa.”
“… e crociere organizzate.” Ha emesso un sospiro. “E tutto è rovinato.” Ha levato lo sguardo al cielo. “Be’, dovrei lasciarti andare, adesso. Tra poco sorgerà il sole e ti aspetta una giornata impegnativa.”
“E tu?”
“Oh, io non dormo così tanto”, ha risposto. “Non credo che le divinità dormano mai un granché.”
“È questa la tua natura?”
Galilee ha scrollato le spalle come se il problema della sua divinità non lo riguardasse. “Immagino di sì. Mamma e papà sono la forma di divinità più pura che questo mondo abbia mai conosciuto, lo sai? E questo fa di te un semidio, sempre che la cosa possa interessarti.” Io sono scoppiato a ridere. “Buonanotte allora, fratello”, ha detto. “Ci vediamo domani.”
Ha accennato a voltarsi, e così facendo si è quasi eclissato. “Aspetta”, ho detto. Lui mi ha guardato.
“Cosa c’è?”
“So quello che vuoi chiedermi”, ho detto.
“Oh davvero?” ha replicato con un sorrisetto. “Sentiamo.”
“Vuoi sapere se dandomi delle informazioni per il libro avrai un qualche tipo di controllo su quello che ho scritto.”
“Ti sbagli, fratello”, ha detto lui, tornando a voltarsi. “Volevo solo chiederti di intitolare il libro Galilee.” I suoi occhi brillavano. “Ma lo farai comunque, vero?”
Dopodiché è scomparso, ed è tornato al mare riflesso nei suoi occhi.
Non serve che vi dica che Galilee non è tornato la notte dopo come aveva promesso. Questo anche se ho passato il giorno successivo a cercare di farmi ricevere da Cesaria per perorare la sua causa. Non sono riuscito a trovarla (ho il sospetto che conoscesse il mio scopo e mi stesse evitando deliberatamente). Ma comunque Galilee non si è fatto vedere, cosa che non avrebbe dovuto sorprendermi. Aveva sempre avuto una natura inaffidabile, eccetto che nelle questioni di cuore. In quelle occasioni, era di una costanza sovrumana.
Ho raccontato a Marietta quello che era successo. Lei era al corrente di tutto. Lo aveva saputo da Luman, che per caso mi aveva visto sul limitare della palude mentre conversavo con un’ombra, passando da un umore all’altro così bruscamente che, secondo lui, quell’ombra poteva appartenere solo a una persona.
“Ha immaginato che si trattava di Galilee?” ho chiesto.
“No, non ha tirato a indovinare”, ha detto Marietta. “Lo sapeva perché anche lui ha avuto conversazioni simili.”
“Allora Galilee è stato qui altre volte?”
“Sembra di sì”, ha risposto lei. “Molte volte, in effetti.”
“È stato Luman a invitarlo?”
“Suppongo di sì. Ma non lo ammetterà. Sai come si comporta quando pensa di essere interrogato. Comunque non ha poi molta importanza, giusto? Il punto è che è stato qui.”
“Ma non in casa”, ho detto io. “Ha troppa paura di Cesaria per avvicinarsi alla casa.”
“Te lo ha detto lui?”
“Non ci credi?”
“Penso che sia assolutamente possibile che ci abbia spiati per tutto questo tempo senza che noi ce ne accorgessimo. Che razza di stronzo.”
“Credo che preferisca essere definito una divinità.”
“Cosa ne pensi di divino stronzo?” ha chiesto Marietta.
“Lo detesti davvero tanto?”
“Non lo detesto affatto. Non è così semplice. Ma entrambi sappiamo bene che le nostre vite sarebbero state dannatamente più felici se quella notte non fosse tornato a casa.”
Quella notte. Dovrò raccontarvi di quella notte molto presto. Non sono riluttante a parlarne, cercate di capirmi. Ma non è facile. Non sono completamente sicuro nemmeno di sapere che cosa accadde esattamente la notte in cui Galilee tornò a casa. Quella notte vi furono più visioni e febbre e atti di delirio di quanti ne fossero stati scatenati su questo continente dall’arrivo dei Primi Pellegrini. Non potrei dirvi con assoluta certezza ciò che fu reale e ciò che fu illusione.
No, nemmeno questa è la verità. Di alcune cose sono certo. So chi morì quella notte, per esempio: gli uomini disperati che commisero l’errore di accompagnare Galilee su questo sacro terreno e che pagarono cara la loro invasione. Potrei portarvi anche ora alle loro tombe, anche se sono centotrent’anni che nemmeno io le visito. (Anche ora, mentre scrivo, il volto di uno di quegli uomini, il Capitano Holt, mi riempie l’occhio della mente. Posso vederlo nella sua tomba, il corpo talmente martoriato che forse nemmeno un osso ne era rimasto intatto.)
Di cos’altro sono certo? Che quella notte morì anche il grande amore della mia vita. Che vidi mia moglie tra le braccia di mio padre — oh Signore, uno spettacolo che ho pregato di poter dimenticare; ma chi potrebbe mai ascoltare le preghiere di un uomo che è stato abbandonato da Dio -, che lei mi guardò nei suoi ultimi istanti di vita e che in quel momento seppi che mi aveva amato e che non sarei mai più stato amato con una simile rabbia. Tutto questo, lo so, è incontestabilmente vero. È storia, se volete.
Ma quanto al resto? Non potrei dirvi se fu reale o meno. Talmente tante emozioni furono scatenate quella notte e in un luogo come questo la furia, l’amore e la sofferenza non rimangono invisibili. Esistono qui com’erano esistiti all’inizio del mondo, come quelle forze primarie che hanno forgiato noi esseri minori.
Quella notte — con i sensi provati e la pelle ferita — fummo trasportati da un’inondazione di sentimenti visibili, che si plasmò in mille forme fantastiche. Non credo che assisterò mai più a uno spettacolo simile; né, per la verità, lo desidero. Per ogni parte del mio essere che ho ereditato da mio padre e che prova piacere nel caos fine a se stesso, esiste una parte che fa di me il figlio di mia madre e che non desidera altro che la tranquillità; un luogo dove scrivere, riflettere e sognare il paradiso. (Vi ho già detto che mia madre era una poetessa? No, non credo. Dovrò citare alcuni dei suoi lavori in seguito.)
Così, parlandovi della mia mancanza di coraggio nel descrivere quella notte, in qualche modo ho finito per darvene un assaggio. C’è ancora molto da raccontare e lo farò quando sarà il momento. Ma non adesso. Certe cose vanno fatte per gradi.
Fidatevi di me; quando saprete tutto ciò che dovete sapere, vi domanderete dove ho trovato la forza di incominciare.
Dove avevamo lasciato Rachel? Sulla strada, giusto?, di ritorno a Manhattan mentre rifletteva sui meriti di Neil Wilkens e di suo marito?
Oh sì, l’abbiamo lasciata mentre rifletteva sul fatto che in fondo al cuore entrambi erano uomini tristi e si chiedeva perché. (A mio avviso, Neil e Mitch non erano persone poi tanto strane; erano infelici perché molti uomini, forse la maggior parte degli uomini, sono infelici in fondo all’anima. Bruciamo così dolorosamente, ma produciamo una luce così debole; e questo ci rende pazzi e tristi.)
In ogni caso, Rachel fece ritorno a Manhattan determinata a dire al marito che non aveva intenzione di restare sua moglie per un istante di più, che era tempo che si separassero. Non aveva ancora deciso esattamente con quali parole gliel’avrebbe detto; si sarebbe affidata all’ispirazione del momento.
Ma quel momento fu ritardato di un giorno. Ellen, una delle segretarie di Mitchell, le disse che il marito era partito per Boston la sera prima. Rachel provò una fitta di rabbia al pensiero che se ne fosse andato così; una rabbia del tutto illogica, dato che lei aveva fatto esattamente la stessa cosa pochi giorni prima. Telefonò al Ritz-Carlton di Boston dov’era alloggiato Mitchell. Sì, le dissero, suo marito aveva preso una stanza; no, al momento non era in albergo. Rachel lasciò un breve messaggio per informarlo che era tornata all’appartamento. Mitch era ossessivo riguardo ai messaggi e talvolta passava a controllarli addirittura ogni ora. Ma non la richiamò, e quel fatto poteva significare soltanto che aveva deciso di non parlarle; che la stava punendo, in altre parole. Resistette alla tentazione di richiamarlo. Non voleva dargli la soddisfazione di immaginarla come in realtà era, ossia seduta accanto al telefono in attesa di una sua chiamata.
Verso le due del mattino, proprio mentre Rachel stava per addormentarsi, Mitch telefonò. Il suo tono era amichevole in modo quasi sospetto.
“Sei stato fuori?” gli chiese lei.
“Ci siamo visti con qualche amico”, rispose lui. “Nessuno che conosci. Gente di Harvard.”
“Quando torni a casa?”
“Non lo so ancora. Giovedì o venerdì.”
“Garrison è con te?”
“No. Perché?”
“Così.”
“Sì, mi sto divertendo, se è questo che vuoi sapere”, ribatté Mitch in tono meno caloroso ora, “sono stufo di fare il cavallo da soma solo perché tutti possano restare ricchi.”
“Non farlo per me”, disse lei.
“Oh non cominciare.”
“Parlo sul serio. Ero…”
“… perfettamente felice anche quando non avevo niente”, concluse Mitch per lei, in un’imitazione gracchiante della sua voce.
“Be’, è la verità.”
“Oh, Cristo santo, Rachel. Ho detto soltanto che stavo lavorando troppo…”
“Solo perché tutti possano restare ricchi, hai detto.”
“Sei fottutamente permalosa.”
“Non insultarmi.”
“Oh Gesù.”
“Sei ubriaco, vero?”
“Te l’ho detto, sono uscito. Non devo certo giustificarmi. Ascolta, è meglio che interrompiamo la conversazione. Parleremo quando tornerò a casa.”
“Torna domani.”
“Ti ho già detto che tornerò giovedì o venerdì.”
“Dobbiamo parlare, Mitch, e dobbiamo farlo al più presto.”
“Di cosa?”
“Di noi. Di quello che dobbiamo fare. Non possiamo andare avanti così.”
Seguì un lungo, lungo silenzio. “Tornerò domani”, disse lui alla fine.
Mentre Rachel e Mitchell interpretavano il loro triste dramma familiare, altre cose stavano accadendo, e nessuna era così superficialmente degna di nota quanto la separazione dei due innamorati che in seguito avrebbe avuto conseguenze ben più tragiche di quanto all’epoca si potesse immaginare.
Forse vi ricorderete che ho accennato all’astrologo di Loretta. Non so se quell’uomo fosse un ciarlatano o una persona seria (anche se devo pensare che chiunque venda le proprie capacità profetiche a donne ricche non sia spinto da un’autentica ambizione visionaria). So comunque che le sue predizioni si dimostrarono — benché in modo contorto — assolutamente esatte. Le cose sarebbero andate così anche se l’astrologo avesse taciuto le sue profezie? O fu proprio la mano del destino a spingerlo a pronunciarle ad alta voce, segnando così il futuro dei Geary? Ancora una volta, non so rispondere. Posso solo raccontarvi cosa accadde e lasciare il resto al vostro giudizio.
Comincerò con Cadmus. Quella in cui Rachel ritornò da Dansky, fu un’ottima settimana per lui. Riuscì a fare un breve viaggio in auto a Long Island e trascorse un paio d’ore seduto sulla spiaggia a guardare l’oceano. Due giorni dopo uno dei suoi nemici più acerrimi, un membro del Congresso di nome Ashfield che aveva tentato di iniziare un’indagine sulle attività economiche dei Geary negli anni Quaranta, morì di polmonite, cosa che rallegrò non poco il vecchio Cadmus. La malattia era stata dolorosa, gli fu raccontato, e le ultime ore di Ashfield erano state un’autentica agonia. Nell’ascoltare quei particolari, Cadmus scoppiò a ridere. Il giorno dopo disse a Loretta di aver intenzione di stilare un elenco di tutte le persone che avevano tentato di tagliargli la strada nel corso degli anni e a cui lui era sopravvissuto. Poi lei avrebbe dovuto mandarla al Times per la pagina dei necrologi: una sorta di in memoriam collettivo per coloro che non avrebbero mai più potuto osteggiarlo. Un’ora più tardi se ne dimenticò, ma il suo umore allegro non lo abbandonò. Rimase sveglio molto più del solito e si fece preparare persino un vodka Martini. Mentre sorseggiava il suo drink e osservava la città seduto sulla sedia a rotelle, disse:
“Ho sentito certe voci…”
“A che proposito?” chiese Loretta.
“Ti sei rivolta a un astrologo.”
“Sì.”
“Che cosa ti ha detto?”
“Sei sicuro che quel Martini ti farà bene, Cadmus? Non dovresti mischiare medicinali e alcolici.”
“Per la verità è una sensazione abbastanza piacevole”, ribatté lui con voce leggermente strascicata. “Mi stavi parlando del tuo astrologo. Ti avrà dato brutte notizie, suppongo.”
“Tu non credi a questo genere di cose”, gli rammentò Loretta. “Perché ti interessa?”
“Sono notizie così terribili?” domandò Cadmus. Osservò per un attimo il volto di sua moglie. “In nome di Dio, che cosa ti ha detto, Loretta?”
Lei sospirò. “Non penso che…”
“Dimmelo!” ruggì lui.
Loretta lo fissò, sorpresa dal fatto che da un corpo tanto fragile potesse scaturire un suono così potente.
“Ha detto che qualcosa sta per cambiare le nostre vite”, rispose Loretta. “E che devo prepararmi al peggio.”
“E cosa sarebbe il peggio, di preciso?”
“La morte, immagino.”
“La mia?”
“Non lo ha specificato.”
“Perché se si tratta della mia…” si sporse verso di lei per prenderle la mano, “… non è certo la fine del mondo. Mi sento più che pronto a concedermi un po’ di riposo.” Le sfiorò il viso. “La mia sola preoccupazione sei tu. So che detesti stare sola.”
“Ti seguirei molto presto, comunque”, disse Loretta dolcemente.
“Shhh. Non dire queste cose. Hai ancora una lunga vita davanti.”
“Non senza di te.”
“Non c’è niente di cui avere paura. Ho già fatto in modo che tu non debba preoccuparti della tua situazione economica. Non ti mancherà mai nulla.”
“Non è dei soldi che sono preoccupata.”
“Di che cosa, allora?”
Loretta prese le sigarette e giocherellò con il pacchetto per un attimo. “C’è qualcosa che non mi hai mai detto sulla tua famiglia?” domandò.
“Oh, ce ne sono mille”, rispose Cadmus in tono leggero.
“Non parlo di mille cose, Cadmus”, puntualizzò Loretta. “Ma di qualcosa veramente importante. Qualcosa che non mi hai mai rivelato. E non mentire, Cadmus, è troppo tardi per le menzogne.”
