PARTE SECONDA La sacra famiglia

Uno

Due anime vecchie come il paradiso scesero alla spiaggia in quell’antico mezzogiorno. Uscirono, accompagnate dal latrato armonioso dei lupi, dalla foresta che in quei giorni raggiungeva ancora le rive del Mar Caspio, un intrico così fìtto e una reputazione così sinistra che nessun individuo osava avventurarvisi per più di qualche metro. Non erano i lupi di cui la gente aveva paura, né gli orsi, né i serpenti: era un’altra specie di creature; generate non da Dio, ma da qualcosa di imperdonabile che stava al Creatore come l’ombra sta alla luce.

La gente del luogo aveva leggende in abbondanza su quella tribù empia, anche se le raccontavano solo a bassa voce dietro porte chiuse. Racconti di creature che vivevano tra i rami e divoravano bambini attirati con l’inganno, o che attendevano accovacciate in pozze fetide tra gli alberi adornandosi delle interiora di amanti assassinati. Nessun narratore degno del suo posto attorno al fuoco mancava mai di aggiungere qualche nuovo abominio per arricchire la leggenda. Le storie chiamavano altre storie, si riproducevano in forme sempre più perverse al punto che gli uomini, le donne e i bambini, che vivevano le loro brevi esistenze nello spazio tra il mare e gli alberi, restavano in uno stato di costante terrore.

Anche a mezzogiorno, in un giorno come quello, di aria tersa e cieli lucidi come i fianchi di un grande pesce, persino oggi, in una luce così brillante che nessun demone avrebbe osato sfidare, c’era la paura.

Per dimostrarvelo, lasciate che vi presenti i quattro uomini che quel giorno stavano lavorando sulla riva, intenti a rammendare le reti per la pesca della sera. Erano tutti inquieti, e questo già prima che i lupi cominciassero a cantare.

Il pescatore più anziano era un certo Kekmet, un uomo di quasi quarant’anni anche se ne dimostrava almeno venti di più. Sul suo volto indurito e corrucciato non c’era segno che lasciasse immaginare che avesse mai conosciuto la felicità. La sua espressione più calorosa era perlomeno accigliata, proprio come in quel momento.

“Stai parlando col buco che ti ritrovi in mezzo alle chiappe”, disse al più giovane dei quattro uomini, un ragazzo di nome Zelim, che alla tenera età di sedici anni aveva già perso sua cugina che era morta abortendo. Zelim si era guadagnato la disapprovazione di Kekmet suggerendo che, dato che la vita su quella spiaggia era così dura, tutti gli abitanti del villaggio avrebbero dovuto prendere i loro averi e trovare un posto migliore dove vivere.

“Non c’è nessun posto dove possiamo andare”, disse Kekmet al giovane.

“Mio padre ha visto la città di Samarcanda”, rispose Zelim. “Mi ha detto che era come un sogno.”

“Infatti”, intervenne l’uomo che lavorava accanto a Kekmet “Se tuo padre ha visto Samarcanda, l’ha vista solo nei suoi sogni. O magari mentre era ubriaco.”

L’uomo, che si chiamava Hassan, sollevò la sua brocca piena di ciò che in quel luogo passava per liquore, latte fermentato dall’odore nauseante che beveva dall’alba al tramonto. Si portò la brocca alle labbra e bevve. Il liquido sudicio gli sfuggì dalla bocca gocciolandogli sulla barba unta. Poi passò la brocca al quarto membro del gruppo, un certo Baru, un uomo straordinariamente grasso e dal pessimo carattere. Bevve rumorosamente e appoggiò la brocca accanto a sé. Hassan non tentò nemmeno di riprendersela. Sapeva che non sarebbe stata una buona idea.

“Mio padre…” disse di nuovo Zelim.

“Non è mai stato a Samarcanda”, lo interruppe il vecchio Kekmet con la voce stanca di chi non vuol più sentir parlare di un certo argomento.

Zelim tuttavia non aveva alcuna intenzione di lasciare che la reputazione del suo defunto fosse messa in discussione in quel modo. Aveva voluto bene al vecchio Zelim che era annegato quattro primavere prima quando la sua barca era incappata in una burrasca improvvisa. Per quanto lo riguardava, se suo padre aveva raccontato di aver visto le innumerevoli glorie di Samarcanda, doveva essere vero.

“Un giorno me ne andrò”, disse Zelim. “E vi lascerò tutti qua a marcire.”

“In nome di Dio, vai!” replicò Baru. “Con tutte le tue chiacchiere mi fai male alle orecchie. Sembri una donna.”

Non appena ebbe sputato quell’insulto su Zelim, il giovane si avventò su di lui, prendendo a pugni il volto flaccido e rosso di Baru. C’erano insulti che sapeva accettare dagli anziani, ma questo era troppo. “Non sono una donna!” gridò, colpendo il suo bersaglio finché il sangue non prese a scorrere dal naso di Baru.

Gli altri due pescatori restarono a guardare. Accadeva raramente che qualcuno nel villaggio intervenisse in una disputa. La gente poteva scambiarsi tutti gli insulti e tutti i pugni che voleva; gli altri o guardavano dall’altra parte o si godevano lo spettacolo. Che importava se veniva versato sangue; che importava se una donna veniva violata? La vita continuava comunque.

Inoltre, Baru sapeva certo difendersi. Si scrollò di dosso Zelim con tanta violenza che il ragazzo venne scagliato lontano, vicino a una delle barche. Riprendendo fiato, Baru lo raggiunse.

“Ti strapperò le palle, piccolo bastardo!” urlò. “Non ne posso più di sentirti blaterare di quel cane di tuo padre. È nato stupido ed è morto stupido.” Mentre parlava, allungò una mano tra le gambe di Zelim come se si apprestasse a mettere in atto la sua minaccia, ma il giovane colpì con un calcio il naso già rotto dell’uomo. Baru ululò ma non indietreggiò. Afferrò il piede di Zelim e lo girò con forza, prima a destra e poi a sinistra. Avrebbe potuto rompergli la caviglia — cosa che avrebbe lasciato il ragazzo storpio per il resto dei suoi giorni — se la sua vittima non avesse afferrato un remo dallo scafo basso della barca. Baru era troppo impegnato a spezzargli la caviglia per accorgersene. Facendo una smorfia per la fatica, sollevò lo sguardo per godersi l’agonia di Zelim e proprio in quell’istante il remo si abbatté su di lui. Non fece in tempo a schivarlo. Fu colpito in piena faccia e la mezza dozzina di denti ancora buoni che aveva andò in frantumi. Cadde all’indietro, lasciando andare la gamba di Zelim, e rimase riverso sulla sabbia, coprendosi con le mani il volto ferito, sangue e imprecazioni che gli scivolavano tra le dita grasse.

Ma Zelim non aveva ancora finito con lui. Si alzò, lasciandosi sfuggire un grido di dolore quando appoggiò a terra la gamba ferita. Poi zoppicò fino al corpo prono di Baru e si mise a cavalcioni del suo grande ventre prominente. Stavolta Baru non tentò nemmeno di muoversi; era troppo stordito. Zelim gli strappò la camicia, scoprendo grandi rotoli di grasso.

“E tu… dai della donna a me?” disse Zelim. Baru gemette qualcosa di incomprensibile. Zelim gli artigliò il petto flaccido. “Hai delle tette più grosse di tutte le donne che conosco.” Lo colpì. “Non è vero?” Di nuovo Baru gemette, ma Zelim non era soddisfatto. “Non sono tette, queste?” gridò, scostando bruscamente le mani con cui Baru si copriva il volto e mettendo in mostra le sue ferite. “Mi hai sentito?”

“Sì…” mugolò Baru.

“Allora dillo.”

“Sono… tette…”

Zelim gli sputò sul volto insanguinato e si alzò. Gli era venuta la nausea, ma non aveva intenzione di vomitare di fronte a quegli uomini. Li disprezzava tutti così tanto.

Voltandosi, incrociò lo sguardo pigro di Hassan.

“Sei stato bravo”, commentò l’uomo in tono di approvazione. “Vuoi qualcosa da bere?”

Zelim allontanò la brocca che gli veniva offerta e spostò lo sguardo sulla spiaggia, oltre il piccolo cerchio di barche. La gamba gli faceva male, come se fosse stata in fiamme, ma era più che determinato ad allontanarsi dagli altri pescatori il prima possibile, per non lasciar trasparire alcun segno di debolezza.

“Non abbiamo ancora finito con le reti”, gli ringhiò Kekmet, mentre lui si allontanava zoppicando.

Zelim lo ignorò. Non gli importava delle barche, né delle reti, né dei pesci che avrebbero pescato quella sera. Non gli importava di Baru, né del vecchio Kekmet, né di quell’ubriacone di Hassan. In quel momento non gli importava nemmeno di se stesso. Non era orgoglioso di quello che aveva fatto a Baru, tuttavia non se ne vergognava. Ormai era accaduto e lui voleva solo dimenticarsene. Scavarsi un buco nella sabbia fino a trovare un posto fresco e umido e dimenticarsi di tutto. A un centinaio di metri dietro di lui, Hassan stava gridando qualcosa, e pur non riuscendo a distinguere esattamente le parole nella voce dell’ubriacone c’era abbastanza paura da convincere Zelim a voltarsi per scoprirne la causa. Hassan si era alzato in piedi e stava guardando in direzione degli alberi più lontani. Zelim seguì la direzione del suo sguardo e vide che un gran numero di uccelli si era levato in volo dai rami e si stava dirigendo in cerchio sopra le cime degli alberi. Era decisamente uno spettacolo insolito, ma Zelim non se ne sarebbe curato più di tanto se un istante più tardi non fosse risuonato l’ululato dei lupi, e insieme ai lupi non fossero emerse due figure dagli alberi. Si trovava esattamente a metà strada tra la coppia e i pescatori, e rimase là, riluttante all’idea di cercare rifugio nella compagnia del vecchio Kekmet e degli altri, ma spaventato per l’avanzare di quei due sconosciuti, che si allontanavano dalla foresta come se nella profondità della vegetazione non vi fosse nulla da temere, e si dirigevano sorridendo verso l’acqua luccicante.

