PARTE PRIMA Il tempo che è rimasto

Uno

1

Per volere della mia matrigna, Cesaria Barbarossa, la casa in cui mi trovo in questo momento fu costruita in modo che fosse rivolta a sud-est. L’architetto — che fu nientemeno che il terzo presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson — contestò quella decisione più volte e con grande eloquenza. Qui sulla mia scrivania ho le lettere che Jefferson scrisse a questo proposito. Ma la mia matrigna fu irremovibile. La casa doveva essere rivolta verso la sua terra natale, verso l’Africa, e lui, quale suo impiegato, dovette fare ciò che gli era stato ordinato.

È molto chiaro, comunque, leggere tra le righe delle missive di Cesaria (sono in possesso anche di quelle; o, almeno, delle minute di quelle lettere) che Jefferson era ben più che un semplice architetto; e che lei, per lui, era ben più che una donna testarda animata dal perverso desiderio di costruire una casa in una palude del North Carolina, rivolta a sud-est. Si scrivevano come due persone che condividevano un segreto.

Anch’io conosco alcuni segreti; e, fortunatamente per la completezza di ciò che seguirà, non ho alcuna intenzione di mantenerli.

È giunto il tempo di raccontare tutto ciò che so. E tutto ciò che posso scoprire o presumere. E tutto ciò che posso inventare. Se svolgerò il mio compito nel modo giusto, sono certo che non vi importerà nemmeno cosa è cosa. Ciò che apparirà su queste pagine sarà, mi auguro, una storia fluida che descriverà le azioni e i destini che attraverseranno tutto il mondo. Alcuni saranno a dir poco strani eventi, messi in atto da anime tormentate e sgradevoli. Ma, come regola generale, dovreste tener conto che più improbabili saranno gli avvenimenti che vi mostrerò su questo palcoscenico, più sarò in grado di dimostrare la veridicità di ciò che è accaduto. Ho il sospetto che le cose che inventerò saranno banali in confronto alla verità. E, come ho già detto, è mia intenzione non farvi capire la differenza. Ho deciso di intrecciare gli elementi della mia storia così abilmente che smetterete di chiedervi se un certo avvenimento sia accaduto là fuori, nello stesso mondo in cui voi camminate, o qui dentro, nella testa di uno storpio che non lascerà mai più la casa della sua matrigna.


Questa casa, questa gloriosa casa!

Quando Jefferson cominciò a dedicarsi a questo progetto, era ancora piuttosto lontano da Pennsylvania Avenue, ma era tutt’altro che uno sconosciuto. Era il 1790. Aveva già firmato la Dichiarazione d’Indipendenza ed era stato ministro degli Stati Uniti presso il governo francese. Dalla sua penna erano scaturite grandi parole. Eppure eccolo che sottrae tempo ai suoi doveri a Washington e ai lavori della sua stessa casa, per scrivere lunghe lettere alla moglie di mio padre, in cui i dettagli della costruzione di questa casa e le sfumature del suo cuore sono squisitamente intrecciati.

Se questo non vi sembra abbastanza straordinario, tenete presente che Cesaria è una donna di colore, e Jefferson, nonostante tutte le sue contestazioni democratiche, era il proprietario di qualcosa come duecento schiavi. Perciò, quanta influenza doveva esercitare su di lui per riuscire a persuaderlo a lavorare per lei, come infine accadde? È un testamento dei suoi poteri di incantatrice — i poteri che in questo caso esercitò, come le piaceva dire, “senza juju”. In altre parole: nel trattare con Jefferson, Cesaria era semplicemente, dolcemente, e persino candidamente, umana. Quali che fossero le sue capacità di piegare in modo soprannaturale un animo umano — e sono molte — amava troppo la chiarezza con cui Jefferson guardava il mondo per provare ad accecarlo in alcun modo. Se le era devoto, era soltanto perché la mia matrigna era degna della sua devozione.


Battezzarono la casa che Jefferson costruì per lei L’Enfant. In effetti, credo che il nome completo fosse L’Enfant de les Carolinas. Posso solo formulare delle ipotesi sulla ragione per cui la chiamarono così.