“Io non ti ho mai mentito”, disse lui. “Parlavo sul serio: ci sono mille cose su questa famiglia che non ti ho mai detto ma nessuna, tesoro te lo giuro, nessuna è poi tanto terribile.” Loretta sembrò in qualche modo placata. Sorridendo e accarezzandole la mano, Cadmus non tardò a capitalizzare il suo successo. “Ogni famiglia ha i suoi segreti spiacevoli. Anche noi li abbiamo. Mia madre morì in modo miserevole. Ma questo lo sai. Ci sono alcuni affari fatti durante la Depressione che non mi fanno onore ma…” scrollò le spalle, “… il Signore sembra avermi perdonato. Mi ha voluto donare dei figli e dei nipoti meravigliosi e una vita più lunga e sana di quanto avrei mai osato sperare. E mi ha donato la cosa più importante di tutte: te.” Le baciò teneramente la mano. “Credimi, tesoro, non passa giorno senza che io lo ringrazi per quanto è stato generoso.”
Quella fu più o meno la fine della conversazione. Ma fu solo l’inizio delle conseguenze delle rivelazioni dell’astrologo.
Il giorno dopo, mentre Loretta era a pranzo con diverse vedove filantrope di Manhattan, il vecchio si recò nella biblioteca, chiuse la porta a chiave e da un nascondiglio segreto dietro le schiere di volumi rilegati in pelle prese una piccola scatola di metallo chiusa da una sottile striscia di cuoio. Le sue dita erano troppo deboli per sciogliere il nodo, così dovette servirsi di un paio di forbici. Sollevò il coperchio. Se vi fosse stato qualcuno con lui in quel momento, avrebbe pensato che quella scatola contenesse un tesoro inestimabile a giudicare dai modi reverenziali di Cadmus. Ma quel testimone immaginario sarebbe stato deluso. Non c’era niente di straordinario nella scatola. Solo un libriccino che puzzava di vecchio, la copertina e le pagine macchiate, gli appunti scritti a mano su quelle pagine ormai sbiaditi dagli anni. E tra le pagine, qua e là, qualche foglio staccato, un pezzetto di tessuto blu, una foglia scheletrica che gli si sbriciolò tra le dita quando provò a sollevarla.
Sfogliò il libriccino avanti e indietro per una decina di volte, fermandosi di tanto in tanto a studiare il contenuto di una pagina, brevemente.
Solo quando ebbe finito di esaminarlo, tornò a focalizzare l’attenzione su una delle pagine staccate. La prese, l’aprì con la stessa delicatezza che avrebbe dedicato a una creatura vivente — una farfalla, forse, di cui voleva ammirare le ali senza però ferirla in alcun modo.
Era una lettera. La mano che l’aveva scritta aveva una grafìa elegante ma la mente che l’aveva concepita era ancora più eloquente, i pensieri compressi al punto da sembrare più poesia che prosa.
Mio carissimo fratello, diceva. I grandi dolori del giorno sono passati e, attraverso il crepuscolo rosa e oro, posso sentire la tenera musica del sonno.
I filosofi si sbagliano, ormai ne sono certo, quando sostengono che il sonno è simile alla morte. È qualcosa che ricorda un viaggio notturno verso le braccia di una madre, dove saremo benedetti e ascolteremo il ritmo amorevole di una ninna-nanna.
La sento adesso, anche mentre ti scrivo queste parole. E, anche se nostra madre è morta ormai da un decennio, io torno a lei e lei a me, e il mondo è di nuovo buono.
Domani combatteremo a Bentonville, e siamo in numero talmente inferiore che non vi è alcuna speranza di poter vincere. Quindi perdonami se non ti dico che spero di riabbracciarti, perché non credo più in una simile speranza, non in questo mondo almeno.
Prega per me, fratello, perché il peggio deve ancora venire. E se le tue preghiere saranno esaudite, forse lo stesso vale per il meglio.
Ti ho sempre voluto bene.
La lettera era firmata Charles.
Cadmus la studiò ancora per un attimo; in particolare il penultimo paragrafo. Quelle parole lo facevano tremare. Prega per me, fratello, perché il peggio deve ancora venire. Non c’era nulla in quell’enorme biblioteca, nulla tra i cupi capolavori del mondo, che riuscisse a turbarlo come quelle poche parole. Naturalmente non aveva conosciuto di persona l’autore della lettera — la battaglia di Bentonville era stata combattuta nel 1865 — ma provava una profonda empatia per quell’uomo. Quando rileggeva quella pagina aveva la sensazione di essere seduto accanto a lui, nella sua tenda prima di quella tragica battaglia, lì, ad ascoltare il rumore della pioggia battente e le canzoni stanche degli uomini della fanteria rannicchiati attorno ai loro fuochi fumosi, con la certezza che sarebbe stata una forza superiore a decidere delle loro sorti.
Molti anni prima, quando per la prima volta aveva letto quel diario e in particolare quella lettera, Cadmus aveva fatto di tutto per scoprire le circostanze in cui erano stati scritti. E ciò che aveva scoperto era che nel marzo del 1865 le forze ormai decimate degli Stati Ribelli, al comando dei generali Johnston e Bragg, erano state spinte attraverso il North Carolina fino a un luogo chiamato Bentonville. E lì, gli uomini esausti, affamati e disperati si erano preparati ad affrontare il potente esercito del Nord. Sherman aveva intuito l’approssimarsi della vittoria; sapeva che i suoi awersari non sarebbero durati a lungo. Alcuni mesi prima, in novembre, aveva coordinato l’incendio di Atlanta, e Charleston — la coraggiosa, assediata Charleston — ben presto sarebbe caduta sotto il suo assalto. Il Sud non aveva più alcuna speranza di vincere, e sicuramente ogni uomo che stava per combattere a Bentonville lo sapeva.
La battaglia durò tre giorni; e, per gli standard del tempo, non fu particolarmente sanguinosa. Poco più di mille soldati dell’Unione persero la vita e circa duemila confederati furono uccisi. Ma quei numeri non significavano niente per un soldato in battaglia perché poteva morire solo una volta.
Cadmus spesso aveva pensato di andare a visitare il luogo in cui gli eserciti avevano combattuto, che era rimasto più o meno uguale a come era stato all’epoca. La dimora degli Harper, una modesta casa che si ergeva accanto al campo di battaglia e che durante il conflitto era stata usata come ospedale da campo improvvisato, era ancora in piedi; le trincee in cui i soldati confederati avevano atteso l’armata del Nord erano ancora lì. Con qualche altra ricerca probabilmente, sarebbe riuscito a scoprire dov’erano state piantate le tende degli ufficiali; e avrebbe potuto sedersi nei pressi del luogo in cui era stata scritta la lettera che ora teneva tra le mani.
Perché non era mai andato? Aveva soltanto avuto paura che i fili che legavano il suo destino a quello del malinconico capitano Charles Holt sarebbero stati rafforzati da una simile visita? Se era così, allora si era negato inutilmente: quei fili erano più forti e più spessi col passare di ogni istante. Anche ora, Cadmus poteva sentirli mentre si avvolgevano attorno a lui — sempre più stretti — come per serrare il suo fato e quello del capitano in un ultimo abbraccio. Non sarebbe stato così turbato se tutto questo avesse riguardato soltanto la sua vita, ma ovviamente non era così. Il dannato astrologo di Loretta aveva capito ben più di quanto potesse immaginare, con le sue insinuazioni sui segreti della famiglia Geary e le sue profezie apocalittiche. Quei centoquarant’anni non potevano certo offrire un rifugio da ciò che era nell’aria; quel messaggio veniva portato come un contagio sospinto dal vento da quel lontano campo di battaglia.
Prega per me, fratello, aveva scritto il capitano, perché il peggio deve ancora venire.
Senza dubbio, quelle parole erano state vere all’epoca in cui erano state scritte, pensava Cadmus, ma il trascorrere degli anni le aveva rese ancora più vere. Il crimine chiamava altro crimine, il peccato chiamava altro peccato, così generazione dopo generazione e, che Dio li aiutasse tutti — ogni Geary, e ogni figlio di un Geary e ogni moglie e ogni amante e ogni servo di un Geary — era tempo che i peccatori affrontassero il giudizio.
La conversazione tra Rachel e Mitch fu civile in modo sorprendente. Nessuno dei due alzò la voce; nessuno dei due pianse; nessuno dei due accusò. Semplicemente parlarono a bassa voce delle loro delusioni e, dopo circa un’ora, raggiunsero la conclusione che non riuscivano più a darsi felicità a vicenda e che quindi sarebbe stato meglio dividersi. L’unica divergenza di opinioni fu questa: Rachel ormai era convinta che non ci fosse modo di rianimare il loro matrimonio e che sarebbe stato meglio iniziare subito le pratiche di divorzio, mentre Mitchell voleva un ulteriore periodo di grazia, qualche settimana per riflettere, perché potessero essere certi che quella di separarsi fosse la decisione giusta. Dopo una breve discussione, Rachel accettò. In fondo cos’erano poche settimane? Nel frattempo, stabilirono, avrebbero dovuto evitare di parlare del loro futuro e non si sarebbero rivolti agli avvocati. Nell’istante in cui un legale fosse entrato in scena, sosteneva Mitchell, ogni speranza di riconciliazione sarebbe stata vanificata. Quanto all’organizzazione pratica, si rivelò tutto molto semplice. Rachel sarebbe rimasta nell’appartamento di Central Park; Mitchell sarebbe tornato al palazzo oppure avrebbe preso una suite in un albergo.
Si separarono con un abbraccio incerto, come due persone fatte di vetro.
Il giorno seguente, Rachel ricevette una telefonata da Margie che le propose di pranzare insieme, in un qualche posto straordinariamente costoso, dove avrebbero potuto trattenersi anche dopo il dessert e passare direttamente ai cocktail.
“Solo se mi prometti che non parleremo di Mitchell”, la avvisò Rachel.
“Oh no”, disse Margie con una sfumatura di mistero nella voce, “devo parlarti di qualcosa di molto più interessante di lui.”
Il ristorante scelto da Margie era aperto solo da pochi mesi ma aveva già ricevuto molte recensioni favolose ed era affollatissimo. Naturalmente Margie conosceva il maìtre (in una sua precedente incarnazione, spiegò in seguito, era stato un barman in un piccolo bar di Soho che era solita frequentare). L’uomo le trattò in modo principesco e le accompagnò a un tavolo da cui si dominava tutta la sala.
“C’è un sacco di gente di cui sparlare”, disse Margie, guardandosi attorno. Rachel conosceva quelle persone solo di vista; un paio di nome.
“Gradite qualcosa da bere?” volle sapere il cameriere. “Quanti tipi di Martini avete?”
“Ne abbiamo sedici sulla nostra lista”, rispose il cameriere, offrendole il menù, “ma se avete delle richieste particolari…”
“Ce ne porti due molto secchi per cominciare. Niente olive. Intanto daremo uno sguardo alla lista.”
“Non sapevo che ci fossero così tante varietà di Martini”, osservò Rachel.
“Be’, comunque dopo il terzo o il quarto non si riesce più a capire la differenza”, disse Margie. “Oh guarda… al tavolo vicino alla vetrata… non è Cecil quello?”
“Pare di sì.”
L’avvocato dei Geary, un uomo sulla sessantina, si stava sporgendo sul tavolo incapace di staccare gli occhi da una bionda attraente che aveva un terzo dei suoi anni.
“Immagino che quella non sia sua moglie”, disse Rachel. “Assolutamente no. Sua moglie — credo che si chiami Phyllis — sembra il nostro maìtre vestito da donna. No, no, quella è una delle sue amanti.”
“Ne ha più d’una?”
Margie alzò gli occhi al cielo. “Quando Cecil lascerà questa valle di lacrime ci saranno più donne a piangere sulla sua tomba di quante stanno attraversando la Quinta Avenue in questo momento.”
“Perché?” chiese Rachel. “È tutt’altro che attraente.” Margie inclinò leggermente la testa di lato. “Davvero? Io trovo che si mantenga bene, per la sua età. Ed è meravigliosamente ricco, il che è la sola cosa di cui si preoccupano le donne di un certo genere. Sicuramente quella bionda riceverà un regalino luccicante prima della fine del pranzo. Sta’ a guardare. Sta contando i minuti. Ogni volta che Cecil avvicina la mano alla tasca, lei comincia a salivare.”
“Se è così ricco perché continua a lavorare? Non potrebbe semplicemente andarsene in pensione?”
“I Geary sono i suoi unici clienti, ormai. Penso che sia in debito con il vecchio. Garrison lo considera molto intelligente. Secondo lui, avrebbe potuto essere il migliore.”
“E allora cos’è successo?”
“La stessa cosa che è successa a te e a me. Si è lasciato trascinare nella famiglia Geary. E una volta che sei dentro non c’è più modo di uscire.”
“Avevi promesso, Margie. Niente discorsi su Mitchell,”
“Ma non sto parlando di Mitchell. Tu mi hai chiesto cos’è successo a Cecil e io te lo sto dicendo.”
Il cameriere arrivò con i loro Martini. Margie gli chiese delucidazioni sul Martini Cajun, il numero tredici della lista. Il cameriere cominciò a descrivere la ricetta ma lei lo interruppe quasi subito.
“Perfetto, ce ne porti due”, ordinò.
“Mi farai ubriacare”, disse Rachel.
“Ne avrai bisogno”, spiegò Margie. “Per quello che sto per raccontarti.”
“Oh, mio Dio.”
“Cosa?”
“Avevi ragione”, mormorò Rachel, indicando con un cenno il tavolo di Cecil. Proprio come Margie aveva previsto, l’avvocato si era tolto di tasca una scatola sottile e la stava aprendo per mostrare alla bionda la sua ricompensa.
“Non te l’avevo detto?” mormorò Margie. “Luccicante.”
“Accadeva di continuo, anche a Boston”, disse Rachel.
“Oh, è vero, lavoravi in una gioielleria.”
“Gli uomini come lui entravano e mi chiedevano di scegliere qualcosa per le loro mogli. Certo, dicevano mogli, ma dopo qualche settimana ho capito. Quelli erano uomini di una certa età, sai — tra i quaranta e i sessanta — e volevano sempre qualcosa per una donna più giovane. Per questo chiedevano a me. Era un po’ come se dicessero: se tu fossi la mia amante, cosa vorresti? È così che ho conosciuto Mitchell. Be’, non proprio.”
“Chi aveva detto niente discorsi su Mitchell? Credevo che fosse un argomento verboten.”
Rachel finì il suo Martini. “Non ha importanza. In un certo senso mi piace parlare di lui.”
“Davvero?”
“Non essere così sorpresa.”