Due

Agli occhi di Zelim non c’era niente di pericoloso in quelle due persone. Anzi, era un piacere guardarle dopo aver osservato i volti da bruti dei suoi compagni pescatori. Camminavano con una grazia che suggeriva forza, che suggeriva membra che non erano mai state spezzate e aggiustate male, che non avevano mai conosciuto i rigori dell’età. Somigliavano all’idea che Zelim aveva di un re e una regina che si allontanavano dal loro palazzo dopo aver fatto il bagno in oli preziosi. La loro pelle (la donna era più scura di qualunque essere umano su cui Zelim avesse mai posato lo sguardo, mentre l’uomo era più pallido) luccicava nel sole, e i loro capelli, lunghi per entrambi, sembravano intrecciati in modo che forme serpentine attraversassero le loro criniere. Tutto questo era già abbastanza straordinario; ma c’era dell’altro. Le vesti che indossavano erano un ulteriore spettacolo stupefacente, perché i loro colori erano più vividi di qualunque cosa Zelim avesse mai visto in vita sua. Non aveva mai visto un tramonto rosso come il rosso di quelle vesti, o un uccello dal piùmaggio altrettanto verde o visto con l’occhio della mente, in un sogno o in un sogno a occhi aperti, un tesoro che scintillasse come i fili d’oro che erano ricamati in quel rosso, in quel verde. Le vesti erano lunghe, e avvolgevano voluttuosamente l’uomo e la donna, eppure Zelim aveva l’impressione di poter vedere le forme dei loro corpi sotto le pieghe; si accorse di desiderare di vederli nudi. Quel desiderio non era causa di vergogna; proprio come era certo che i due non lo avrebbero punito per il suo interesse. Senza dubbio, una bellezza simile, quando veniva mostrata al mondo, si aspettava di essere venerata.

Zelim non si era mosso da quando li aveva visti, ma ora il loro percorso verso la riva li stava portando più a vicino a lui, e man mano che la distanza diminuiva gli occhi del giovane scoprivano altri dettagli meravigliosi. La donna per esempio indossava numerosi gioielli — cavigliere, collane, bracciali — tutti scuri come la sua pelle, eppure dotati di una misteriosa iridescenza che li faceva luccicare in quell’oscurità. Anche l’uomo aveva le sue decorazioni: elaborati disegni dipinti o tatuati sulle gambe, che erano visibili quando la veste si scostava dal corpo.

Ma il dettaglio più sorprendente del loro aspetto non gli fu chiaro finché non furono a pochi metri dall’acqua. La donna, sorridendo al suo compagno, si scostò la veste dal petto e tra le sue braccia comparve un bambino. Il piccolo si mise immediatamente a piangere per essere stato separato dal conforto del seno materno — Zelim non poteva biasimarlo; avrebbe fatto esattamente la stessa cosa — ma smise subito quando sia la madre sia il padre incominciarono a parlargli. C’era mai stato un bambino più benedetto di quello?, si chiese Zelim. Trovarsi avvolto da quelle braccia, alzare lo sguardo su quei volti, essere certi di provenire da radici come quelle: se era possibile una gioia più grande, lui non riusciva a immaginarla.

La famiglia aveva raggiunto l’acqua, ora, e l’uomo e la donna stavano parlando tra loro. Non era una conversazione leggera. I due si fronteggiavano e il modo in cui scuotevano la testa e si accigliavano diceva chiaramente che c’era qualche problema tra loro.

Il bambino, che fino a qualche istante prima era stato al centro delle amorevoli attenzioni dei suoi genitori, ora veniva del tutto ignorato. La discussione si stava facendo più accesa, e per la prima volta da quando aveva posato lo sguardo su quell’uomo e su quella donna, Zelim si chiese se non fosse il caso di allontanarsi. Se uno dei due — o, che Dio lo aiutasse, entrambi — avesse perso la pazienza, Zelim non avrebbe voluto assistere alla potenza che sarebbe stato in grado di scatenare. Ma, per quanto intimorito fosse, non poteva staccare lo sguardo da quella scena. Qualunque fosse il rischio a cui stava andando incontro, non era niente in confronto al dolore che avrebbe patito se si fosse negato quella vista. Aveva il sospetto che il mondo non gli avrebbe mai più mostrato simili glorie. Trovarsi in presenza di quelle persone era un privilegio non descrivibile a parole. Se se ne fosse andato, spinto da qualche stupido timore, allora si sarebbe meritato la stessa morte alla quale aveva cercato di sottrarsi. Solo gli uomini coraggiosi ottenevano doni come quello; se lo aveva ricevuto per caso (come sicuramente era successo), Zelim avrebbe sorpreso il suo destino e sarebbe stato all’altezza della situazione. Avrebbe tenuto gli occhi aperti e non sarebbe indietreggiato; avrebbe avuto una storia da raccontare ai suoi figli e ai figli dei suoi figli.

Tuttavia, aveva appena formulato quei pensieri quando la discussione tra i due si interruppe e solo allora il ragazzo rimpianse di non essere fuggito. La donna era tornata a occuparsi del bambino ma il suo consorte, che fino a quel momento aveva dato le spalle a Zelim, si era voltato a guardarlo oltre la spalla e, fissandolo, lo chiamò.

Lui non si mosse. Le sue gambe si erano fatte di pietra, il suo intestino d’acqua. D’improvviso, non gli importava più di avere una storia da raccontare ai suoi figli. Voleva solo che la sabbia si ammorbidisse sotto di lui, facendolo scivolare nell’oscurità, dove lo sguardo dell’uomo non avrebbe potuto trovarlo. A peggiorare le cose, la donna si era scoperta i seni e stava offrendo il capezzolo al bambino. Quei seni erano sontuosi, luccicanti e pieni.

Di nuovo, l’uomo lo chiamò con un cenno della mano, ma questa volta parlò.

Vieni qui, pescatore”, disse. Non parlò ad alta voce ma Zelim udì quell’ordine come se gli fosse stato pronunciato nell’orecchio. “Non aver paura”, continuò l’uomo.

“Non posso…” cominciò Zelim, riferendosi alle sue gambe che certamente non gli avrebbero obbedito.

Ma prima che le parole avessero lasciato la sua bocca, i muscoli che erano stati rigidi lo stavano già portando verso colui che l’aveva chiamato. L’uomo sorrise, e nonostante la sua trepidazione, Zelim non poté fare a meno di ricambiare quel sorriso, pensando che se gli altri uomini lo stavano ancora guardando, probabilmente lo avrebbero considerato coraggioso.

Nel frattempo, la donna aveva a sua volta spostato lo sguardo su Zelim, anche se la sua espressione — a differenza di quella del marito — era tutt’altro che amichevole. Ma persino in quel momento di evidente infelicità, il volto della donna era semplicemente sfolgorante.

Zelim ora si trovava a un paio di metri dalla coppia. Si fermò, anche se l’uomo non glielo aveva ordinato.

“Come ti chiami, pescatore?”

Prima che Zelim potesse rispondere, la donna disse: “Non lo chiamerei con il nome di un pescatore”.

“È sempre meglio di niente”, ribatté il marito.

“No”, replicò la donna bruscamente. “Ha bisogno di un nome da guerriero. Oppure niente.”

“Potrebbe anche non diventare un guerriero.”

“Be’, certamente non diventerà un pescatore”, disse la donna.

L’uomo scrollò le spalle. Quell’ultimo scambio di battute aveva fatto sparire il sorriso dal suo volto; chiaramente stava esaurendo la pazienza con la sua signora.

“Allora, sentiamo come ti chiami”, disse la donna.

“Zelim.”

“Ecco”, fece lei, voltandosi a guardare il marito. “Zelim! Vuoi chiamare nostro figlio Zelim?”

L’uomo abbassò lo sguardo sul bambino. “Non mi sembra che gliene importi molto”, commentò. Poi si rivolse a Zelim. “Il tuo nome ti ha trattato bene?”

“Bene?” si stupì Zelim.

“Vuol dire se hai avuto molte donne”, rispose la moglie.

“Anche questo”, protestò il marito. “Se un nome porta buona sorte e belle donne, il ragazzo ci ringrazierà per averlo scelto.” Guardò di nuovo Zelim. “Sei stato fortunato?”

“Non particolarmente”, rispose Zelim.

“E le donne?”

“Ho sposato mia cugina.”

“Non c’è niente di male. Mio fratello ha sposato la mia sorellastra e sono la coppia più felice che abbia mai conosciuto.” Lanciò un’occhiata alla moglie che stava teneramente spostando il cuscino del suo seno per far sì che il latte continuasse a scorrere copioso. “Ma a mia moglie questo non basta. Senza offesa, amico mio. Zelim è un bel nome, davvero. Non è un nome di cui vergognarsi.”

“Allora posso andare?”

L’uomo scrollò le spalle. “Sono certo che hai… pesci da prendere… giusto?”

“Si dà il caso che io odii i pesci”, ribatté lui, stupito di aver confessato quel fatto — che non aveva mai rivelato a nessuno — in presenza di due sconosciuti. “Tutti gli uomini di Atva parlano soltanto di pesce, pesce, pesce.

La donna alzò lo sguardo dal volto del bambino senza nome.

“Atva?” disse.

“È il nome del…”

“… del villaggio”, concluse lei. “Sì, capisco.” Provò di nuovo la parola, diverse volte, pronunciando quelle due sillabe. “At. Va. At. Vah.” Poi: “È semplice e chiaro. Mi piace. Non lo si può corrompere. Non lo si può trasformare in uno scherzo”.

A quel punto fu l’uomo a essere sorpreso. “Vuoi chiamare mio figlio come un qualche piccolo villaggio?”

