“Non sono un uomo buono”, disse Galilee. “Ho commesso azioni terribili nella mia vita. Così tante… ma non avrei mai voluto che accadesse questo. Credimi, ti prego.”
Erano sulla spiaggia e lui stava accendendo una piccola piramide di legna nello stesso punto in cui aveva acceso il primo fragrante falò: il fuoco che aveva attirato Rachel fuori di casa. Le fiamme cominciarono ad ardere e lei vide il volto di Galilee. La sua insolita bellezza — la stessa bellezza di Cesaria — era quasi intollerabile; la sua nudità meravigliosa. Per ben due volte, mentre si dirigevano lì, Rachel aveva pensato che lui stesse per perdere il controllo di sé. La prima volta quando aveva sceso le scale e, scavalcando il cadavere di Mitchell, aveva messo il piede nudo in un rivoletto di sangue. E di nuovo, quando avevano trovato Niolopua sulla veranda. Galilee aveva singhiozzato come un bambino, un suono che straziava il cuore.
Il suo dolore aveva reso Rachel più forte. Lo aveva preso per mano e lo aveva condotto sul prato. Poi era tornata in casa a prendere una bottiglia di whisky e un pacchetto di sigarette. Si era aspettata di rivedere gli spiriti delle donne Geary, ma erano già scomparsi e lei si era sentita sollevata. In quel momento non voleva pensare a ciò che accadeva ai morti; non voleva immaginare lo spirito di Mitchell liberato dal corpo di cui era andato così fiero e perso in un qualche limbo.
Quando era tornata da Galilee aveva già deciso cosa dirgli. Andiamo sulla spiaggia, gli aveva proposto prendendolo per mano. Accenderemo un falò. Ho freddo.
Lui aveva obbedito ed era andato a raccogliere qualche pezzo di legno e li aveva impilati senza dire una parola. Poi lei gli aveva dato i fiammiferi e lui aveva acceso il falò. Il legno era ancora umido e aveva impiegato un po’ a prendere fuoco, ma alla fine le fiamme si erano levate, brillanti. Solo allora Galilee aveva parlato, cominciando con quella confessione semplice e disarmante. Non sono un uomo buono.
“Non ho paura di quello che puoi raccontarmi”, gli disse Rachel.
“Non mi lascerai?” chiese lui.
“Perché mai dovrei fare una cosa simile?”
“Per via delle cose che ho fatto.”
“Non puoi aver fatto niente di così orribile”, replicò lei. Lui scosse la testa come per dirle che non poteva immaginare. “So che hai ucciso George Geary”, continuò Rachel. “E so che è stato Cadmus a ordinarti di farlo.”
“Come hai fatto a scoprirlo?”
“L’ha confessato in punto di morte.”
“Mia madre lo ha costretto a dirtelo.”
“Tua madre lo ha costretto a dirlo a Loretta. Io mi trovavo lì solo per caso.” Galilee fissò il fuoco. “Devi aiutarmi a capire”, disse Rachel. “Non voglio altro, voglio soltanto capire com’è successo.”
“Parli dell’omicidio di George Geary?”
“Non solo. Voglio capire perché venivi qui per stare con le donne Geary. Perché hai lasciato la tua famiglia.”
“Oh…” mormorò lui. “Tutta la storia.”
“Sì, è questo che voglio. Ti prego.”
“Posso chiederli perché vuoi conoscerla?”
“Perché adesso ne faccio parte. Perché ne ho fatto parte dal giorno in cui Mitchell è entrato nella gioielleria di Boston dove lavoravo. E voglio sapere qual è il mio posto.”
“Non sono sicuro di poterti aiutare in questo”, disse Galilee. “Non credo di sapere nemmeno quale sia il mio posto.”
“Tu raccontami solo tutta la storia”, disse lei. “Penserò io al resto.”
Lui annuì e trasse un profondo respiro. Ora le fiamme ardevano gialle e bianche e il loro calore faceva tremolare l’aria tra Rachel e Galilee.
“Penso che dovrei iniziare da Cesaria”, disse lui; e cominciò.
Nessuno conosce tutta la storia, naturalmente; nessuno può conoscerla. Forse non esiste niente di completo; solo le macerie celebrate da Eraclito. All’inizio del libro, vi ho promesso che vi avrei raccontato tutto, e ho fallito. Ora Galilee ha fatto la stessa promessa ed è destinato a fallire proprio come me. Ma ormai ho capito che, dal momento che non c’è modo di creare qualcosa che non abbia difetti, bisogna tenere a mente due punti fondamentali: primo, non rimproverarsi per ciò che dopotutto è inevitabile; secondo, cercare di vedere in modo diverso la nostra perfezione fallita, di considerarla forse come qualcosa di più vero perché allo stesso tempo racchiude la nostra ambizione e la rovina di quell’ambizione, la fine dell’ordine e la scoperta — nel momento della disperazione — che la bestia che sta inseguendo la bella possiede a sua volta una forma di bellezza.
Così Galilee cominciò a raccontare la sua storia, e anche se Rachel gli aveva chiesto di raccontare tutto e anche se lui voleva davvero raccontarle tutto, non poté darle altro che le parti che riusciva a ricordare di quel particolare giorno, in quella particolare ora. Non tutto. Neanche lontanamente tutto. Solo schegge e frammenti; quell’universo migliore fatto di macerie.
Galilee incominciò, come aveva detto, con Cesaria.
“Hai già conosciuto mia madre”, disse a Rachel, “così hai già visto un po’ di quello che è. Penso che nessuno abbia mai visto di più: un po’. Fatta eccezione per mio padre Nicodemus…”
“E per Jefferson?”
“Oh, ti ha raccontato di lui?”
“Non nei particolari. Ha solo detto che ha costruito una casa per lei.”
“Infatti. È una delle più belle case del mondo.”
“E mi ci porterai?”
“Non sarei il benvenuto.”
“Forse adesso sì”, suggerì Rachel.
Lui la guardò attraverso le fiamme. “È questo che vuoi? Andare a casa e conoscere la mia famiglia?”
“Sì. Mi piacerebbe molto.”
“Sono tutti pazzi”, l’avvertì lui.
“Non possono essere peggio dei Geary.”
Lui scrollò le spalle, concedendole quel punto. “Allora andremo, se è questo che vuoi”, le disse.
Rachel sorrise. “Be’, questo è stato facile.”
“Pensavi che avrei detto di no?”
“Pensavo che ti saresti opposto strenuamente.”
Galilee scosse la testa. “No”, disse, “è tempo per me di fare pace. O almeno che ci provi. Nessuno di noi vivrà per sempre. Nemmeno Cesaria.”
“A casa di Cadmus, ha detto che si sentiva vecchia e stanca.”
“Penso che ci sia una parte di lei che è sempre stata vecchia e stanca. E un’altra parte che rinasce ogni giorno.” Rachel sembrò confusa, così Galilee continuò: “Non so spiegarlo meglio di così. Mia madre è un mistero per me come lo è per tutti. Compresa lei stessa. È un ammasso di contraddizioni”.
“Una volta mi hai detto, mentre eravamo in barca, che tua madre non ha genitori.”
“Per quanto ne so è così. E neanche mio padre li aveva.”
“Com’è possibile? Da dove sono venuti?”
“Dalla terra, dalle stelle.” Scrollò le spalle. L’espressione sul suo volto faceva capire che per lui quel mistero era così irrisolvibile che non valeva nemmeno la pena di pensarci.
“Ma Cesaria è molto antica”, disse Rachel. “Questo lo sai.”
“Veniva adorata prima che Cristo nascesse, prima che Roma venisse fondata.”
“Quindi è una specie di dea.”
“Questo non significa più molto ormai, giusto? È Hollywood a creare le divinità, oggigiorno. Non è diffìcile.”
“Ma mi hai appena detto che veniva adorata.”
“Ed è possibile che lo sia ancora in alcune parti del mondo. Aveva molti templi in Africa. I missionari ne hanno distrutti parecchi, ma le cose non muoiono mai completamente. Una volta, in Madagascar, ho visto una statua che rappresentava Cesaria. Era strano vedere della gente che adorava l’immagine di mia madre. Avrei voluto dire loro: non sprecate le vostre preghiere. So per esperienza che non le ascolterà. Non ha mai ascoltato nessuno in vita sua, tranne suo marito. Aveva reso la vita di mio padre un tale inferno che lui ha preferito morire piuttosto che restare con lei. O almeno ha finto di morire. Penso che la sua morte sia stata una messinscena. Per potersene andare.”
“E allora dov’è adesso?”
“Nel luogo da cui è venuto, probabilmente. Nella terra. Nelle stelle.” Trasse un profondo respiro. “So che è diffìcile per te. Vorrei poterti rendere le cose più facili, ma non sono un grande esperto quando si tratta della mia famiglia. Noi diamo per scontato ciò che siamo, come voi date per scontata la vostra umanità. E dopotutto non siamo poi così diversi. Mangiamo, dormiamo, stiamo male se beviamo troppo. Almeno, per me è così.”
“Ma voi siete in grado di fare cose che il resto di noi non potrebbe mai fare”, disse Rachel.
“Non molte”, replicò Galilee.
Alzò le mani e le fiamme si sollevarono come un cane obbediente. “Naturalmente, abbiamo più potere insieme — tu e io — di quanto ne abbiamo quando siamo divisi. Ma forse questo è sempre stato vero per gli amanti.”
Rachel non disse niente; rimase a scrutare il volto di Galilee attraverso le fiamme.
“Cos’altro posso dirti?” continuò lui. “Be’… mia madre può scatenare tempeste. Ha evocato la tempesta che mi ha riportato qui. E può inviare la sua immagine dove desidera. Credo che potrebbe andare a sedersi sulla luna, se solo lo volesse. Può togliere la vita così…” schioccò le dita “… e penso che probabilmente potrebbe anche darla, anche se non è nella sua natura. Ai suoi tempi è stata una donna molto violenta. Per lei uccidere è facile.”
“Per te no.”
“No, infatti. Posso farlo se devo, se ho accettato di farlo, ma non mi piace. Mio padre era come me. Gli piaceva il sesso. Quella era la sua più grande ossessione. Nemmeno l’amore. Il sesso. Scopare. Ho visto qualcuno dei suoi templi, e devo dirti che erano davvero spettacolari. Statue di mio padre che si mostrava orgogliosamente. A volte anche solo una statua del suo cazzo.”
“Così l’hai ereditato da lui”, disse Rachel.
“Il cazzo?”
“L’amore per il sesso.”
Galilee scosse la testa. “Non sono un grande amante. Non come lui. Potrei stare in mare per mesi senza pensare al sesso.” Sorrise. “Naturalmente, quando sono con qualcuno, be’, questa è un’altra storia.”
“No”, ribatté Rachel. “È la stessa storia.” Lui si accigliò, perplesso. “Racconti sempre la stessa storia”, continuò lei, “sul tuo paese inventato…”
“Come lo sai?”
“Perché l’ho riconosciuto quando l’ho sentito descrivere.”
“E da chi? Da Loretta?”
“No.”
“Da chi allora?”
“Da una delle tue vecchie conquiste”, rispose Rachel. “Il capitano Holt.”
“Oh…” disse Galilee dolcemente. “Come hai saputo di Charles?”
“Dal suo diario.”
“Esiste ancora, anche dopo tutti questi anni?”
“Sì. Mitchell me lo ha portato via. Ma penso che adesso sia nelle mani di suo fratello.”
“Questo è davvero un guaio.”
“Perché?”
“Perché penso che descriva il modo per arrivare all’Enfant. Lo avevo spiegato a Charles e lui deve averlo trascritto.”
“Perché lo hai fatto?”
“Perché ero malato e temevo che avrei perso i sensi prima che potessimo arrivarci. Sarebbero morti cercando di trovare l’entrata senza il mio aiuto.”
“Quindi adesso Garrison sa come arrivare alla casa di tua madre?” chiese Rachel.
Galilee annuì. “Be’, adesso non possiamo farci niente. Hai letto tutto il diario?”
“Gran parte, ma non tutto.”
“Però sai come ci siamo conosciuti? Come Nub ha portato da me Charles?”
“Sì.” La mente di Rachel fu attraversata da un turbinio di immagini: il campo di battaglia di Bentonville, il bambino fantasma sul cavallo di Holt, le rovine di Charleston, gli orrori del giardino della casa di Tradd Street. Aveva visto così tanto attraverso gli occhi di Holt. “Scriveva bene.”
“Sarebbe voluto diventare un poeta, da ragazzo”, osservò Galilee. “Sei libera di non crederci ma parlava proprio come scriveva. Il modo in cui le frasi gli uscivano dalle labbra; era bellissimo ascoltarlo.”
“Lo amavi?”
Galilee sembrò sorpreso da quella domanda ma poi rispose: “Immagino di sì, in un certo senso. Aveva un animo nobile. O almeno lo aveva avuto. Quando l’ho conosciuto, ormai era così triste. Aveva perso tutto”.
“Ma ha trovato te.”
“Ma non ero abbastanza”, aggiunse Galilee. “Non potevo essere sua moglie e i suoi figli e tutte le cose che aveva avuto prima della guerra. Anche se… forse immaginavo dì poterlo essere. Credo che sia sempre stato il mio grande errore. Voglio fare regali. Voglio rendere la gente felice. Ma non c’è mai un lieto fine.”
“Perché no?”
“Perché non posso dare agli altri ciò che vogliono davvero. Non posso dare loro la vita. Prima o poi muoiono, e la morte non è mai bella. Per nessuno. Anche quando sono in agonia, vogliono ancora qualche minuto, ancora qualche secondo…”
“Che cosa ne è stato di Holt?”
“È morto all’Enfant. È sepolto là.” Sospirò. “Non avrei mai dovuto permettere a lui e a Nub di riportarmi a casa. È stato uno sbaglio terribile. Ero stato via così a lungo. Ma ero ferito. Ero sfinito. Avevo bisogno di un luogo in cui potermi curare.”
“Come ti eri ferito?”
“Sono stato sciocco. Pensavo di essere intoccabile… e non lo ero.” Si portò una mano al volto, cercando le cicatrici che aveva sulla fronte e sulla testa, toccandole con delicatezza come se le stesse leggendo: il Braille di sofferenze passate. “C’era una donna di nome Katherine Morrow. Era una delle mie… come dire, concubine? Era stata la tipica vergine del Sud finché non è venuta a stare da me. Solo allora ha mostrato i suoi veri sentimenti. Era una donna che non conosceva la vergogna. Faceva tutto ciò che le veniva in mente. Ma aveva due fratelli che erano sopravvissuti alla guerra, e quando sono tornati a casa a Charleston sono venuti a cercarla. Quella notte ero ubriaco. Lo ero quasi tutte le notti, ma quella notte ero talmente ubriaco che non mi sono reso conto di cosa mi stava succedendo finché non mi sono ritrovato in strada, circondato da una decina di uomini — i fratelli di Katherine e i loro amici — che hanno cominciato a picchiarmi. Non solo perché avevo sedotto la ragazza. Ero un negro, e loro erano pieni di odio perché quella primavera in America tutti i negri erano liberi e a loro quel fatto non piaceva. Era la fine del loro mondo, così mi hanno picchiato e picchiato e io ero troppo pieno di alcool e di disperazione per fermarli.”