“Hai ragione, ma cosa c’è da dire? È tuo marito. Se lo ami, bene. Se non lo ami, bene lo stesso. Solo, cerca di non dipendere da lui per ogni cosa. Vivi la tua vita. In questo modo non avrà più alcun potere su di te. Oh, guarda, questo sì che è un bello spettacolo.” Il cameriere, che era ricomparso con un nuovo giro di Martini, pensò che Margie si riferisse a lui e sorrise compiaciuto. “Intendevo dire i drink, tesoro”, puntualizzò lei. Il sorriso scomparve dal volto del cameriere. “Però sei carino. Come ti chiami?”
“Stefano.”
“Stefano. Che cosa ci consigli? Rachel è molto affamata e io sono a dieta.”
“La specialità dello chef è il branzino. Viene servito saltato in padella con olio d’oliva extra vergine e un pizzico di…”
“Per me va benissimo. Rachel?”
“Ho voglia di carne.”
“Oh”, disse Margie, alzando un sopracciglio. “Stefano, la signora vuole della carne. Cosa suggerisci?”
Il cameriere per un istante perse la sua compostezza. “Ehm… be’, abbiamo…”
“Magari una bistecca?” suggerì Margie.
Stefano sembrava turbato. “In effetti non serviamo normali bistecche. Non le abbiamo in menù.”
“Buon Dio”, cinguettò Margie, godendosi completamente il disagio del ragazzo. “Questo è un ristorante di New York e non servite una semplice bistecca?”
“Davvero, non ho voglia di una bistecca”, intervenne Rachel.
“Be’, non è questo il punto”, insistette Margie. “È una questione di principio. Be’, avete qualcosa che si può servire al sangue?”
“Abbiamo costolette di agnello con mandorle e zenzero.”
“Benissimo”, gli disse Rachel. Felice che il problema fosse stato risolto, Stefano batté rapidamente in ritirata.
“Sei crudele”, disse Rachel a Margie, una volta che il cameriere se ne fu andato.
“Oh, è piaciuto anche a lui. Gli uomini segretamente amano essere umiliati. Sempre che questo non accada troppo in pubblico.”
“Hai mai pensato di scriverle?”
“Che cosa?”
“Le tue osservazioni sugli uomini.”
“Non reggerebbero un esame approfondito, tesoro”, considerò lei. “Come me, d’altra parte. Sono favolosa se non mi si guarda troppo da vicino.” Scoppiò a ridere sguaiatamente. “Allora, brindiamo. Il numero tredici è veramente ottimo.”
Rachel declinò l’offerta. “Mi gira già la testa. Vuoi smetterla di stuzzicarmi e dirmi invece cos’hai in mente?”
“Be’… è molto semplice, in realtà. Hai bisogno di prenderti una vacanza, tesoro.”
“Ma sono appena tornata da…”
“Non parlo di una visita a casa, per l’amor di Dio. Quella non è una vacanza, è una condanna. Hai bisogno di andare in un posto dove puoi essere te stessa, e non puoi esser te stessa con la tua famiglia.”
“Perché ho l’impressione che tu abbia già programmato qualcosa per me?”
“Sei mai stata alle Hawaii?”
“Mi sono fermata a Honolulu con Mitch mentre andavamo in Australia.”
“Orribile”, disse Margie.
“Parli dell’Australia o di Honolulu?”
“Be’, in effetti di entrambe. Ma quello che ho in mente non è Honolulu, ma Kaua’i. L’Isola Giardino.”
“Non l’ho mai sentita nominare.”
“Oh, tesoro, è semplicemente il luogo più bello della terra. È un paradiso. Credimi. Un paradiso.” Sorseggiò il Martini. “E si da il caso che io conosca una piccola casa in una piccola baia sulla spiaggia settentrionale, a una cinquantina di metri dal mare. È perfetta. Oh, non puoi immaginare. Voglio dire, potrei continuare a parlartene e già ti sembrerebbe un luogo idilliaco ma… è ancora più di questo.”
“Davvero?”
La voce di Margie era diventata sognante e appassionata mentre parlava della casa; e ora si era ridotta quasi a un sussurro e Rachel dovette sporgersi in avanti per sentirla. “Lo so che ti sembrerà sciocco, ma quello è un luogo in cui potrebbe accadere qualcosa di… magico.”
“Sembra magnifico”, disse Rachel. Non aveva mai visto Margie così entusiasta, e trovava quello spettacolo stranamente toccante. Margie la cinica, Margie l’eccessiva che ora parlava come una ragazzina convinta di aver scoperto una terra di sogno. Rachel quasi faticava a crederci.
“A chi appartiene la casa?”
“Ah”, sospirò Margie, rivolgendo a Rachel un sorrisetto. “È questo il punto. Appartiene a noi.”
“A noi?”
“Alle donne della famiglia Geary.”
“Davvero?”
“Agli uomini è proibito avvicinarsi alla casa. È un’antica tradizione Geary.”
“E chi l’ha inaugurata?”
“La madre di Cadmus, credo. Era una specie di femminista, per i suoi tempi. O forse è successo una generazione prima, non lo so. Comunque il fatto è che la casa non viene più usata molto spesso. Ci sono un paio di persone del luogo che ogni mese tagliano il prato e fanno le pulizie, ma fondamentalmente la casa è deserta.”
“Loretta non ci va mai?”
“Ci è stata poco dopo il matrimonio con Cadmus. O almeno così ha detto. Ma adesso preferisce restare qua con lui, giorno e notte. Penso che abbia paura che Cadmus cambi il testamento senza avvertirla. Oh… a proposito di questioni legali…” Con un cenno del capo indicò il tavolo dell’avvocato. Cecil e la bionda si stavano alzando. “Avrà un pomeriggio molto impegnato. Lei ha l’aria di essere un tipo acrobatico.”
“Magari resterà sdraiata e lo lascerà fare”, disse Rachel.
“So come ci si sente.”
“Spero che non ci veda”, mormorò Rachel mentre Cecil si dirigeva verso la porta.
“Oh, invece io spero che ci veda”, fece Margie, e proprio in quel momento Cecil si voltò e si accorse di loro. Rachel rimase immobile nella vana speranza che Cecil non le riconoscesse. Ma Margie, mormorando un oh bene, alzò una mano per salutarlo.
“Guarda cos’hai combinato”, borbottò Rachel. “Sta venendo qui.”
“Non dire niente di Kaua’i”, le raccomandò Margie. “Dev’essere il nostro piccolo segreto.”
“Signore”, stava dicendo Cecil. La bionda era rimasta vicino alla porta. “Non vi avevo viste in quest’angolo così in disparte.”
“Oh, sai come siamo fatte”, scherzò Margie. “Timide, riservate. L’esatto contrario di…” lanciò un’occhiata in direzione della ragazza “… come si chiama?”
“Ambrosina.”
“Be’, che nome importante per una creaturina così deliziosa”, commentò Margie.
Cecil si voltò a guardare la sua conquista. “È straordinaria”, disse con una sincerità sorprendente.
“Ed estremamente bionda”, replicò Margie, apparentemente senza ironia. “È un’attrice, vero?”
“Una modella.”
“Oh, certo. La stai aiutando a cominciare. Come sei dolce.”
Il sorriso di Cecil scomparve. “Devo tornare da lei.” Spostò lo sguardo su Rachel. “Ho sentito Mitchell, stamattina… mi dispiace che le cose non stiano andando bene tra voi. Ma sono sicuro che si risolverà tutto. Se hai bisogno di qualcosa, Rachel, di qualsiasi cosa, fammelo sapere.”
“Me la caverò”, disse Rachel.
“Oh, lo so”, replicò Cecil, come un dottore intento a rassicurare un paziente in punto di morte. “Te la caverai egregiamente. Ma se dovessi avere bisogno di qualcosa…”
“Credo che abbia recepito il messaggio, Cecil”, disse Margie.
“Sì… be’, vedervi è sempre un piacere…”
“Davvero?”
“Davvero”, ribatté Cecil, e tornò dalla ragazza che ormai sembrava decisamente contrariata.
“Penso che l’alcool cominci a farmi strani scherzi”, disse Margie, guardando l’avvocato circondare le spalle della bionda con un braccio e uscire dal ristorante.
“Perché?”
“Mentre guardavo Cecil mi sono chiesta: che aspetto avrà quando sarà morto?”
“Oh, non è un pensiero molto carino.”
“E poi mi sono detta: spero di esserci quando accadrà.”
Quella sera Rachel telefonò a Mitchell e gli raccontò di aver visto Cecil, facendogli notare che, parlando con un avvocato, non aveva tenuto fede al loro accordo. Mitch protestò sostenendo di non aver chiesto nessun consiglio legale. Per lui Cecil era come un padre. Avevano parlato d’amore, non di questioni legali; e a quel punto Rachel non poté fare a meno di ribattere che dubitava che Cecil sapesse qualcosa dell’amore.
“Non essere arrabbiata con me”, la implorò Mitchell. “È stato un errore commesso in buona fede. Mi dispiace. So che probabilmente pensi che ho agito alle tue spalle, ma non è così, te lo giuro.”
Le sue scuse lamentose riuscirono soltanto a irritarla ancora di più. Avrebbe voluto dirgli che lui, le sue scuse, il suo avvocato e tutta la sua dannata famiglia potevano andarsene all’inferno. Invece, si sorprese a dire qualcosa di imprevisto.
“Me ne vado per un po’ ”, annunciò.
Quella dichiarazione sorprese tanto lei quanto Mitchell; non si era resa conto di aver preso una decisione riguardo a Kaua’i.
Mitchell le chiese se sarebbe tornata a Dansky. Lei rispose di no. Dove allora?, volle sapere lui. Via e basta, rispose Rachel. Via da me, intendi dire, disse lui. No, replicò lei, non sto scappando date.
“E allora dove diavolo stai scappando?” domandò Mitchell.
Lei aveva una risposta sulla punta della lingua ma riuscì a trattenersi. Solo quando ebbe finito di parlare con Mitchell, la risposta che non aveva pronunciato raggiunse le sue labbra.
“Non sto scappando da qualcosa”, mormorò tra sé, “sto scappando verso qualcosa…”
Non confidò quel pensiero a nessuno, nemmeno a Margie. In fondo era sciocco. Stava per raggiungere un’isola che non aveva mai sentito nominare dietro consiglio di una donna il cui sangue era al settanta per cento puro alcool. Quel viaggio non aveva alcuno scopo. Eppure il solo pensiero di recarsi sull’isola la rendeva felice. Era grata per quell’opportunità di sentirsi di nuovo leggera e si sarebbe goduta quella sensazione fino in fondo. Sapeva per esperienza che avrebbe potuto scomparire senza alcun preavviso, proprio come l’amore.
Margie si occupò dei preparativi per il viaggio. Rachel non avrebbe dovuto fare altro che sistemare tutte le questioni che aveva in sospeso a New York e partire il giovedì successivo. Una volta arrivata sull’isola, vaticinò Margie, non avrebbe più voluto parlare al telefono. Non avrebbe nemmeno più voluto pensare alla città o ai suoi amici. Sull’isola c’era un ritmo diverso; una prospettiva diversa.
“Ho quasi la sensazione di dover dire addio alla vecchia Rachel”, sospirò Margie, “perché, credimi, non tornerà.”
“Adesso stai esagerando, non ti pare?” disse Rachel.
“Niente affatto”, replicò Margie. “Vedrai. Per un paio di giorni sarai agitata, continuerai a ripeterti che non c’è niente da fare e sentirai la mancanza dei pettegolezzi. E poi, a poco a poco, ti renderai conto che non hai bisogno di tutte queste cose. Te ne starai seduta a guardare le nuvole che coprono le montagne o una balena che nuota nell’oceano o ad ascoltare semplicemente la pioggia sul tetto, e penserai: adesso ho tutto ciò di cui ho bisogno.”
Rachel aveva l’impressione che Margie fosse sempre più entusiasta ogni volta che parlava di quel luogo.
“Quante volte ci sei stata?” chiese.
“Solo due volte”, rispose Margie. “Ma non avrei mai dovuto tornare la seconda volta. È stato un errore. La seconda volta ci sono andata per ragioni sbagliate.”
“Cioè?”
“Oh, è una lunga storia. E non ha importanza. C’è la tua prima volta che ti aspetta, e adesso solo questo conta.”
“Quindi sarò di nuovo vergine”, disse Rachel.
“Sai una cosa, tesoro? È esattamente così. Sarai di nuovo vergine.”
Se Rachel aveva avuto ancora qualche dubbio riguardo al viaggio, esso scomparve non appena salì sull’aereo, prese posto sul sedile in prima classe e bevve un sorso di champagne. Anche se l’isola non fosse stata come Margie l’aveva descritta — solo il paradiso sarebbe stato all’altezza delle promesse dell’amica — era comunque bello andarsene in un luogo dove nessuno la conosceva, un luogo in cui avrebbe potuto essere semplicemente se stessa.
Il primo tratto del viaggio, fino a Los Angeles, fu davvero poco interessante. Un paio di bicchieri e Rachel cominciò a provare un piacevole senso di sonnolenza. Dovette aspettare per un paio d’ore a Los Angeles e scese dall’aereo per sgranchirsi le gambe e bere una tazza di caffè. L’atmosfera dell’aeroporto era frenetica e Rachel rimase a guardare quella parata di persone — affrettate, sudate, in lacrime, frustrate — sentendosi quasi un’aliena, incuriosita ma distaccata. Quando tornò sull’aereo, vi fu un altro ritardo. Il comandante spiegò che si trattava di un problema meccanico di scarsa entità; non sarebbe stata una lunga attesa. Quella previsione si dimostrò esatta. Dopo una ventina di minuti, il comandante annunciò che il volo era pronto per ripartire. Questa volta Rachel rimase sveglia. Cominciava a sentirsi emozionata. Si sorprese a ripensare a ciò che le aveva raccontato Margie. Cosa aveva detto di preciso a pranzo? Aveva accennato al fatto che in quel luogo esisteva ancora la magia, esistevano ancora i miracoli.
Se solo avesse potuto ricominciare da capo, pensò, dalla Rachel che era stata prima del dolore, prima della delusione. La Rachel senza pensieri, che aveva avuto fede nell’insita bontà delle cose… dov’era adesso? Erano passati anni dall’ultima volta che aveva visto, riflessa nello specchio, quella creatura spavalda e felice. La vita a Dansky — soprattutto dopo la morte di suo padre — l’aveva abbattuta e le aveva impedito di rialzarsi. Aveva perso la speranza giorno dopo giorno; la speranza di tornare a essere serena, gioiosa e selvaggia. Persino quando Mitchell era entrato nella sua vita, trasformandola in una principessa, non era riuscita a liberarsi dei suoi dubbi. E per i primi due o tre mesi, anche dopo che lui le aveva confessato il suo amore, Rachel si era aspettata che da un momento all’altro Mitchell le dicesse che avrebbe dovuto essere più positiva e ottimista. Ma apparentemente lui non si era reso conto della silenziosa disperazione di lei. O forse l’aveva notata, ma aveva dato per scontato di poterla spogliare dei suoi dubbi con un semplice tocco della grandeur dei Geary.