“Nessuno saprà da dove è venuto il suo nome”, ribatté la donna. “Mi piace il suono, ed è questo che conta. Guarda, anche al bambino piace. Sta sorridendo.”

“Sta sorridendo perché sta succhiando dalla tua tetta, moglie”, replicò l’uomo. “Succede la stessa cosa anche a me.”

Zelim non riuscì a trattenere una risata. Trovava divertente che quelle due persone, che sotto ogni altro aspetto erano esseri straordinari, discutessero come una qualunque coppia di sposi.

“Ma se vuoi Atva”, continuò l’uomo, “non sarò io a intromettermi tra te e i tuoi desideri.”

“Meglio così”, rispose la donna.

“Vedi com’è sempre con me?” disse l’uomo rivolgendosi a Zelim. “Io le do quello che vuole e lei si rifiuta anche di ringraziarmi.” Aveva un’ombra di sorriso sulle labbra; era chiaramente felice di aver concluso quella discussione. “Be’, Zelim, almeno io voglio ringraziarti per il tuo aiuto.”

“Tutti noi ti ringraziamo”, disse la donna. “Soprattutto Atva. Ti auguriamo una vita felice e fertile.”

“Grazie”, mormorò Zelim.

“Ora”, disse il marito, “vuoi scusarci? Dobbiamo battezzare nostro figlio.”

Tre

La vita ad Atva non fu mai più la stessa dal giorno in cui la famiglia scese fino al mare.

Naturalmente Zelim fu tempestato di domande circa la natura del suo scambio di battute con l’uomo e con la donna, prima dal vecchio Kekmet e poi da quasi tutti gli altri abitanti del villaggio. Lui raccontò la verità in modo chiaro e onesto. Ma anche mentre parlava nel profondo di sé sapeva che il semplice riferire le parole che aveva scambiato con la madre e il padre del bambino non corrispondeva del tutto alla verità. In presenza di quella coppia aveva provato qualcosa di meraviglioso; sensazioni che il suo limitato vocabolario non avrebbe potuto esprimere appieno. E per la verità non voleva nemmeno esprimerle. Sentiva una sorta di possessività per quell’esperienza che faceva sì che non si sforzasse più di tanto nel raccontare l’autentica natura di quell’incontro. La sola persona alla quale avrebbe voluto dire tutto era suo padre. Era certo che il vecchio Zelim avrebbe capito; lo avrebbe aiutato con le parole, e se le parole fossero mancate a entrambi, avrebbe semplicemente annuito, dicendo: “È stato lo stesso per me a Samarcanda”, cosa che aveva sempre risposto a chiunque parlasse di qualcosa di miracoloso. È stato lo stesso per me a Samarcanda…


Forse gli abitanti di Atva sapevano che Zelim non stava raccontando tutto quello che sapeva, perché una volta che ebbero posto tutte le loro domande il giovane cominciò a notare un netto cambiamento del loro atteggiamento nei suoi confronti. Persone che da sempre erano state amichevoli con lui, ora gli lanciavano strane occhiate, o distoglievano lo sguardo fingendo di non vederlo. Altri invece manifestavano ancora più apertamente il loro fastidio per la sua presenza; soprattutto le donne. Più di una volta gli capitò di sentir pronunciare ad alta voce il suo nome in qualche conversazione, accompagnato da uno sputo, come se le stesse sillabe che lo componevano avessero un gusto amaro.

Fu proprio il vecchio Kekmet a riferirgli quanto veniva detto sul suo conto.

“La gente dice che stai avvelenando il villaggio”, gli confidò. Zelim trovò la cosa talmente assurda che scoppiò a ridere, ma Kekmet era mortalmente serio. “C’è Baru dietro tutto questo”, continuò. “Ti odia per come gli hai spaccato quella faccia grassa che si ritrova. E così sta mettendo in giro voci su di te.”

“Che genere di voci?”

“Dice che tu e i demoni vi scambiate segnali segreti.”

“Demoni?”

“È così che li ha descritti, quell’uomo e quella donna. Come avrebbero fatto a uscire dalla foresta, altrimenti?, dice. Non potevano essere come noi e vivere tranquillamente nella foresta. È questo che dice.”

“E tutti gli credono?” Kekmet rimase in silenzio. “E tu gli credi?”

Kekmet spostò lo sguardo verso il mare. “In vita mia, ho visto un mucchio di cose strane”, rispose, la voce meno dura adesso. “Là fuori, in particolare. Cose che si muovono nell’acqua che non vorrei mai ritrovare nella mia rete. E a volte nel cielo… sagome tra le nuvole…” Scrollò le spalle. “Non so a cosa credere. Davvero non ha importanza che cos’è vero e che cosa non lo è. Baru ha detto quello che ha detto e la gente gli crede.”

“Che cosa dovrei fare?”

“Puoi restare e aspettare. Sperare che la gente se ne dimentichi. Oppure puoi andartene.”

“E dove?”

“Dovunque purché lontano da qui.” Kekmet tornò a guardare Zelim. “Se vuoi il mio parere, non c’è vita qui per te finché Baru è vivo.”

E così finì la conversazione. Kekmet, come al solito, lo salutò bruscamente, lasciando Zelim a riflettere sulle due possibilità che gli si presentavano. Nessuna gli sembrava molto allettante. Se fosse rimasto e Baru avesse continuato a rinfocolare l’ostilità nei suoi confronti, la vita per lui sarebbe diventata insopportabile. Tuttavia lasciare la sola casa che avesse mai conosciuto, avventurarsi oltre quel lembo di roccia e sabbia, quel gruppo di case rannicchiate sulla terra e viaggiare per il mondo senza una vera meta… per fare una cosa simile gli sarebbe servito un coraggio che non possedeva. Ricordava i racconti di suo padre sulle difficoltà che aveva affrontato nel suo viaggio a Samarcanda: i terrori del deserto; i banditi e i djinn. Non si sentiva pronto a fronteggiare simili minacce; aveva troppa paura.

Trascorse quasi un mese e Zelim si convinse che l’atteggiamento della gente nei suoi confronti si stava ammorbidendo. Un giorno ebbe persino l’impressione che una delle donne gli avesse rivolto un sorriso. La situazione non era tragica come aveva temuto Kekmet. Col passare del tempo, gli abitanti del villaggio avrebbero capito l’assurdità delle loro superstizioni. E nel frattempo lui avrebbe dovuto solo fare attenzione a non dare loro altre ragioni per dubitare.

Ma non aveva tenuto conto dell’intervento del fato.

Accadde così. Dal suo incontro con la coppia sulla spiaggia, Zelim era stato costretto a uscire a pesca da solo perché nessuno voleva più andare con lui. Tutto questo, inevitabilmente, aveva comportato risultati molto modesti. Non poteva lanciare la rete così lontano quando era da solo e doveva contemporaneamente governare la barca. Ma quel giorno, la fortuna gli sorrise nonostante tutto. La sua rete traboccava di pesci, e lui tornò a riva sentendosi piuttosto soddisfatto. Diversi altri pescatori stavano già scaricando i frutti delle loro fatiche, e così un buon numero di abitanti del villaggio si era radunato nei pressi della riva. E, inevitabilmente, molti occhi erano fissi su di lui, mentre scaricava la rete dalla barca per studiarne il contenuto.

C’erano aragoste, pesci gatto, persino un piccolo storione. Ma sul fondo della rete, intento ad agitarsi come se possedesse più vita di qualunque altra creatura naturale, c’era un pesce che Zelim non aveva mai visto prima. Era più grande degli altri pesci che aveva preso, e i suoi fianchi non erano verdi o argentei ma di un rosso cupo. La creatura attirò subito l’attenzione generale. Una delle donne gridò che era un demone-pesce. “Guardate come ci guarda”, urlò la donna con voce stridula. “Oh, Dio del cielo, salvaci! Guardate come ci guarda!”

Zelim non disse niente: era turbato dalla vista di quel pesce quasi quanto lo erano le donne; sembrava davvero che li guardasse dritto negli occhi come per dire: morirete tutti come me, prima o poi, senza fiato.

Il panico della donna dilagò. I bambini cominciarono a piangere e vennero portati via, e fu detto loro di non guardare il demone, e di non guardare Zelim che aveva portato a riva quella cosa.

“Non è colpa mia”, protestò Zelim. “L’ho solo trovato nella mia rete.”

“Ma perché si è infilato nella tua rete?” ribatté Baru, facendosi largo tra i presenti e puntando un indice grasso su Zelim. “Te lo dico io perché. Perché voleva stare con te!”

“Stare con me?” disse Zelim. Quell’idea era ridicola, e così scoppiò in una risata. Ma fu l’unico a ridere. Tutti gli altri guardavano o il suo accusatore o la creatura, che era ancora viva anche se gli altri pesci presi nella rete erano ormai morti. “E soltanto un pesce!” esclamò.

“Io certamente non ne ho mai visto uno simile”, disse Baru. Scrutò la folla che si stava radunando in attesa di un confronto. “Dov’è Kekmet?”

“Sono qui”, rispose il vecchio. Fino a quel momento era rimasto in disparte e Baru gli fece cenno di avvicinarsi. Kekmet lo raggiunse, riluttante. Le intenzioni di Baru erano chiare.

“Da quanto tempo peschi in queste acque?” domandò Baru a Kekmet.

“Da tutta la vita”, rispose il vecchio. “E prima che tu me lo chieda, la risposta è no, non ho mai visto un pesce come questo.” Alzò gli occhi su Zelim. “Ma questo non significa che sia un demone-pesce, Baru. Significa solo… che è la prima volta che ne vediamo uno.”

L’espressione di Baru si fece ancora più maliziosa. “Tu lo mangeresti?” domandò.

“E questo cosa c’entra?” s’intromise Zelim.