“Come mai non ti hanno ucciso?”
“Nickelberry ha sparato ai fratelli di Katherine. È arrivato con due pistole — mi sembra ancora di vederlo — e ha fatto fuoco. Bang! Bang! E poi è arrivato anche Charles e ha detto che avrebbe fatto altrettanto al primo che avesse osato toccarmi. A quel punto gli altri sono scappati. E Charles e Nub mi hanno preso e mi hanno portato via.”
“All’Enfant.”
“Sì.”
“Che cosa è successo alla gente con cui eri stato nel tuo…”
“Palazzo del piacere? Non ne ho idea. Sono tornato a cercarli a Charleston qualche anno dopo. Ma ciascuno era andato per la sua strada. Ho saputo che la signorina Morrow si era trasferita in Europa. Ma gli altri… ?” Scrollò le spalle. “Così tanta gente era andata e venuta nel corso degli anni, così tante facce. Ma non ne ho dimenticata neanche una. A volte le sogno e ho la sensazione che se aprissi gli occhi loro sarebbero lì con me.” Abbassò la voce. “E magari, potrebbero…”
Si fermò per un attimo, poi si alzò in piedi. “Il fuoco è troppo caldo”, disse. “Ti va di fare due passi?”
Camminarono insieme lungo la spiaggia. Non si tennero per mano come avevano fatto il giorno in cui lui l’aveva portata a vedere la Samarcanda ma rimasero a un certa distanza l’uno dall’altra. Lui era così indifeso adesso, e Rachel aveva paura di fargli male anche solo toccandolo.
Galilee continuò a parlare, ma nell’oscurità perse il filo di ciò che le stava raccontando, e le offrì solo frammenti, osservazioni disordinate su com’era stata la sua vita in quei giorni lontani. Qualche accenno al fatto che il suo ritorno a casa aveva scatenato una serie di catastrofi. I cavalli che avevano ucciso suo padre; sua sorella Marietta che lo aveva protetto dalla furia di Cesaria; gli impacchi e le pillole di sua sorella Zabrina che lo avevano guarito. Rachel non fece domande. Lasciò che la mente di Galilee vagasse e che le sue labbra raccontassero.
Anche se Galilee non ha cercato di giustificarsi in alcun modo, penso, per amore della verità, di dover aggiungere qualche osservazione. Benché mio fratello si sia preso la colpa di ogni peccato commesso all’Enfant in quei cupi giorni, le cose sono andate diversamente. Non è stata colpa sua se ho lasciato Chiyojo a Nicodemus; non è stata colpa sua se la rabbia implacabile di Cesaria si è scatenata; non è stata colpa sua se il suo amico Charles Holt si è tolto la vita.
Ma Galilee è stato responsabile di qualcosa a cui non ha accennato nel suo racconto. Quando lui, Holt e Nickelberry sono entrati all’Enfant, qualcuno li ha seguiti. I loro inseguitori non erano comuni banditi: erano un gruppo di uomini guidato da Benjamin Morrow, il padre di Katherine, che aveva appena perso entrambi i figli. Era vecchio per gli standard dell’epoca, aveva più di sessant’anni e forse è stata l’età a renderlo più cauto e più astuto di quanto non sarebbe stato un ragazzo. Anche se lui e la sua banda di charlestoniani timorati di Dio si erano spesso avvicinati alle loro prede mentre viaggiavano verso nord, Morrow aveva sempre rimandato l’attacco. Voleva arrivare al cuore del potere profano che aveva sconvolto la sua amata Katherine al punto di trasformarla nella puttana di quel negro di nome Galilee. La sua prudenza e la sua curiosità avevano salvato la sua vita e quella dei suoi uomini. Seguendo i passi delle loro prede, avevano inconsapevolmente evitato quelle trappole che li avrebbero uccisi se avessero cercato di entrare da soli all’Enfant. Ma quando Cesaria ha avvertito la presenza degli intrusi, è calata su di loro come una furia.
Li ho visti nelle loro tombe e non dimenticherò mai le espressioni dei loro volti. Sarebbero stati più fortunati se avessero fatto un passo falso nell’entrare e fossero morti in una delle trappole. Invece sembrava che fossero stati sbranati da un branco di tigri affamate — o peggio.
Comunque adesso sapete. E devo dire che una parte di me è convinta che gli orrori che ci hanno visitato dalla morte dei sei di Charleston non sarebbero stati così disastrosi se qualcuno avesse perdonato quegli uomini e avesse permesso loro di andarsene. Il sangue chiama altro sangue; la crudeltà chiama altra crudeltà. Dopo la morte dei sei, ci sono stati solo tempeste, cavalli e sciagure. Ma Galilee non è stato la causa di tutto questo. È stata lei, la dea. Anche se era stato in suo onore che le glorie dell’Enfant erano state edificate, Cesaria è stata, nella sua follia, l’architetto della sua ora più oscura.
Rachel e Galilee non tornarono al falò. Si sedettero invece sulle rocce in fondo alla spiaggia. Il mare era calmo e forse fu il suo ritmo regolare ad aiutare Galilee a continuare con il suo racconto.
“È stato Nub a portarmi fuori dalla casa”, cominciò, “proprio come mi aveva portato dentro. Penso che fosse convinto che Cesaria volesse uccidermi.”
“Ma lei non ti avrebbe mai fatto del male, giusto?”
“Quando si infuriava poteva fare qualsiasi cosa. Dopotutto era stata lei a crearmi e sono sicuro che fosse convinta di avere il diritto di distruggermi. Ma non ne ha avuto la possibilità. Marietta l’ha distratta e Nickelberry mi ha portato via. Ormai stavo delirando, ma ricordo quella notte — oh mio Dio, certo, la ricordo — quando ci siamo trascinati attraverso la palude e a ogni rumore che sentivamo pensavamo che fosse lei che ci aveva raggiunti.”
“E Nickelberry? Come ha affrontato le cose che ha visto?”
“Oh, Nub aveva un carattere forte. Per Charles è stato troppo, ma Nub… Non so, per lui è stato tutto molto facile. E ha visto il potere. E ha capito che se avesse avuto me, avrebbe avuto parte di quel potere. Non mi stava aiutando spinto da carità cristiana. Aveva vissuto una vita d’inferno. Era cresciuto nella miseria. Era sopravvissuto alla guerra e non aveva niente. Ma adesso aveva me. La mia vita era nelle sue mani.”
“Avete parlato di ciò che aveva visto?”
“Più avanti. Ma per molte settimane non abbiamo affrontato l’argomento. Io stavo troppo male. Lui aveva preso le medicine che aveva preparato Zabrina e mi ha promesso che sarebbe stato con me e mi avrebbe fatto guarire.”
“Che cosa voleva in cambio?”
“In un primo momento, niente. Ci siamo nascosti vicino alla spiaggia dove eravamo relativamente al sicuro. Lui ha costruito un riparo e io sono rimasto lì ad ascoltare il mare, e lentamente mi sono ripreso. Lui mi ha curato, mi ha lavato, mi ha dato da mangiare e ha ascoltato i miei deliri. Se ne andava e tornava col cibo. Dio solo sa come se lo procurava. La sua unica preoccupazione era farmi guarire. So che può sembrare perverso, ma quando ripenso a quel periodo, lo ricordo con immenso affetto. Era come se un grosso peso mi fosse stato tolto di dosso, come se fossi stato guarito da una malattia. Mi ero abbandonato a ogni eccesso conosciuto all’uomo. Avevo fatto l’amore con così tanti corpi, avevo avuto così tanta bellezza tra le mani. Ero stato così eccitato che avevo pensato che non avrei mai più conosciuto la tristezza. E adesso era tutto finito. Vivevo sotto le stelle, non avevo niente, solo il mare e i miei pensieri. È stato allora che ho cominciato a sognare di costruirmi una barca e prendere il mare…
“Poi un giorno Nickelberry ha cominciato a parlarmi dei suoi sogni. Mi sono reso conto che non sarebbe stato così facile. Io ero suo amico, o almeno così credeva lui. Avremmo lavorato insieme quando fossi guarito.
“ ‘Questo è un momento perfetto per ricominciare’, mi ha detto. ‘Se lavoreremo insieme, potremo fare una fortuna.’ ”
“E tu che cosa gli hai detto?”
“Gli ho detto che non volevo avere più niente a che fare con la gente. Gli ho parlato del mio sogno di costruirmi una barca e prendere il mare.
“Mi sarei aspettato che scoppiasse a ridere ma non è stato così. Anzi, ha detto che gli sembrava un’ottima idea. Ma poi ha aggiunto: ‘Non puoi andartene via e dimenticarti di quello che abbiamo passato insieme. Mi devi qualcosa’.
“Ed era la verità. A Charleston, aveva rischiato la vita per me, sparando ai fratelli Morrow. Aveva rischiato la vita per portarmi fuori dall’Enfant. Aveva visto cose che avrebbero portato altri alla follia, e lo aveva fatto per me. E si era occupato di me sulla spiaggia, giorno e notte. Senza di lui e senza gli impacchi di Zabrina, sarei rimasto sfigurato; probabilmente sarei morto. Certo, ero in debito con lui, non c’erano dubbi.
“Così gli ho chiesto che cosa volesse da me. E lui mi ha dato una risposta molto semplice: voleva che lo aiutassi a diventare ricco. Per come la vedeva lui, c’erano grandi possibilità da sfruttare. La ricostruzione era appena cominciata. C’erano strade da riparare, città da ricostruire e bocche da sfamare. E gli uomini che si fossero trovati nel cuore di tutto questo, se fossero stati abili abbastanza da rendersi indispensabili, sarebbero diventati più ricchi di chiunque altro nella storia d’America.”
“E aveva ragione?”
“Più o meno. C’erano pochi magnati del petrolio e delle ferrovie che erano già così ricchi che nessuno avrebbe potuto eguagliarli. Ma Nub non era uno stupido; tutt’altro. Sapeva che con il suo pragmatismo e la mia visione, con la sua comprensione di ciò che voleva la gente e la mia capacità di togliere di mezzo ogni possibile oppositore, in breve tempo saremmo diventati molto potenti. Ed era impaziente. Aveva vissuto nella fogna anche troppo a lungo. Voleva una vita migliore e non gli importava come l’avrebbe ottenuta.” Fece una pausa e guardò il mare. “Avrei sempre potuto avere la mia barca, mi ha detto, avrei sempre potuto prendere il mare. Per lui andava benissimo. Mi avrebbe anche aiutato a trovare una barca, la migliore. Ma in cambio voleva che lo aiutassi. Voleva una moglie e dei figli e voleva che vivessero nel lusso. Quando ho accettato, non mi sembrava una richiesta eccessiva. E comunque, come avrei potuto rifiutare dopo tutto quello che aveva fatto per me?
“Abbiamo fatto un patto, là, sulla spiaggia. Io ho giurato che non lo avrei mai tradito, né lui né alcun membro della sua famiglia. Ho giurato sulla mia vita che sarei stato suo amico e amico della sua famiglia fino alla fine dei miei giorni.”
Rachel ebbe la terribile sensazione di sapere cosa sarebbe seguito.
“Penso che cominci a capire”, disse Galilee.
“Non ha tenuto lo stesso nome…”
“No, infatti. Un paio di giorni dopo, è tornato da me e sembrava di ottimo umore. In una trincea aveva trovato un cadavere, o almeno quello che ne era rimasto. Era il corpo di uno Yankee che era morto molto, molto lontano da casa. Aveva ancora addosso tutti i documenti: proprio ciò di cui Nickelberry aveva bisogno per diventare un altro uomo, e all’epoca non era un’impresa difficile. Da quel giorno in poi, ha smesso di essere ‘Nub Nickelberry’ ed è diventato un uomo di nome Geary.”
Questo non era neanche lontanamente ciò che Rachel si sarebbe aspettata ma, riflettendoci, tutti i tasselli andavano al loro posto. Le radici della famiglia di cui aveva fatto parte erano immerse nel sangue e nella sporcizia; c’era da meravigliarsi che la dinastia che era sorta da quell’inizio fosse così vuota e corrotta?
“Non sapevo cosa avevo accettato”, continuò Galilee. “Solo più avanti mi sono reso conto di quanto fosse immensa l’ambizione di Nub e di cosa fosse pronto a fare pur di trasformarla in realtà.”
“Ma se avessi saputo…?”
“Avrei accettato ugualmente? Sì. Non mi sarebbe piaciuto ma avrei accettato.”
“Perché?”
“Come avrei potuto liberarmi di lui se non accettando?”
“Avresti potuto semplicemente andartene.”
“Gli dovevo troppo. Se lo avessi tradito, la storia si sarebbe ripetuta. Sarei stato trascinato in qualcos’altro — in qualche altra follia umana — e avrei dovuto sopportarla. Avrei dovuto pagare quel prezzo, prima o poi. L’unico modo che avevo per essere libero — almeno era così che vedevo le cose — era lavorare con Nub, aiutarlo a realizzare i suoi sogni. Così avrei potuto guadagnarmi un sogno solo mio. Avrei potuto avere la mia barca e… scomparire.” Galilee emise un profondo sospiro. “Era difficile lavorare per lui; molto difficile. Ma aveva ragione quando parlava delle opportunità. Ce n’erano dovunque. Naturalmente, per farsi largo tra la folla bisognava avere qualcosa di più. Lui aveva me. Mandava me se era nei guai con qualcuno, per essere sicuro che il problema non si ripresentasse mai più. E io ero bravo in quello che facevo. Una volta preso il ritmo, mi sono reso conto che sapevo come terrorizzare la gente.”
“Un dono ereditato da Cesaria.”
“Senza dubbio. E, credimi, ero dell’umore giusto per fare del male. Adesso ero un esule; mi sentivo libero di fare tutto ciò che mi passava per la testa, per quanto inumano potesse sembrare. Odiavo il mondo e odiavo la gente che lo abitava. Così essere crudele mi rendeva felice.”
“E Nub…”
“Geary, vorrai dire. Il signor Geary.”
“Geary. Si è mai sporcato le mani, lui? Tu ti occupavi delle intimidazioni e lui si occupava degli affari?”
“No, lavorava con me quando ne aveva voglia. Dopotutto era un cuoco. Gli piacevano i coltelli e le carcasse. Certe volte mi sbalordiva. Lo vedevo così freddo, così indifferente alla sofferenza che causava e mi sentivo… mi sentivo in soggezione.”
“In soggezione?”
“Sì. Perché avevo sempre sentito troppo. Soffrivo per le cose che facevo. La mia testa era piena di voci che mi dicevano cosa fare e cosa non fare e di pensare alle conseguenze. Era per que sto che mi piaceva ubriacarmi; l’alcool smorzava quelle voci. Ma quando ero con Geary, le voci sparivano. Non sentivo più niente. Solo il silenzio. Era bello.