Il fatto che il nome sia in francese non deve destare meraviglia: si erano conosciuti nei saloni dorati di Parigi. Ma perché proprio quel nome? Ho due teorie, in proposito. La prima, e più ovvia, è che la casa fosse in qualche modo il prodotto della loro relazione — il loro bambino, se volete -, e quindi la chiamarono di conseguenza. La seconda è che fosse il figlio di un genitore architettonico, della casa di Jefferson stesso a Monticello, il luogo in cui il suo genio risplendette per gran parte della sua vita. È tre volte più grande della casa di Jefferson (Monticello è circa novecento metri quadrati; L’Enfant, invece, è poco più di duemilasettecento) e ha nelle sue vicinanze una serie di strutture di servizio minori, mentre l’abitazione di Jefferson è costituita da un’unica struttura che comprende i quartieri degli schiavi e della servitù, le cucine e le toilette, tutto sotto uno stesso tetto. Ma per altri aspetti le due case sono molto simili. Entrambe sono rielaborazioni jeffersoniane di modelli palladiani; entrambe hanno doppi portici, volte ottagonali, ampie stanze dagli alti soffitti e dalle numerose finestre, entrambe sono più pratiche che appariscenti; entrambe, direi, sono strutture che comunicano una grande sicurezza e un grande amore.

Naturalmente, sono situate in paesaggi completamente diversi. Monticello, come il suo nome suggerisce, sorge su una montagna. L’Enfant si trova su un basso appezzamento di terreno di quarantasette acri, la cui estremità sudorientale è una palude imbonificabile, mentre il perimetro settentrionale è un bosco composto principalmente da pini. La casa vera e propria si erge su una modesta altura, che la protegge dalle paludi e dalla vegetazione di questa zona, ma non abbastanza da impedire alle cantine di allagarsi durante gli acquazzoni e alle stanze di diventare terribilmente fredde in inverno e umide in modo infernale d’estate. Non che mi lamenti. L’Enfant è una casa straordinaria. Talvolta penso che abbia un’anima tutta sua. Senza dubbio, sembra conoscere gli umori dei suoi occupanti e sa assecondarli. Ci sono stati momenti in cui, mentre sedevo nel mio studio, un pensiero nero mi ha attraversato la mente per qualche ragione, e vi posso giurare che la stanza si è fatta più oscura, per empatia verso di me. Non ci sono cambiamenti fisici — le tende non si chiudono, le macchie non si allargano — tuttavia ho sentito una sottile trasformazione nella stanza; come se volesse seguire il ritmo del mio umore. E lo stesso vale per i giorni in cui sono allegro, oppure ossessionato dai dubbi, o anche semplicemente pigro. Forse è stato il genio di Jefferson a creare questa illusione di empatia, o forse è opera di Cesaria: del suo genio sposato a quello dell’architetto. Quale che sia la ragione, L’Enfant ci conosce. Meglio, mi capita di pensare talvolta, di quanto noi conosciamo noi stessi.

2

Divido questa casa con tre donne, due uomini e un certo numero di indeterminati.

Le donne sono naturalmente Cesaria e le sue fìglie, le mie due sorellastre, Marietta e Zabrina. E gli uomini? Uno è il mio fratellastro Luman (che non vive esattamente in casa, ma fuori, in una baracca sulla proprietà) e Dwight Huddie, che è il nostro maggiordomo, cuoco e tuttofare: vi parlerò ancora di lui in seguito. Poi, come ho già detto, ci sono gli indeterminati, il cui numero è, ovviamente, indeterminato.

Come posso descrivervi queste presenze? Certamente non come spiriti; è una parola che evoca qualcosa di davvero troppo fantasioso. Sono semplicemente lavoratori senza nome, al servizio esclusivo di Cesaria, che si occupano dell’andamento generale della casa. Svolgono bene il loro lavoro. A volte mi domando se Cesaria non li avesse evocati ai tempi in cui Jefferson era ancora al lavoro qui, così da fornire a tutti loro un’educazione pratica sui punti di forza e sulle debolezze del suo capolavoro. In questo caso, sarebbe stata una scena memorabile: Jefferson il grande razionalista, l’uomo dei numeri, obbligato a credere ai suoi stessi occhi, anche se il suo buon senso senza dubbio sarebbe insorto all’idea che creature simili — evocate dall’etere per volere della signora dell’Enfant — potessero esistere. Come ho già detto, non so quanti siano (sei, forse; forse meno), né se siano in effetti proiezioni del volere di Cesaria, o cose che un tempo possedevano un’anima e una volontà. So soltanto che svolgono senza sosta il compito di tenere questa grande casa e i terreni circostanti in condizioni ragionevoli, ma — come tecnici di un teatro — lo fanno solo quando il nostro sguardo è rivolto altrove. Se questo vi sembra piuttosto strano, probabilmente lo è davvero: io mi ci sono soltanto abituato. Non penso più a chi sia a cambiarmi le lenzuola ogni mattina mentre mi lavo i denti, o a chi ricucia i bottoni delle mie camicie quando si allentano, o sistemi le crepe nell’intonaco o poti le magnolie. Do per scontato che il lavoro sarà fatto, e chiunque sia a svolgerlo non desidera scambiare piacevolezze con me più di quanto io desideri scambiarne con loro.