“Baru non sta parlando con te”, intervenne una delle donne. Era una creatura amara, quella donna, il volto lungo e pallido quanto quello di Baru era grasso e arrossato. “Rispondi, Kekmet. Ti metteresti in pancia quella cosa?” Guardò il pesce che, per qualche sfortunato caso, proprio in quell’istante ruotò un occhio bronzeo come per ricambiare il suo sguardo. Lei rabbrividì e di punto in bianco afferrò il bastone di Kekmet e cominciò a percuotere la creatura, non una o due, ma venti, trenta volte, con tanta violenza da spappolare la carne. Quando ebbe finito, gettò il bastone sulla sabbia e guardò Kekmet arricciando le labbra e scoprendo i denti marci. “Cosa ne dici?” chiese. “Te lo mangeresti, adesso?”

Kekmet scosse il capo. “Credi quello che vuoi. Qualsiasi cosa dica, non cambieresti idea. Forse hai ragione, Baru. Forse siamo tutti maledetti. Ma sono troppo vecchio e non me ne importa niente.”

Dopodiché, allungò una mano e l’appoggiò sulla spalla di uno dei bambini per sostenersi ora che aveva perso il suo bastone. E guidando il bambino davanti a sé, si allontanò dalla folla zoppicando.

“Hai fatto tutto il male che potevi fare”, disse Baru a Zelim. “Ora vattene.”

Zelim non protestò. A cosa sarebbe servito? Tornò alla barca, prese il suo coltello e andò a casa. Gli ci volle meno di mezz’ora per radunare tutto ciò che possedeva. Quando uscì in strada, la trovò deserta; i suoi vicini — forse per vergogna o forse per paura — si tenevano nascosti. Ma mentre si allontanava, il giovane sentì su di sé i loro occhi; e quasi desiderò che le accuse di Baru fossero vere e di essere capace di maledire gli abitanti del villaggio, facendoli svegliare il giorno dopo con gli occhi ciechi e rattrappiti nelle orbite.

Quattro

Lasciate che vi racconti quello che successe a Zelim dopo che ebbe lasciato Atva.

Deciso a provare — se non altro a se stesso — che la foresta da cui era emersa la famiglia non era un luogo di cui si doveva aver paura, si inoltrò tra gli alberi. L’aria era umida e faceva freddo, e più di una volta il ragazzo prese in considerazione l’idea di battere in ritirata verso il chiarore della spiaggia, ma dopo qualche tempo anche quei pensieri, così come la paura, lo abbandonarono. In quel luogo non c’era niente che avrebbe potuto fare del male alla sua anima. Quando degli escrementi cadevano attorno o su di lui, come capitava di tanto in tanto, a produrli non era una qualche belva divoratrice di bambini come gli era stato insegnato fin da piccolo, ma soltanto un uccello. Quando qualcosa si muoveva nel fitto della vegetazione, e Zelim riusciva a scorgere gli occhi della creatura, non erano quelli di un djinn nomade, ma di un cinghiale o di un cane selvatico.

La sua cautela man mano evaporò insieme alla sua paura, e con un certa sorpresa si rese conto di essere molto di buon umore. Cominciò a canticchiare tra sé, non le canzoni che intonavano i pescatori quando erano in barca insieme, inevitabilmente oscene o tragiche, ma qualche motivetto della sua infanzia, che gli riportava alla mente ricordi piacevoli.

Per nutrirsi, mangiava bacche e beveva acqua dai piccoli ruscelli che si snodavano tra gli alberi. Un paio di volte, tra la vegetazione trovò dei nidi e riuscì a cenare con uova crude. Solo la notte, quando era costretto a riposarsi (dopo il tramonto gli era impossibile sapere in quale direzione stesse viaggiando), l’ansia si impadroniva di lui. Non poteva accendere un fuoco e così era obbligato a sedere nella vegetazione densa di ombre fino all’alba, pregando di non essere fiutato da un orso o da un branco di lupi affamati.

Gli ci vollero quattro giorni e quattro notti per raggiungere l’altro capo della foresta. Quando emerse dagli alberi, era talmente abituato alla semioscurità che il chiarore del sole gli fece venire il mal di testa. Si sdraiò sull’erba al limitare del bosco e si addormentò nella brezza tiepida pensando che sarebbe ripartito quando il sole fosse stato meno accecante. Dormì fino al tramonto, quando fu svegliato da un coro di voci in preghiera. Si mise a sedere. Non lontano da dove si trovava, c’era una formazione di rocce simili alla spina dorsale di un gigante morto, e sullo stretto sentiero che si snodava tra i massi c’era un piccolo gruppo di monaci che recitavano preghiere mentre camminavano. Alcuni portavano lampade che illuminavano i loro volti: barbe scarmigliate, sopracciglia folte, crani pelati ustionati dal sole; quelli erano uomini che avevano sofferto per la loro fede, pensò Zelim.

Si alzò e zoppicò in direzione dei monaci, chiamandoli mentre si avvicinava per non spaventarli con la sua improvvisa apparizione. Vedendolo, gli uomini si fermarono; alcuni di loro si scambiarono sguardi sospettosi.

“Mi sono perso e sono affamato”, disse loro Zelim. “Avete del pane, o almeno potete dirmi dove posso trovare un letto per la notte?”

Il capo, un uomo corpulento, passò la lampada a uno dei suoi compagni e fece cenno a Zelim di avvicinarsi.

“Che cosa ci fai qui?” domandò il monaco.

“Ho attraversato la foresta”, spiegò il ragazzo.

“Non sai che questa è una strada pericolosa?” disse il monaco. Il suo alito era il più pestilenziale che Zelim avesse mai sentito. “Ci sono ladri su questa strada”, continuò. “Molta gente è stata aggredita e assassinata, qui.” All’improvviso il monaco allungò una mano e afferrò il braccio di Zelim trascinandolo verso di sé. Contemporaneamente estrasse un lungo coltello e lo puntò alla gola del ragazzo. “Chiamali!

Lui non aveva idea di cosa stesse parlando. “Chi dovrei chiamare?”

“Il resto della tua banda! Di’ loro che ti taglierò la gola se provano ad attaccarci.”

“No, non hai capito. Non sono un bandito.”

“Zitto!” gli intimò il monaco, premendogli la lama nella carne così a fondo da far sgorgare il sangue. “Chiamali!

“Sono da solo”, protestò Zelim. “Lo giuro! Lo giuro sugli occhi di mia madre, non sono un bandito.”

“Tagliagli la gola, Nazar”, disse un altro monaco.

“Ti prego, non farlo”, lo implorò Zelim. “Sono un uomo innocente.”

“Non ci sono più uomini innocenti”, disse Nazar. “Questi sono gli ultimi giorni del mondo, e chiunque sia vivo è corrotto.”

Zelim pensò che quella fosse una dichiarazione filosofica, il genere di concetto che solo un monaco poteva capire. “Se lo dici tu”, replicò. “Io che cosa ne so? Ma ti assicuro che non sono un bandito. Sono un pescatore.”

“Sei molto lontano dal mare”, osservò il piccolo monaco a cui Nazar aveva passato la lampada. Si sporse in avanti per scrutare Zelim, sollevando leggermente la luce. “Come mai hai abbandonato i tuoi pesci?”

“Non piacevo a nessuno”, rispose Zelim. Gli sembrava meglio essere onesti.

“E perché?”

Zelim scrollò le spalle. Non troppo onesti, pensò. “Non piacevo a nessuno e basta”, rispose.

L’uomo lo studiò ancora per un attimo, poi disse al capo: “Sai, Nazar, credo che stia dicendo la verità”. Zelim sentì la lama allontanarsi leggermente dalla sua carne. “Pensavamo che fossi uno dei ragazzi di quei banditi”, spiegò il monaco, “mandato sulla nostra strada per distrarci.”

Di nuovo, Zelim ebbe la sensazione di non capire del tutto quanto gli veniva detto. “E così… i banditi vi avrebbero attaccato mentre parlavate con me?”

“Non mentre parlavamo”, disse Nazar. Il coltello scivolò dal collo di Zelim al centro del suo petto e lì gli tagliò la camicia già logora. L’altra mano del monaco scivolò attraverso lo squarcio, mentre la lama continuava il suo viaggio verso sud fino a raggiungere il davanti dei pantaloni.

“È un po’ troppo vecchio per me, Nazar”, commentò il compagno del monaco e, allontanandosi da Zelim, andò a sedersi tra le rocce.

“Sono da solo, allora?” volle sapere Nazar.

In risposta alla sua domanda, tre uomini piombarono su Zelim come cani affamati. Fu sbattuto a terra, dove i vestiti gli vennero strappati di dosso e i monaci cominciarono a seviziarlo, ignorando le sue grida e le sue implorazioni. Lo costrinsero a leccare i loro piedi e i loro ani, e a succhiare le loro barbe e i loro capezzoli e i loro membri dal glande color porpora. Lo tennero giù, mentre uno dopo l’altro lo prendevano, incuranti del fatto che continuasse a sanguinare e a sanguinare.

Nel frattempo, gli altri monaci che si erano ritirati tra le rocce leggevano o bevevano vino o restavano sdraiati a guardare le stelle. Uno di loro, addirittura, pregava. Zelim vide tutto questo perché evitò deliberatamente di guardare i suoi violentatori, deciso a negare loro la vista del terrore nei suoi occhi, e ugualmente deciso a non piangere. Invece guardò gli altri e attese che gli uomini avessero finito.

Era convinto che alla fine lo avrebbero ucciso, ma se non altro questo gli venne risparmiato. Invece i monaci passarono con lui la notte, a turno, usandolo per assecondare ogni loro voglia e poi, poco prima dell’alba, lo lasciarono tra le rocce e se ne andarono per la loro strada.


Il sole stava sorgendo, ma Zelim tenne gli occhi chiusi per non vederlo. Non voleva vedere mai più la luce. Era troppo pieno di vergogna. Ma, verso mezzogiorno, il calore lo spinse a mettersi in ginocchio e a trascinarsi all’ombra delle rocce. Là, con sua grande sorpresa, scoprì che uno dei monaci — forse quello che aveva sentito pregare — aveva lasciato un otre di vino, del pane e della frutta secca. Non era un caso, ne era certo. Quell’uomo li aveva lasciati per lui.