“Col passare dei mesi, sono guarito completamente e la gente ha cominciato a temermi. Mi piaceva avere una cattiva reputazione e facevo di tutto per meritarmela. Quando volevo dare una punizione esemplare, ero terribile. C’era una parte di me che era crudele e velenosa e quando la gente mi guardava negli occhi o sentiva la mia voce… be’, diventavano tutti più ragionevoli. Spesso non avevo bisogno nemmeno di alzare un dito. Mi vedevano arrivare e subito chiedevano che cosa potevano fare per noi, come potevano aiutarci.”
“E gli uomini che non lo facevano?”
“Morivano. Per mano mia. Di solito in modo rapido. A volte lentamente. A volte quando Geary pensava che fosse il caso di dare un esempio, facevo delle cose così cattive che…” Si fermò. Rachel non riusciva a vedere il suo volto ma sentiva i suoi bassi singhiozzi. Lui impiegò un attimo a riprendersi, poi continuò:
“Abbiamo cominciato a espanderci, stato dopo stato. Siamo andati a Nord, in Virginia, nel Tennessee e nel Missouri, ci siamo spinti fino all’Oklahoma e poi siamo scesi fino al Texas. Dovunque andassimo, Geary comprava della terra, quasi sempre con soldi che non aveva ma ormai si era fatto un nome e una reputazione; era l’uomo di Charleston che aveva la lingua veloce e un modo speciale di ottenere quello che voleva, e tutti quelli che gli dicevano di no se ne pentivano amaramente. Sempre meno gente osava mettersi contro di lui. Tutti preferivano mettersi in affari con lui: lui era il volto del futuro e si comportava sempre come se avesse così tanti soldi che chiunque avrebbe potuto diventare ricco semplicemente stringendogli la mano.” La sua voce stava riacquistando forza. “Il fatto era che molta gente diventava ricca grazie a lui. Aveva un talento naturale. Penso che fosse il primo a esserne sorpreso.
“In poco più di tre anni è diventato miliardario e ha deciso di mettere su famiglia. Ha sposato una donna ricca della Georgia che si chiamava Bedelia Townsend. Sembrava la compagna perfetta per lui. Era bellissima, era ambiziosa e voleva tenere in pugno il mondo, proprio come lui. C’era un solo problema. A lui non interessava la camera da letto quanto interessava a lei. Così ero io a tenerle compagnia.”
“Ha avuto dei figli da te?”
“No. I figli erano tutti di Geary. Facevo molta attenzione. Darle piacere era una cosa, farle mettere al mondo un Barbarossa un’altra.”
“Non eri tentato di farlo?”
“Di mettere al mondo un mezzosangue con lei? Oh sì, certo. Ma avevo paura di rovinare quello che c’era tra noi. Stare con lei era la cosa che mi rendeva più felice al mondo.”
“E Geary cosa ne pensava?”
“Non gli importava. Stava costruendo il suo impero. Finché Bedelia continuava a dargli figli e io continuavo a occuparmi di chiunque provasse a contrastarlo, non gli importava niente di quello che io e lei facevamo insieme. Un cuoco che voleva diventare un re aveva molto da fare. E, bisogna concederglielo, lavorava giorno e notte. I semi di tutto quello che sarebbe diventata la famiglia Geary sono stati piantati nei dieci anni che hanno seguito la guerra.”
“Ma ci dev’essere stato un momento in cui hai sentito di esserti sdebitato con lui?”
“Oh certo. Ma se me ne fossi andato, cosa ne sarebbe stato di me? Non potevo tornare all’Enfant. Non avevo più una vita mia, mi restavano solo i Geary.”
“Avresti potuto prendere il mare.”
“Infatti è questo che è accaduto alla fine.” Fece una pausa e rimase a riflettere per un attimo. “Ma non sono partito da solo.”
“Hai portato Bedelia con te?” domandò Rachel a bassa voce.
“Sì. È stata la prima donna a mettere piede sulla Samarcanda. E tu sei stata la seconda. Siamo partiti senza dire a Geary dove stavamo andando. Credo che lei gli abbia lasciato una lettera per spiegargli ciò che provava, per dirgli che voleva più di ciò che lui gli aveva dato.”
“Ma come ha potuto farlo? Come ha potuto lasciare i suoi figli?”
Galilee si chinò verso di lei. “Tu non l’avresti fatto per me?”
“Sì”, mormorò lei. “Naturalmente.”
“Allora, ecco la tua risposta.”
“E li ha mai rivisti?”
“Oh sì. Qualche tempo dopo. Ma intanto aveva avuto un altro figlio…”
“Il vostro mezzosangue?”
“Sì.”
“Niolopua…?”
“Sì, il mio Niolopua. Ho fatto in modo che capisse fin dall’inizio che aveva il sangue dei Barbarossa nelle vene. Che in parte avrebbe potuto sfuggire al passare del tempo. Mio padre mi aveva raccontato che alcuni dei suoi bastardi — quelli che vivevano senza conoscere la verità sulla loro condizione — avevano vissuto normali vite umane. Settant’anni ed erano morti. Solo quelli che conoscevano la loro vera natura potevano sopravvivere più a lungo.”
“Non capisco”, lo interruppe Rachel. “Se una persona ha il sangue dei Barbarossa nelle vene, cosa può importare se lo sa oppure no?”
“Non è una questione di sangue. È una questione di consapevolezza. È la consapevolezza, non la chimica, che fa di noi dei Barbarossa.”
“E se tu non glielo avessi mai detto?”
“Sarebbe morto ormai da molto tempo.”
“E così tu e Bedelia avete preso il mare e a un certo punto avete trovato questo posto?”
“Sì. Ci siamo arrivati per caso; è stato il vento a portarci qui e ci è sembrato di aver trovato il paradiso. All’epoca non c’era nessuno in questa parte dell’isola. Sembravano i primi giorni della creazione. Naturalmente non eravamo del tutto soli. C’era una missione a Poi’pu. È lì che lei ha messo al mondo Niolopua. E mentre lei si riprendeva, io ho finito di costruire la casa.” Lanciò un’occhiata verso la spiaggia. “Questo posto non è cambiato molto. L’aria è ancora dolce come allora.”
Rachel ripensò a Niolopua: alle molte volte in cui aveva visto sul suo volto un’espressione impenetrabile e si era chiesta quali misteri fossero sepolti dentro di lui. Ora sapeva. Era stato un figlio devoto, si era occupato della casa costruita per sua madre tanto tempo prima, e aveva scrutato l’orizzonte in attesa di scorgere una vela, la vela della barca di suo padre. Aveva voglia di piangere. Non che lo avesse conosciuto molto bene; ma Niolopua era stato un legame con il passato, con la donna il cui amore aveva reso possibile gran parte di ciò che era accaduto a Rachel. Senza Bedelia, non ci sarebbe mai stata una casa in quell’Eden.
“Hai sentito abbastanza?” le chiese Galilee.
In un certo senso Rachel aveva sentito più che abbastanza. Avrebbe impiegato giorni interi ad assimilare tutte quelle informazioni e a metterle insieme a ciò che già sapeva: i racconti che aveva letto nel diario di Charles Holt, le cose che le avevano detto Niolopua e Loretta; l’ultimo amaro confronto tra Cesaria e Cadmus. Tutto questo adesso era illuminato da ciò che Galilee le aveva spiegato; eppure, paradossalmente, le sembrava tutto ancora più oscuro. Il dolore e la sofferenza, le alleanze e i tradimenti erano più profondi di quanto avesse immaginato. E tutto questo sarebbe già stato abbastanza straordinario se si fosse trattato di un semplice racconto. Ma era molto di più. Era la vita dell’uomo che amava. E lei ne faceva parte; la stava vivendo anche in quel momento.
“Posso farti un’ultima domanda?” chiese a Galilee. “Del resto parleremo un’altra volta.”
Lui le prese la mano. “Allora non è finita?”
“Cosa vuoi dire?”
“Tra noi.”
“Oh Dio, tesoro…” mormorò Rachel posandogli la mano sul viso. La pelle di Galilee scottava come se avesse avuto la febbre. “Naturalmente non è finita. Io ti amo. Ti ho detto che non avevo paura di ciò che dovevi raccontarmi, e dicevo sul serio. Non ti lascerei per nessuna ragione al mondo.” Lui stava cercando di sorridere ma i suoi occhi erano pieni di lacrime.
Lei gli accarezzò la fronte. “Quello che mi hai raccontato mi serve per dare un senso a tutto”, continuò. “Ed è quello che ho sempre voluto, fin dall’inizio. Ho sempre voluto capire.”
“Ti ho mai detto quanto sei straordinaria? Sei una donna incredibile. Vorrei solo averti incontrata prima.”
“Non sarei stata pronta per te”, gli fece presente Rachel. “Sarei scappata. Mi sarebbe sembrato tutto troppo…”
“Volevi farmi un’altra domanda”, disse Galilee.
“Sì. Cosa ne è stato di Bedelia? È rimasta qui sull’isola?”
“No, le mancava la vita sociale della grande città, e così dopo tre anni e mezzo è tornata a casa. Ha ricominciato la vita di prima.”
“E Niolopua?”
“È stato con me per qualche anno. In giro per il mondo. Ma non gli piaceva molto il mare. Così, quando ha compiuto dodici anni, l’ho riportato indietro e l’ho lasciato qui, dove voleva vivere.”
“Hai mai più rivisto Bedelia?”
“Solo poco prima che morisse. Per qualche ragione, forse l’istinto, sono tornato a New York e quando sono arrivato al palazzo, lei era in fin di vita. Ho capito subito che aveva tenuto duro per aspettarmi. Stava morendo di polmonite; e, mio Dio, vederla là… così debole. Mi ha spezzato il cuore. Ma lei mi ha detto che non avrebbe potuto morire finché non mi avesse visto fare pace con Geary. Dio solo sa perché era così importante per lei. Gli ha ordinato di salire in camera da letto…”
“Quella grande stanza che dà sulla strada?”
“Sì.”
“E lì che è morto Cadmus.”
“Molti Geary sono nati e morti in quella stanza.”
“E lei che cosa vi ha detto?”
“Prima ci ha fatto stringere la mano. Poi ci ha detto che aveva un ultimo desiderio. Voleva che fossi sempre pronto a confortare le donne Geary come avevo confortato lei. Ad amarle come avevo amato lei. E quello sarebbe stato il mio unico dovere nei confronti dei Geary dopo la sua morte. Niente più omicidi. Niente più torture. Solo quella promessa di conforto e amore.”
“E tu cos’hai detto?”
“Cosa avrei potuto dire? Avevo amato quella donna con tutto il cuore. Non potevo negarle quell’ultima promessa. Così io e Geary abbiamo accettato. Abbiamo fatto un patto solenne proprio lì, ai piedi del letto in cui giaceva Bedelia. Lui ha accettato di proteggere la casa di Kaua’i da tutti gli uomini della famiglia Geary, di dedicare quel luogo esclusivamente alle donne. E io ho accettato di recarmi in quella casa ogni volta che le donne mi avessero voluto, ogni volta che avessero avuto bisogno di me. Bedelia ha resistito per altri due giorni. E noi siamo stati con lei, tutto il tempo. Ma non ha più detto una sola parola. Quando è morta l’abbiamo pianta insieme, ed è stato quasi come ai vecchi tempi, com’era stato all’inizio prima che tutto andasse a rotoli tra di noi. Non sono andato al suo funerale. Non sarei stato il benvenuto tra la gente che ora Nub frequentava: gli Astor, i Rothschild, i Carnegie. E lui non voleva che la gente cominciasse a fare domande, vedendomi accanto alla tomba di sua moglie. Così ho ripreso il mare, il giorno in cui Bedelia è stata sepolta. Da allora non ho più rivisto Nub. Ma ci siamo scritti per accordarci formalmente su ciò che avevamo accettato. Era tutto molto strano. Quando lui mi aveva conosciuto, ero il re di Charleston e lui era un vagabondo. Adesso i ruoli si erano invertiti.”
“E ti dispiaceva? Non avere più niente, voglio dire.”
Galilee scosse la testa. “Non volevo niente di ciò che aveva Nub. Eccetto Bedelia. Avrei voluto portarla via con me. Seppellirla qui, sull’isola. Il suo posto non era in un mausoleo sfarzoso. Era qui, dove avrebbe potuto sentire il mare…”
Rachel ripensò alla chiesa che aveva visitato la prima volta che era stata sull’isola e al piccolo gruppo di tombe che la circondavano.
“Ma il suo spirito torna qui di tanto in tanto.”
“Allora lei era una delle donne che ho visto nella casa?”
Galilee annuì. “Certo. Anche se non sono sicuro che non si sia trattato solo di un sogno.”
“Io le ho viste chiaramente.”
“Questo non significa che non sia stato un sogno.”
“Quindi quello non era il suo fantasma?”
“Il suo fantasma. Il suo ricordo. La sua eco. Non lo so. Era una parte di lei, comunque. Ma la parte migliore della sua anima se n’è andata, giusto? È da qualche parte tra le stelle. Quello che hai visto era qualcosa che ho tenuto per non sentirmi solo. Il sogno di un ricordo di Bedelia. E di Kitty. E di Margie.” Sospirò. “Sono stato il loro conforto quando erano vive. E ora che sono morte, una piccola parte di loro è mia. Vedi come le cose si completano a vicenda?” Si coprì il volto con le mani. “Ho parlato anche troppo”, disse. “E adesso dovremmo pensare alla partenza. Molto presto qualcuno verrà a cercare tuo marito.”
“Un’ultima cosa”, disse Rachel.
“Sì?”
“È così che diventerò anch’io un giorno? Come le donne della casa? Morirò e tu mi sognerai quando ti sentirai solo?”
“No. Sarà diverso per noi.”
“Cosa vuoi dire?”
“Entrerai a far parte della famiglia Barbarossa, Rachel. Farò di te una di noi, così la morte non potrà portarti via da me. Non so ancora come ci riuscirò, ma è questo che ho intenzione di fare. E se mi sarà impossibile…” Le prese la mano. “Se non potrò vivere con te, allora morirò con te.” La baciò. “È questa la mia promessa. D’ora in poi staremo sempre insieme. Che sia fino alla tomba o fino alla fine del tempo.”
Sono rimasto sveglio tutta la notte per scrivere la confessione di Galilee. In un certo senso è stata la mia fatica più piacevole: è stato un modo per scaricarmi finalmente del peso di alcune parti di questa storia che avrei voluto scrivere già da tempo; ed è stato bello alternare la mia voce a quella di Galilee nella narrazione. Ma è stato anche uno dei molti atti conclusivi che vivrò in questi giorni. Forse penserete che la mia sia un’affermazione strana dal momento che la stesura di questo libro è stata estremamente faticosa ma, nonostante tutte le mie lamentele, sono stato commosso e cambiato da questo viaggio e non ne attendo la fine con ansia come avevo immaginato. Per la verità, ho paura di concluderlo. Ho paura che quando sarò arrivato alla fine e riporrò la mia penna, avrò riversato così tanta parte di me stesso sulla pagina che ciò che resterà di me sarà inadeguato. Che sarò vuoto o quasi vuoto.
Il mio umore è migliorato quando ha cominciato a risuonare il coro dell’alba e sono finalmente scivolato tra le lenzuola. Almeno avevo creato qualcosa, mi sono detto: se fossi morto nel sonno, non mi sarei lasciato dietro solo qualche capello nel lavandino e qualche macchia di saliva sulla federa del cuscino, ma la prova del mio desiderio di dare ordine al caos.