Il pensiero di Mitchell la rese triste. Povero Mitchell; povero, ottimista Mitchell. Allontanandosi da lui, aveva fatto un favore a entrambi.
L’aeroporto di Honolulu era più o meno come lo ricordava. Negozi che vendevano souvenir, bar che servivano cocktail tropicali, stormi di turisti che venivano accolti con ghirlande di fiori. E dovunque il simbolo dominante del turismo americano: la camicia hawaiiana. Possibile che il paradiso che Margie le aveva descritto fosse a soli venti minuti di volo da lì?
Ma i suoi dubbi cominciarono a dissolversi non appena salì sul piccolo Wikki-Wikki Shuttle che la condusse al suo charter. L’aria era tiepida e profumata.
L’aereo era piccolo, ma il volo sarebbe durato meno di mezz’ora. Buon segno, pensò lei. Non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle i turisti in camicia hawaiiana. L’aereo decollò quasi bruscamente, e nel giro di pochi secondi Rachel oltre il finestrino vide l’oceano color turchese e i grattacieli di Honolulu scomparvero di lì a poco.
Il volo che conduce all’Isola Giardino dura meno di venticinque minuti. Ma mentre Rachel è sull’aereo, lasciate che vi descriva un fatto accaduto due settimane prima.
Il luogo è una cittadina cadente chiamata Puerto Bueno, una comunità che forse vince il premio per la meno frequentata in questo libro. Si trova in una delle isole della provincia di Magallanes, in Cile. Non è un luogo in cui la gente si reca per prendersi una vacanza e rilassarsi; le isole sono battute dal vento e prive di attrattive, molte sono persino disabitate tanta è la loro desolazione. In una regione del genere, una città come Puerto Bueno, che può vantare ben settecento abitanti, è considerata popolosa, ma nessuno sulle isole vicine ne parla mai molto spesso. A Puerto Bueno, la legge viene interpretata con enorme elasticità, e questo fatto, nel corso degli anni, ha attratto una moltitudine variopinta di uomini e donne che hanno vissuto ai limiti (ma anche oltre i limiti) della legalità. Persone che sono sfuggite alla giustizia nei loro paesi, che hanno vagato per il mondo in cerca di un luogo dove rifugiarsi. Alcune di loro hanno persino goduto di una certa notorietà. Un uomo che aveva riciclato denaro sporco per il Vaticano; una donna che aveva assassinato il marito ad Adelaide e che ancora conservava un’istantanea del suo cadavere nella borsetta. Ma, per la maggior parte, erano criminali di scarsa importanza, la cui cattura non rappresentava certo una priorità per coloro da cui stavano fuggendo.
Strano ma vero, Puerto Bueno è comunque una città curiosamente civile. Non vengono commessi crimini né si parla mai di crimini. Gli abitanti si sono lasciati il loro passato alle spalle e vogliono vivere in pace il tempo che gli resta. Non è certo il luogo più confortevole che si possa immaginare (ha solo due negozi e la fornitura di energia elettrica è inaffidabile), ma è comunque preferibile alla cella di una prigione o a una tomba. In certi giorni è possibile sedersi sul parapetto instabile del porto e — osservando il cielo — pensare che persino quell’angolo di mondo così inospitale è la prova della generosità di Dio.
Poche barche gettano l’ancora qui. Di tanto in tanto, un peschereccio che percorre la costa attracca per rifugiarsi da una tempesta e, ancora più raramente, compare uno yacht che ha perso la rotta solo per scomparire non appena i passeggeri intravedono una città. A parte queste visite saltuarie, il porto ospita una manciata di piccole imbarcazioni, nessuna delle quali sembra davvero in grado di prendere il largo. D’inverno, almeno una di queste barche affonda nel porto e marcisce.
Ma c’era un piccolo vascello che non rientrava in nessuna di queste categorie: un vascello chiamato Samarcanda, più pratico di qualsiasi peschereccio e allo stesso tempo molto più bello di qualsiasi yacht. A modo suo era una sorta di yacht, il legno dello scafo non dipinto ma lucido e screziato. La cabina, il timone e i due alberi avevano la stessa tonalità e quando venivano rischiarati da una certa luce, la sfumatura del legno appariva straordinariamente chiara, come se la barca fosse stata progettata da un maestro incisore. Quanto alle vele, naturalmente erano bianche ma nel corso degli anni erano state ricucite un’infinità di volte e le riparazioni erano evidenti dalle sezioni regolari di tessuto leggermente più chiare o più scure.
Forse a molti non sembrerà una barca così straordinaria. Forse nei porti più alla moda del mondo, in quelli della Florida o in quello di San Diego, non sarebbe considerata uno spettacolo particolarmente memorabile. Ma lì a Puerto Bueno il suo arrivo in una giornata grigia e fredda sembrò la visita di qualcosa venuto dal regno dei sogni. Anche se il suo capitano (che era anche l’equipaggio e l’unico passeggero) portava la sua imbarcazione a Puerto Bueno da più tempo di quanto chiunque degli abitanti potesse ricordare, la sua comparsa all’orizzonte non mancò di attirare l’attenzione. C’era qualcosa nel suo arrivo — come il ritorno degli uccelli a primavera dopo una stagione di ghiaccio — che riusciva a rendere leggermente più sensibili anche quei cuori induriti dalla vita.
Una volta che il vascello ebbe gettato l’ancora tra le braccia sicure del porto, comunque, gli spettatori si affrettarono ad allontanarsi. Sapevano che non era bene restare a guardare troppo a lungo la barca o, peggio ancora, a spiare l’uomo solitario dalla pelle nera che scendeva a terra. In effetti, era quasi una superstizione: chiunque restasse a guardare il capitano della Samarcanda mentre scendeva sulla terraferma sarebbe morto entro un anno. Tutti gli occhi quindi erano rivolti altrove, quando un uomo conosciuto con un solo nome comparve sul sentiero della collina che conduceva a una casa sopra il porto. Quel nome, naturalmente, lo conoscete già: Galilee.
Come mai, potreste chiedervi, il mio fratellastro possedeva una casa in quella sperduta comunità di criminali? Per puro caso, è la risposta. Stava navigando lungo la costa, quando era stato costretto a cercarvi riparo da una tempesta. Siete liberi di non crederci, ma non era stata una decisione facile per lui. Aveva attraversato un periodo di profonda depressione, e quando si era scatenata la tempesta, aveva avuto la tentazione di lasciare la Samarcanda al suo destino. Naturalmente, aveva scartato quasi subito quell’idea. Non sarebbe stato degno di una barca così nobile, di una barca che considerava la sua unica, vera amica, finire distrutta su quella costa. Aveva promesso alla Samarcanda che, quando fosse venuto il tempo, sarebbe morta di una buona morte, in qualche luogo molto, molto lontano dalla terraferma.
Così aveva cercato rifugio a Puerto Bueno, che all’epoca era a malapena un quarto delle sue dimensioni attuali, il porto costruito di recente e usato molto di rado. A costruirlo era stato Arturo Higgins, un uomo di origini inglesi che aveva perso tutto quello che possedeva in quell’impresa e che si era suicidato un anno prima. La sua casa in cima alla collina era disabitata e Galilee, spinto dal perverso desiderio di vedere il luogo in cui l’uomo si era tolto la vita, l’aveva raggiunta e vi era entrato. Nessuno era più stato in quella casa dal giorno in cui avevano portato via il cadavere: i pellicani avevano nidificato nelle camere da letto e i topi si erano scavati la tana nel camino, ma quella desolazione aveva affascinato Galilee. Il giorno dopo aveva acquistato la casa dalla figlia di Higgins. Nelle giornate limpide, il panorama era rasserenante, e Galilee era arrivato a considerarla la sua seconda casa; la prima, naturalmente, era la Samarcanda.
Era partito dopo un paio di settimane, aveva chiuso la casa e aveva fatto capire agli abitanti di Puerto Bueno che chiunque vi si fosse introdotto se ne sarebbe pentito amaramente.
Non era tornato per tredici mesi. Talvolta ritornava tre o quattro volte in un solo anno, altre volte non si faceva vedere per anni interi. Era diventato una leggenda e si dice che alcuni dei delinquenti e dei fuggitivi che si erano trasferiti in città dopo il suo arrivo lo avessero fatto perché avevano sentito parlare di lui. In questo caso sarebbe legittimo chiedersi, perché la storia del viaggiatore, di un uomo nelle cui vene scorreva sangue divino, non aveva attratto anche qualche spirito più elevato? Perché non erano arrivati dei santi a Puerto Bueno, perché la presenza di Galilee non aveva trasformato la città in un luogo in cui accadevano miracoli?
Posso darvi solo una risposta: le ferite di Galilee erano troppo profonde. Quindi come avrebbe potuto la sua leggenda ispirare santi guaritori se persino lui era incapace di guarire se stesso?
E così sapete come stavano le cose circa una settimana prima della partenza di Rachel per le Hawaii.
Galilee non era in mare in quel momento, si trovava nella casa sulla collina. Aveva portato la Samarcanda a Puerto Bueno perché la barca necessitava di riparazioni e per qualche settimana si divise tra il porto e la casa, lavorando dall’alba al tramonto per riparare l’imbarcazione e trascorrendo le ore di oscurità seduto alla finestra della casa di Higgins a scrutare il Pacifico. Non avrebbe mai permesso a qualcuno di mettere piede sulla Samarcanda per aiutarlo. Era un perfezionista: nessuna mano, eccetto la sua, avrebbe potuto toccare la sua barca. Di tanto in tanto, qualche curioso si fermava sul molo a osservarlo lavorare, ma Galilee lo allontanava con un semplice sguardo. Solo una volta partecipò alle attività sociali della città, per la precisione in una notte di vento — qualche giorno prima della sua partenza — in cui apparve nel piccolo bar sulla collina dove metà degli abitanti di Puerto Bueno si recava a bere, e trangugiò più brandy di quanto chiunque altro sarebbe riuscito a reggere. Ma tutto quell’alcool si limitò a rendere Galilee abbastanza allegro e piuttosto loquace — considerando i suoi standard precedenti, almeno. Coloro che parlarono con lui quella sera ebbero la straordinaria impressione che quell’uomo misterioso si fosse aperto con loro, che avesse condiviso qualche segreto. Il mattino successivo, comunque, quando provarono a ripetere ciò che lui aveva raccontato, non riuscirono a ricordare quasi nulla di ciò che Galilee aveva detto di sé.
Due giorni più tardi, cominciò a lavorare più alacremente alla Samarcanda, e continuò senza interruzioni per settantadue ore. Sembrava che d’improvviso avesse ricevuto l’ordine di salpare appena possibile, che qualcosa lo obbligasse ad andarsene prima del previsto.
Il terzo giorno delle sue fatiche, si recò all’emporio per ordinare delle provviste. I suoi modi erano bruschi, la sua espressione cupa: nessuno ebbe il coraggio di chiedergli dove fosse diretto. Fu Hernandez, il figlio del proprietario del negozio, a consegnargli le provviste; Galilee lo pagò anche troppo per i suoi sforzi e chiese al giovane di chiedere scusa da parte sua a Hernandez Senior; sapeva di non essere stato molto educato quella mattina, ma non aveva voluto offendere nessuno.
Quella fu l’ultima conversazione che un abitante di Puerto Bueno ebbe con Galilee durante tale visita. Mio fratello levò l’ancora al tramonto e la Samarcanda abbandonò il porto scivolando sulla marea della sera, diretta verso luoghi dei quali si ipotizzò molto ma non si seppe mai nulla.
Nicodemus, come ho già detto, era un uomo dalle prodigiose energie sessuali. Amava tutto ciò che era erotico (esclusi i libri): dubito siano mai passati due minuti consecutivi senza che pensasse a qualcosa di sessuale. E il suo interesse non era limitato alla sessualità umana o superumana. Amava lo spettacolo di una libido scatenata sotto qualunque forma si presentasse. Nei suoi cavalli soprattutto. Amava guardarli mentre si accoppiavano. Molto spesso era con loro quando questo accadeva, e sussurrava ora allo stallone ora alla giumenta come per incoraggiarli. E se le cose non funzionavano, era pronto ad aiutarli con le sue stesse mani. Masturbando lo stallone se era il caso e guidandolo verso la giumenta se era troppo impacciato; toccando la giumenta con tanta tenerezza da riuscire a calmarla e renderla arrendevole.
Ricordo un incidente simile con particolare chiarezza; accadde più o meno due anni prima della sua morte. Aveva un cavallo di nome Dumuzzi, del quale andava particolarmente orgoglioso. E aveva le sue buone ragioni. Dumuzzi era intelligente in modo quasi soprannaturale e squisitamente proporzionato. Talvolta mi sono chiesto se mio padre non avesse in qualche modo scolpito quella creatura splendida perché fosse d’ispirazione al mondo degli umani; un esemplare talmente perfetto da costringere tutti coloro che avessero potuto osservare la sua forza e la sua bellezza a meditare sulla meraviglia della creazione.
Accadde questo: quella notte si scatenò una terribile tempesta. Si fece buio prima di sera, quando le nubi color ferro coprirono quel che restava del sole. I tuoni erano così violenti da far tremare la terra persino a chilometri di distanza.
I cavalli erano in preda al panico, naturalmente, e non erano affatto dell’umore di accoppiarsi. Soprattutto Dumuzzi, la cui unica vera fragilità era il carattere: sembrava sapere di essere una creatura speciale e si comportava in modo teatrale. Quella notte era particolarmente intrattabile: quando mio padre entrò nella stalla per prepararlo, Dumuzzi scalciò e s’imbizzarrì. Ricordo di aver suggerito a Nicodemus di provare nuovamente il mattino dopo, una volta che fosse passata la tempesta, ma quello era uno scontro che nessun mio consiglio avrebbe mai potuto placare. Nicodemus si rivolse a Dumuzzi come avrebbe potuto fare con un amico ubriaco e volubile; gli disse che non era dell’umore di assecondarlo e che prima si fosse calmato e avesse cominciato a comportarsi bene, meglio sarebbe stato per tutti. Ma il cavallo ignorò quell’avvertimento e anzi divenne ancora più irrequieto. Io non temevo per mio padre — all’epoca lo credevo immune da ogni ferita — ed ero più che altro in pensiero per la mia stessa sicurezza. Durante i vari viaggi che avevo compiuto per conto di Nicodemus, alla ricerca di grandi cavalli, avevo visto quali danni potevano causare e temevo per le mie membra e per la mia vita. Tuttavia ero incapace di distogliere lo sguardo da quello spettacolo. La tempesta era quasi sopra di noi adesso, e Dumuzzi era in preda alla frenesia. Scintille di elettricità statica gli attraversavano la criniera e gli dardeggiavano tra gli zoccoli e sul terreno; i suoi lamenti erano così potenti da farsi sentire anche al di sopra dei tuoni.