Solo allora, il pescatore si abbandonò alle lacrime, non tanto per le sue agonie quanto per il fatto che vi fosse stato qualcuno che si era interessato a lui abbastanza da compiere un atto di gentilezza.

Mangiò e si dissetò. Forse fu la forza del vino ma, una volta che ebbe finito, si sentì decisamente rinfrancato e, coprendo la propria nudità come meglio poté, abbandonò la sua nicchia tra le rocce e si incamminò lungo il sentiero. Era ancora dolorante, ma l’emorragia era cessata, e quando scese la notte non si fermò ma continuò a camminare sotto le stelle. A un certo punto lungo la strada, una cagna dai fianchi ossuti cominciò a seguirlo, in cerca forse del conforto della compagnia umana. Zelim non la scacciò; anche lui voleva compagnia. Dopo un po’ l’animale trovò il coraggio sufficiente per camminargli accanto, e accorgendosi che il suo nuovo padrone non aveva intenzione di scacciarla a calci, ben presto cominciò a trotterellare come se fossero stati insieme fin dalla nascita.


L’arrivo nella sua vita della cagna affamata segnò un netto cambiamento delle fortune di Zelim. Qualche ora dopo, raggiunse un villaggio molto ma molto più grande di Atva, dove trovò una grande folla impegnata in quella che sembrava una sorta di festeggiamento. Le strade erano piene di gente che gridava e faceva baldoria.

“È un giorno santo?” domandò Zelim a un giovane che beveva seduto davanti alla porta di una casa.

L’altro scoppiò a ridere. “No”, disse, “non è un giorno santo.”

“Be’, allora perché sono tutti così felici?”

“Perché faremo delle impiccagioni”, rispose il ragazzo con un pigro sogghigno.

“Oh… capisco.”

“Vuoi venire a vedere?”

“Non particolarmente.”

“Potremmo trovare qualcosa da mangiare”, fece presente il ragazzo. “E dal tuo aspetto direi che ne hai bisogno.” Squadrò Zelim dalla testa ai piedi. “In realtà sembra che tu abbia bisogno di un sacco di cose. Di un paio di pantaloni, per esempio. Cosa ti è capitato?”

“Non ho voglia di parlarne.”

“Una brutta avventura, eh? Be’, allora dovresti proprio venire all’impiccagione. Mio padre è già lì, perché dice che è bello vedere che c’è gente più sfortunata di noi. Fa bene all’anima, secondo lui. Ti riempie di gratitudine.”

Zelim pensò che c’era della saggezza in quelle parole, così lui e il suo cane accompagnarono il ragazzo attraverso il villaggio fino alla piazza del mercato. Fu più difficile del previsto farsi largo tra la folla e quando arrivarono abbastanza vicino da vedere qualcosa, tutti gli uomini destinati alla forca tranne uno erano già stati impiccati. Riconobbe all’istante i prigionieri. Le barbe scarmigliate, le teste calve scottate dal sole. I suoi aguzzini. Tutti loro, chiaramente, avevano sofferto in modo orribile prima che il cappio li privasse della vita. A tre monaci erano state amputate le mani; uno era stato accecato; ad altri, a giudicare dal sangue che incrostava i loro vestiti all’altezza dell’inguine, erano stati tagliati i genitali.

Tra questi ultimi c’era Nazar, il capo del gruppo, l’unico ancora vivo. Non riusciva a stare in piedi, e così due uomini del villaggio lo sostennero mentre un terzo gli faceva scivolare il cappio attorno la collo. I suoi denti marci erano spezzati e il suo corpo era coperto dalla testa ai piedi di lividi ed escoriazioni. La folla era selvaggiamente eccitata dallo spettacolo delle agonie di quell’uomo. A ogni calcio e a ogni gemito, applaudivano e gridavano elencando i suoi crimini: “Assassino! Ladro! Sodomita!”

“È tutto questo e molto di più, secondo mio padre”, disse il ragazzo a Zelim. “È così malvagio che quando morirà potremmo anche vedere il diavolo salire dall’inferno per venire a prendersi la sua anima quando gli uscirà dalla bocca!”

Zelim rabbrividì nauseato a quel pensiero. Se il padre del ragazzo aveva ragione, il monaco ladro e sodomita era un figlio del diavolo e forse gli aveva passato la sua malvagità attraverso lo sputo e il seme. Oh, che pensiero orrendo, essere in qualche modo la sposa di quel terribile uomo, e venire trascinato nella sua stessa dimora infernale quando fosse venuta la sua ora.

Il cappio ora era stretto attorno al collo di Nazar, e la corda fu tirata abbastanza da sollevarlo come un pupazzo. Gli uomini che lo avevano sostenuto si allontanarono per aiutare a tirare la corda. Ma un secondo prima che la corda si serrasse attorno alla sua trachea, Nazar incominciò a parlare; no, non a parlare; a urlare, usando ogni frammento di forza che gli fosse rimasta nel corpo massacrato.

Dio vi coprirà tutti di merda!” gridò. La folla prese a inveire contro di lui. Alcuni gli lanciarono pietre. Ma lui continuò a gridare: “Ci ha lasciato tra le mani mille anime innocenti! Non gliene fregava niente di quello che gli facevamo! Quindi fatemi quello che volete”.

La corda gli serrò la gola e Nazar venne sollevato sulla punta dei piedi. Eppure continuò a urlare, sangue e sputo mischiati alle sue parole.

… non c’è nessun inferno, non c’è nessun paradiso! Non c’è nessun…

Non riuscì ad andare oltre. Ma Zelim sapeva qual era l’ultima parola che il monaco avrebbe voluto pronunciare. Era Dio. Nazar avrebbe voluto gridare: non c’è nessun Dio.

La folla era in estasi attorno a lui; tutti urlavano e ridevano e sputavano sull’impiccato che si agitava dondolando dall’estremità della corda. Il suo tormento non durò a lungo. Il corpo torturato del monaco cedette quasi subito, con grande delusione della folla, e rimase a oscillare dal cappio come se la grazia della vita non lo avesse mai toccato. Il ragazzo accanto a Zelim era decisamente deluso.

“Io non ho visto Satana, e tu?”

Zelim scosse la testa, ma in fondo a sé si disse: Forse l’ho visto. Forse il Diavolo è solo un uomo come me. Forse è molti uomini; tutti gli uomini, forse.

Fece scorrere lo sguardo sulla schiera di monaci impiccati, cercando quello che aveva pregato mentre gli altri lo violentavano, quello che secondo Zelim gli aveva lasciato il vino, il pane e la frutta. Forse proprio lui era riuscito a persuadere i suoi compagni a risparmiare la loro vittima; Zelim non lo avrebbe mai saputo. Ma c’era un particolare strano. Adesso che erano morti, quegli uomini gli sembravano tutti uguali. Ciò che li aveva distinti l’uno dall’altro sembrava scomparso, e le loro facce erano deserte, come case abbandonate. Non riuscì a riconoscere il monaco che aveva pregato tra le rocce, né quello che era stato particolarmente crudele con lui. Quello che lo aveva morso come un animale; quello che gli aveva pisciato in faccia per svegliarlo quando era quasi svenuto; quello che lo aveva chiamato con un nome di donna mentre lo possedeva. Alla fine, erano tutti assolutamente indistinguibili.

“Ora li faranno a pezzi e infilzeranno le loro teste sulle picche”, spiegò il ragazzo, “come avvertimento per i banditi.”

“E per gli uomini di fede”, aggiunse Zelim.

“Non erano uomini di fede”, ribatté il giovane.

Il suo commento fu udito da una donna poco lontano da loro. “Oh sì, lo erano”, disse. “Il loro capo, Nazar, era stato un monaco a Samarcanda. Aveva studiato su alcuni libri che non avrebbe mai dovuto aprire, ed è per questo che era diventato quello che era diventato.”

“Che genere di libri?” le domandò Zelim.

Lei gli rivolse uno sguardo spaventato. “È meglio non saperlo”, rispose.

“Be’, devo trovare mio padre”, disse il giovane a Zelim. “Spero che ti vada tutto bene. Che Dio ti aiuti.”

“E che aiuti anche te”, gli augurò Zelim.

Cinque

1

Zelim aveva visto abbastanza; più che abbastanza. La folla era in preda alla frenesia mentre i corpi venivano preparati per la decapitazione; i bambini venivano sollevati sulle spalle dei genitori perché potessero vedere meglio. Lui trovò quello spettacolo disgustoso. Voltandosi, si chinò, prese tra le braccia il suo cane pieno di pulci e incominciò ad allontanarsi dalla piazza del mercato.

Alle sue spalle, qualcuno gli gridò: “Stai male alla vista del sangue?”

Si girò e vide che a parlare era stata la donna che gli aveva detto dei libri profani di Samarcanda.

“Niente affatto”, rispose Zelim amaramente, pensando che quella donna stesse mettendo in dubbio la sua virilità. “Sono solo stufo. Ormai sono morti. Non possono più soffrire.”

“Hai ragione”, disse la donna scrollando le spalle. Indossava abiti da vedova anche se era ancora molto giovane; doveva avere solo un paio d’anni più di Zelim. “Siamo solo noi che soffriamo”, continuò. “Solo noi che siamo rimasti vivi.”

Lui capiva perfettamente la verità delle parole della donna, come non avrebbe potuto capirle prima della sua terribile avventura sulla strada. Se non altro, i monaci gli avevano lasciato questo: la comprensione della disperazione altrui.

“Una volta pensavo che ci fossero ragioni…” mormorò.

La folla stava ruggendo. Si voltò a guardare. Una testa veniva tenuta in alto, coperta di sangue che luccicava sotto il sole.

“Che cos’hai detto?” gli chiese la donna, avvicinandosi per sentirlo meglio al di sopra del frastuono.

“Non ha importanza”, disse lui.

“Ti prego, dimmelo”, replicò lei, “vorrei saperlo.”