E, a proposito di caos, mentre mi addormentavo mi sono reso conto di essermi perso i festeggiamenti per il matrimonio di Marietta. Non vi avrei partecipato comunque; se anche il libro non avesse richiesto tutta la mia attenzione, mi sarei inventato una scusa qualsiasi per restare a casa. Quando finalmente abbandonerò i confini dell’Enfant, mi sono detto, non sarà per ubriacarmi in qualche bar con le amiche lesbiche di Marietta. D’altra parte, non ho potuto fare a meno di pensare al suo matrimonio, di considerarlo un’ulteriore prova di come le cose stessero cambiando e di come io, che ero stato testimone di tutti quei mutamenti e li avevo trascritti fedelmente, rischiassi di restare sempre uguale a me stesso. Certo, mi stavo autocommiserando, ma a volte l’autocommiserazione è migliore di qualsiasi ninnananna. E così, perso nel mio martirio, mi sono addormentato.
Ho sognato di nuovo: questa volta non ho sognato né il mare né la grigia desolazione di una città, ma un cielo luminoso e un deserto selvaggio. Poco lontano da me, c’era una carovana di uomini e cammelli e al loro passaggio si sollevavano nuvole di polvere ocra. Ho sentito gli uomini gridare ordini ai loro animali, lo schiocco secco dei bastoni contro i fianchi dei cammelli. Ho sentito anche il loro odore, l’aroma pungente della terra e del cuoio. Non avevo un grande desiderio di unirmi a loro, ma quando mi sono guardato attorno mi sono reso conto che il paesaggio che mi circondava era completamente vuoto.
Sono dentro me stesso, ho pensato, polvere e vuoto in ogni direzione; è questo che mi resta ora che ho finito di scrivere.
La carovana si stava allontanando da me. E io mi sono reso conto che se non mi fossi mosso al più presto, l’avrei persa di vista. Cosa avrei fatto a quel punto? Sarei morto di solitudine o di sete. Per quanto infelice potessi essere, non ero ancora pronto per una cosa simile. Mi sono incamminato verso la carovana e ben presto ho incominciato a correre.
Poi, all’improvviso, mi sono ritrovato in mezzo ai viaggiatori, circondato dal loro chiasso e dal loro odore. Ho percepito il movimento ritmico di un cammello sotto di me e abbassando lo sguardo mi sono accorto che mi trovavo proprio sulla schiena di uno degli animali. Il paesaggio — quel vuoto doloroso di terra riarsa — adesso era nascosto dalla polvere sollevata dai viaggiatori attorno a me.
Qualcuno ha cominciato a cantare, con voce sempre più sicura nel fragore della carovana. Era un canto onirico, del tutto incoerente ma stranamente familiare. Ho ascoltato con attenzione, cercando di dare un senso alle sillabe che sentivo. Ma la canzone continuava a sfuggirmi anche se in certi momenti mi sembrava incredibilmente vicina.
Stavo per arrendermi, quando qualcosa nel ritmo del canto mi ha fornito un indizio e le parole, che fino a pochi istanti prima mi sembravano prive di senso, sono diventate chiare.
Non era il canto di un viaggiatore, quello che stavo ascoltando; non era un qualche peana esotico intonato per il cielo del deserto: era una filastrocca che apparteneva alla mia infanzia. La canzone che avevo cantato dai rami di un prugno molti, molti anni prima.
Ero
Sono
E sempre
Sarò, perché
Ero…
Sentendola, ho unito la mia voce al canto e altre voci a loro volta si sono levate attorno a me. E quelle strofe si ripetevano all’infinito come il movimento della ruota delle stelle.
Mi sono sentito invadere dalla gioia. Non ero vuoto, nonostante le lacrime che avevo portato a letto con me. Mi restavano sempre i ricordi, dolci e pungenti come le prugne sui rami di quell’albero. Pronte a essere mangiate quando avevo bisogno di nutrimento. Certo, in fondo a quei frutti c’erano noccioli duri e aspri, ma la polpa che li circondava era morbida e succosa. Dopotutto non me ne sarei andato completamente vuoto.
La canzone continuava ma le voci dei miei compagni invisibili erano sempre più remote. Mi sono voltato a guardare e mi sono accorto che ormai stavo viaggiando da solo e stavo cantando da solo, il ritmo del mio canto perfettamente sincronizzato a quello dei passi del mio cammello.
Ero,
ho cantato.
Sono…
La polvere si stava diradando e qualcosa che luccicava in lontananza ha attratto la mia attenzione.
E sempre
Sarò, perché…
Era un fiume; mi stavo avvicinando a un grande fiume circondato da immense e rigogliose distese di erb, fiori e alberi. E, oltre la vegetazione, le mura di una città riscaldate dal sole che stava tramontando.
Conoscevo quel fiume; era lo Zarafsham. E la città? Conoscevo anche quella. Il mio canto mi aveva condotto alla città di Samarcanda.
Ecco tutto. Non mi sono avvicinato più di così. Ma è stato abbastanza. In quel momento mi sono svegliato e ciò che avevo visto era ancora così reale che la malinconia, che mi aveva accompagnato nel sonno, era scomparsa, curata da ciò che avevo vissuto. E questa è la saggezza dei sogni.
Era metà pomeriggio quando sono sceso in cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Non mi ero cambiato, pensando di potermi preparare un panino e tornare subito in camera senza essere visto da nessuno. Ma in cucina ho trovato Zabrina e Dwight. Il mio aspetto li ha lasciati entrambi perplessi.
“Ha bisogno di radersi, amico mio”, ha commentato Dwight.
“E hai bisogno anche di nuovi vestiti”, ha aggiunto Zabrina. “Sembra che tu ci abbia dormito dentro.”
“Infatti è così”, ho replicato io.
“Può dare un’occhiata nel mio guardaroba, se vuole”, ha detto Dwight. “Potrà prendere tutto quello che vorrà quando me ne sarò andato.”
Solo allora mi sono accorto di due particolari. Primo, la valigia accanto al tavolo al quale sedevano Zabrina e Dwight; secondo, gli occhi umidi e arrossati di mia sorella. Dovevo aver interrotto un addio doloroso; doloroso almeno per lei.
“È colpa tua”, mi ha detto Zabrina. “Se ne sta andando a causa tua.”
Dwight ha fatto una smorfia. “Non è vero”, ha protestato.
“Mi hai detto che se non avessi visto quel dannato cavallo…” ha cominciato Zabrina.
“Ma non è stata colpa del signor Maddox”, ha detto Dwight. “Sono stato io a offrirmi di accompagnarlo alle stalle. E comunque, se non fosse stato il cavallo, sarebbe stato qualcos’altro.”
“Se ho capito bene, te ne stai andando allora”, ho detto io.
Dwight mi ha lanciato un’occhiata dispiaciuta. “Devo andarmene”, ha detto. “Penso che se non me ne andrò ora…”
“Non devi andartene per forza”, lo ha interrotto Zabrina. “Non c’è niente, là fuori.” Ha stretto la mano di Dwight. “Se pensi che il lavoro sia troppo pesante…”
“Non è questo”, ha replicato lui. “Il fatto è che il tempo passa e se non me ne andrò subito, non me ne andrò mai più.” Con delicatezza si è liberato dalla stretta di Zabrina.
“Quel dannato cavallo”, ha ringhiato lei.
“Che cosa c’entra il cavallo con tutto questo?” ho voluto sapere.
“Niente…” ha risposto Dwight. “Ho solo detto a Zsa-Zsa…” (Zsa-Zsa? ho pensato. Dio, erano stati più intimi di quanto avessi immaginato.) “… che quando ho visto il cavallo…”
“Dumuzzi.”
“… che quando ho visto Dumuzzi, mi sono reso conto di aver bisogno delle cose normali che ci sono là fuori, nel mondo. Per troppo tempo le ho viste solo grazie a quello.” Ha indicato il piccolo televisore in bianco e nero. Ogni volta che aveva guardato quelle immagini tremolanti, aveva sentito la mancanza del mondo esterno? Sembrava di sì, ma finché non era apparso Dumuzzi non si era reso conto di quanto fosse profondo il suo desiderio.
“Be’ ”, ha detto Dwight con un piccolo sospiro, “adesso devo andare.” Si è alzato.
“Aspetta almeno fino a domani”, ha detto Zabrina. “Si sta facendo tardi. Puoi partire domani mattina.”
“Ho paura che mi metteresti uno dei tuoi filtri nel cibo”, ha risposto con un piccolo, triste sorriso. “E allora non ricorderei più nemmeno perché avevo fatto le valigie.”
Zabrina gli ha rivolto un debole sorriso di rimprovero. “Sai che non farei mai una cosa del genere”, ha risposto. Poi, tirando su col naso, ha aggiunto: “Se non vuoi restare, vai pure. Nessuno ti costringe”. Ha abbassato lo sguardo e si è fissata le mani. “Ma ti mancherò”, ha mormorato. “Vedrai se non ti mancherò.”
“Mi mancherai così tanto che probabilmente ritornerò tra meno di una settimana”, ha detto Dwight.
Zabrina è stata scossa dai singhiozzi. Le sue lacrime sono cadute sul tavolo, grandi come dollari d’argento.
“No…” l’ha pregata lui, la voce rotta. “Non piangere.”
“Allora non farmi piangere”, ha ribattuto lei in tono petulante. Ha alzato gli occhi su di lui. “So che devi andare. Lo capisco. Davvero. E so che non tornerai tra una settimana. Te ne andrai là fuori e ti dimenticherai persino che esisto.”
“Oh tesoro…” ha sospirato Dwight chinandosi per abbracciarla, e lei si è aggrappata a lui singhiozzando. Dwight le ha accarezzato i capelli con infinita tenerezza e mi ha guardato. Il suo volto era triste ma ho notato anche una punta di impazienza nella sua espressione. Aveva deciso di andare e niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Il pianto disperato di Zabrina stava solo rimandando l’inevitabile.
“Coraggio, Zabrina”, le ho detto allegramente, “Dwight non sta morendo. Se ne va soltanto a vedere il mondo.”
“E la stessa cosa”, ha detto lei.
“Non essere sciocca”, ho ribattuto io con dolcezza, avvicinandomi a lei e posandole le mani sulle spalle. Il mio tocco l’ha distratta per un attimo, cosa che ha permesso a Dwight di sciogliersi dall’abbraccio. Zabrina non ha cercato di stringerlo di nuovo a sé. Ormai era rassegnata alla sua partenza.
“Abbi cura di te”, le ha detto Dwight. “Maddox, anche lei mi mancherà molto.” Ha preso la valigia. “Saluti la signorina Marietta da parte mia, per favore. Le dica che le auguro ogni bene.”
Ha fatto un paio di passi indietro verso la porta, ma così incerti che per un momento ho pensato che avesse cambiato idea. E forse sarebbe stato proprio così se Zabrina non lo avesse guardato e non avesse detto, con una rabbia che davvero non mi sarei aspettato da lei in quel momento:
“Sei ancora qui?”
A quel punto Dwight si è voltato e se n’è andato.
Ho passato qualche minuto a consolare Zabrina pur sapendo che niente di ciò che potevo dirle l’avrebbe confortata quanto il cibo. Le ho proposto un panino. Lei non si è rasserenata subito, ma vedendo gli sforzi che stavo facendo per prepararle qualcosa di buono, a poco a poco i suoi singhiozzi si sono affievoliti e le sue lacrime si sono asciugate. Alla fine quando le ho portato il mio capolavoro (prosciutto cotto, asparagi, cetriolini, un po’ di senape, un po’ di maionese), il suo umore era visibilmente migliorato.
Mentre cominciava a mangiare il panino, le ho portato una vasta selezione di dolci. Era talmente immersa in quei conforti culinari che dubito che si sia accorta che me ne sono andato.
Mi ero preparato una versione ridotta del panino che avevo offerto a Zabrina, e l’ho mangiato mentre mi lavavo, mi radevo e indossavo qualcosa di più presentabile dei miei vestiti stropicciati dal sonno. Quando ho finito di prepararmi era quasi buio. L’oscurità stava calando, così mi sono versato un bicchiere di gin e sono uscito in veranda per godermi l’ultima luce del giorno. Era una sera stupenda: il cielo limpido, l’aria immobile. Ho sorseggiato il gin e sono rimasto a guardare, ad ascoltare e a pensare: tanta parte di ciò che rende bellissimo PEnfant continuerà a esistere anche molto tempo dopo che questa casa sarà caduta. Gli uccelli canteranno ancora, gli scoiattoli faranno ancora le capriole, la notte scenderà ancora e le stelle continueranno a mostrarsi. Non si perderà niente di importante.
Mentre finivo il gin, ho sentito delle risate riecheggiare attraverso il prato; lontane all’inizio, ma poi sempre più vicine. Non ho visto nessuno ma non mi è stato difficile immaginare di chi si trattasse. Erano risate femminili rauche e sguaiate e provenivano da una decina di gole. Marietta aveva portato le invitate ai festeggiamenti delle nozze — o almeno parte delle invitate — lì all’Enfant.
Sono sceso in giardino. Il seno latteo della luna stava sorgendo, tondo e pieno. La luce che proiettava non era fredda e argentea ma gialla come il burro e raddolciva tutto ciò che illuminava.
Ho sentito la voce di Marietta che si levava al di sopra delle risate.
“Muovete il culo!” stava gridando. “Non voglio che nessuna si perda.”
Ho fissato lo sguardo sul punto buio tra gli alberi da cui sembravano provenire le voci, e qualche istante dopo è comparsa mia sorella mano nella mano con la sua Alice. Quasi subito sono comparse anche altre tre donne.
Qualche mese fa, sarei stato sbalordito all’idea che Marietta portasse così tante sconosciute sulla terra sacra dell’Enfant. Avrei considerato imperdonabile un gesto del genere. Ma che importanza aveva ormai? Meglio che qualcuno potesse ammirare il capolavoro di Jefferson prima che fosse distrutto, ed era chiaro che, anche da quella distanza, le amiche di Marietta, ora che potevano vedere la casa, erano rimaste senza parole. Le risate si sono interrotte di colpo; le donne si sono fermate, scambiandosi occhiate sbalordite.
“È qui che vivrete voi due stronze fortunate?” ha chiesto una delle tre donne.
“È qui che vivremo”, ha risposto Marietta.
“È bellissima…” ha detto un’altra. Ha fatto qualche passo verso la casa, un’espressione stupefatta sul volto.
Tra gli alberi hanno cominciato a risuonare altre risate e la luce della luna ha illuminato le ultime invitate ai festeggiamenti. Una di loro era a malapena vestita, una camicetta sbottonata e nient’altro dalla vita in giù. La sua compagna, una donna più anziana dai capelli grigi scarmigliati, era vestita in modo più formale ma la parte anteriore dell’abito era slacciata sui suoi grandi seni. Entrambe le donne camminavano barcollando e la più giovane si è lasciata cadere sull’erba quando ha visto la casa, smettendo di ridere all’improvviso. L’ho sentita esclamare:
“Oh cazzo, Lucy… non stava scherzando!”