Nicodemus non si scompose. In vita sua aveva avuto a che fare con innumerevoli animali imbizzarriti, e Dumuzzi, nonostante la sua forza e le sue dimensioni eroiche, era soltanto uno di più. Non senza qualche difficoltà, mio padre riuscì a mettergli le briglie e a trascinarlo fuori dalla stalla dove una giumenta attendeva legata. Riesco ancora a vedere la scena con l’occhio della mente ed è tutto così vivido: i fulmini che eruttavano dalle nubi nel cielo, i cavalli che nitrivano istericamente, le labbra arricciate a scoprire i denti; Nicodemus che gridava al di sopra del fracasso della tempesta, il gonfiore all’inguine che mostrava chiaramente quanto quello spettacolo lo stesse eccitando.
Lui stesso sembrava in parte un animale illuminato dai lampi; i capelli scarmigliati lunghi fino alla vita, il volto tagliato in due da un sorriso rabbioso, la pelle iridescente. Se avesse perso ogni traccia di umanità in quel momento — per trasformarsi in un cavallo o in un lampo o in entrambi — non mi sarei stupito per nulla. Ma forse il fatto di essere confinato nella sua anatomia umana lo eccitava ancora di più in quelle circostanze; lo eccitava dover sudare e combattere.
Eccolo — una divinità fatta carne, una carne prossima a diventare animale — intento a trascinare Dumuzzi in presenza della giumenta. Pensavo che l’ultima cosa che lo stallone volesse fare fosse accoppiarsi, ma mi sbagliavo. Nicodemus si insinuò tra i due cavalli e cominciò a eccitarli: massaggiando loro i fianchi, i ventri, le teste e continuando a parlare. Nonostante la sua agitazione, Dumuzzi ben presto si gettò sulla giumenta. Senza smettere di parlare, mio padre afferrò il membro dello stallone e lo guidò verso l’apertura della giumenta. Dumuzzi non ebbe bisogno di altro aiuto.
Mio padre indietreggiò e rimase a guardare. Non stava più ridendo. Aveva il capo chino, le spalle curve: sembrava un predatore pronto a saltare alla gola dei due cavalli, se solo lo avessero deluso.
Ma non fu così. Benché la tempesta continuasse a infuriare, gli animali scoparono e scoparono e scoparono, il panico perso nella frenesia dell’accoppiamento.
Il frutto di quella monta fu un maschio. Nicodemus lo battezzò Temujin, il vero nome di Gengis Khan. Quanto a Dumuzzi, da quella notte in poi sembrò adorare ancora di più mio padre; era come se fossero diventati fratelli. Dico come perché ho il sospetto che la devozione del cavallo fosse solo una finzione. Per quale motivo? Perché la notte in cui mio padre morì, la carica di cavalli in preda al panico che lo schiacciò fu guidata proprio da Dumuzzi, perché nei suoi occhi, lo giuro, luccicava la vendetta.
Vi ho raccontato tutto questo in parte per farvi capire meglio mio padre, la cui presenza in questa storia è necessariamente aneddotica, e in parte perché serve a ricordarmi delle capacità che giacciono in attesa nella mia natura.
Come ho detto all’inizio del capitolo, la mia libido non è che una pietosa eco degli appetiti sessuali di Nicodemus. La mia vita erotica non è mai stata particolarmente complessa o interessante, fatta eccezione per un breve periodo in Giappone quando corteggiavo, seguendo il rituale formale, Chiyojo, la donna che sarebbe diventata mia moglie, mentre di notte dividevo il letto con suo fratello Takeda, un attore kabuki di una certa notorietà (un onagatta, per la precisione; ovvero, interpretava solo ruoli di donne). A parte questo gli scandali della mia vita sessuale non riempirebbero nemmeno un breve volumetto.
E tuttavia — mentre mi preparo per la parte di questa storia dedicata all’amore — non posso fare a meno di chiedermi dove sia finito in me il fuoco che ho ereditato da mio padre. C’è un amante dentro di me, da qualche parte, in attesa del momento opportuno per mostrare la sua abilità? E quell’energia si è trasformata in qualcosa di meno frenetico? È quell’energia ad alimentare le parole che scrivo? I succhi del desiderio di Nicodemus si sono tramutati per me in penna e inchiostro?
Mi sono spinto anche troppo in là con queste analogie. Comunque, ormai le ho scritte e non ho intenzione di cancellarle dopo tanti sforzi.
Devo continuare. Lasciamo i ricordi di mio padre, della tempesta e dei cavalli. Spero solo che la passione che mi porta alla mia scrivania (ossessivamente ormai; non passa istante senza che io pensi a ciò che ho scritto o a ciò che sto per scrivere) non sia cieca e confusa come sa essere l’amore. Ho bisogno di chiarezza. Oh Signore, ho bisogno di chiarezza!
Ci sono momenti in cui penso di essermi smarrito. Ho tutte queste storie affascinanti ma non so più come riunirle. Sembrano così assolutamente diverse le une dalle altre: i pescatori di Atva, i monaci impiccati, Zelim a Samarcanda; la lettera di un giovane soldato che affronta la morte su un campo di battaglia durante la guerra civile; una stella del cinema muto amata e raggiunta in Germania da un uomo troppo ricco; il cadavere di George Geary a bordo di un’auto sulla spiaggia di Long Island; e l’astrologo di Loretta che profetizza la catastrofe; Rachel Pallenberg disamorata dell’amore e Galilee Barbarossa disamorato della vita stessa. Come diavolo riunire tutti questi tasselli in un mosaico sensato?
Forse (e questa è un’idea che mi nausea, anche se non posso scartarla) non c’è modo di riunirli. Forse ho perso la strada già da tempo e sto semplicemente radunando trame di una storia che non si potranno mai legare.
Be’, è troppo tardi ormai. Non posso smettere di scrivere; il mio slancio è troppo impetuoso. Devo continuare usando tutto il genio, per quanto poco possa essere, che ho ereditato da mio padre, per interpretare le scene di desiderio umano che stanno per dipanarsi davanti a me, nella speranza che interpretandole scoprirò un modo per dare un senso a ciò che ho descritto finora.
Un’ultima cosa. Non posso fare a meno di spiegarvi qualche particolare della mia ultima conversazione con Luman.
Non pensiate che io sia un codardo; non lo sono. Mi rendo pienamente conto che prima o poi dovrò affrontare le accuse che mi ha rivolto il mio fratellastro; faccia a faccia con lui, e faccia a faccia con me stesso (il che significa: qui, in queste pagine). Luman ha detto che la mia devozione per Nicodemus è stata in qualche misura la ragione della morte di mia moglie; che se fossi stato il marito amorevole che dicevo di essere, non avrei certo chiuso un occhio sulla situazione. Avrei detto a Nicodemus che lei era mia e che avrebbe dovuto lasciarla in pace. Ma non l’ho fatto. Gli ho permesso di mettere in atto il suo desiderio e Chiyojo ne ha pagato il prezzo.
Sono colpevole.
Ecco; l’ho ammesso. E ora? È troppo tardi per chiedere perdono a Chiyojo. O almeno, non posso farlo qui; se il suo spirito si aggira ancora nel mondo dei mortali — e sospetto che sia così — è sicuramente sulle colline sopra Ichinoseki, in attesa della fioritura dei ciliegi.
Qui all’Enfant posso solo fare pace con Luman che mi ha rivolto le sue accuse spinto da ragioni perfettamente innocenti. È il genere d’uomo che non sa nascondere i suoi pensieri. Aveva un’opinione e l’ha detta chiaramente. Ma non è tutto, perché ciò che ha detto era giusto anche se mi costa fatica ammetterlo. Dovrei scendere alla Casa del Fumo con un paio di sigari e dirgli che mi dispiace di essere esploso in quel modo; voglio che ricominciamo a parlare.
Ma il pensiero di avventurarmi sul sentiero che porta alla Casa del Fumo mi spaventa; non ce la faccio. Non ancora, almeno. Verrà un momento, ne sono sicuro, in cui non avrò più pretesti e dovrò andare a fargli le mie scuse.
Forse andrò domani, forse dopodomani. Quando avrò scritto dell’isola, allora andrò. Sì, è così. Quando mi sarò liberato di tutto ciò che devo dirvi sull’isola e di ciò che là accadde a Rachel, starò meglio e sarò in grado di andare a parlare con Luman. Si merita tutta la mia attenzione, e in un momento in cui sono così distratto non potrei certo concedergliela.
Comincio a sentirmi meglio, adesso, ho confessato la mia colpa e questo mi è stranamente di conforto. Non ho intenzione di provare a giustificarmi. Sono stato debole e troppo ansioso di compiacere. Ma non posso concludere questo passaggio senza tornare all’immagine di Nicodemus la notte della tempesta. Era una creatura straordinaria, senza alcun dubbio; penso che molti figli con un padre simile avrebbero anteposto la loro lealtà a lui ai loro doveri coniugali. L’ironia è questa: se speravo di diventare come lui e di ottenere la sua approvazione e il suo affetto concedendogli Chiyojo, sono andato contro i miei stessi interessi con eroica testardaggine. In una sola notte, ho perso il mio idolo, ho perso mia moglie e — è giusto che lo dica una volta per tutte — ho perso me stesso. Quel poco che era rimasto di me — un sé diviso dal mio desiderio di compiacere mio padre — è stato schiacciato dagli zoccoli degli stessi cavalli che hanno ucciso lui. È solo da qualche settimana a questa parte, da quando ho cominciato a scrivere questa storia, che è comparsa un’anima di nome Maddox, viva nella mia carne e degna di essere ricordata. Forse il momento della mia rinascita è stato quando sono uscito dalla stanza del cielo, lasciandomi alle spalle la sedia a rotelle.
Un’altra ironia, naturalmente: la forza per fare questo mi è stata donata dalla mia matrigna; è lei la responsabile della mia resurrezione. E anche se non vuole essere ripagata, so di essere in debito; e con ogni frase, con ogni paragrafo, il Maddox che si sdebiterà è sempre più a fuoco.
È questo che vedo: un uomo che ha appena confessato la sua colpa e che col tempo si farà perdonare. Un uomo che ama raccontare storie e che col tempo troverà il modo di capire ciò che sta raccontando. Un uomo capace di amare e che col tempo troverà qualcuno da amare ancora; col tempo.
Rachel poté intravedere Kaua’i solo per qualche breve ma meraviglioso istante; abbastanza per scorgere una serie di spiagge luminose e di colline morbide e rigogliose. Poi l’aereo iniziò la discesa verso l’aeroporto di Lihu’e e atterrò poco dopo. L’aeroporto era piccolo e tranquillo. Rachel andò a ritirare i bagagli tenendo gli occhi aperti in cerca del custode della casa. Ed eccolo, in piedi vicino al minuscolo nastro trasportatore, con un carrello per i suoi bagagli. Si riconobbero nello stesso istante.
“Signora Geary…” disse l’uomo, abbandonando il carrello per andare a presentarsi. “Sono Jimmy Hornbeck.”
“Sì. Ho immaginato che fosse lei. Margie mi ha detto di cercare l’uomo con i vestiti meglio stirati di tutta Kaua’i.”
Jimmy scoppiò a ridere. “È la mia reputazione”, disse. “Be’, immagino che potrei averne anche una peggiore.”
Quando arrivarono le valigie, lui l’accompagnò fuori, nel sole.
“Se vuole aspettarmi qui”, disse, “vado a prendere l’auto. Preferisco risparmiarle il tragitto fino al parcheggio.”
Lei non fece obiezioni; era felice di aspettare lì e sentire la brezza dell’oceano accarezzarle il viso. Aveva la sensazione che la sporcizia e l’angoscia di New York la stessero abbandonando col trascorrere di ogni istante.
Di lì a qualche minuto Hornbeck tornò con il veicolo — che sembrava abbastanza solido per esplorare una giungla. Un altro minuto per caricare le valigie di Rachel e poi, superato il piccolo labirinto di strade attorno all’aeroporto, l’auto imboccò la cosa più simile a un’autostrada che ci fosse su un’isola.
“Mi dispiace”, disse Jimmy. “Avrei voluto venire a prenderla con qualcosa di più elegante, ma la strada che porta alla casa è molto peggiorata negli ultimi mesi.”
“Oh, davvero?”
“È piovuto parecchio ultimamente ed è per questo che l’isola è così rigogliosa in questo periodo.”
Era ben più che rigogliosa. Alla sinistra dell’autostrada, verso l’interno dell’isola, c’erano enormi campi di terra rossa e verdi piantagioni di canne da zucchero. E oltre, colline vellutate che si innalzavano fino a diventare picchi scoscesi dalle cime ammantate di nuvole sontuose.
“Il problema è che nessuno si occupa più della manutenzione delle strade minori”, stava spiegando Hornbeck. “E ora come ora c’è una piccola disputa per decidere chi si debba occupare della strada che porta alla casa. Secondo il consiglio locale fa parte della proprietà e quindi io dovrei farmi dare dei soldi da voi per rimetterla a nuovo. Ma non ha senso. E proprietà pubblica. Toccherebbe al consiglio riempire le buche, non ai privati.”
Rachel lo stava ascoltando distrattamente. La bellezza dei campi, delle montagne e dell’oceano calanutava la sua attenzione.
“E così sono due anni che si continua a discutere”, disse Hornbeck. “Due anni! E naturalmente nessuno rimetterà a posto la strada finché non avremo trovato un accordo. Il che significa che continuerà a peggiorare ogni volta che piove. È molto frustrante, devo rivolgerle le mie scuse.”
“Davvero, non ce n’è bisogno…” disse Rachel con voce sognante.
“Per l’auto.”
“Davvero”, disse lei, “va benissimo così.”
“È solo che non vorrei che pensasse che sto trascurando i miei doveri.”
“Mmm?”
“Aspetti di vedere la strada.”
Lei si voltò a guardarlo e si rese conto dai suoi modi nervosi che Hornbeck era sinceramente preoccupato per il futuro del suo lavoro.
“Non si preoccupi, James. Di solito la chiamano James o Jim?”
“In genere Jimmy”, disse lui.
“Lei è inglese, vero?”
“Sono nato e cresciuto a Londra. Ma poi mi sono trasferito qui. Il prossimo novembre saranno trent’anni. Quando sono arrivato, mi sono detto: questo posto è perfetto. E non sono più tornato in Inghilterra.”
“Pensa ancora che sia perfetto?”
“Talvolta ho dei dubbi”, ammise Jimmy. “Ma poi, in una giornata così mi chiedo: dove altro vorrei essere? Insomma, si guardi attorno.”