C’è anche qualcun altro in questa casa che penso meriti di essere citato, ed è il servitore personale di Cesaria. Come lei sia arrivata ad averlo come compagno sarà argomento di alcune pagine a venire, quindi fino ad allora lascerò perdere i dettagli. Ma permettetemi di dirvi questo: è, a mio avviso, l’anima più triste della casa. E se si considera la somma del dolore che si trova sotto questo tetto, non è poca cosa.

Comunque, non ho intenzione di perdermi nella malinconia. Andiamo avanti.

Dal momento che ho elencato gli occupanti umani o quasi umani dell’Enfant, forse dovrei menzionare anche gli animali. Una proprietà vasta come questa, naturalmente, ospita innumerevoli specie selvatiche. Ci sono volpi, puzzole e opossum, ci sono gatti selvatici (sfuggiti al loro destino domestico da qualche parte nella contea di Rollins) e un gran numero di cani che si sono stabiliti nel bosco. Gli alberi sono affollati di uccelli notte e giorno, e di tanto in tanto un alligatore abbandona la palude e si avventura fino al prato dove rimane a prendere il sole.

Tutto questo è abbastanza prevedibile. Ma ci sono due specie la cui presenza qui è a dir poco bizzarra. La prima venne importata da Marietta che, alcuni anni fa, si mise in testa di allevare tre cuccioli di iena. Non ricordo come ne fosse entrata in possesso (né se me lo abbia mai raccontato); so soltanto che si stancò abbastanza in fretta di quel surrogato di maternità e finì per liberarle. Le iene si riprodussero, in modo incestuoso naturalmente, e ora là fuori c’è un branco piuttosto consistente. Ci sono altre stranezze che la mia matrigna ama in modo particolare: i porcospini. Fin da quando si è trasferita all’Enfant, li ha tenuti come cuccioli, e loro hanno prosperato. Vivono in casa, dove si aggirano indisturbati, anche se preferiscono restare ai piani superiori, vicini alla loro signora.

Avevamo dei cavalli, naturalmente, ai tempi di mio padre — le stalle erano una vera e propria reggia — ma nessuno di loro è sopravvissuto più di un’ora alla sua morte. Anche se avessero avuto facoltà di scelta in materia (cosa che non avevano), erano troppo legati a mio padre per continuare a vivere senza di lui, troppo nobili. Dubito che si potrebbe dire lo stesso di una qualunque delle altre specie. Coesistono con noi malvolentieri, e dubito che ci piangerebbero a lungo se ce ne andassimo tutti. Non credo che rispetterebbero per molto la santità della casa. Nel giro di una settimana o due, si impossesserebbero della residenza: le iene nella biblioteca, gli alligatori in cantina, le volpi a scorrazzare sotto l’alta cupola. A volte mi chiedo se non ci stiano già pensando; se non stiano facendo progetti per il giorno in cui toccherà a loro riempire questa casa di escrementi dal tetto alle fondamenta.

Due

Le mie stanze si trovano sul retro della casa, quattro stanze in tutto, nessuna delle quali è stata progettata per l’uso che ne faccio attualmente. Quella che è ora la mia camera da letto — quella che considero la stanza più affascinante della casa — in origine era una sala da pranzo, utilizzata dal mio defunto padre, Hursek Nicodemus Barbarossa, che non si è mai seduto una sola volta allo stesso tavolo di Cesaria per tutto il tempo che ho vissuto qui. Ma questo è il matrimonio.