La donna più anziana (Lucy, ho immaginato) l’ha raggiunta e la sua compagna le ha appoggiato la testa contro il grembo.
“Perché non ho mai nemmeno saputo che esisteva questo posto?” ha chiesto Lucy a Marietta.
“Era il nostro piccolo segreto”, ha risposto mia sorella.
“Ma adesso che sappiamo dov’è”, ha detto una delle donne, avvicinandosi a Marietta, “verremo a fare festa qui tutti i giorni.”
“Per me va benissimo”, ha risposto mia sorella. Si è voltata a guardare Alice e l’ha baciata sulla bocca. “Possiamo fare…” un altro bacio “… quel diavolo…” un altro bacio “… che vogliamo.”
Detto questo, lei e Alice si sono incamminate verso casa. Ho deciso che era arrivato il momento di andare a salutarle. Sono uscito sotto la luce della luna e ho chiamato Marietta.
“Eddie!” ha esclamato lei, spalancando le braccia. “Eccoti! Guardaci! Siamo sposate! Siamo sposate!” L’ho raggiunta e ci siamo abbracciati. “Avete invitato anche il pastore a festeggiare?” le ho chiesto.
“Non abbiamo avuto bisogno di un pastore”, ha esclamato Alice. “Abbiamo pronunciato i voti davanti alle nostre amiche e davanti a Dio.”
“Poi ci siamo ubriacate”, ha aggiunto Marietta. “Ti voglio bene, Eddie. So che non te lo dimostro spesso ma…”
Io l’ho stretta con forza. “Sono fiero di te”, le ho detto.
Marietta si è voltata verso le sue arniche. “Ascoltate, ragazze! Voglio presentarvi mio fratello Eddie. È l’unico uomo sul pianeta che valga qualcosa.” Mi ha preso la mano. “Eddie, saluta le ragazze. Lei è Terri-Lynn…” Ha indicato una ragazza bionda che mi ha rivolto un cenno di saluto e un ampio sorriso. “E quella laggiù è Louise, ma non chiamarla così se non vuoi che ti prenda a calci in culo. Preferisce essere chiamata Louie. Poi non dirmi che non ti ho avvertito.”
Louie, che aveva un fisico da culturista, si è passata una mano tra i capelli e mi ha salutato. La donna accanto a lei, che aveva un’aria tanto dolce quanto quella di Louie era severa, si è presentata senza bisogno dell’aiuto di Marietta.
“Io sono Rolanda”, ha detto.
“Piacere di conoscerti”, ho replicato. Rolanda aveva una bottiglia di whisky in mano e me l’ha passata. “Vuoi un sorso?”
Io ho accettato e ho bevuto una lunga sorsata.
“E quelle sono Ava e Lucy”, ha concluso mia sorella. Mi ha preso la bottiglia di whisky, si è riempita la bocca con una sorsata di liquore e l’ha passata ad Alice con un bacio.
“Credo che Ava abbia bisogno di sdraiarsi per un po’ ”, ha detto Lucy. “È ubriaca fradicia.”
“Alice la accompagnerà in casa”, ha aggiunto Marietta. “Devo scambiare due parole con mio fratello. Vai pure, tesoro!” ha detto ad Alice, facendola voltare e dandole una pacca sul sedere. “Portale in casa. Vi raggiungo subito.”
“Dove vuoi che andiamo?” ha chiesto Alice.
“Dove volete”, ha risposto Marietta facendo un ampio gesto con la mano.
“Non al piano di sopra”, ho detto io.
“Oh, Eddie. Non farà male a nessuno, vedrai.”
“Di che state parlando?” ha chiesto Rolanda.
“Di mia madre.”
“Ci penserà Louie. Adora il pugilato.”
“Be’, non è proprio il genere di Cesaria”, ho detto io. “Comunque restate al piano di sotto e andrà tutto bene.”
“Posso riavere la mia bottiglia?” ha chiesto Rolanda.
“No, non puoi”, ha risposto Marietta. Rolanda si è accigliata. “Sei già abbastanza ubriaca.”
“Oh, e tu no?” ha ribattuto Rolanda. Poi mi ha guardato. “So cosa stai pensando”, ha esclamato con un sorriso malizioso.
“Oh, davvero?”
“Stai pensando: se solo fossi una donna, stanotte potrei spassarmela. E sai una cosa? È proprio così.” All’improvviso mi ha messo una mano sull’inguine. “È un vero peccato che tu abbia questo coso quaggiù.” Ha sogghignato. Non ho nemmeno tentato di ribattere e dopo un istante lei se ne era già andata.
“E così queste sono le tue amiche…” ho detto a Marietta.
“Non sono fantastiche? Certo, non sono sempre così, ma questa è una serata speciale.”
“Che cosa gli hai raccontato?”
“Di cosa?”
“Della casa. Di noi. Di Cesaria.”
“Eddie, vuoi smetterla di preoccuparti? Non riuscirebbero a ritrovare la strada per arrivare qui neanche se ne andasse della loro vita. E comunque mi fido delle ragazze. Sono le mie amiche. Voglio che siano le benvenute qui.”
“Bene, allora perché non apriamo la casa a tutti?” ho ribattuto io.
“Non è affatto una cattiva idea”, ha detto Marietta. “Dobbiamo pur cominciare da qualche parte.” Si è voltata a guardare la casa. Tutte le sue amiche erano già entrate.
“Di cosa volevi parlarmi?” le ho chiesto.
“Volevo brindare con te”, ha risposto lei, sollevando la bottiglia.
“A qualcosa in particolare?”
“A te. A me. Ad Alice. All’amore.” Mi ha sorriso. “È un vero peccato che tu sia un maschio, Eddie. Potrei trovarti una fidanzata adorabile…” È scoppiata a ridere fragorosamente. “Oh Eddie, quanto vorrei avere una macchina fotografica. Sei arrossito.”
“Non è vero.”
“Oh, fidati di me. Sei arrossito.” Mi ha dato un bacio sulla guancia che, lo ammetto, probabilmente era arrossata.
“Ho bisogno di vivere un po’ ”, ho detto.
“Allora è questo il nostro brindisi”, ha esclamato Marietta, “al sentirsi vivi, alla vita.”
“Beviamoci sopra.”
“È passato così tanto tempo.” Lei si è portata la bottiglia alle labbra, ha bevuto e poi me l’ha passata. Io ho ingollato un altro sorso, rendendomi conto che se fossi andato avanti così ben presto sarei stato sbronzo quanto le amiche di mia sorella. Avevo mangiato solo un panino durante tutta la giornata e quello era il terzo sorso di whisky oltre al gin che avevo bevuto in meno di mezz’ora. E che diavolo! Non capitava tutti i giorni di trovarsi in mezzo a un gruppo di belle donne ubriache.
“Andiamo dentro”, mi ha invitato Marietta, prendendomi sottobraccio. Mentre ci dirigevamo verso casa, si è appoggiata contro di me.
“Sono così felice”, ha detto quando siamo arrivati alla porta.
“Sicura che non sia solo per via del whisky?”
“Sicura, non è il whisky. Sono felice. Scoppio di felicità. Che notte stupenda.” Si è girata a guardare il giardino per un attimo. “Oh, mio Dio! Guarda.”
Mi sono voltato per scoprire cosa aveva attratto la sua attenzione. In mezzo al prato c’erano quattro iene che ci stavano fissando. Non c’era niente di minaccioso nei loro sguardi ma la loro vicinanza alla casa era davvero sorprendente. La diffidenza naturale sembrava sparita. Erano diventate di colpo coraggiose. Tre di esse si sono fermate quando si sono accorte che le stavamo osservando, ma la più grande ha continuato ad avvicinarsi e si è fermata solo a quattro o cinque metri da noi.
“Credo che questa signorina voglia entrare”, ha detto Marietta.
“Come fai a sapere che è una lei?” le ho chiesto. “Pensavo che non si potessero distinguere le femmine dai maschi.”
“Riconosco una ragazza quando la vedo”, ha risposto mia sorella. “Ehi, tesoro”, ha detto alla iena, “vuoi entrare e unirti alla festa?”
La iena ha annusato l’aria, poi ha gettato un’occhiata alle sue compagne che stavano osservando la scena, ma non si è avvicinata ulteriormente. Forse aveva deciso che avrebbe fatto meglio a studiare la situazione prima di avventurarsi in casa. E così si è sdraiata sul prato e ha appoggiato il muso sulle zampe.
Io e Marietta siamo entrati. Era solo una questione di tempo, ho pensato. Ben presto la iena avrebbe trovato il coraggio di varcare la soglia. E poi? Dopo i festeggiamenti per il matrimonio e le iene, quanto avremmo dovuto attendere prima che arrivassero le volpi e gli uccelli? L’Enfant dopo tanto tempo sarebbe stato affollato all’interno quanto lo era all’esterno. Forse dopo tutte le mie cupe previsioni questa casa non sarebbe morta di una morte violenta ma sarebbe stata portata dolcemente alla rovina dagli animali che avevano prosperato attorno a essa. E in fondo, non avevo forse previsto anche quell’eventualità molti mesi fa? Il pensiero che la mia previsione potesse rivelarsi esatta era sorprendentemente piacevole.
Ho lasciato la porta aperta, in modo che la iena sapesse di essere la benvenuta.
Perché è più difficile descrivere i momenti felici di quelli tristi? Mi è stato facile evocare le scene di dolore e devastazione che hanno occupato Dio solo sa quante pagine, ma adesso che mi trovo a dovervi parlare delle tre bellissime ore che ho trascorso con la mia adorata Marietta e la sua tribù, mi accorgo che mi mancano le parole. Sono stato semplicemente felice in compagnia di quelle donne chiassose e divertenti.
Comunque, alla fine l’alcool e il passare delle ore hanno messo fuori combattimento anche le più accanite del gruppo e verso mezzanotte ci siamo separati e ciascuno è andato per la sua strada. Ho trovato un momento per informare Marietta della partenza di Dwight e così lei ha invitato Rolanda e Terri-Lynn a prendere il suo letto per la notte. Ava era stata sistemata sul divano fin dall’inizio della serata e Lucy l’aveva raggiunta. Louie è rimasta dove si trovava, ovvero al tavolo da pranzo con la testa fra le mani. Le sposine naturalmente si sono dirette in camera di Marietta, mano nella mano.
Mentre tornavo al mio studio, ho pensato a cosa mi restava da scrivere. Avrei dovuto dedicare un paio di paragrafi alla partenza di Rachel e Galilee dall’isola che, va detto, fu tutt’altro che memorabile. Poi avrei dovuto dedicare un paio di paragrafi alla scoperta dei cadaveri nella casa. Si trattò certamente di un avvenimento più interessante della partenza degli innamorati, segnato da una nota grottesca. Fu proprio il cane cieco che si era fatto coccolare da Rachel a dare l’allarme. Non lo fece sedendosi sulla veranda e ululando, ma presentandosi nel giardino del suo padrone con in bocca un piede umano, staccato a morsi all’altezza della caviglia. Ed era proprio al cadavere di Mitchell Geary, che venne rinvenuto all’interno della casa, che mancava un piede. Per qualche ragione il cane aveva ignorato il corpo dell’uomo sulla veranda ed era andato a cibarsi di quello che giaceva in fondo alle scale.
Il coroner stabilì che entrambi gli uomini erano morti da almeno quarantotto ore. Anche se la polizia diede immediatamente inizio alle ricerche, gli investigatori ipotizzarono subito che l’assassino fosse già fuggito da tempo e che avesse già lasciato l’isola. C’erano molte prove che riconducevano a Rachel: i suoi bagagli nella camera da letto, le sue impronte digitali sul corrimano vicino a dove giaceva Mitchell Geary. In seguito, comunque, le analisi della scientifica fornirono alcune valide ragioni per dubitare della sua colpevolezza: il proprietario di un emporio identificò Mitchell come l’uomo che aveva acquistato l’arma del delitto; e sul coltello furono trovate solo le impronte di Mitchell. Ma il fatto che non fosse stata lei a sferrare il colpo fatale non la scagionava del tutto. Ben presto sui giornali comparvero le teorie più disparate su ciò che era accaduto alla casa. Secondo la più accreditata, Mitchell si era recato sull’isola per riprendersi sua moglie ma, sospettando che lei avesse architettato un piano per ucciderlo, si era procurato un’arma. Poi aveva ucciso l’uomo che lei aveva assoldato per assassinarlo e alla fine — forse lottando con Rachel — era caduto giù dalle scale ed era morto per una pura fatalità.
Non mancarono i commenti su queste teorie — un paio degli articolisti più attenti notarono quanto fossero sempre stati difficili i rapporti tra i Geary e le loro consorti. Alcuni sostennero addirittura di aver previsto la tragedia, e dissero che si era trattato di un evento inevitabile. Quella era una coppia nata all’inferno, scrisse una delle più velenose giornaliste scandalistiche, e sono sorpresa che ci sia voluto tanto tempo perché si arrivasse a una fine drammatica. Raramente le questioni amorose e matrimoniali sono state facili all’interno della famiglia Geary. Basta guardare la storia della dinastia per trovare la dimostrazione che gli uomini della famiglia troppo spesso hanno trattato le loro mogli come se fossero state poco più che investimenti dotati di un utero, destinati a fruttare figli invece che dollari. C’è da meravigliarsi, quindi, che Rachel Geary abbia voluto opporsi a un destino del genere?
La famiglia non fece dichiarazioni pubbliche sull’argomento, a parte un breve comunicato scritto con estrema cautela da Cecil in cui si diceva che i Geary avevano la massima fiducia nelle indagini della polizia.
Questa volta non vi furono riunioni di famiglia per discutere l’accaduto, né discorsi toccanti di Loretta sul fatto che quell’avversità avrebbe permesso ai Geary di dimostrare la loro forza. Quella era la terza morte che aveva segnato la famiglia nel giro di pochi mesi e ciascuno preferì vivere in privato il proprio dolore. Il funerale di Cadmus venne rimandato di diversi giorni, in modo che il corpo di Mitchell potesse essere riportato indietro dalle Hawaii e che si potesse organizzare una cerimonia congiunta. Loretta non si occupò dei preparativi: lasciò questo compito a Carl Linville. Accompagnata da Jocelyn, si recò nella casa di Washington, dove non rispose alle telefonate e si rifiutò di parlare con chiunque a parte Cecil. Aveva perso il suo ultimo alleato, ora che il principe era morto. Solo il tempo avrebbe potuto dire se il piano di Loretta per controllare la famiglia avrebbe avuto successo o meno; per il momento, il mondo avrebbe dovuto fare a meno di lei.
Solo Garrison sembrò non essere toccato da quegli avvenimenti. Quando si recò alle Hawaii per riportare a casa la salma del fratello, attraversò le orde di fotografi e giornalisti che lo stavano attendendo all’aeroporto come un uomo che avesse ritrovato la voglia di vivere. Non che si esibisse in sorrisi che l’opinione pubblica avrebbe trovato di cattivo gusto, ma tutti quelli che lo conoscevano e conoscevano il brusco linguaggio del suo corpo e la sua riservatezza si accorsero che era avvenuto un notevole cambiamento in lui. Era come se Garrison avesse ereditato le doti e soprattutto la sicurezza che avevano sempre contraddistinto il principe Mitchell. Passò attraverso i giornalisti senza dire una parola, ma dispensando cenni che sembravano dire: Ora sono io al potere.