Zelim scrollò le spalle. Aveva voglia di piangere, ma quale uomo avrebbe potuto piangere apertamente in un posto come quello?

“Perché non vieni con me?” propose la donna. “Tutti i miei vicini sono qui, a guardare questa sciocchezza. Se vieni con me, nessuno ci vedrà. Nessuno potrà spettegolare su di noi.”

Zelim soppesò l’offerta della donna per qualche istante, e alla fine disse: “Però dovrò portare anche il mio cane”.

2

Rimase per sei anni. Naturalmente, dopo un paio di settimane, i vicini cominciarono a spettegolare, ma non era come ad Atva; la gente non pensava solo a impicciarsi degli affari degli altri. Zelim visse felicemente con la vedova, Passak, che imparò ad amare. Lei era una donna molto pratica, ma quando la porta d’ingresso e gli scuri erano chiusi, anche molto appassionata. Questo era vero in particolare, per qualche misteriosa ragione, quando il vento del deserto cominciava a soffiare; un vento caldo che portava un carico di sabbia ruvida. In quelle occasioni, la vedova era senza vergogna; non c’era niente che non fosse disposta a fare per il loro piacere reciproco, e Zelim l’amava ancora di più per questo.

Ma i ricordi di Atva e della gloriosa famiglia, che era scesa fino al mare in quel giorno lontano, non lo abbandonavano mai. Così come il ricordo delle sevizie subite o gli strani pensieri che lo avevano attraversato quando aveva visto Nazar e la sua banda penzolare dalla forca. Tutte quelle esperienze rimasero nel suo cuore come uno stufato lasciato a sobbollire, e col passare degli anni divennero ancora più saporite e ancora più nutrienti.

Poi, dopo sei anni e molti giorni e molte notti felici con Passak, Zelim si rese conto che per lui era arrivato il momento di sedersi e mangiare quello stufato.


Accadde durante una delle tempeste di sabbia che venivano dal deserto. Lui e Passak avevano fatto l’amore non una, ma tre volte. Ma invece di addormentarsi sfinito, come aveva fatto Passak, Zelim cominciò a sentire una strana irritazione dietro gli occhi, quasi che il vento stesse soffiando nel suo cranio per rigirare il pasto un’ultima volta prima di servirlo.

In un angolo della stanza, il cane — che ormai era vecchio e cieco — mugolò a disagio.

“Shhh, ragazza mia”, mormorò. Non voleva che Passak si svegliasse, non prima di aver avuto il tempo di dare un senso ai sentimenti che lo stavano ossessionando.

Si prese la testa tra le mani. Che cosa ne sarebbe stato di lui? Aveva vissuto una vita più piena di quella che avrebbe vissuto se fosse rimasto ad Atva, eppure niente aveva senso. Almeno ad Atva, le cose avevano avuto un ritmo essenziale. Un bambino nasceva, diventava forte abbastanza per fare il pescatore, diventava un pescatore, e poi s’indeboliva di nuovo, fino a tornare fragile come un bambino e alla fine moriva, confortato dal fatto che anche dopo la sua morte sarebbero nati altri pescatori. Ma la vita di Zelim era priva di simili certezze. Era inciampato da una confusione all’altra, trovando agonia dove si sarebbe aspettato di trovare conforto, e piacere dove si sarebbe aspettato di trovare sofferenza. Aveva visto il Diavolo in forma umana, e i volti di spiriti divini in sagome molto simili. La vita non era neanche lontanamente come si era aspettato che fosse.

E poi pensò: Devo raccontare quello che so. È per questo che sono qui; devo narrare alla gente ciò che ho visto e sentito, in modo che il mio dolore non debba ripetersi mai più. In modo che coloro che mi seguiranno siano come miei figli, perché li ho aiutati a prendere forma e li ho resi forti.

Si alzò, andò dalla sua dolce Passak e si inginocchiò accanto al loro stretto letto. La baciò su una guancia. Ma lei era già sveglia, e lo era già da un po’.

“Se te ne andrai sarò così triste”, gli disse. Poi, dopo una pausa: “Ma sapevo che un giorno sarebbe successo. Sono sorpresa che tu sia rimasto così a lungo”.

“Come sapevi?”

“Stavi parlando ad alta voce, non te ne sei reso conto? Lo fai continuamente.” Un’unica lacrima le comparve in un angolo dell’occhio, ma non c’era dolore nella sua voce. “Sei un uomo meraviglioso, Zelim. Non penso che tu sappia veramente quanto sei meraviglioso. E hai visto cose… Forse erano solo nella tua testa, forse erano reali, non lo so… che devi raccontare alla gente.” Adesso era lui a piangere, sentendola parlare in quel modo, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce. “Ho passato anni stupendi con te, amore mio. Sono stata felice come non avrei mai pensato di poter essere. E sarebbe ingiusto da parte mia chiederti altra gioia, quando ho già avuto così tanto.” Sollevò leggermente la testa e lo baciò. “Ti amerò di più se te ne andrai in fretta.”

Lui prese a singhiozzare. Tutti i pensieri che lo avevano assorbito fino a pochi minuti prima ora gli sembravano vuoti. Come aveva potuto pensare di lasciarla?

“Non posso andarmene”, disse. “Non so che cosa mi abbia messo in testa questa idea.”

“Sì che puoi”, ribatté lei. “E se non vai ora, andrai comunque prima o poi. Quindi, va’.”

Lui si asciugò le lacrime. “No. Non vado da nessuna parte.”


Così Zelim rimase. Vennero le tempeste, mese dopo mese, e lui e la vedova si amarono appassionatamente nella piccola casa, mentre il fuoco mormorava nel camino e il vento chiacchierava sopra il tetto. Ma ora la felicità di Zelim era rovinata; e così quella della sua compagna. Lui era risentito nei suoi confronti per averlo tenuto con sé, anche se Passak sarebbe stata disposta a lasciarlo andare. E di conseguenza lei cominciò ad amarlo sempre meno perché non aveva avuto il coraggio di andarsene, e perché restando stava uccidendo la cosa più dolce che avesse mai conosciuto, l’amore tra di loro.

Alla fine tutta quella tristezza la uccise. Per quanto strano possa sembrare, quella donna coraggiosa che era sopravvissuta al dolore della perdita di un marito, non riuscì a sopravvivere alla morte del suo amore per l’uomo che era rimasto al suo fianco. Lui la seppellì e, una settimana più tardi, andò per la sua strada.

Non si fermò mai più. Aveva conosciuto tutto ciò che c’era da sapere sulla vita domestica; d’ora in avanti sarebbe stato un nomade. Ma lo stufato che aveva bollito dentro di lui per tanto tempo era ancora buono. Forse più pungente per quegli ultimi tristi mesi trascorsi con Passak. Ora, quando finalmente iniziò l’opera della sua vita e prese a insegnare narrando la sua vita, alle sue esperienze aggiunse anche l’amarezza del loro amore: quella donna alla quale una volta aveva promesso eterna devozione — dicendole che ciò che provava per lei era immortale — ben presto cominciò a sembrargli un ricordo lontano come la sua giovinezza ad Atva. L’amore — o almeno il genere di amore che condividono un uomo e una donna — non era qualcosa di eterno. Né era eterno il suo opposto. Proprio come le cicatrici che Nazar e i suoi uomini gli avevano lasciato erano sbiadite nel corso degli anni, così si era affievolito l’odio che Zelim aveva provato per loro.

E questo non significa che fosse un uomo privo di sentimenti; tutt’altro. Nei trentun anni che gli restavano da vivere, sarebbe stato conosciuto come un profeta, come un narratore e come un uomo di rara passione. Ma quella passione non somigliava a quella che prova la maggior parte di noi. Divenne, a dispetto delle sue umili origini, una creatura di emozioni sottili ed elevate. Le parabole che narrava non avrebbero sfigurato accanto a quelle di Cristo per la loro semplicità, ma, a differenza delle chiare e buone lezioni impartite da Gesù, Zelim comunicava con le sue parole una visione ben più ambigua; una visione in cui Dio e il Diavolo erano eternamente impegnati in un gioco di maschere.


Potranno esserci occasioni perché vi racconti alcune delle sue parabole nel corso di questa storia, ma per ora mi limiterò a dirvi come morì. Accadde, naturalmente, a Samarcanda.

Sei

Prima di tutto, lasciate che vi parli della città. Dal momento che il suo splendore aveva dato vita a tante delle storie che Zelim aveva ascoltato da bambino. Colui che aveva raccontato quelle storie, il vecchio Zelim, non fu l’unico a innamorarsi di Samarcanda, una città che non aveva mai visto. A quei tempi era un luogo quasi mitico. Una città, si diceva, di una bellezza tale da spezzare il cuore, dove i pensieri e le forme e le azioni inimmaginabili in qualunque altro luogo della terra erano all’ordine del giorno. Non c’erano donne come le donne di Samarcanda, né ragazzi come quelli di Samarcanda; né c’erano donne e ragazzi così liberi con la loro carne come quelli delle strade profumate di Samarcanda. Non c’erano potenti come i potenti di Samarcanda, né moschee, né palazzi, né tesori come quelli di Samarcanda.

E poi — come se tutte quelle glorie non fossero state sufficienti — c’era il fatto miracoloso dell’esistenza stessa della città, quando tutto attorno a essa non c’erano altro che desolazione e terre selvagge. I mercanti, che l’attraversavano sulla Vìa della Seta diretti in Turkistan o in Cina, o che portavano spezie dall’India o sale dalle steppe, percorrevano deserti immensi e ostili e pianure grigie di ghiaccio prima di poter scorgere il fiume Zarafshan e le fertili terre su cui sorgevano le torri e i minareti di Samarcanda come fiori che non avrebbero potuto sbocciare in nessun altro giardino. La loro gioia nel lasciare la desolazione che avevano affrontato li portava a scrivere canzoni e poesie sulla città (decantandone le lodi forse anche in modo eccessivo), e quelle canzoni e quelle poesie a loro volta attiravano altri mercanti, altre bellissime donne, altri costruttori di torri, così che con il passare delle generazioni Samarcanda raggiunse la sua stessa reputazione leggendaria, al punto che l’adulazione di quelle canzoni e di quelle poesie finì per non renderle più giustizia.