Accanto allo studio dove siedo in questo momento, Nicodemus aveva sistemato una collezione di oggetti, una buona parte dei quali è stata — per suo volere — seppellita insieme a lui quando è morto. Lì teneva il teschio del primo cavallo che aveva avuto, insieme a un’ampia e bizzarra collezione di giocattoli sessuali, costruiti nel corso dei secoli per aumentare il piacere dei connoisseurs (mio padre aveva una storia per ciascun oggetto ed erano tutte immancabilmente divertentissime). Ma non è tutto. C’era anche un guanto d’armatura che era appartenuto a Saladino, l’amante musulmano di Riccardo Cuor di Leone. C’era una pergamena, dipinta per lui in Cina, che raccontava, come mi disse una volta, la storia del mondo (benché ai miei occhi incolti sembrasse soltanto un paesaggio attraversato dalle spire di un fiume); c’erano dozzine di rappresentazioni di genitali maschili — il lingam, il flauto di giada, la verga di Aaron (o come preferiva chiamarlo mio padre Il Santo Membro) — alcune delle quali, immagino, erano state intagliate o scolpite dai suoi stessi sacerdoti, e quindi erano modellate sul sesso che mi aveva generato. Alcuni di quegli oggetti sono ancora lì, sugli scaffali. Potreste pensare che tutto questo sia strano, o persino ripugnante. Non sono certo che sarei pronto a mettere in dubbio una simile opinione. Ma mio padre era un uomo sessuale, e quelle statue, nonostante la loro notevole crudezza, lo incarnano meglio di un libro sulla sua vita o di mille fotografìe.

Non che questi siano gli unici oggetti a occupare gli scaffali. Nel corso dei decenni, ho messo insieme un’ampia biblioteca. Anche se parlo solo l’inglese, il francese e un italiano non molto fluente, leggo l’ebraico, il latino e il greco. Quindi i miei libri sono spesso antichi, incentrati su argomenti arcani. Quando si ha tanto tempo a disposizione quanto ne ho avuto io, la curiosità tende a seguire sentieri oscuri. In circoli eruditi, probabilmente, sarei considerato il massimo esperto di una grande varietà di argomenti di cui nessuno con una vera vita da vivere — figli, tasse, amore — si interesserebbe mai.

Mio padre, se fosse qui, non approverebbe i miei libri. Non gli piaceva che leggessi. Gli ricordava, era solito dirmi, di come aveva perso mia madre. Un commento, tra l’altro, che ancora oggi non riesco a capire. L’unico volume che mi incoraggiava a studiare era il libro di due sole pagine che si apre tra le gambe di una donna. Mi nascondeva l’inchiostro, la penna e la carta, quando ero bambino; anche se, naturalmente, dal momento che mi erano proibiti, finivo per desiderarli ancora di più. Aveva deciso che la sola cosa che avrei dovuto apprendere sarebbe stata l’arte dell’allevamento dei cavalli che, dopo il sesso, era la sua più grande passione.

Da ragazzo, ho viaggiato per il mondo per conto di mio padre, comprando e vendendo cavalli, organizzando il loro trasporto qui, alle stalle dell’Enfant, imparando a comprendere la loro natura come la comprendeva lui. Ero bravo in ciò che facevo; e amavo viaggiare. E fu proprio durante uno di questi viaggi che conobbi Chiyojo, la mia defunta moglie, e la portai qui, deciso a formare una famiglia. Sfortunatamente quelle dolci ambizioni mi vennero negate da una serie di tragedie che culminò con la morte sia di mia moglie sia di Nicodemus.

Ma sto anticipando troppo. Stavo parlando di questa stanza e di ciò che ospitava ai tempi di mio padre: i falli, la pergamena, il teschio del cavallo. Cos’altro? Lasciatemi pensare. C’erano una campana che secondo Nicodemus era stata suonata da un lebbroso guarito durante la Crocifissione (si era portato la campana nella tomba) e uno strumento, non più grande del portasigari in cui tengo i miei avana, che emette una strana musica lamentosa se viene toccato, il cui suono è così simile alla voce umana che è possibile credere, come insisteva nel dire mio padre, che il suo interno sigillato davvero contenga un meccanismo vivente.