Quando arrivò sull’isola, il suo primo dovere fu quello di andare all’obitorio di Lihue per confermare l’identificazione del corpo di Mitchell. Fatto questo, venne accompagnato in macchina fino alla casa, dove gli fu concesso di restare da solo per un po’. Quando, dopo mezz’ora, il capitano della polizia che lo aveva accompagnato non lo vide uscire, entrò e scoprì che non c’era nessuno. Garrison aveva da tempo finito di riflettere ed era andato sulla spiaggia. Lui, vestito di nero e con le mani sprofondate nelle tasche, si stagliava contro il mare bianco e turchese. Garrison stava fissando l’oceano e non si mosse per altri quindici minuti. Quando tornò alla macchina, stava sorridendo.
“Andrà tutto bene”, disse.
Non esistono vere conclusioni per tutti questi eventi. Tutte queste vite continueranno anche oltre la fine del libro che state leggendo; ci sarà sempre qualcos’altro da raccontare. Ma devo tracciare una linea e ho deciso di farlo adesso, osservazione più osservazione meno. Per quanto possa essere tentato dall’idea di riprendere il filo dei fatti a cui ho solo accennato, non ho comunque il coraggio di farlo.
Quindi lasciate che vi racconti ciò che è accaduto quando, dopo aver vagato per un po’ per la casa e dopo aver riflettuto su quanto avevo appena scritto, sono arrivato nell’atrio.
Ho alzato gli occhi e là, in cima alle scale, ho scorto un movimento tra le ombre.
Ho pensato che si trattasse di Zabrina e l’ho chiamata, ma mentre pronunciavo il suo nome mi sono reso conto del mio errore. La sagoma che avevo visto sulle scale era sottile e in qualche modo vaga.
“Zelim?” ho azzardato.
Con passo esitante, la sagoma ha fatto qualche gradino. Sì, era proprio Zelim, o ciò che restava di lui. La sua presenza stava al suo vecchio sé, come il suo vecchio sé stava al pescatore di Atva. Era il fantasma di un fantasma, una sagoma ormai quasi impalpabile. Era come un’anima di fumo che manteneva quella forma solo perché non c’era un alito di vento che la disperdesse. Ho trattenuto il fiato. Zelim sembrava talmente fragile che temevo che persino il mio respiro potesse dissolverlo.
Tuttavia aveva abbastanza forza per parlare: una voce tremolante, certo, che si affievoliva sillaba dopo sillaba, eppure dotata di una strana eloquenza. Ho sentito subito la felicità che provava e ho capito che cos’era successo ancora prima che me lo dicesse lui.
“Cesaria mi ha lasciato libero…” ha dichiarato.
Ho ricominciato a respirare. “Sono felice per te”, ho detto.
“Ti… ringrazio…” In quell’ultima fase della sua esistenza, i suoi occhi erano diventati grandi come quelli di un bambino.
“Quando è successo?” gli ho chiesto.
“Solo… pochi… minuti fa…” ha risposto lui. La sua voce era così flebile che quasi faticavo a udirla. “Appena… appena… ha saputo…”
Non sono riuscito a sentire il resto della frase, ma non ho perso tempo a chiedergli di ripetere per paura di sprecare quegli ultimi momenti. Così sono rimasto in silenzio. Zelim era quasi scomparso ora. Non solo la sua voce, ma anche la sua presenza fisica si dissolveva col passare di ogni istante. Non provavo dolore per lui — come avrei potuto quando aveva espresso così chiaramente il suo desiderio di abbandonare il mondo? — tuttavia quello era uno spettacolo stranamente malinconico: un’anima che veniva cancellata davanti ai miei occhi.
“Ricordo…” ha mormorato “… quando è venuto a prendermi…”
Di cosa stava parlando?, mi sono chiesto.
“… a Samarcanda…” ha continuato Zelim. Oh, adesso capivo. Avevo parlato degli eventi che lui stava rievocando, li avevo descritti proprio in queste pagine. Zelim, il vecchio filosofo seduto tra i suoi studenti, intento a raccontare una storia su Dio; Zelim, che aveva alzato lo sguardo e aveva visto uno sconosciuto in fondo alla stanza ed era morto. Ma alla sua morte era stato chiamato al servizio di Cesaria Yaos. Ora che aveva esaurito il suo compito, Zelim stava ripensando — con affetto, a giudicare dall’espressione dolce che gli animava gli occhi — a come era stato chiamato; e da chi. Da Galilee, naturalmente. Ha detto:
“Lui è qui”.
Con quelle ultime tre parole, Zelim ha abbandonato la vita oltre la morte ed è scomparso, fumo e anima.
Lui è qui.
Galilee qui? Mio Dio! Non sapevo se mettermi a gridare con tutto il fiato che avevo in corpo o andare a nascondermi. Ho guardato di nuovo verso la cima delle scale, aspettandomi di vedere Cesaria, aspettando che mi chiedesse di andarlo a prendere e di portarlo da lei. Ma non c’era nessuno e la casa era immobile come lo era stata nel momento in cui Zelim aveva pronunciato le sue ultime parole.
Possibile che Cesaria non si fosse resa conto che Galilee era qui? No, naturalmente no. La casa le apparteneva e nel momento in cui lui aveva varcato la soglia delTEnfant, Cesaria aveva sentito il suo respiro e il battito del suo cuore.
Sapeva che sarebbe tornato presto o tardi, e lo aveva semplicemente aspettato. Poteva permettersi di essere paziente dopo tutti quegli anni lunghi e solitari.
Non sono rimasto nell’atrio ed ero a pochi metri dalla porta del mio studio, quando ho sentito lo squisito profumo di un sigaro avana. Ho aperto la porta e là, seduto dietro la mia scrivania, c’era il grande viaggiatore in persona, intento a sfogliare il mio libro mentre fumava uno dei miei sigari.
Quando sono entrato ha alzato gli occhi su di me e mi ha rivolto un sorriso quasi imbarazzato.
“Mi dispiace”, ha detto. “Non sono riuscito a resistere.”
“Al sigaro o al libro?” ho ribattuto.
“Oh, al libro”, ha replicato lui. “È una storia notevole. C’è qualcosa di vero?”
Non gli ho chiesto quanto ne avesse letto o cosa pensasse delle mie eccentricità stilistiche. E non ho risposto alla sua domanda provocatoria sulla veridicità di quanto avevo scritto. Nessuno conosceva la verità meglio di lui.
Ci siamo abbracciati, lui mi ha offerto uno dei miei sigari, che ho rifiutato, e infine mi ha chiesto perché ci fossero così tante donne in casa.
“Siamo passati da una stanza all’altra”, ha spiegato, “in cerca di un letto dove riposarci e…”
“Come sarebbe a dire siamo?”
Lui ha sorriso. “Oh, andiamo, fratello…”
“Rachel?” ho chiesto. Galilee ha annuito. “Rachel è qui?”
“Naturalmente. Credi che potrei mai stare lontano da lei dopo tutto quello che abbiamo passato?”
“Dov’è adesso?”
Lui ha spostato lo sguardo verso la porta della mia camera da letto. “Sta dormendo”, ha risposto.
“Nel mio letto?”
“Non ti dispiace, vero?”
Non sono riuscito a impedirmi di sorridere. “No, certo che no.”
“Be’, sono contento di aver reso felice almeno te in questa dannata casa”, ha replicato Galilee.
“Posso… vederla un attimo?”
“E perché?”
“Perché sono nove mesi che sto scrivendo la sua storia. Vorrei vederla…” Che cosa volevo vedere? Il suo viso? I suoi capelli? La curva della sua schiena? D’improvviso mi sono reso conto di provare una sorta di desiderio per lei. Qualcosa che avevo provato per tutto il tempo senza rendermene conto. “Voglio solo vederla.”
Non sono rimasto ad aspettare che Galilee mi desse il permesso. Mi sono alzato e sono andato alla porta della camera da letto. Il letto era illuminato dal chiarore della luna e là, sdraiata su una vecchia coperta, c’era la donna dei miei sogni a occhi aperti. Non riuscivo a crederci. Eccola: Rachel Pallenberg-Geary-Barbarossa, i suoi capelli lucidi sullo stesso cuscino su cui avevo appoggiato la testa per tante notti chiedendomi come modellare la storia della sua vita. Rachel a Boston, Rachel a New York, Rachel convalescente a Caleb’s Creek, Rachel che camminava sulla spiaggia di Anahola. Rachel disperata, Rachel in extremis, Rachel innamorata…
“Rachel Innamorata”, ho mormorato.
“Cosa?”
Mi sono voltato a guardare Galilee. “Avrei dovuto intitolare così il libro. Rachel Innamorata.”
“È di questo che parla veramente?” ha chiesto lui.
“Non ne ho la più pallida idea”, ho risposto. “Pensavo di saperlo ma forse…” ho spostato lo sguardo sulla donna addormentata “… forse non potrò scoprirlo finché non sarà finito.”
“Non lo hai ancora finito?”
“Adesso che sei qui, no”, ho risposto.
“Spero solo che tu non ti aspetti qualche grande avvenimento”, ha detto Galilee, “perché non è questo che ho in mente.”
“Le cose andranno come devono andare”, ho replicato. “Io sono solo un osservatore.”
“Oh no, invece”, ha replicato Galilee, alzandosi a sua volta. “Ho bisogno del tuo aiuto.” L’ho guardato, senza capire. “Con lei.” ha alzato gli occhi verso il soffitto.
“Lei è tua madre, non la mia.”
“Ma tu la conosci meglio di me. Sei stato qui con lei per tutti questi anni mentre io ero via.”
“E pensi che siamo stati qui insieme a bere tè? A parlare delle magnolie? L’ho vista raramente. È rimasta quasi sempre nelle sue stanze, a ribollire di rabbia.”
“Per centoquarant’anni?”
“Aveva le sue buone ragioni. Te. Nicodemus. Jefferson.”
“Jefferson? Non starà ancora pensando a quel perdente?”
“Oh sì. Me ne ha parlato a lungo e…”
“Vedi? Parli con lei. E non negarlo.”
“D’accordo, parlo con lei. Ogni tanto. Ma non sarò io a portarle le tue scuse.”
Galilee è rimasto a riflettere per un istante; poi ha scrollato le spalle. “In questo caso non avrai alcun finale per il tuo libro. Te ne starai quaggiù a chiederti cosa diavolo sta succedendo nelle stanze di Cesaria e non lo saprai mai. Sarai costretto a inventare.”
“Gesù…” ho mormorato.
“Allora, cosa mi dici?”
Aveva toccato il mio punto debole. Cosa c’era di peggio della prospettiva di affrontare Cesaria insieme a Galilee? La prospettiva di restare lì senza sapere che cosa stava succedendo tra di loro. Non avevo altra scelta: dovevo esserci anch’io. Se non avessi assistito al loro incontro, avrei fallito come scrittore. Era un’idea che non potevo sopportare. Avevo già fallito in troppe altre cose.
“D’accordo”, ho affermato. “Mi hai convinto.”
“Bene”, ha detto lui, e mi ha abbracciato forte. Poi ha aggiunto: “Devo svegliare Rachel”.
Io l’ho seguito in camera ma mi sono fermato sulla porta. L’ho guardato mentre si chinava su di lei e la scuoteva con estrema dolcezza per sottrarla al sonno.
Era chiaro che Rachel stava dormendo profondamente perché ha impiegato un attimo a svegliarsi. Ma quando alla fine ha aperto gli occhi e ha visto Galilee, un sorriso le ha illuminato il volto. Oh, quanto amore c’era nel suo sguardo! Quanta felicità nel trovarlo lì accanto a sé.
“È ora di alzarsi, tesoro”, ha sussurrato Galilee.
Rachel mi ha guardato. “Ciao”, ha detto. “Tu chi sei?”
È stato strano, devo ammetterlo, essere salutato in quel modo dalla donna di cui avevo raccontato la vita con la massima cura e che avevo la sensazione di conoscere ormai molto bene.
“Sono Maddox”, ho risposto.
“E stai dormendo nel suo letto”, ha aggiunto Galilee.
Lei si è messa a sedere, il lenzuolo le è scivolato dal corpo nudo e si è affrettata a coprirsi. “Galilee mi ha parlato molto di te”, mi ha detto, anche se ho il sospetto che sia stato solo per nascondere l’imbarazzo.
“Ma non sono come mi avevi immaginato.”
“Non esattamente.”
“Sei più in forma di quando ti ho visto alla palude”, ha detto Galilee dandomi una pacca sullo stomaco.
“Ho lavorato sodo e non ho mangiato un granché.”
“Ah, il tuo libro”, ha esclamato Rachel.
Ho annuito, sperando che avremmo abbandonato l’argomento. Fino a quell’istante non mi ero mai reso conto che Rachel avrebbe potuto chiedermi di farle leggere ciò che avevo scritto su di lei. E quell’idea mi rendeva nervoso. Mi sono rivolto a Galilee: “Sai, penso che dovremmo andare da Cesaria il prima possibile. Lei sa già che sei qui…”
“Vuoi dire che più aspettiamo, più si convincerà che ho paura di affrontarla?” ha chiesto lui. Io ho annuito.
“Vorrei almeno lavarmi la faccia prima di andare”, ha detto Rachel.
“Il bagno è da quella parte”, le ho indicato. Poi sono uscito dalla stanza per non violare la sua privacy.
“È bellissima”, ho sussurrato a Galilee quando mi ha raggiunto. “Sei un uomo davvero fortunato.”
Lui non ha detto niente. Teneva lo sguardo fisso sul soffitto come se si stesse preparando per ciò che lo aspettava al piano di sopra.
“Che cosa vuoi da lei?” gli ho domandato.
“Il suo perdono, immagino. No, anche qualcos’altro.” Ha spostato lo sguardo su di me. “Voglio tornare a casa, Eddie. Voglio portare la donna che amo qui all’Enfant e vivere per sempre qui con lei.” Questa volta sono stato io a non replicare. “Non credi che sia possibile vivere per sempre felici e contenti?”
“Per noi?”
“Per tutti.”
“Ma noi non siamo come tutti gli altri, giusto? Noi siamo i Barbarossa. Per noi le regole sono diverse.”
“Sul serio?” ha detto lui, lo sguardo distante. “Non ne sono così sicuro. Mi sembra che agiamo per le stesse stupide ragioni per cui agiscono anche tutti gli altri. Non siamo migliori dei Geary. Dovremmo esserlo, ma non lo siamo. Siamo sciocchi e confusi quanto loro. È ora che cominciamo a pensare al futuro.”
“È strano, detto da te.”
“Voglio avere dei figli con Rachel.”
“Non mi sembra una buona idea”, ho ribattuto io. “I mezzosangue non servono a nessuno.”