Rachel spostò lo sguardo in direzione delle montagne. Le nuvole si erano divise sulle alture e i raggi del sole stavano filtrando attraverso quella coltre bianca.
“Riesce a vedere le cascate?” chiese Jimmy. Rachel le vedeva. Fili di acqua argentea che sgorgavano dalle spaccature nella montagna. “Quello è il posto più umido del pianeta”, la informò. “Sul Monte Waialeale cadono milleduecento centimetri di pioggia all’anno. Sta piovendo anche in questo momento.”
“È mai stato lassù?”
“Ci sono stato in elicottero un paio di volte. È spettacolare. Se vuole posso organizzarle un’escursione. A Po’ipu ho un amico che guida gli elicotteri.”
“Non mi fido molto degli elicotteri.”
“Ma è il modo migliore per vedere l’isola. E, se vuole, Tom può portarla sull’oceano a vedere le balene.”
“Oh, sarebbe magnifico.”
“Le piacciono le balene?”
“Non ne ho mai vista una da vicino.”
“Ci penso io a organizzare tutto”, disse Jimmy. “Con un preavviso di un giorno posso prenotarle una barca.”
“È molto gentile, Jimmy. Grazie.”
“Nessun problema. Sono qui per questo. Se ha bisogno di qualcosa non deve fare altro che chiedere.”
Si stavano avvicinando a una piccola città, Kapa’a, dove cominciavano a notarsi i primi segni della cattiva influenza del turismo. Accanto a piccoli empori malconci sorgeva un enorme fast-food.
“C’è un ottimo ristorante qui a Kapa’a, è sempre tutto prenotato ma…”
“Mi lasci indovinare, ha un amico.”
Jimmy scoppiò a ridere. “Infatti. Tengono sempre un tavolo libero per gli ospiti speciali. In effetti penso che la matrigna di suo marito abbia investito un bel po’ di soldi nel ristorante.”
“Loretta?”
“Esatto.”
“Quando è stata qui l’ultima volta?”
“Oh… una decina di anni fa, forse di più.”
“È venuta con Cadmus?”
“No, no. Da sola. È una vera signora.”
“Sì, è vero.”
Jimmy si voltò a guardare Rachel. Era chiaro che aveva altro da dire sull’argomento ma temeva di essere inopportuno.
“Continui pure…” disse Rachel.
“Stavo solo pensando che… be’, lei è molto diversa dalle altre signore che ho conosciuto. Voglio dire, dalle altre signore Geary.”
“In che senso?”
“Be’, lei è meno… come posso dire?”
“Imperiosa.”
L’uomo ridacchiò. “Sì. Esatto. Meno imperiosa.”
Si lasciarono Kapa’a alle spalle, e la strada divenne a poco a poco più stretta e più tortuosa. Non c’era molto traffico. Qualche abitante del luogo a bordo di camion arrugginiti, un piccolo gruppo di ciclisti e qualche veicolo più elegante — turisti, commentò Jimmy, non senza una punta di disprezzo. Ma per la maggior parte del viaggio la strada fu tutta per loro.
Il resto dell’isola, comunque, sembrava quasi disabitato. Di tanto in tanto, tra gli alberi, si poteva scorgere una casa o una chiesa o pochi pescatori su una spiaggia.
“È sempre così tranquillo qui?” chiese Rachel.
“No, siamo in bassa stagione adesso”, disse Jimmy. “E ci stiamo ancora riprendendo dall’ultimo uragano. Molti hotel hanno chiuso e non hanno ancora riaperto.”
“Ma riapriranno?”
“Naturalmente. Non si può sfuggire alla regola di Mammon per sempre.”
“La regola di cosa?”
“Di Mammon. Il demone della cupidigia. Il commercio, insomma. La gente sfrutta l’isola pensando solo al profitto.”
“È un vero peccato”, disse lei, immaginando i turisti in camicia hawaiiana che aveva visto a Honolulu invadere quell’eden, lasciandosi dietro un tappeto di lattine di Coca-Cola e di hamburger mezzi mangiati.
“Non è sempre stato un demone”, continuò Jimmy, “credo che in origine fosse una divinità femminile: Mammetun, la madre dei desideri. È di origini sumero-babilonesi. Con un nome simile, probabilmente era una divinità con parecchi seni. Il suo nome ha la stessa radice di ‘mammella’. E di ‘mamma’, naturalmente.” Jimmy parlava con tono inespressivo come se stesse riflettendo ad alta voce. “Non faccia caso a me”, disse.
“No, è molto interessante”, disse Rachel.
“Quando ero più giovane, ho studiato religioni comparate.”
“Perché ha scelto quel genere di studi?”
“Oh… non lo so. Per i misteri, forse. Per le cose inspiegabili. Ce ne sono molte da queste parti.”
Rachel tornò a guardare le montagne. “Forse è per questo che è un luogo così bello”, disse.
“Oh sì”, mormorò Jimmy. “Non esiste bellezza senza mistero. Non ci avevo mai pensato prima. Mi piace. È elegante.”
“Mi scusi?”
“E un pensiero elegante”, rispose lui.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre Rachel rifletteva sul fatto che un pensiero potesse essere elegante. Era un’idea nuova per lei. Talvolta la gente era elegante, i vestiti potevano essere eleganti, così come poteva esserlo persino un’età; ma un pensiero? Fu Jimmy a interrompere le sue riflessioni.
“Vede quella scogliera davanti a noi? La casa è a poco più di mezzo chilometro da lì.”
“Margie ha detto che si trova sulla spiaggia.”
“A cinquanta metri dall’oceano, per la precisione. Se vorrà, potrà pescare dalla finestra della sua camera da letto.”
La strada li riportò di nuovo lontano dall’oceano e tra mille curve li condusse fino a un ponte. Ora si trovavano all’ombra della montagna da cui nasceva il fiume che stavano attraversando.
“Si tenga forte”, la avvertì Jimmy, “stiamo per raggiungere la strada di cui le ho parlato.”
E pochi istanti dopo sterzarono a destra e, proprio come Jimmy aveva detto, si ritrovarono su una strada notevolmente rovinata. L’asfalto aveva lasciato il posto a un sentiero pieno di pozzanghere che serpeggiava tra alberi che non venivano potati da molti anni. I rami più bassi, carichi di boccioli e fogliame, sfregarono sul tetto dell’auto.
“Faccia attenzione al cane!” gridò Rachel.
“L’ho visto”, disse Jimmy, e si sporse fuori dal finestrino per allontanare con un grido il cane dal manto giallo che rimase seduto al centro della strada fino all’ultimo istante, quando si alzò pigramente e trotterellò verso il ciglio del sentiero.
Oltre la vegetazione, Rachel scorse una casupola cadente, un attrezzo agricolo arrugginito e probabilmente abbandonato in un campo che non veniva più coltivato da molte, molte stagioni.
“Vìve qualcuno da queste parti?”
“Pochissime persone”, rispose Jimmy. “Quattro anni fa c’è stata un’alluvione. Piogge terribili, un vero disastro. Nel giro di tre ore il fiume è tracimato e ha spazzato via parecchie abitazioni. In pochi sono tornati per ricostruirle. Gli abitanti della zona per la maggior parte hanno deciso di trasferirsi in qualche luogo meno pericoloso.”
“Ci sono stati dei feriti?”
“Sono annegate tre persone, tra cui anche un bambino piccolo. Ma l’acqua non è arrivata fino alla casa dei Geary. Può stare tranquilla.”
Mentre parlavano, il sentiero era peggiorato ulteriormente e la vegetazione era così fitta da rischiare di cancellarlo quasi del tutto. Gli uccelli che si levavano al passaggio dell’auto appartenevano a specie che Rachel non aveva mai visto prima, lampi alati di rosso scarlatto e di blu iridescente.
“Ci siamo quasi”, la rassicurò Jimmy, mentre sobbalzavano sul sentiero. “Spero per lei che non abbia delle porcellane in valigia.” L’uomo affrontò una cunetta a velocità eccessiva, il veicolo s’inclinò di lato e per qualche istante sembrò sul punto di capovolgersi. Rachel si lasciò sfuggire un grido.
“Mi scusi”, disse Jimmy riprendendo il controllo dell’auto. Si fermò poco più avanti, a una decina di metri da un grande cancello di legno. “Eccoci.”
Spense il motore e d’improvviso gli alberi e la vegetazione si riempirono dei canti degli uccelli e del rumore dell’oceano.
“Vuole entrare da sola o preferisce che l’accompagni?”
“Non mi dispiacerebbe passare un paio di minuti da sola”, rispose Rachel.
“Naturalmente. Faccia pure con calma. Intanto io scarico i bagagli e mi fumo una sigaretta.”
Rachel scese dall’auto.
“Posso rubargliene una?” chiese indicando la sigaretta che Jimmy si stava accendendo.
Lui le porse il pacchetto. “Mi scusi, avrei dovuto offrirgliela io. Ma oggigiorno siamo talmente in pochi a fumare.”
“Nemmeno io fumo in genere. Ma questa è un’occasione speciale.”
Prese una sigaretta e Jimmy gliela accese. Lei trasse una lunga boccata. Era molto tempo che non fumava e la corsa in auto la faceva sentire piacevolmente leggera: una condizione ideale per entrare in casa.
Rachel raggiunse il cancello, camminando con cautela tra le rane che si muovevano nell’erba alta e umida, e sollevò il paletto. Il cancello si aprì senza che ci fosse bisogno di spingerlo. Rachel si voltò a guardare Hornbeck. Stava fissando il cielo e le voltava le spalle. Confortata nel notare che stava tenendo fede alla sua parola e non l’avrebbe interrotta, attraversò il cancello e finalmente vide la casa.
Non era certo sfarzosa; era una struttura modesta in stile coloniale, circondata da una veranda. Le persiane erano chiuse e le pareti erano color rosa pallido. Per due terzi della sua lunghezza era a un solo piano, ma a un’estremità era stato aggiunto un secondo piano che dava all’insieme una strana aria sbilanciata. Le tegole di quella parte del tetto erano ocra e non rosso scuro come per il resto della casa, e anche le finestre erano diverse, ma niente di tutto questo riusciva a spogliare quel luogo del suo fascino. Al contrario. Rachel ormai era così abituata a edifici progettati da protofascisti, lucidi e grandiosi, che fu quasi un sollievo scoprire che la casa era così eccentrica.
Tutto questo sarebbe già stato abbastanza incantevole anche se fosse stata una costruzione isolata, ma non era così. La casa era completamente circondata da una lussureggiante vegetazione. Palme che ondeggiavano languidamente sul tetto e rampicanti che coprivano la veranda e si attoreigliavano sulle grondaie.
Rachel rimase accanto al cancello per quasi un minuto, affascinata. Alla fine, trasse un’ultima boccata dalla sigaretta, la spense col tacco della scarpa e s’incamminò lungo il viottolo che conduceva alla porta. Gechi color verde brillante sfrecciarono davanti a lei come un nervoso comitato di benvenuto, accompagnandola fino alla soglia.
Aprì la porta d’ingresso. Le porte interne erano aperte e Rachel si accorse che la casa era stata progettata in modo tale da permettere allo sguardo di spaziare liberamente fino all’estremità opposta e di vedere il mare. Le stanze erano buie — soprattutto in contrasto con il sentiero soleggiato — e così, per qualche istante meraviglioso, Rachel ebbe l’impressione di trovarsi in un labirinto scuro in cui era stato intrappolato un angolo di cielo e oceano.
Per qualche istante, rimase ferma sulla soglia ad ammirare quell’illusione, poi entrò. L’impressione che aveva avuto osservando la casa dall’esterno — ovvero che quella fosse una proprietà tutt’altro che sfarzosa — fu subito confermata. C’era un piacevole odore di muffa; non la muffa dell’abbandono, ma quella di mura inumidite dall’aria salmastra o forse dell’isola stessa. Si spostò da una stanza all’altra per farsi un’idea della costruzione. La casa era stata arredata in modo eclettico, come se per un certo periodo fosse stata un deposito di oggetti che un tempo avevano avuto un qualche valore sentimentale. Niente si accordava con niente. Attorno al modesto tavolo da pranzo c’erano cinque sedie una diversa dall’altra e due stranamente uguali. Nell’ampia cucina, le pentole appese alle pareti provenivano da almeno una dozzina di batterie differenti. Sul divano, i cuscini erano accatastati in una pila di eccesso edonistico. Solo i quadri mostravano un qualche segno di omogeneità. Come per contrasto con le austere opere moderne che Mitch aveva scelto per il suo attico o con i grandi paesaggi americani di cui Cadmus faceva collezione (possedeva persino un Bierstadt grande quanto un’intera parete), dovunque nella casa erano appesi piccoli acquerelli e schizzi a carboncino — soltanto vedute dell’isola: baie e barche; studi di boccioli e di farfalle. Sulle scale c’era una serie di disegni della casa, senza firma e senza data ma sicuramente risalenti a molti anni prima: la carta era ingiallita e i segni della grafite stavano sbiadendo.
Al piano superiore l’arredamento era altrettanto bizzarro. Uno dei letti era spartano come una branda militare ma accanto a esso c’era una chaise longue che avrebbe fatto la sua figura in un boudoir. La camera da letto principale era arredata con mobili intagliati e decorati con immagini di uomini e donne nudi che dormivano beatamente circondati da strani fiori esotici. La vernice era scrostata e gli intarsi erano rozzi, ma la presenza di quei mobili rendeva la stanza curiosamente magica.
Rachel ripensò a ciò che Margie le aveva detto di quel luogo. Era tutto vero. Si trovava sull’isola da meno di due ore e aveva già la sensazione che un qualche incantesimo stesse agendo su di lei.
Andò alla finestra, da cui si poteva vedere il piccolo prato incolto chiuso da una siepe oltre la quale si allungava la spiaggia, la sabbia luminosa sotto la luce del sole; e, poco oltre, il turchese del mare.
Non c’erano dubbi su quale camera da letto avrebbe scelto, pensò, lasciandosi cadere sul letto come una bambina di dieci anni. “Oh Dio”, disse, alzando gli occhi al soffitto, “ti ringrazio. Ti ringrazio davvero.”
Quando tornò al piano inferiore, Jimmy aveva già portato le valigie sulla veranda e, in piedi accanto ai bagagli, si stava accendendo un’altra sigaretta.
“Le porti pure dentro”, disse Rachel. Lui fece per gettare via la sigaretta, ma lei lo fermò: “No, può fumare in casa, Jimmy”.
“Ne è sicura?”
“Certo”, rispose Rachel. “Fumerò, berrò e…” Fece una pausa: cos’altro avrebbe fatto? “E mangerò tutte le cose che non dovrei mangiare.”
“A questo proposito…” disse Jimmy, “la cuoca si chiama Heidi e vive a un paio di chilometri da qui. La sorella di Heidi viene a fare le pulizie quattro volte alla settimana, ma se lei vuole verrà anche ogni giorno, a cambiare le lenzuola.”