Non era, lasciatemi dire, semplicemente un luogo di eccessi dei sensi. Era anche un tempio del sapere, dove studiavano filosofi e libri venivano scritti e letti, e dove si disquisiva incessantemente, tra un bicchiere di tè e l’altro, di teorie sull’inizio del mondo e su quella che sarebbe stata la sua fine. In breve, era una città del tutto miracolosa.


Per tre volte in vita sua, Zelim si unì a una carovana sulla Vìa della Seta e raggiunse Samarcanda. La prima volta fu un paio d’anni dopo la morte di Passak, e stava viaggiando a piedi dal momento che non aveva il denaro sufficiente a comprare un animale forte abbastanza da sopravvivere al viaggio. Fu un tragitto che mise alla prova i limiti della sua fame di vedere quel luogo: quando cominciò a intravedere le meravigliose torri della città, era a tal punto esausto — i piedi sanguinanti, il corpo scosso da tremori, gli occhi iniettati di sangue per i lunghi giorni passati a camminare nella polvere di qualcun altro — che semplicemente si lasciò cadere sull’erba morbida accanto al fiume e dormì per il resto di quel giorno, là, fuori dalle mura della città, come privo di sensi.

Si risvegliò al tramonto, si lavò la sabbia dagli occhi e alzò lo sguardo. Il cielo era traboccante di colori; delicate schiere di nuvole color ambra verso ovest, e sospese tra il blu e il viola verso est, e stormi di uccelli che volavano attorno ai minareti illuminati facendo ritorno ai loro rami. Zelim si alzò in piedi ed entrò in città, proprio mentre i fuochi attorno alle mura venivano accesi, alimentati da varietà di legni così profumati che l’aria stessa aveva un aroma sacro.

All’interno, riuscì a dimenticare in un solo istante tutta la sofferenza che aveva dovuto sopportare per arrivare lì. Samarcanda era tutto ciò che suo padre gli aveva raccontato e molto di più. Anche se Zelim era poco più che un mendicante, ben presto si rese conto che c’era un mercato per le storie che aveva da narrare. E lui aveva molto da raccontare. Alla gente piaceva ascoltarlo, parlare del battesimo di Atva e della foresta e di Nazar e del suo destino. Che credessero o meno alla veridicità di quei racconti non aveva alcuna importanza: la gente gli dava denaro, cibo e amicizia (e, nel caso di alcune affascinanti signore, anche notti d’amore) in cambio delle sue storie. Zelim cominciò ad ampliare il suo repertorio: a improvvisare, ad arricchire e a inventare. Creò nuove storie sulla famiglia scesa fino al mare, e dal momento che la gente sembrava apprezzare un tocco di filosofia intrecciato all’intrattenimento, introdusse le sue teorie sul destino, le idee che aveva coltivato nel corso dei suoi anni con Passak.

Quando lasciò Samarcanda dopo quella prima visita, che durò un anno e mezzo, Zelim aveva una certa reputazione, non solo di abile narratore ma anche di saggio. E ora, mentre viaggiava, aveva un nuovo argomento: Samarcanda.

Là, raccontava, le più alte aspirazioni dell’animo umano e i più bassi appetiti della carne erano talmente vicini che talvolta era impossibile distinguerli. Era un punto di vista che le persone amavano ascoltare, perché tanto spesso si rivelava vero nelle loro stesse vite, ma così raramente riuscivano ad ammetterlo. E la reputazione di Zelim crebbe.


Fece il suo secondo viaggio a Samarcanda sul dorso di un cammello. Aveva un aiutante di quindici anni che gli preparava da mangiare e si occupava delle sue necessità, un giovane che Zelim aveva accettato come apprendista perché anche lui voleva diventare narratore. Quando arrivarono in città, per Zelim fu inevitabilmente una delusione. Si sentì come un uomo che, tornato tra le braccia di un grande amore, si rende conto che i suoi ricordi erano più dolci della realtà. Ma anche quell’esperienza, dopo appena una settimana, divenne materiale per una nuova parabola.

E comunque quella visita non fu avara di soddisfazioni: riunioni con amici che aveva conosciuto durante la sua prima permanenza in città; inviti in case sontuose di uomini che non più di qualche anno prima lo avrebbero considerato solo un pescatore ignorante e che ora si dichiaravano onorati della sua compagnia. E la soddisfazione più grande di tutte fu la scoperta che lì, in quella città, esisteva un piccolo gruppo di giovani studenti che analizzavano la sua vita e le sue parabole come se fosse stato un uomo di grande importanza. Chi non sarebbe stato lusingato da una simile scoperta? Zelim trascorse molti giorni e molte notti a parlare con loro e a rispondere alle loro domande il più onestamente possibile.

Una domanda in particolare continuò ad aggirarglisi per la mente quando lasciò la città. “Pensi che rivedrai mai le persone che hai incontrato in riva al mare?” gli aveva chiesto un giovane studente.

“Non credo”, aveva risposto al ragazzo. “Non ero niente per loro.”

“Ma per il bambino forse…” aveva replicato lo studente.

“Per il bambino?” aveva detto Zelim. “Dubito che si sia accorto di me. Era molto più interessato al latte di sua madre che a me.”

Lo studente aveva insistito. “Tu insegni nelle tue storie che le cose tornano sempre. In uno dei tuoi racconti parli della Ruota delle Stelle. Forse sarà lo stesso con quelle persone. Saranno come le stelle. Scompariranno dalla vista…”

“… solo per sorgere di nuovo”, aveva concluso Zelim.

Lo studente aveva sorriso raggiante nel sentire i suoi pensieri completati dalle parole del maestro. “Sì. Per sorgere di nuovo.”

“Forse”, aveva detto Zelim. “Ma non vivrò in attesa di un simile evento.”

E infatti non fu così. Tuttavia, l’osservazione dello studente non lo abbandonò e finì per generare una nuova parabola: la storia di un uomo che vive in attesa di incontrare qualcuno che alla fine altri non sarà che il suo assassino.

E così passarono gli anni, e la fama di Zelim continuò a crescere. Nei suoi viaggi percorse distanze immense: visitò l’Europa, l’India, i confini della Cina, raccontando le sue storie e scoprendo che la strana poesia di ciò che aveva inventato sapeva dare piacere a ogni genere di cuore.

Passarono altri diciotto anni prima che tornasse a Samarcanda, per quella — anche se Zelim lo ignorava — che sarebbe stata l’ultima volta.

Sette

Ormai Zelim era avanti con gli anni, e anche se i suoi numerosi viaggi lo avevano reso forte e resistente, in quell’autunno il peso dell’età cominciava a farsi sentire. Le giunture gli facevano male e aveva difficoltà a prendere sonno. E quando riusciva a dormire, sognava Atva; o meglio, la spiaggia e la sacra famiglia. La sua vita di saggezza e di dolore era stata condizionata da quell’incontro. Se non si fosse recato alla spiaggia quel giorno, forse sarebbe rimasto per sempre tra i pescatori, a vivere una vita di assoluta povertà spirituale, senza niente che potesse svegliare ed elevare la sua anima.

E quindi era là, quell’ottobre, a Samarcanda, si sentiva vecchio e dormiva sonni agitati. Comunque, non aveva modo di riposarsi. Ormai il numero dei suoi devoti era cresciuto e uno di loro (il ragazzo che gli aveva posto quella domanda sul ciclo delle cose) aveva persino fondato una scuola. Erano tutti giovani che avevano trovato uno zelo rivoluzionario sepolto nelle parabole di Zelim, che nutriva la loro brama di vedere l’umanità libera dalle sue catene. Ogni giorno si incontrava con loro. A volte lasciava che gli ponessero delle domande, sulla sua vita, sulle sue opinioni. Altre volte — quando era stanco di essere interrogato — raccontava una storia.

Quel giorno in particolare, comunque, la lezione diventò un insieme delle due cose. Uno studente disse: “Maestro, in molti abbiamo avuto terribili discussioni con i nostri padri, che non vogliono permetterci di studiare le tue opere”.

“Davvero?” rispose il vecchio Zelim, inarcando un sopracciglio. “Non riesco a capirne il motivo.” Vi fu un breve scoppio di risa tra gli studenti. “Qual è la tua domanda?”

“Mi stavo solo chiedendo se puoi raccontarci qualcosa di tuo padre.”

“Mio padre…” sussurrò Zelim.

“Solo qualcosa.”

Il profeta sorrise. “Non essere così nervoso”, disse. “Perché hai un’aria tanto agitata?”

Il giovane arrossì. “Avevo paura che ti arrabbiassi con me per aver chiesto della tua famiglia.”

“In primo luogo”, rispose Zelim dolcemente, “sono davvero troppo vecchio per arrabbiarmi. È uno spreco di energia e non me ne rimane molta. In secondo luogo, mio padre siede davanti a te, proprio come tutti i vostri padri siedono qui davanti a me.” Il suo sguardo scrutò i trenta studenti che sedevano a gambe incrociate davanti a lui. “E mi sembra che siano un gruppo di uomini davvero degni di rispetto.” Tornò a guardare il giovane che gli aveva posto la domanda. “Che lavoro fa tuo padre?”

“È un mercante di lana.”

“E quindi, in questo momento, è là fuori in città a vendere lana, ma questo non soddisfa la sua natura. Ha bisogno di qualcos’altro nella vita, e così ti ha mandato a studiare filosofia.”

“Oh no… non capisci… non mi ha mandato lui.”