Galilee mi ha appoggiato una mano sulla spalla. “Lo credevo anch’io. Comunque, che razza di padre sarei? È questo che mi sono domandato. Ma è ora, Eddie.” Ha sorriso, radioso. “Voglio riempire questa vecchia casa di bambini. E voglio che imparino ad apprezzare tutte le cose miracolose che noi diamo per scontate!”
“Non penso che sia rimasto qualcosa di miracoloso in questo posto”, ho detto. “Se mai c’è stato.”
“È ancora qui”, ha detto lui. “È dovunque, è tutto attorno a noi. E nel nostro sangue. È nella terra. Ed è lassù, con lei.”
“Può darsi.”
Lui mi ha dato una pacca sulla spalla. “Sii felice, fratello. Sono tornato a casa.”
E così siamo saliti, Galilee, Rachel e io. Abbiamo attraversato la casa buia e silenziosa fino a raggiungere le stanze di Cesaria. Ma lei non c’era. Mentre passavo da una stanza all’altra, bussando leggermente e aprendo le porte, mi sono reso conto che non c’era da meravigliarsi che lei non fosse lì. Doveva essere salita nella stanza del cielo. Il cerchio si stava chiudendo, sempre più in fretta ormai. Il luogo dove tutto era iniziato — dove ero stato visitato dalle prime visioni — esigeva la nostra presenza.
Stavamo per uscire dalla camera da letto deserta, quando ho sentito un ticchettio di unghie sul pavimento e ho visto Tansy, il porcospino preferito di Cesaria che sgattaiolava fuori da sotto il letto. Mi sono chinato e ho raccolto con cautela l’animale. Mi è sembrato molto felice di trovarsi tra le mie braccia, e per qualche ragione la sua presenza in quella stanza mi ha rassicurato.
“Dove andiamo adesso?” ha chiesto Galilee mentre oltrepassavo lui e Rachel per uscire.
“Su, nella stanza del cielo”, ho risposto.
Lui mi ha rivolto un’occhiata ansiosa. “Che cosa ci fa Cesaria lassù?”
“Immagino che dovremo scoprirlo”, ho risposto, e ho fatto strada attraverso il corridoio e poi su, lungo le strette scale. Man mano che salivamo, il porcospino è diventato sempre più irrequieto, un chiaro segno che il mio istinto non si era sbagliato e che Cesaria ci stava aspettando di sopra.
Io ho aperto la porta e mi sono voltato a guardare i due innamorati.
“Sei mai entrato qui?” ho chiesto a Galilee.
“No…”
“Be’, se dovessimo perderci…” ho detto.
“Aspetta. Di cosa stai parlando? Perderci? Non è una stanza così grande.”
“Non è una stanza, Galilee”, ho replicato. “Può anche sembrarlo, ma una volta che si entra si scopre un altro mondo. Il mondo di Cesaria.”
Galilee sembrava decisamente a disagio.
“Allora che cosa dobbiamo aspettarci?” ha chiesto Rachel.
“E impossibile dirlo. Bisogna lasciarsi trasportare dalla corrente, lasciare che accada. E non avere paura.”
“Rachel non ha paura quasi di niente”, ha detto Galilee, rivolgendole un sorriso.
“E, come vi ho già detto, se dovessimo perderci…”
“Continueremo senza di te”, ha concluso Galilee. “D’accordo?”
“D’accordo.”
Con Tansy accoccolato nell’incavo del braccio, ho afferrato la maniglia — con una certa indecisione, devo ammetterlo — e ho aperto la porta. Una parte di me ha osato immaginare che tornando lì avrei conosciuto un nuovo miracolo. Se dopo la prima visita ero guarito dalla mia infermità, cosa sarebbe successo dopo la seconda? Era bello da parte di Galilee decantare le virtù dei mezzosangue, ma non riuscivo a trovare alcuna particolare gloria in quella condizione; tutt’altro. Rientrando nel cuore del mondo di Cesaria sarei stato forse guarito dalla mia natura ibrida? Sarei diventato completamente divino?
Quell’affascinante possibilità mi ha reso più coraggioso di quanto sarei stato normalmente. Lanciando una breve occhiata alle spalle per controllare che Rachel e Galilee mi stessero seguendo, sono entrato nella stanza. A prima vista sembrava vuota ma sapevo per esperienza che non ci si poteva fidare delle apparenze. Cesaria era lì. Ne ero certo. E se lei era lì, allora doveva esserci anche la sua corte di visioni e trasformazioni. Era solo una questione di tempo e poi sarebbero apparse.
“Bella stanza”, ha osservato Galilee alle mie spalle.
C’era una sfumatura ironica in quel suo commento; sicuramente stava pensando che dovevo aver sopravvalutato la natura miracolosa di quel luogo. Non ho detto niente per giustificarmi. Ho trattenuto il fiato. Sono trascorsi alcuni secondi. Il porcospino tra le mie braccia si era fatto più tranquillo. Strano, ho pensato. Ho tratto un profondo respiro, molto lentamente. Ancora niente.
“Sei sicuro…” ha cominciato a chiedere Galilee.
“Shhh.”
Non ero stato io a zittirlo, era stata Rachel. Ho sentito i suoi passi alle mie spalle e con la coda dell’occhio l’ho vista inoltrarsi nella stanza. Non era più accanto a Galilee. In altre circostanze, mi sarei voltato e avrei dato a mio fratello del codardo, ma quello era un momento troppo intenso per simili sciocchezze. Ho continuato a fissare Rachel mentre si avvicinava al centro della stanza. Aveva zittito Galilee perché aveva udito qualcosa; ma cosa? Io non riuscivo a sentire altro che il rumore dei nostri respiri e dei passi di Rachel sulle assi nude. Eppure sembrava che lei stesse ascoltando un qualche suono. Ha inclinato leggermente la testa, e in quel momento ho capito qual era il suono che stava cercando di cogliere: era un mormorio sibilante così debole che se Rachel non lo avesse sentito avrei potuto scambiare per il ronzio del mio sangue.
Lei ha abbassato lo sguardo e io mi sono accorto che le assi avevano subito un cambiamento quasi impercettibile. Le fessure stavano scomparendo e i dettagli e le venature di ogni asse stavano mutando. Ovviamente Rachel poteva sentire quella trasformazione sotto i suoi piedi: il flusso di energia scaturiva dal centro della stanza e si stava dirigendo verso di lei.
Ho messo insieme il suono che stavo ascoltando con il mutamento delle assi: il legno stava diventando sabbia; sabbia sollevata da una brezza leggera ma continua.
Rachel si è voltata a guardarmi e mi sono reso conto che non era preoccupata da ciò che stava accadendo, ma divertita, piuttosto.
“Guarda”, ha esclamato. Poi a Galilee: “Va tutto bene, tesoro”. Ha teso una mano verso di lui e mio fratello l’ha raggiunta, gettandomi un’occhiata ansiosa. Il vento stava soffiando più forte ora, e le assi erano scomparse del tutto. C’era solo sabbia sotto i nostri piedi, infiniti granelli di sabbia che luccicavano rotolando via.
Galilee ha raggiunto Rachel e l’ha presa per mano, e io mi sono chiesto che luogo fosse quello che stava prendendo forma attorno a noi. Le pareti della stanza erano scomparse per lasciare il posto a una foschia blu-grigia; ho alzato gli occhi al cielo e mi sono accorto che anche la cupola era svanita. Là, dove fino a qualche istante prima c’era stata una solida volta di legno e intonaco, adesso c’erano solo stelle. L’oscurità tra una stella e l’altra stava diventando più profonda e il chiarore degli astri più intenso. Per qualche secondo ho avuto l’impressione di cadere verso il cielo. Poi ho spostato lo sguardo su Rachel e Galilee prima che l’illusione si impossessasse completamente di me e ho visto le dita delle loro mani che si intrecciavano.
Mi sono sentito attraversare da una strana corrente e Tansy è balzato a terra, sulla sabbia davanti a me. Io mi sono accovacciato per controllare che non si fosse fatto male: in un certo senso, era strano preoccuparsi delle condizioni di un porcospino mentre la terra e le stelle venivano ricreate. Ma Tansy non aveva affatto bisogno del mio aiuto e si è allontanato con la sua buffa andatura prima che potessi toccarlo. Io sono rimasto a osservarlo per un attimo prima di sollevare lo sguardo. Ciò che ho visto a quel punto mi ha fatto dimenticare di colpo tutto il resto.
Non c’era nessuna scena apocalittica davanti a me; niente piogge di fuoco, niente animali terrorizzati. C’era solo un paesaggio che conoscevo. Avevo camminato lì solo con l’immaginazione, ma forse proprio per questo mi era ancora più familiare.
Alla mia destra c’era una foresta, fitta e scura. E alla mia sinistra, c’erano le acque calme del Mar Caspio.
Due anime vecchie come il paradiso scesero alla spiaggia in quell’antico mezzogiorno…
Quello era il luogo in cui aveva camminato la sacra famiglia; il luogo in cui Zelim il pescatore aveva lasciato i suoi compagni per fare un incontro che non solo avrebbe cambiato la sua vita ma anche la vita che avrebbe vissuto dopo la morte. Il luogo degli inizi.
Non c’era niente da temere, lì, mi sono detto. C’erano solo il vento, la sabbia e il mare. Mi sono voltato a guardare la porta ma era scomparsa. Non c’era modo di uscire, di tornare nella casa. E non c’era alcuna traccia della presenza di Cesaria sulla spiaggia. In lontananza, tra le dune, ho avuto l’impressione di scorgere qualche abitazione — Atva, probabilmente — e poi ho notato i resti scheletrici di una barca, le ossa dello scafo nere sotto la luce delle stelle, ma della donna che eravamo venuti a cercare nemmeno una traccia.
“Dove diavolo ci troviamo?” ha chiesto Galilee, come se stesse riflettendo ad alta voce.
“Questo è il luogo in cui sei stato battezzato”, gli ho detto.
“Davvero?” Ha guardato verso le acque placide. “Quando ho cercato di scappare a nuoto?”
“Esattamente.”
“Quanto ti sei allontanato?” gli ha domandato Rachel.
Non sono riuscito a sentire la sua risposta. La mia attenzione era di nuovo fissa sul porcospino, che era tornato indietro e si stava avvicinando alla carcassa della barca annusando la sabbia. Era quasi a metà strada quando ha sollevato la testa, ha emesso uno squittio e ha allungato il passo. Non stava più cercando la strada con l’olfatto: conosceva la sua destinazione, adesso. Qualcuno ci stava aspettando tra le ombre dell’imbarcazione.
“Galilee…?” ho mormorato.
Lui mi ha guardato e io gli ho indicato il relitto. Là — seduta nella barca — c’era la creatrice di tempeste, la virago in persona, una sciarpa di seta scura attorno alla testa.
“La vedi?” gli ho chiesto.
“Sì, la vedo”, ha risposto lui. Poi, a voce più bassa: “Vai prima tu”.
Non ho fatto obiezioni. L’ansia mi aveva abbandonato, scacciata dalla serenità del paesaggio. Non sarebbero state scatenate forze rabbiose, ne ero sicuro. Certo, questo probabilmente significava che la mia speranza di essere elevato dalla mia condizione di mezzosangue era infondata. Ma almeno non avrei corso alcun rischio.
Mi sono avvicinato alla barca. La luce delle stelle mi ha mostrato Cesaria abbastanza chiaramente. Era seduta su una pila di assi e mi stava guardando. Circondata dai resti dello scafo, sembrava che si trovasse al centro di un fiore scuro.
L’Enfants… ci ha detto… ce ne avete messo di tempo.
Tansy era ai suoi piedi. Cesaria si è chinata a raccoglierlo e l’ha preso tra le braccia.
“Ti abbiamo cercata nelle tue stanze…” ho cominciato a spiegare.
Non ho intenzione di tornarci, ha detto lei. Ho pianto troppe lacrime laggiù.
Da quando ci eravamo avvicinati, non aveva staccato lo sguardo da me. Era come se non volesse guardare suo figlio; come se non ne avesse il coraggio per paura di versare le lacrime che non voleva più piangere. Solo allora mi sono accorto di quanto Cesaria fosse emozionata.
“C’è qualcosa che posso fare per te?” le ho chiesto.
No, Maddox, mi ha risposto. Niente. Hai fatto più che abbastanza, bambino mio.
Bambino mio. C’era stato un tempo in cui mi aveva fatto infuriare chiamandomi così. Ma adesso mi sembrava bellissimo. Ero ancora un bambino. Cesaria sembrava volermi dire che dovevo ancora vivere la mia vita.
Penso che dovresti andare, ha detto.
“Dove?”
Attraverso la foresta, ha risposto Cesaria. Come ha fatto Zelim.
Non mi sono mosso. Dopo tutta la paura che avevo provato al pensiero di trovarmi in sua presenza, adesso non volevo altro che trattenermi ancora un po’, godermi il balsamo dei suoi occhi e il miele della sua voce. Con grande difficoltà, ho convinto le mie membra a obbedirmi.
Fai buon viaggio, bambino mio…
È stato così diffìcile allontanarmi, anche se in un certo senso ho avuto la sensazione di essere stato liberato. Avevo pagato la mia libertà con le parole; ogni pensiero che ho scritto su queste pagine è stato una sorta di riscatto. Eppure ero triste all’idea di partire.
Mi sono voltato dopo circa una ventina di passi e sono rimasto a osservare la scena. Era quello il momento. Galilee e Rachel, mano nella mano, si stavano avvicinando alla barca.
Moccioso, gli ha detto Cesaria. Perché ci hai messo tanto?
“Mi sono perso, mamma”, ha risposto Galilee. “Mi sono perso nel mondo. Ma adesso sono a casa.”
Non esiste più una casa a cui fare ritorno, ha detto Cesaria. Non c’è più niente.
“Allora permettimi di ricostruirla”, ha ribattuto Galilee.
Non ne saresti in grado, figlio mio.
“Hai ragione. Ma con la mia Rachel…”
La tua Rachel, ha detto Cesaria, in tono più dolce. Si è alzata dal suo trono di assi e ha fatto un cenno a Rachel. Vieni qui, le ha detto.
Rachel ha lasciato la mano di Galilee e si è avvicinata. Cesaria è uscita dai resti dello scafo e l’ha osservata. Ero troppo lontano per vedere l’espressione del suo viso, ma non stento a immaginare che tormento sia stato quell’esame. Era stato lo stesso per me. Cesaria stava guardando nell’anima di Rachel. Stava per emettere un giudizio definitivo su di lei. Alla fine ha detto:
Sei sicura di volere tutto questo?
“Tutto questo?” ha ripetuto Rachel.
Questa casa. Questa storia. Mio figlio.
Rachel si è voltata a guardare Galilee per un lungo istante e io ho avuto l’impressione di sentire il suono delle stelle che si muovevano sopra di noi, soddisfatte e immutabili.
“Sì”, ha risposto alla fine. “Lui è tutto ciò che voglio.”
Allora è tuo, ha detto Cesaria.
Ha allargato le braccia.
“Questo significa che sono perdonato?” ha domandato Galilee.
Cesaria è scoppiata a ridere. Se non ora, quando? Vieni qui, se non vuoi spezzarmi il cuore un’altra volta.
“Oh, mamma…”
È andato da lei e le ha premuto il viso contro la spalla mentre lei lo stringeva tra le braccia.