“No, va benissimo così.”
“Mi sono preso la libertà di comprare delle provviste. Oh, dimenticavo, c’è anche qualche bottiglia di vino in cucina. Può mandare Heidi a Kapa’a, se dovesse avere bisogno di altro. Immagino che abbia scelto la camera più grande.”
“Sì, infatti.”
“Allora porterò su i bagagli.”
Jimmy la lasciò a completare l’esplorazione della casa. Rachel andò alla portafinestra dalla quale aveva visto la spiaggia per la prima volta, la aprì e uscì sulla veranda dove trovò delle sedie malconce e un tavolino di ferro battuto; insieme ad altri rampicanti, altri fiori, altri gechi e altre farfalle. Il vento aveva depositato un’enorme fronda di palma secca sugli scalini. Rachel la scavalcò e scese sul prato, quasi incapace di staccare lo sguardo dalla spiaggia. L’acqua aveva un aspetto meravigliosamente invitante, le onde si infrangevano come tuoni morbidi e spumosi.
“Signora Geary?”
Jimmy la stava chiamando, ma solo quando ripeté il suo nome la terza volta, Rachel riuscì a scuotersi da quello stato quasi ipnotico e si rese conto che era a lei che l’uomo si stava rivolgendo. Si voltò verso la casa. Era ancora più bella vista dal giardino. Il vento e la pioggia l’avevano sferzata più duramente su quel lato esposto al mare; e la vegetazione, come per compensarla per quelle ferite, era cresciuta ancora più rigogliosa. Potrei vivere qui per sempre, pensò Rachel.
“Mi dispiace disturbarla, signora Geary.”
“La prego, mi chiami Rachel.”
“Grazie. Le ho portato le valigie in camera e le ho lasciato il mio numero di telefono e quello di Heidi sul bancone. Ah, a proposito — quasi me ne dimenticavo — c’è una jeep nel garage. Ma se preferisce un’auto meno sportiva, gliela noleggerò. Mi dispiace ma adesso devo scappare, devo partecipare a un incontro in chiesa…”
“No, va benissimo”, disse Rachel. “Ha fatto anche più del necessario.”
“Allora vado”, ripeté lui, rientrando in casa. “Se ha bisogno di qualcosa… di qualsiasi cosa…”
“Grazie. Sono sicura che starò benissimo.”
“Allora, a presto”, disse Jimmy, salutandola con un cenno della mano.
Lei sentì sbattere la porta d’ingresso poi rimase ad ascoltare il motore dell’auto che si allontanava. Alla fine anche quel suono svanì completamente, lasciandola al canto degli uccelli e al rumore del mare.
“Perfetto”, mormorò tra sé, imitando l’inflessione inglese di Jimmy. Non era una parola che avrebbe pensato di usare prima di averla sentita dalle labbra di Jimmy, ma c’era forse un termine più appropriato per descrivere un luogo come quello?
No; era perfetto. Perfetto.
Ora che aveva la casa tutta per sé, Rachel decise di rimandare la sua visita alla spiaggia e di farsi invece una doccia e di bere qualcosa. Jimmy aveva rifornito la cucina scrupolosamente. Quando si fu lavata e cambiata d’abito, si mise in cerca del necessario per preparare un Bloody Mary e scoprì che non mancava niente. Una bottiglia di vodka, succo di pomodoro, tabasco, un pizzico di rafano e persino del sedano. Prese il suo drink e telefonò a Margie per farle sapere che era arrivata senza problemi. Margie non era a casa, così lasciò un messaggio. Poi si diresse alla spiaggia.
Il pomeriggio si era stemperato in una serata deliziosa; gli ultimi raggi del sole illuminavano la cima delle palme e coloravano d’oro le nuvole che si spostavano verso sud. A un centinaio di metri da lei, tre ragazzi del luogo stavano facendo surf, chiamandosi a gran voce mentre cavalcavano le onde. Ma a parte loro, la lunga mezzaluna della spiaggia era deserta. Rachel appoggiò il bicchiere sulla sabbia, si avvicinò all’acqua e si immerse fino alle ginocchia. L’acqua era calda e le onde le accarezzavano le gambe, spruzzandole il petto e il viso.
Nel frattempo i tre surfisti erano tornati a riva e avevano acceso un fuoco. Rachel cominciava ad avere freddo, così tornò a sedersi sulla sabbia per finire il suo drink. Erano passati meno di venti minuti da quando aveva lasciato la casa, ma il breve tramonto tropicale si stava già trasformando in notte. Le nuvole e le palme avevano perso il loro oro e le stelle erano ansiose di mostrarsi. Rachel finì il suo Bloody Mary e ritornò verso casa. Nella sua fretta di scendere in spiaggia, non aveva acceso nemmeno una luce e ora si ritrovava a camminare nella semioscurità. Ma la casa era bellissima anche così, le pareti chiare e le rifiniture bianche quasi blu nella notte sempre più scura. Rachel si era dimenticata cosa si provava nel trovarsi in un luogo dove non c’erano lampioni né fari di macchine; e nemmeno il chiarore di una città lontana a sporcare il cielo. Incominciava a percepire il mondo in modo nuovo; o meglio, in un modo molto antico che d’improvviso stava riscoprendo. Avvertiva sfumature nell’aria attorno a lei di cui normalmente non si sarebbe accorta, nei richiami delle rane e degli uccelli notturni, nel leggero fruscio delle palme e dei rami; sentiva una decina di profumi differenti che scaturivano dalla terra sotto i suoi piedi e dai boccioli che la notte stava nascondendo.
Entrò in casa e accese un paio di lampade. Poi salì al piano superiore per togliersi i vestiti bagnati. Prima di cambiarsi, si osservò nel grande specchio della camera da letto. Ciò che vide la fece scoppiare a ridere di cuore: nell’arco di pochi minuti l’effetto combinato del vento e del mare l’aveva trasformata in una donna selvaggia: i capelli scarmigliati e le guance arrossate; spogliata di tutti gli artifici di eleganza di cui aveva imparato a servirsi. Ma non aveva importanza: le piaceva il suo nuovo aspetto. Forse non era stata completamente addomesticata dal dolore e dai Geary. Forse la Rachel che era stata negli anni semplici che avevano preceduto la morte di suo padre, la delusione di Cincinnati e tutto ciò che era seguito, era ancora viva dentro di lei. Sì, eccola! Eccola! Le stava sorridendo dallo specchio: l’energia indomita della sua giovinezza, il flagello di insegnanti e sceriffi, la ragazza che si era divertita un mondo a fare dispetti e a combinare guai: eccola.
“Dove diavolo sei stata tutto questo tempo?” chiese a se stessa.
Non me ne sono mai andata, sembrava dire quel sorriso. Stavo solo aspettando il momento adatto per mostrarmi di nuovo.
Si preparò una cena leggera a base di verdure fresche e formaggio, e aprì una bottiglia di vino — rosso, non bianco, tanto per cambiare, qualcosa di più corposo. Poi si raggomitolò sul divano e mangiò. In soggiorno c’era una piccola televisione, ma Rachel non aveva voglia di guardarla. Se anche la Borsa fosse crollata o la Casa Bianca fosse andata in fiamme, cosa sarebbe cambiato? Il resto del mondo e i suoi problemi potevano andarsene all’inferno, almeno per ora.
Stava finendo di cenare quando il telefono squillò. Fu tentata di non rispondere, ma pensò che potesse essere Jimmy Hornbeck che voleva sapere se andava tutto bene. Ma non era Hornbeck, era Margie. Aveva una voce stanca. “Che ore sono a New York?”
“Non lo so: le due, forse le due e mezzo”, rispose Margie. “Allora, ti sei sistemata?”
“È tutto perfetto”, disse Rachel. “È ancora più bello di come me lo avevi descritto.”
“Ed è solo l’inizio, tesoro”, disse Margie. “Rimarrai sbalordita quando comincerai a entrare in sintonia con il luogo. Hai preso la camera da letto grande?”
“Con tutti i mobili intagliati…”
“Non è una stanza favolosa?”
“Tutta la casa è favolosa”, rispose Rachel. “Mi sono sentita a mio agio appena sono entrata.”
“Non immaginerai mai dove sono stata”, continuò Margie. “Dove?”
“Da Cadmus.”
“Loretta ha organizzato una cena?”
“No, eravamo solo noi due.”
“Che cosa voleva?”
“È stato strano. Mi ha fatto giurare che non ne avrei parlato con nessuno. Ma ti racconterò tutto non appena tornerai.” Scoppiò a ridere. “Non lo so. Questa famiglia…”
“Che cosa?”
“Tutti gli uomini sono pazzi”, disse Margie. “E forse noi siamo ancora più pazze visto che ci siamo innamorate di quei bastardi.” Abbassò di colpo la voce. “Ora devo andare, tesoro. Sta arrivando Garrison. Ti voglio bene.”
E senza attendere una risposta, riagganciò. Quella conversazione lasciò Rachel leggermente turbata, perché le aveva ricordato qualcosa che avrebbe preferito dimenticare: che, finché non avesse divorziato da Mitchell, avrebbe fatto parte della storia dei Geary.
Ma ora era troppo stanca e niente avrebbe potuto impedirle di dormire. Il letto era favoloso; i cuscini soffici, le lenzuola fresche. Qualche istante dopo essersi infilata sotto le coperte, si ritrovò in un luogo dove i Geary — i loro uomini folli, le loro donne tristi, i loro segreti e tutto il resto — non avrebbero potuto raggiungerla.
Si svegliò alle prime luci dell’alba, si alzò, andò alla finestra per ammirare il mondo. Poi ritornò sotto le coperte e dormì profondamente per altre tre ore. Solo allora, si alzò e scese al piano di sotto per prepararsi del caffè. La sensazione di riscoperta che aveva provato la notte precedente — i sensi nuovamente vivi, la Rachel selvaggia riflessa nello specchio — non l’aveva abbandonata. La luce del mattino non sminuiva il fascino della casa. Ogni scaffale, ogni nicchia che esaminava sembrava contenere qualcosa di nuovo e interessante. Durante la sua prima esplorazione non si era quasi accorta che c’erano altre due stanze. La prima era un piccolo studio sul lato del giardino con una scrivania, qualche vecchia, comoda poltrona e una libreria affollata di volumi. La seconda era una stanza molto più piccola che doveva essere stata usata come deposito di oggetti trovati sulla spiaggia: pezzi di legno smussati dal mare, conchiglie, frammenti di corallo e persino una scatola di cartone piena di pietre che probabilmente avevano attratto l’attenzione di qualcuno sulla spiaggia. Ma Rachel fece la scoperta più promettente in una credenza del soggiorno: una collezione di vecchi 78 giri con tanto di copertine e un fonografo. L’ultima volta che aveva visto qualcosa di simile era stato a Caleb’s Creek, anche se quei dischi sembravano molto più vecchi di quelli che componevano la preziosa collezione di George. Più tardi, decise, ne avrebbe scelto qualcuno e avrebbe provato a far funzionare il fonografo. Quello sarebbe stato il suo unico e solo impegno per la giornata.
Verso mezzogiorno, dopo uno spuntino sostanzioso (aveva scoperto di essere molto affamata), tornò alla spiaggia, decisa a percorrerla per tutta la sua lunghezza. A metà del sentiero, una gallina marrone sfrecciò davanti a lei ansiosa di raggiungere i suoi tre pulcini che attendevano dall’altra parte. Chiocciando, la madre condusse i suoi piccoli attraverso i detriti di foglie di palma e noci di cocco marce.
Quel giorno la spiaggia era completamente deserta. Le onde erano più lievi della sera prima; troppo piccole per attrarre l’attenzione anche del surfista più cauto. Si aggirò per la spiaggia come aveva deciso — rimpiangendo dopo qualche minuto di non aver cercato un cappello in casa; il sole era rovente — fino a raggiungere il punto in cui il fiume sfociava nel mare, le acque rossastre per i detriti raccolti. Benché non sembrasse pericoloso da attraversare, Rachel preferì non rischiare e tornò sui suoi passi, tenendo lo sguardo fisso sull’orizzonte. Jimmy le aveva detto che quella era la stagione delle balene; con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a vederne qualcuna mentre saliva in superficie. Ma non quel giorno; non c’erano balene. Solo un paio di piccole barche da pesca vicino alla riva e, molto più in lontananza, una vela bianca. Rachel si fermò a osservarla per un lungo istante, luminosa contro il cielo un attimo prima e un attimo dopo invisibile. Alla fine si stancò e si diresse verso casa, accaldata e leggermente arrossata dal sole.
C’era un visitatore ad aspettarla sulla porta. Un uomo dalla pelle scura e dalle spalle larghe, di ckca trentacinque anni, che si presentò come Niolopua.
“Sono qui per occuparmi della casa”, disse. “In che senso?” domandò Rachel. Jimmy non le aveva parlato di quell’uomo e, nonostante l’espressione aperta del suo volto e i suoi modi gentili, non era ancora riuscita a liberarsi della sua diffidenza newyorkese verso gli sconosciuti.
“Del prato”, rispose lui, indicando con un cenno il retro della casa. “Delle piante.”
“Oh… si occuperà del giardino.”
“Già.”
“Nessun problema”, disse Rachel, facendosi da parte per lasciarlo entrare.
“Passo da fuori”, replicò l’uomo, osservandola più attentamente ora. “Volevo solo presentarmi.”
“Be’, grazie”, rispose lei. C’era una strana intensità nel modo in cui la guardava; ma il suo linguaggio del corpo sembrava quasi negarla. Si manteneva a una distanza rispettosa da lei, le mani dietro la schiena, fissandola semplicemente. Lei lo fissò a sua volta, sicura che l’uomo avrebbe distolto lo sguardo, ma non lo fece. Continuò a scrutarla con una franchezza quasi infantile, finché lei non domandò:
“C’è altro?”
“No”, rispose lui. “È tutto a posto.” Sembrava volerla rassicurare.
“Ottimo. Allora la lascio al suo lavoro.” Detto questo entrò in casa e chiuse la porta.
Dopo qualche minuto, Rachel sentì il ronzio del tagliaerba e andò alla finestra del soggiorno per dare un’occhiata. Niolopua era a torso nudo adesso, la sua schiena dello stesso colore delle acque del fiume. Se quello fosse stato uno dei romanzi spazzatura di cui Margie era un’accanita lettrice, avrebbe dovuto soltanto invitarlo in casa a bere un bicchiere d’acqua e un minuto più tardi si sarebbe ritrovata con la schiena premuta contro la porta e la lingua del giardiniere in bocca. Sorrise tra sé maliziosamente. Forse di lì a un paio di giorni avrebbe anche potuto provarci, per scoprire se la fantasia poteva combaciare con la realtà.