Vi prego di sentirvi liberi di pensare ciò che volete di queste affermazioni. Anche se mio padre è morto da quasi centoquarant’anni, non ho alcuna intenzione di dargli del bugiardo in queste pagine. Uomini come lui non prendono bene il fatto che i loro racconti vengano messi in discussione, e benché sia morto non sono del tutto convinto di essere al sicuro da lui.

Comunque, è una bella stanza. Costretto come sono a sedere qui per la maggior parte del tempo, ho acquisito una particolare familiarità con ogni sfumatura della sua forma e del suo volume, e se Jefferson ora fosse qui davanti a me, gli direi: signore, non riesco a pensare a una prigione più felice di questa, né a una prigione più adatta a ispirare gli sciatti voli della mia mente.

Se sono così felice qui, seduto con un libro tra le mani, allora perché, potreste chiedervi, ho deciso di prendere carta e penna e scrivere quella che inevitabilmente sarà una storia tragica? Perché tormentarmi in questo modo, quando potrei andare con la mia sedia a rotelle sulla balconata a leggere San Tommaso d’Aquino e a osservare la vita delle mimose?

Ci sono due ragioni. La prima è la mia sorellastra, Marietta.

È andata così. Circa due settimane fa, è venuta nella mia stanza (senza bussare, come al solito), si è versata un bicchiere di gin, senza chiedere il permesso, come al solito, e si è seduta senza essere stata invitata su quella che era la poltrona di mio padre, dicendo: “Eddie…”

Lei sa che odio essere chiamato Eddie. Il mio nome completo è Edmund Maddox Barbarossa. Edmund va bene; Maddox va bene; da ragazzo venivo persino chiamato Il Bue, e non lo trovavo affatto offensivo. Ma Eddie? Un Eddie può camminare. Un Eddie può fare l’amore. Io non sono un Eddie.

“Perché fai sempre così?” le ho domandato.

Si è appoggiata allo schienale scricchiolante della poltrona e ha sorriso maliziosa: “Perché ti dà fastidio”, ha detto. Una risposta tipicamente mariettesca. Quando vuole, può essere la pura essenza della perversione, anche se guardandola non lo si direbbe affatto. Non ho intenzione di adularla (a questo provvedono già più che a sufficienza le sue amanti), ma è una donna veramente bellissima. Quando sorride, ha il sorriso di mio padre; la stessa fame, un’eco di lui. Ma per il resto è in tutto e per tutto figlia di Cesaria; nel taglio degli occhi e nello sguardo pieno di tranquilla certezza, che se indugia su qualcuno per più di un istante è come qualcosa di fisico. Non è molto alta, la mia Marietta — poco più di un metro e cinquanta senza stivali — e ora l’immensità della poltrona in cui siede e il sorriso dolce e allo stesso tempo frivolo sul suo viso paiono quasi rimpicciolirla fino a farla sembrare quasi una bambina. Non era difficile immaginare mio padre alle sue spalle, le braccia possenti che la cingevano, cullandola. Forse anche lei lo ha immaginato, seduta lì. Forse è stato quel ricordo a spingerla a dire:

“Ti senti triste in questi giorni? Voglio dire, particolamente triste?”

“Che cosa intendi con particolarmente triste?”

“Be’, so che passi il tuo tempo qui a deprimerti.”

“Io non mi deprimo.”

“Tu ti isoli.”

“È una mia scelta. Non sono infelice.”

“Sinceramente?”

“Ho tutto quello di cui ho bisogno, qui. I miei libri, la mia musica. E se proprio sono disperato ho addirittura un televisore. So anche come accenderlo.”

“Per cui non ti senti triste? Mai?”

Dal momento che insisteva così testardamente sull’argomento, mi sono fermato a rifletterci per qualche istante. “In effetti, ho avuto un paio di fitte di malinconia, recentemente”, le ho concesso. “Niente che non sia riuscito a scrollarmi di dosso, comunque.”

“Odio questo gin.”

“È inglese.”

“È amaro. Perché devi bere proprio gin inglese? Il sole è tramontato sull’Impero molto tempo fa.”

“Mi piace proprio perché è amaro.”

Lei ha fatto una smorfia. “La prossima volta che andrò a Charleston, ti comprerò del brandy veramente favoloso”, ha detto.

“Il brandy è sopravvalutato”, ho commentato.