“Perdonato?” ha ripetuto Galilee.
Perdonato, ha risposto Cesaria.
Non mi sarei mai aspettato di arrivare alle ultime pagine di questa storia seguendo i passi di Zelim il pescatore, ma è proprio questo che è successo. Lasciandomi alle spalle quella felice riunione, mi sono inoltrato tra gli alberi. Era buio e ben presto ho smesso di cercare una strada da seguire; mi sono limitato ad avanzare attraverso la vegetazione, lasciando che fosse il caso a decidere del mio destino. Ciò che ricordavo del viaggio di Zelim non era poi molto rassicurante. Era emerso da quella foresta solo per essere aggredito da un gruppo di banditi. Speravo di essere più fortunato di lui; speravo che Cesaria in qualche modo mi guidasse e continuasse a vegliare su di me.
Tuttavia il viaggio non si è fatto più facile, anzi. Quando ero ormai convinto che l’oscurità attorno a me non potesse essere più profonda, si è infittita ancora di più. E ben presto mi sono ritrovato a barcollare alla cieca con le braccia protese davanti a me per evitare di finire contro un albero. Questo comunque non ha impedito alla mia faccia, alle mie mani e al mio petto di essere graffiati dalle spine o ai miei piedi di restare impigliati tra gli arbusti. Sono caduto diverse volte, rimanendo senza fiato. Con una certa amarezza, ho ripensato alla benedizione finale di Cesaria. Fai buon viaggio. Visto che quello in cui mi trovavo era il suo mondo, non avrebbe potuto far splendere la luna su di me perché illuminasse il mio cammino?
No, immagino che avrebbe ribattuto che in quel modo sarebbe stato troppo facile. Cesaria non era mai stata inutilmente gentile, nemmeno con se stessa. Soprattutto con se stessa. E non sarebbe cambiata solo perché suo figlio era tornato da lei.
Comunque era troppo tardi per tornare indietro. La spiaggia era scomparsa da tempo alle mie spalle. Non avevo altra scelta che continuare a vagare — come Zelim aveva fatto prima di me — sperando che quel tormento prima o poi finisse.
E così è stato, dopo molto, molto tempo. Ho intravisto una luce color ambra tra gli alberi e, cercando di tenere lo sguardo fìsso sul chiarore, mi sono incamminato in quella direzione. Stava arrivando l’alba, proprio davanti a me; potevo scorgere strati di nuvole colorate, i loro vetri piatti accarezzati dal sole che stava sorgendo. E per dare il benvenuto alla luce, cori di uccelli hanno riempito l’aria attorno a me. Le mie gambe erano ormai molto deboli e il mio corpo tremava per la stanchezza, ma quello spettacolo mi ha dato nuove energie e non più tardi di cinque minuti dopo sono emerso dalla foresta.
Il mio viaggio notturno era stato ben più complesso di quanto avessi potuto immaginare. In qualche modo, gli incanti di Cesaria mi avevano condotto fuori dalla casa e attraverso il parco fino ai confini dell’Enfant. Ed era lì che mi trovavo adesso tra terra sacra e terra secolare; tra il territorio dei Barbarossa e il resto del mondo. Alle mie spalle, c’era un fitto muro di alberi, la vegetazione densa e impenetrabile, mentre davanti a me si estendeva un paesaggio di semplici virtù. Colline che si levavano dai terreni paludosi che circondavano l’Enfant; piccoli gruppi di alberi, campi incolti. Nessun segno di insediamenti umani.
Gli uccelli che avevano salutato il mattino si sono levati in volo e io, guardandoli attraversare quel cielo vasto e luminoso, d’improvviso mi sono sentito infinitamente vulnerabile. Era passato molto tempo dall’ultima volta che mi ero davvero allontanato da casa e sono stato tentato di tornare sui miei passi. C’erano ancora delle faccende in sospeso, mi sono detto: non potevo andarmene nel mondo così, lasciandomi alle spalle la vita che avevo vissuto. Un viaggio come quello aveva bisogno di preparativi. Dovevo dire addio a Marietta, a Zabrina e a Luman; dovevo scrivere le ultime pagine del libro che attendeva sulla mia scrivania; dovevo ripulire il mio studio e riporre le mie carte private. C’era da fare questo, c’era da fare quello.
Naturalmente erano tutte scuse. Stavo solo tentando di posporre il momento spaventoso in cui avrei davvero rivisto il mondo. Era questa la ragione per cui Cesaria mi aveva gettato in quell’improvviso esilio, ne ero certo, per negarmi ogni esitazione e ogni ripensamento, per obbligarmi a uscire sotto l’immensità del cielo. In breve, per costringermi a vivere.
Ero ancora lì e stavo fissando il paesaggio deserto davanti a me quando ho sentito un fruscio nella vegetazione alle mie spalle. Mi sono voltato e con mia grande sorpresa ho visto Luman che emergeva dal fìtto degli alberi, bestemmiando in modo colorito. Quando alla fine mi ha raggiunto, sembrava uno spirito dei boschi impazzito, rametti e spine nella barba e nei capelli. Ha sputato una foglia e mi ha guardato con aria severa.
“Dovresti essermi grato!” ha esclamato.
“Perché?” ho domandato io.
Lui ha sollevato le mani, mostrandomi due zaini di pelle, entrambi vecchi e malconci. Erano così pieni che sembravano sul punto di scoppiare. “Ti ho portato della roba per i tuoi viaggi”, ha detto.
“Be’, è gentile da parte tua.”
Mi ha gettato il più piccolo dei due zaini. Era pesante. E puzzava.
“Un altro dei tuoi pezzi d’antiquariato?” gli ho chiesto, notando che era decorato con la bandiera dei Confederati.
“Infatti”, ha risposto lui. “Li ho trovati nello stesso posto dove ho trovato la sciabola. Lì dentro ci sono anche la tua pistola, dei soldi, una camicia e una fiaschetta di brandy.”
“E nell’altro?” ho chiesto, indicando lo zaino più grande.
“Altri vestiti. Un paio di stivali e… prova a indovinare?”
Ho sorriso. “Mi hai portato il mio libro?”
“Certo. So quanto ci sei attaccato. Te l’ho avvolto in una vecchia bandiera del Sud.”
“Ti ringrazio”, ho detto, prendendo anche il secondo zaino. Era piuttosto pesante. Le mie spalle avrebbero pagato il prezzo della mia verbosità, nei giorni a venire. Ma era bello avere con me il mio libro: era come un figlio da cui non potevo separarmi.
“Sei andato in casa per prenderlo”, ho detto. “So che detesti entrarci…”
Lui mi ha lanciato un’occhiata obliqua. “Una volta era così. Ma le cose stanno cambiando, sai? Animali sdraiati nell’atrio. Donne dappertutto.” Le sue labbra si sono allargate in un sorriso malizioso. “Anzi, ti dirò che sto pensando di tornare a vivere in casa. Quelle signore sono un bello spettacolo.”
“Sono lesbiche”, gli ho fatto notare.
“Per quanto me ne frega potrebbero anche essere del Wisconsin”, ha detto Luman. “Mi piacciono.”
“Come hai fatto a trovarmi?”
“Ti ho sentito quando sei passato vicino alla Casa del Fumo, parlavi da solo.”
“E cosa stavo dicendo?”
“Non ci ho capito molto. Sono uscito e ti ho visto che camminavi tra gli alberi, sembravi un sonnambulo. Ho immaginato che fosse opera sua. Della Signora dell’Amore.”
“Vuoi dire Cesaria?”
Ha annuito. “È così che la chiamava papà. ‘La Signora dell’Amore, tutta ghiaccio e miele.’ Non l’hai mai sentito chiamarla così?”
“No, mai.”
“Mmm… Be’, comunque ho immaginato che avesse deciso di liberarsi di te. Così ho pensato di portarti qualcosa per il viaggio.”
“Grazie. Te ne sono molto grato.” Luman mi è sembrato vagamente a disagio nel sentire i miei ringraziamenti.
“Be’…” ha detto, togliendosi un frammento di foglia da un angolo della bocca. “Sei sempre stato gentile con me, fratello.”
Guardandolo separare foglia e barba, mi sono chiesto se non avessi trascurato uno schema molto semplice nella mia analisi della nostra famiglia; mi sono chiesto se lui non fosse Pan con un altro nome, e se mio fratello non fosse Dioniso, e…
Mi sono rimproverato mentalmente per esser stato così superficiale e ho ringhiato.
“Cosa c’è?”
“Sto ancora scrivendo quel maledetto libro nella mia testa”, ho risposto.
“Te ne dimenticherai quando sarai là fuori”, ha detto Luman, spostando lo sguardo sul paesaggio alle mie spalle. Sul suo viso c’era un’espressione assorta e malinconica. Ho ripensato a quando mi aveva detto che non sarebbe mai potuto tornare nel mondo perché lo avrebbe reso troppo pazzo. Ma mi sono accorto che era tentato dall’idea di rischiare comunque e intraprendere quel viaggio. Ho deciso di essere il suo Mefistofele.
“Vuoi unirti a me?” gli ho chiesto.
Lui non mi ha guardato, ha tenuto gli occhi fissi sulle colline illuminate dal sole. “Certo…” ha borbottato. “Certo che voglio unirmi a te. Ma non lo farò. Almeno non oggi. Ci sono cose che devo fare, fratello. Devo armare tutte quelle signore.”
“Armarle?”
“Già… se hanno intenzione di restare…”
“Non resteranno.”
“Marietta invece dice di sì.”
“Davvero?”
“Davvero.”
Oh mio Dio, ho pensato: dopotutto l’invasione era avvenuta. L’Enfant era caduto. Ma non per mano dei Geary: almeno non ancora. Per mano di una tribù di lesbiche.
“Ma ti ricordi cosa mi hai promesso?” ha continuato Luman.
“Parli dei tuoi figli?”
“Allora ti ricordi.”
“Naturalmente.”
Lui si è illuminato, i suoi occhi scintillavano. “Andrai a cercarli?”
“Sì, andrò a cercarli.”
D’improvviso si è avvicinato e mi ha stretto tra le braccia. “Sapevo che non mi avresti deluso”, ha detto, baciandomi rumorosamente su una guancia. “Ti voglio bene, Maddox. E voglio che porti con te il mio amore, perché ti protegga là fuori.” Mi ha stretto ancora più forte. “Capito?”
Ho ricambiato il suo abbraccio, anche se con una certa goffaggine visto che avevo le braccia appesantite dai due zaini.
“Sai già da dove cominciare a cercarli?” mi ha chiesto quando ci siamo divisi.
“Non ne ho idea”, ho risposto. “Ma ho intenzione di seguire l’istinto.”
“Allora mi riporterai i miei figli?”
“Se è questo che vuoi!”
“Sì è questo che voglio…” ha detto lui.
Mi ha fissato per un lungo istante e nella sua espressione, sono pronto a giurarlo, c’era più affetto di quanto non ne avessi visto in molti, molti anni. Poi Luman si è voltato ed è scomparso tra gli alberi. Gli sono bastati pochi passi per essere inghiottito dal verde e la parete che mi separava dall’Enfant è tornata a essere impenetrabile.
Luman è molto più astuto di quanto si potrebbe pensare. Nel secondo zaino non ha messo solo il mio libro, ma anche una risma di carta, qualche penna e persino dell’inchiostro. Sapeva che avrei voluto descrivere la mia partenza dall’Enfant; che il mio addio alla casa avrebbe segnato anche il mio addio a queste pagine.
E adesso sono qui, seduto sul ciglio della strada a forse tre chilometri da dove io e mio fratello ci siamo salutati, e sto consegnando alla carta questi pensieri. La giornata è stata generosa con me. Questa mattina ha cominciato a soffiare una brezza gentile e il sole è stato caldo ma non troppo. Ho raggiunto questa strada dopo un paio d’ore di cammino e ho deciso di seguirla anche se non ho idea di dove mi porterà. In un certo senso — anche se sono molto lontano dal Mar Caspio — sto ancora seguendo i passi di Zelim; sto viaggiando alla cieca, ma guidato dalla speranza. Dalla speranza di cosa? Forse di un po’ di saggezza, di un indizio che mi aiuti a rispondere alla domanda che avrei voluto porre a Nicodemus: perché sono nato? Probabilmente è chiedere troppo; raramente il mondo sa rispondere a questa domanda, e quando lo fa di solito chi riceve la risposta deve pagare un prezzo molto alto. Le radici dell’albero della conoscenza affondano nel Golgota.
Non ho ancora deciso cosa farò. Ho vissuto sotto un regime dispotico per molto tempo, schiacciato dal tallone della mia stessa ambizione. Adesso sono quasi libero e vivere così potrebbe anche essere una soddisfazione sufficiente. D’ora in avanti sarò solo l’uomo che ha raccontato il ritorno di Galilee e della sua amata al luogo a cui appartengono. Ciò che accadrà dopo è solo una pagina bianca, e anche se vi camminerò sopra non ho intenzione di lasciare traccia del mio passaggio, almeno non con le parole.
Questo non significa che non mi chiederò mai mentre starò viaggiando come stiano procedendo le vite di coloro di cui ho scritto.
Persino ora posso vedere Garrison Geary, di nuovo a casa, dopo il funerale di suo nonno e di suo fratello, seduto nello studio di Cadmus. In grembo tiene il diario di Charles Holt. Sulla parete davanti a lui è appesa la grande tela di Bierstadt. Nella sua mente, Garrison è diventato il pioniere solitario ritratto nel quadro; ma non sono le grandi pianure del Midwest che immagina di conquistare. È l’Enfant. Ha intenzione di prenderlo con la forza. Sa già che cosa farà, una volta che sarà diventato il Signore di quella casa, e sarà qualcosa che cambierà il corso stesso della storia.
A Washington Loretta è sola e anche lei sta meditando sul futuro che l’attende. Mentre guardava i suoi uomini che venivano seppelliti l’uno accanto all’altro, si è domandata se non fosse stata frettolosa quando aveva detto a Rachel che quei misteri erano al di là della loro portata. Siamo solo piccoli esseri umani, aveva detto. Non abbiamo mai avuto una possibilità. Ma nell’oscurità, mentre ascolta il rumore del traffico, Loretta si chiede se le cose stiano proprio così. Avrà bisogno di tempo per dare un senso a quello che è accaduto; ma è una donna intelligente e ormai non ha più nulla da perdere, cosa che la rende formidabile.
Intanto, i bastardi di Luman trascorrono altri giorni cupi in una città di cui non conosco il nome. Il più saggio di loro non si aspetta niente; anche se prima o poi qualcosa potrebbe stupirli.
E gli dèi-squali nuotano nelle acque limpide attorno alle isole.
E gli spiriti delle donne Geary siedono ridendo sotto le grondaie della casa di Anahola.
E alcuni uomini potenti, stanchi dopo un’ennesima giornata passata a fare politica, si recano a porgere i loro cupi rispetti in un tempio nei pressi di Capitol Hill.
E gli dèi continuano a esistere nonostante tutto; e la strada dell’uomo si srotola davanti a noi. E noi camminiamo, come bambini feriti, in attesa di trovare la forza di correre.