“Può anche pensare che non sia così. E tu puoi anche pensare che non sia stato lui a mandarti. Ma tu sei suo figlio, e tutto quello che fai lo fai per lui.” Il ragazzo si accigliò, chiaramente preoccupato al pensiero di fare qualcosa per suo padre. “Sei come le dita della sua mano, che scavano nella terra mentre lui conta le sue balle di lana. Non si accorge nemmeno della mano che sta scavando. Non vede che sta lasciando cadere dei semi. E rimane stupito quando si accorge che accanto a lui è cresciuto un albero pieno di dolci frutti e di uccelli che cantano. Ma è stata la sua mano a farlo.”

Il giovane abbassò lo sguardo a terra. “Cosa vuoi dire con questo?”

“Che noi non apparteniamo a noi stessi. Che quando non riusciamo a capire lo scopo della nostra esistenza, dovremmo guardare coloro che sono venuti prima di noi per comprenderlo meglio. Non solo i nostri padri e le nostre madri, ma tutti coloro che sono venuti prima di noi. Sono la strada che conduce a Dio, che potrebbe anche non sapere, mentre conta le sue stelle, che in silenzio stiamo scavando e piantando un seme…”

Il giovane sollevò di nuovo lo sguardo sorridendo, divertito dall’idea che Dio Padre potesse guardare altrove mentre le sue mani umane facevano crescere un giardino ai suoi piedi.

“Questo ha risposto alla tua domanda?” chiese Zelim.

“Però continuo a domandarmi…” disse lo studente. “Sì?”

“Tuo padre?”

“Era un pescatore che viveva in un piccolo villaggio chiamato Atva, sulle rive del Mar Caspio.” Mentre parlava, Zelim sentì un leggero alito di vento accarezzargli il volto, una brezza deliziosamente fresca. Fece una breve pausa e chiuse gli occhi godendosi quel momento. Quando li riaprì, seppe che qualcosa era cambiato nella stanza. Solo non avrebbe saputo dire cosa. “Dove eravamo?” domandò. “Ad Atva”, rispose qualcuno in fondo alla stanza. “Ah sì, ad Atva. Mio padre ha vissuto là tutta la vita, ma sognava di essere in luoghi molto diversi. Sognava Samarcanda. Raccontava ai suoi figli di esserci stato in gioventù, e dava vita a fantastiche storie su questa città; davvero fantastiche…”

Zelim si fermò nuovamente. La brezza lo aveva sfiorato una seconda volta e qualcosa, nel modo in cui lo aveva toccato, sembrava suggerirgli che si trattasse di un segno. Come se il vento gli stesse sussurrando guarda, guarda…

Ma cosa? Lanciò un’occhiata oltre la finestra, pensando che forse là fuori potesse esserci qualcosa che doveva vedere. L’orizzonte era sempre più scuro e la notte si stava avvicinando. Un castagno, ancora coperto di foglie nonostante la stagione, si stagliava contro il cielo. In alto, sopra i suoi rami, luccicava la stella della sera. Erano tutte cose che aveva già visto: un cielo, un albero, una stella.

Tornò a guardare la stanza, ancora confuso. “Che genere di storie?” stava chiedendo qualcuno.

“Storie…?”

“Hai detto che tuo padre raccontava storie su Samarcanda.”

“Oh sì. Storie meravigliose. Mio padre non era molto bravo come marinaio. Infatti, annegò in una giornata perfettamente calma. Ma poteva raccontare storie su Samarcanda per un anno di seguito senza raccontare mai la stessa due volte.”

“Ma tu hai detto che non era mai stato qui”, lo interruppe il fondatore della scuola.

“Mai”, disse Zelim sorridendo. “È per questo che riusciva a raccontare storie così meravigliose su questa città.”

Quel suo ultimo commento divertì molto tutti. Ma Zelim quasi non sentì le risate. Ancora una volta, quella brezza ipnotica gli aveva sfiorato il viso; e ora, quando alzò gli occhi vide qualcuno muoversi tra le ombre in fondo alla stanza. Non era uno dei suoi studenti. I ragazzi indossavano tutti vesti color giallo pallido. Quella figura, invece, indossava pantaloni neri malconci e una camicia sudicia. Era nero, la sua pelle possedeva una strana iridescenza che riportò alla mente di Zelim un giorno ormai molto lontano.

“Atva…?” mormorò.

Solo gli studenti che erano più vicini a lui riuscirono a sentirlo, e anche loro, quando in seguito discussero di quella sera, non riuscirono a trovarsi d’accordo su cosa il maestro avesse detto esattamente. Alcuni pensavano che avesse sussurrato Allah, secondo altri aveva pronunciato una qualche formula magica che avrebbe dovuto tenere a bada lo sconosciuto in fondo alla stanza. La ragione per cui si dibatté così animatamente su quella parola è molto semplice: fu l’ultima parola pronunciata da Zelim, almeno nel mondo dei vivi.

Un attimo dopo si accasciò, e il bicchiere di tè che stava bevendo gli sfuggì di mano. I mormorii nella stanza cessarono di colpo; molti studenti si alzarono, alcuni già in lacrime o in preghiera. Il grande maestro era morto, la sua saggezza consegnata alla storia. Non ci sarebbero stati altri racconti, altre profezie. Solo secoli dedicati a rielaborare le storie che aveva narrato e a scoprire se le sue profezie si sarebbero avverate.

Fuori dalla stanza, sotto il rigoglioso castagno, due uomini parlavano a bassa voce. Nessuno li vide; nessuno sentì la felicità nelle loro parole. Non ho intenzione di inventarmi quelle parole, preferisco lasciare a voi quella conversazione: le cose che si dissero lo spirito di Zelim e Atva, che in seguito sarebbe stato chiamato Galilee. Vi dirò solo questo: che quando la conversazione finì, Zelim lasciò Samarcanda insieme a Galilee; un fantasma e un dio, che si aggiravano per il crepuscolo fumoso come due amici inseparabili.

Non c’è bisogno che vi dica che il ruolo di Zelim in questa storia è tutt’altro che concluso. Quel giorno fu chiamato dalla famiglia Barbarossa e da allora è sempre stato al suo servizio.

In questo libro, come nella vita, niente passa davvero. Le cose cambiano, certo; naturalmente, cambiano; è così che deve essere. Ma tutto è preservato nel momento eterno — Zelim il pescatore, Zelim il profeta, Zelim il fantasma — è stato raccontato in tutte le sue forme, e queste pagine non sono altro che una povera ma appassionata eco del grande libro che è la santità stessa.


Dev’esserci spazio, comunque, per un’ultima annotazione. Anche in un mondo immortale, ci sono momenti in cui la bellezza abbandona la vista o l’amore abbandona il cuore, e noi sentiamo il dolore di simili separazioni.

A Samarcanda, che per un certo periodo fu meravigliosa, le decorazioni blu e dorate si sono staccate dai muri, e il castagno sotto cui Zelim e Galilee parlarono subito dopo la dipartita del profeta è stato abbattuto. I palazzi sono cadenti e le strade che un tempo erano piene di rumore si sono arrese al silenzio. Non è un buon silenzio; non è la pace che regna nella cella di un eremita o la quiete dell’alba. È semplicemente un’assenza di vita. Regimi si sono succeduti, e così partiti e potenti, e vecchie e nuove guardie, e ciascuno di essi ha sottratto una parte della gloria di Samarcanda quando ha perso il potere. Adesso ci sono solo sporcizia e disperazione. La più grande speranza di coloro che ancora vivono lì è che un giorno o l’altro gli americani arrivino e I trovino una ragione per credere di nuovo nella città. Allora, ci saranno hamburger e soda e sigarette. Una triste ambizione per la gente di qualunque grande città.

E finché questo non accadrà, ci saranno solo strade desolate e vento sporco.

Quanto ad Atva, non esiste più. Immagino che se qualcuno scavasse in profondità nella sabbia lungo la riva, troverebbe i resti delle mura di qualche casa, forse una soglia o due, forse un vaso o due. Ma niente di grande interesse. Le vite vissute ad Atva furono insignificanti, proprio come le poche tracce che esse hanno lasciato. Atva non compare su alcuna mappa e non è citata in alcun libro sul Mar Caspio.

Atva ora esiste solo in due luoghi. Qui in queste pagine. E come vero nome di mio fratello Galilee.

Devo aggiungere un ultimo dettaglio prima di passare a questioni più urgenti. Riguarda quel primo giorno, il giorno in cui mio padre Nicodemus e sua moglie Cesaria battezzarono in mare loro figlio.

A quanto pare accadde questo: non appena Cesaria immerse il bambino nell’acqua, il piccolo, agitandosi, le scivolò tra le mani e le sfuggì, scomparendo nella prima onda che li lambì. Naturalmente, mio padre cercò di raggiungerlo, ma quel giorno la corrente era particolarmente forte, e prima che riuscisse ad afferrare suo figlio, il bambino era già stato spinto lontano dalla riva. Non so se Cesaria abbia pianto o gridato o sia semplicemente rimasta in silenzio. So comunque che non si mosse, perché una volta ha raccontato a Marietta di aver sempre saputo che Galilee l’avrebbe abbandonata, anche se era rimasta sorpresa nel vederlo allontanarsi a una così tenera età.

Alla fine, forse a quattrocento metri dalla riva, mio padre riuscì a individuarlo. Il bambino stava ancora nuotando. Quando Atva sentì le mani di suo padre attorno a lui, cominciò ad agitarsi e a piangere. Ma la presa di mio padre era salda. Si mise il bambino sulle spalle e tornò a riva.

Cesaria ha raccontato a Marietta che il piccolo era scoppiato a ridere quando era tornato tra le sue braccia, che aveva riso fino alle lacrime tanto era il divertimento per quello che aveva fatto.

Ma quando ripenso a questo episodio, soprattutto nel contesto di ciò che sto per raccontarvi, non è un bambino che ride quello che vedo. No, è l’immagine del piccolo Atva, nato da meno di un giorno, che scivola dalle mani di coloro che lo hanno creato e, ignorando le loro grida e le loro implorazioni, semplicemente si allontana nuotando e nuotando, come se il suo primo pensiero fosse la fuga.

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