“Diventa ottimo, se ci sciogli dentro un po’ di cocaina. L’hai mai provato? Ti dà la carica.”

“Cocaina sciolta nel brandy?”

“Va giù che è una meraviglia e il mattino dopo non ci si ritrova il naso pieno di muco grigiastro.”

“Non ho bisogno di cocaina, Marietta. Me la cavo egregiamente con il mio gin.”

“Ma il liquore ti fa venire sonno.”

“E allora?”

“E allora non potrai permetterti di essere sempre assonnato una volta che sarai al lavoro.”

“Mi sono perso qualcosa?” le ho domandato.

Lei si è alzata e, nonostante il suo disprezzo per il mio gin inglese, si è riempita ancora il bicchiere ed è venuta a fermarsi dietro la mia sedia. “Vuoi che ti porti in terrazza?”

“Vorrei che venissi al punto.”

“Pensavo che a voi inglesi piacesse la prevaricazione”, ha detto lei, allontanandomi dalla scrivania e spingendomi fino alla portafinestra. Era già aperta: ero rimasto seduto a godermi la fragranza dell’aria della sera quando è entrata Marietta. Mi ha portato sulla terrazza.

“Ti manca l’Inghilterra?” mi ha chiesto.

“Questa conversazione è sempre più strana…” ho detto io.

“È una semplice domanda. Devi sentirne la mancanza, qualche volta.”

(Mia madre, è giusto che lo spieghi, era inglese; una delle molte amanti di mio padre.)

“È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stato in Inghilterra. Riesco a ricordarmela veramente solo nei sogni.”

“Trascrivi i sogni?”

“Oh… Ora capisco. Si tratta ancora del libro.”

“È ora, Maddox”, ha continuato Marietta, in un tono estremamente serio che non le sentivo usare da anni. “Non ci resta molto tempo.”

“Secondo chi?”

“Oh, Cristo santo, usa gli occhi! Qualcosa sta cambiando, Eddie. Non è così palese ma è dovunque. È nei mattoni. È nei fiori. È nel terreno. Ho fatto una passeggiata vicino alle stalle, dove abbiamo messo papà, e ti giuro che ho sentito la terra tremare.”

“Non dovresti andare là.”

“Non cambiare discorso. È una cosa in cui sei così bravo, soprattutto quando cerchi di evitare le tue responsabilità.”

“E da quando sono…”

“Sei l’unico della famiglia che può scrivere tutto questo, Eddie. Hai tutti gli appunti, qui, tutti i diari. Ricevi ancora lettere da chi sai tu.”

“Tre negli ultimi quarant’anni. Non è proprio quella che definirei una fitta corrispondenza. E Cristo santo, Marietta, chiamalo per nome.”

“E perché dovrei? Odio quel piccolo bastardo.”

“Questa è proprio una cosa che certamente lui non è, Marietta. Ora, perché non finisci il tuo gin e non mi lasci in pace?”

“Mi stai dicendo di no, Eddie?”

“Non te lo senti dire molto spesso, vero?”

Eddie…” ha detto lei con un sorrisetto vacuo.

“Marietta. Tesoro. Non ho intenzione di gettare la mia vita nel caos solo perché tu vuoi che io scriva la storia della nostra famiglia.”

Mi ha rivolto un’occhiata breve e affilata e ha finito il gin tutto d’un fiato, e poi ha appoggiato il bicchiere sul parapetto della balconata. Dalla precisione dei suoi movimenti e dalla pausa che ha fatto prima di parlare, ho intuito che aveva pronta un’ultima battuta per la sua uscita di scena. Ha un notevole gusto teatrale, la mia Marietta.

“Non vuoi gettare la tua vita nel caos? Cerca di non essere così assurdamente patetico. Tu non hai una vita, Eddie. È per questo che devi scrivere il libro. Se non lo scriverai, morirai senza aver fatto una sola dannata cosa.”