Più tardi, mentre stava cercando di far funzionare il fonografo, si rese conto che il suono del tagliaerba si era interrotto, alzò lo sguardo e vide che Niolopua aveva smesso di lavorare ed era in piedi in fondo al prato. Stava scrutando il mare, schermandosi gli occhi con una mano per proteggerli dal bagliore del cielo.
Non c’erano dubbi su ciò che stava guardando. La barca dalla vela bianca adesso era più vicina alla riva, vicina abbastanza perché Rachel potesse vedere che non aveva una sola vela ma almeno due. Anche lei si soffermò a osservare l’imbarcazione che ondeggiava seguendo il ritmo delle acque blu scuro. Era ipnotizzante; come osservare le lancette di un orologio, il movimento così sottile da diventare impercettibile. Eppure anche mentre la guardava, Rachel si accorse che la barca si era avvicinata ulteriormente.
All’improvviso, dal folto della vegetazione sulla destra della casa scaturirono gli strilli penetranti di un gruppo di fringuelli impegnali in un’aspra disputa tra le palme, e Rachel si distrasse. Quando guardò di nuovo il prato, vide che Niolopua era tornato al suo tagliaerba. L’imbarcazione era scomparsa, il vento o la corrente o entrambe le cose l’avevano spinta lungo la costa, fuori dal suo campo visivo, e lei si sentì vagamente delusa. Avrebbe voluto osservare l’avanzare della barca sorseggiando un cocktail. Non aveva importanza, si disse. Sicuramente avrebbe visto molti altri vascelli nei giorni a venire.
Col passare delle ore si alzò il vento che prese a scuotere le palme attorno alla casa e a frustare l’oceano, che quel mattino le era sembrato così calmo e ora si era trasformato in una furia di onde e spuma bianca. Il vento la metteva a disagio; era sempre stato così per lei. Anche da bambina diventava nervosa quando soffiava il vento; a volte le sembrava persino carico di voci, di lamenti, di singhiozzi. Sono anime perdute, le aveva spiegato sua nonna, cosa che non aveva fatto che aumentare il suo disagio.
Decise di non restare in casa ma di prendere la jeep e di fare un giro lungo la costa. Fu un’ottima idea. Dopo aver guidato per un po’, si ritrovò su una stretta striscia di terra in fondo alla quale sorgeva una piccola chiesa bianca circondata da una trentina di tombe. L’edificio era intatto solo in parte: forse una vittima dell’uragano a cui aveva accennato Jimmy Hornbeck. Le tegole erano state strappate dal tetto, così come le travi del soffitto. Solo tre delle quattro pareti erano ancora in piedi; quella rivolta verso il mare era scomparsa. E così anche l’altare. Dentro la chiesa rimanevano solo poche sedie di legno che per qualche ragione nessuno aveva portato via.
Rachel si aggirò tra le lapidi, alcune delle quali dovevano avere almeno trenta o quarant’anni se non di più. I nomi di alcune delle persone sepolte lì erano facili da leggere — c’erano un Robertson, un Montgomery, persino uno Schmutze — ma la maggior parte andava al di là delle sue capacità. Come si pronunciava ad alta voce un nome come Kaohelaulii o come Hokunohoaupuni?
Dopo aver passato una decina di minuti a esaminare i nomi sulle tombe, si accorse di non essere vestita in modo adeguato per la temperatura. Anche se il sole faceva capolino tra le nuvole, il vento la faceva rabbrividire. Tuttavia era riluttante a tornare alla jeep, così cercò rifugio in ciò che rimaneva della chiesa. Le pareti di legno scricchiolavano quando venivano investite da una folata di vento particolarmente forte. Sarebbe bastato un altro violento temporale a far crollare del tutto quella costruzione. Ma per ora era esattamente ciò di cui Rachel aveva bisogno; un riparo dalle intemperie che non le impediva di osservare il cielo e il mare.
Si sedette su una delle sedie malconce e restò ad ascoltare i mutamenti del vento che fischiava tra le assi. Forse sua nonna aveva detto la verità, dopotutto. In un luogo come quello, non era affatto difficile immaginare che i morti stessero dando voce al loro dolore nel vento. Forse le anime degli uomini e delle donne sepolti in quel lembo di terra — i Montgomery e i Kaohelaulii — tornavano dal mare a visitare l’estrema dimora delle loro ossa. Era un pensiero triste ma non la inquietava. Forse l’avrebbero vista seduta lì, tranquilla, per nulla spaventata dalle loro voci e sarebbero state confortate dal suo ricordo quando si fossero allontanate.
Sentì una goccia di pioggia bagnarle il viso. Si alzò e lasciò la chiesa, e in quel momento si accorse che una grande massa di nubi scure si stava dirigendo verso l’isola. Era ora di tornare a casa. Attraversò il cimitero e raggiunse la jeep. La pioggia incominciò a cadere sempre più fitta e sempre più gelata.
Rachel salì in macchina e mise in moto. Mentre faceva manovra, lanciò un’occhiata in direzione dell’oceano e attraverso il parabrezza rigato di pioggia scorse una sagoma bianca che si stagliava contro le acque scure del mare. Mise in funzione i tergicristalli.
Là nella baia, c’era l’imbarcazione che aveva visto qualche ora prima; il vascello a due vele che anche Niolopua si era fermato a guardare. Era una follia scendere dall’auto per osservare la barca, ma per qualche ragione Rachel sentì il bisogno di farlo.
La pioggia cadeva così scrosciante che la inzuppò nel giro di pochi secondi, ma non le importava. Valeva la pena bagnarsi pur di vedere quell’imbarcazione coraggiosa, le vele gonfie di vento, la prua che tagliava i flutti grigio-verdi. Soddisfatta e ormai certa che quella fosse la stessa barca che aveva visto nel pomeriggio e che il capitano e l’equipaggio non fossero in pericolo, risalì in macchina, sbatté la portiera e si diresse verso casa.
Ultimamente, quando scrivo, mi sorprendo a stringere la penna con tanta forza che riesco quasi a sentire il sangue pulsarmi nel pollice e nell’indice. E una stretta sempre più ossessiva, la mia. Se dovessi morire in questo istante, mentre scrivo queste parole, non sarebbe facile dividermi dalla mia penna.
Sicuramente ricorderete che non molti capitoli fa ho confessato di essermi perso; di non sapere come riunire i molti tasselli di questa storia. Ma dopo aver passato queste ultime notti a scrivere, il senso di disagio che mi tormentava ha cominciato ad alleviarsi. Forse sto solo ingannando me stesso ma ho l’impressione di riuscire a intravedere con più chiarezza le connessioni: lentamente il grande schema di questa narrazione si sta svelando. Così mi sento ancora più attratto dalla storia, come un fedele è attratto dall’altare e — se posso azzardare un’ipotesi — quasi per lo stesso motivo, per la speranza di ascendere a un luogo di rivelazione.
E nel frattempo, resto in compagnia dei miei personaggi come se fossero vecchi amici. Mi basta chiudere gli occhi per vederli.
Rachel, per esempio. La vedo con l’occhio della mente mentre sorseggia il suo ultimo Bloody Mary della giornata prima di andare a dormire, nemmeno sfiorata dal sospetto di essere sul punto di vivere la notte della sua vita. E altrettanto chiaramente posso vedere Cadmus. Eccolo, sulla sedia a rotelle davanti a un televisore da sessanta pollici, lo sguardo offuscato mentre osserva una scena accaduta molti anni fa, ma comunque più reale per lui delle macchie di età che gli scuriscono le mani. Posso evocare l’immagine di Garrison — povero, malato Garrison, che sa di avere un cuore terribilmente ferito — e quella di Margie, ubriaca; e quella di Loretta, intenta a macchinare successioni; e quella della moglie di mio padre, impegnata nei suoi progetti; e quelle di Luman, di Marietta e di Galilee.
Oh, il mio Galilee. Questa notte mi sembra di vederlo più chiaramente di quanto l’abbia mai visto in vita mia. Più chiaramente di quando era in piedi davanti a me in carne e ossa. E per quanto assurdo possa sembrare, è la verità. Sognando Galilee come lo sto sognando ora, lo evoco non solo come una creatura di carne e personalità ma anche come un essere mitologico, e così mi sembra di trovarmi in presenza di un’anima più autentica dell’uomo fantasma che ho incontrato qualche giorno fa.
Potreste dire: che assurdità. Siamo fatti di carne e sangue, potreste obiettare. E io risponderei: sì, ma morendo ci trasformiamo in spirito. Persino le divinità come Galilee prima o poi abbandonano i limiti della carne, e quando non hanno più confini crescono e diventano leggende. Così immaginandolo nella sua forma mitica — di viaggiatore, amante, selvaggio — non sono forse più vicino al Galilee con il quale la mia anima vorrà trascorrere l’eternità?
Ho appena commesso il grave errore di leggere gli ultimi paragrafi a Marietta. Lei ha fatto una smorfia; li ha descritti come “robaccia pretenziosa” (e questa è stata la sua definizione più gentile); mi ha detto che avrei dovuto spogliare il testo di tutte le mie elucubrazioni e andare avanti col mio lavoro, il che — a suo avviso — è semplicemente riportare quanto so della storia dei Barbarossa e dei Geary nel modo più fedele e conciso possibile.
Così ho deciso di non condividere più con lei quello che sto scrivendo. Se Marietta vuole un libro sull’ascesa e la caduta della dinastia Geary, allora, dannazione, può anche scriverselo da sé. Io sto facendo qualcosa di completamente diverso. Sarà un patchwork, senza dubbio, composto da molte parti discordanti, ma sono convinto che sarà bello quanto un racconto breve e ordinato. E, tra l’altro, molto più simile alla vita.
Ah, Marietta mi ha detto altre due cose che credo valga la pena riferirvi, se non altro perché entrambe contengono ben più che una piccola dose di verità. Primo, mi ha accusato di amare le parole per la loro musicalità. Io mi sono dichiarato colpevole, e la cosa l’ha fatta infuriare. “Ma per te la musica è più importante del senso!” ha esclamato. (Questo non è del tutto vero. Ma sono convinto che il senso sia sempre un ritardatario. La bellezza e la musica sono le prime a sedurci; poi, vergognandoci della nostra stessa sensualità, insistiamo sul significato.)
E questo mi porta al suo secondo commento: secondo lei non sono altro che un cantastorie d’altri tempi. Le ho rivolto un ampio sorriso e le ho detto che niente mi avrebbe dato più piacere del poter recitare il mio libro a memoria, ad alta voce. E allora avrebbe capito quanto piacere potevano dare le mie storie. Non le piace quello che sto raccontando, signore? Non si preoccupi. Cambierà tra due minuti. Non le piacciono gli scandali? Le racconterò qualcosa di Dio. Detesta Dio? Le reciterò una scena d’amore. È un puritano? Abbia pazienza, perché gli amanti soffriranno. Come sempre, del resto.
Com’era prevedibile, la reazione di Marietta è stata aspra. “Allora pensi soltanto a compiacere il pubblico, giusto?” ha replicato Marietta. “Ti adatti a quello che la gente vuole sentire. Perché non ti limiti a riempire questa storia di sesso e basta?”
“Hai finito?”
“No.”
“Allora preferirei che te ne andassi. Sei venuta solo per litigare, e io ho cose più interessanti da fare.”
“Ah!” ha esclamato lei, togliendomi di mano uno dei fogli che le avevo appena letto. “E questa è una delle tue cose migliori? Siamo fatti di carne e sangue, potreste obiettare.”
Le ho strappato la pagina di mano, per impedirle di continuare. “Vattene”, ho detto con fermezza. “Sei solo una filistea.”
“Oh, è così sono troppo stupida per apprezzare le tue ambizioni artistiche, vero?”
Sono rimasto a riflettere per un istante. “Be’… sì.”
“Bene. Allora ci siamo chiariti una volta per tutte. Io penso che il tuo lavoro sia solo un mucchio di spazzatura, e tu pensi che io sia stupida.”
“Hai fatto un ottimo riassunto della situazione.”
“No”, ha detto lei. “Tu l’hai fatto. E con questo abbiamo finito.”
“Sono d’accordo, Marietta.”
“Non tornerò più qui da te”, mi ha ammonito. “Bene”, ho replicato. “Non avrai più alcun aiuto da me.”
“Come ho già detto: bene.”
Ormai aveva il volto arrossato dalla rabbia. “Parlo sul serio, Maddox.”
“Lo so”, ho detto in tono pacato. “E, credimi, la cosa mi spezza il cuore. Forse non lo do a vedere, ma questa è una prospettiva che mi distrugge.” Ho indicato la porta. “Quella è l’uscita.”
“Dio, Maddox”, ha sibilato lei. “Certe volte sei una tale testa di cazzo.”
E così, se non ricordo male, si è conclusa la nostra discussione. Da allora non l’ho più vista. Naturalmente tornerà, prima o poi, magari fingendo che non sia successo nulla. Nel frattempo, potrò lavorare indisturbato, il che mi va benissimo. Devo scrivere quelli che forse sono i passaggi più importanti di tutta la mia storia, e meno distrazioni avrò più potrò concentrarmi.
C’è solo una parte della conversazione a cui continuo a ripensare, e cioè quella in cui mi ha accusato di essere un cantastorie. So che lei intendeva insultarmi, ma devo ammettere che non ci vedo niente di male. A dire la verità, mi sono immaginato un’infinità di volte seduto sotto un albero secolare nella piazza polverosa di un’antica città — Samarcanda, forse; sì! Samarcanda — mentre narro brani della mia epica in cambio di un tozzo di pane e di un po’ di oppio. Credo che quella vita mi sarebbe piaciuta: guadagnarmi da vivere vendendo il mio racconto, giorno dopo giorno. Avrei incantato il mio pubblico; e loro sarebbero tornati ogni pomeriggio a farmi visita tra le ombre blu, chiedendomi un altro frammento della saga familiare.
Mio padre era un grande improvvisatore di storie. In effetti questo è uno dei pochi ricordi veramente piacevoli che ho di lui. Sedermi ai suoi piedi quando ero bambino, mentre lui tesseva meravigliosi racconti per me. C’erano spesso storie crudeli: vicende violente e sanguinarie su un mondo passato, lontanissimo. Il mondo di quando lui era stato giovane, forse, se mai quel tempo era esistito.
Molti anni dopo, quando, raggiunta la soglia dell’età adulta, mi stavo preparando a cercare compagnia femminile, mi raccomandò di non sottovalutare mai la potenza delle storie nell’arte della seduzione. Non aveva conquistato mia madre con baci o complimenti, disse (e certamente non si era ubriacato e non l’aveva violentata, come Cesaria mi aveva raccontato); l’aveva stregata con una storia.
E questo ci riporta (anche se forse non vi sarà subito chiaro il perché) a quella notte sull’isola di Kaua’i e a Rachel.