Tre

1

Sapeva benissimo che non è così, naturalmente. Ho vissuto, accidenti a lei! Prima del mio incidente avevo una fame di esperienze quasi paragonabile a quella di Nicodemus. Anzi, devo correggermi. Non sono mai stato interessato quanto lui alle opportunità sessuali offerte dai miei viaggi. Mio padre conosceva a menadito tutti i grandi bordelli d’Europa; io preferivo vagare per le cattedrali o ubriacarmi in qualche bar. Il bere è una delle mie debolezze, non lo nascondo, e mi ha cacciato nei guai più di una volta. Mi ha anche fatto ingrassare. Naturalmente, è difficile restare snelli quando si è bloccati su una sedia a rotelle. Il fondoschiena si allarga, così come la vita; e, Signore, la mia faccia, che un tempo era così bella che sarei potuto entrare in qualunque luogo e scegliere una compagna a mio piacimento, ora è tonda e paffuta. Solo nei miei occhi potreste intravedere il magnetismo di cui un tempo ero capace. Sono di un colore insolito, sospeso tra il grigio e il blu. Il resto di me è andato all’inferno.

Immagino che succeda a tutti, prima o poi. Persino Marietta, che è una Barbarossa purosangue, ha detto che nel corso degli anni ha notato qualche impercettibile segno di invecchiamento; solo che accade molto più lentamente che per un qualsiasi essere umano. Un capello grigio ogni dieci anni o poco più non è certo cosa di cui lamentarsi, le ricordo, soprattutto quando la natura le ha dato tali e tanti altri doni: ha la pelle perfetta di Cesaria (anche se né lei né Zabrina sono nere come la loro madre) e l’armonia fisica di Nicodemus. Condivide la mia passione per l’alcool, anche se il bere non ha ancora avuto effetti sulla sua vita o sui suoi glutei. Ma sto divagando ancora. Come sono arrivato a parlare del fondoschiena di Marietta? Oh sì, stavo raccontando dei miei viaggi quale rappresentante di mio padre. Era magnifico. Mi sono trovato immerso nella merda di moltissime stalle nel corso degli anni, naturalmente, ma ho anche visitato alcune delle glorie di questo pianeta: le terre selvagge della Mongolia, i deserti del Nord Africa, le pianure dell’Andalusia. Per cui vi chiedo di capire che, anche se ora sono ridotto al ruolo di voyeur, non è sempre stato così. Non scrivo da teorico, pontificando sullo stato di un mondo che ho conosciuto solo attraverso i giornali e lo schermo del televisore.

Quando mi inoltrerò nella storia, senza dubbio l’arricchirò con i racconti di cose che ho visto e persone che ho conosciuto durante i miei viaggi. Per ora, comunque, lasciatemi parlare dell’Inghilterra, il paese dove sono stato concepito. La mia madre naturale era una donna di nome Moira Feeney e, anche se è morta poco tempo dopo la mia nascita di una malattia che non ho mai del tutto compreso, ho trascorso i primi sette anni della mia vita nel suo paese natale, accudito da sua sorella, Gisela. Non fu affatto una vita agiata; Gisela si infuriò quando scoprì che il padre del bambino di sua sorella non aveva intenzione di invitarci a far parte del suo cerchio incantato, e piuttosto che accettare le somme sostanziose che lui le offriva perché potesse crescermi, rifiutò ogni aiuto, orgogliosamente e stupidamente. Si rifiutò anche di vederlo. Fu solo quando anche Gisela morì (fu colpita, cosa piuttosto sospetta, da un fulmine) che mio padre apparve e mi portò con sé nei suoi viaggi. Per i successivi cinque anni vivemmo in un gran numero di case straordinarie, ospiti di grandi uomini che volevano consigli da mio padre sull’allevamento dei cavalli (e Dio solo sa su cos’altro; penso che probabilmente, dietro le quinte, stesse modellando i destini di intere nazioni). Nonostante tutto lo sfarzo di quegli anni — due estati a Granada, una primavera a Venezia, così tanti altri luoghi che quasi non riesco a ricordare — sono i miei anni a Blackheath con Gisela quelli che ricordo con più affetto. Erano stagioni gentili; con la mia gentile zia umana e il latte e la pioggia e i pruni che crescevano dietro il cottage, dai cui rami più alti potevo vedere la cupola della chiesa di St. Paul.

Ho un ricordo molto limpido di com’era arrampicarsi su quei rami nodosi, dove trascorrevo ora dopo ora, cullato fino a una dolce ipnosi da canzoni e filastrocche. Ricordo ancora una di quelle filastrocche.


Ero

Sono

E sempre

Sarò, perché

Ero

Sono

E sempre

Sarò, perché…


E così via, ancora e ancora.

Marietta ha ragione, mi manca l’Inghilterra e faccio tutto il possibile per tenermi stretto il suo ricordo. Gin inglese, sintassi inglese, malinconia inglese. Ma l’Inghilterra che vorrei, l’Inghilterra di cui sogno quando sonnecchio sulla mia sedia a rotelle, non esiste più. Essa è semplicemente un panorama ammirato dalla cima di un albero e un bambino felice. Entrambi appartengono al passato già da molto tempo. Questa è, comunque, la seconda ragione per cui sto scrivendo questo libro. Nell’aprire le dighe della memoria, spero di ritornare, almeno per un po’, alla gioia della mia infanzia.

2

Penso che dovrei raccontarvi, per quanto brevemente, cos’è successo il giorno in cui ho detto a Marietta che avevo iniziato a scrivere questo libro, perché potrebbe permettervi di capire meglio cosa significhi vivere in questa casa. Ero seduto sulla terrazza con la sola compagnia degli uccelli (ce ne sono undici — cardinali rossi, zigoli, merli — che vengono a mangiare dalla mia mano e rimangono per un po’ a cantare per me) e mentre li stavo nutrendo ho sentito Marietta al piano di sotto litigare furiosamente con l’altra mia mezza sorella, Zabrina. Da quanto sono riuscito a capire, Marietta era imperiosa come al solito e Zabrina — che cerca di evitare tutti per la maggior parte del tempo e quando incontra un membro della famiglia dice il meno possibile — una volta tanto riusciva a tenerle testa. Il motivo dello scontro era questo: Marietta, la notte precedente, aveva portato in casa una delle sue amanti e la sua ospite si era dimostrata decisamente curiosa. A quanto pareva, si era alzata mentre Marietta dormiva e si era aggirata per la casa e aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.

La ragazza adesso era in stato di choc e Marietta aveva esaurito la pazienza con lei, per cui stava cercando di convincere Zabrina a preparare uno dei suoi dolci speciali per cancellare la memoria della giovane. Poi Marietta l’avrebbe riportata a casa e avrebbero potuto dimenticare per sempre quella spiacevole faccenda.

“Te l’ho già detto l’ultima volta, non approvo.” In circostanze normali, la voce di Zabrina è esile e debole; adesso era decisamente stridula.

“Oh Signore”, ha ribattuto Marietta stancamente. “Non essere così moralista.”

“Sai benissimo che dovresti tenere la gente normale lontana da questa casa”, ha continuato Zabrina. “Portare qui qualcuno significa andare a cercarsi dei guai.”

“Lei è speciale”, ha replicato Marietta.

“E allora perché vuoi che le cancelli la memoria?”

“Perché ho paura che potrebbe impazzire, se non lo farai.”

“Che cos’ha visto?”

Una pausa. “Non lo so”, ha ammesso alla fine Marietta. “È troppo sconvolta per dire qualcosa di sensato.”

“Be’, dove l’hai trovata?”

“Sulle scale.”

“Non ha visto la mamma?”

“No, Zabrina. Non ha visto la mamma. Se l’avesse vista…”

“Sarebbe morta.”

“…sarebbe morta.”

Un’altra pausa. E, alla fine, Zabrina ha detto: “Se faccio questo per te…”

“Sì?”

Quid pro quo.

“Questa non è solidarietà tra sorelle”, ha borbottato Marietta. “Comunque, d’accordo. Quid pro quo. Che cosa vuoi?”

“Non lo so ancora”, ha risposto Zabrina. “ma qualcosa mi verrà in mente, non preoccuparti. E sarà qualcosa che non ti piacerà. Farò in modo che sia così.”

“Come sei sciocca”, ha commentato Marietta.

“Stammi a sentire. Vuoi che lo faccia oppure no?”

Di nuovo, una pausa. “È in camera mia”, ha detto Marietta. “Ho dovuto legarla al letto.”

Zabrina ha ridacchiato.

“Non è affatto divertente.”

“Oh sì, invece, sono tutte divertenti”, ha replicato Zabrina. “Menti deboli, cuori deboli. Non troverai mai qualcuna che possa stare davvero con te. Ma questo lo sai, vero? È impossibile. Resteremo soli, fino alla fine.”


Un’ora più tardi, Marietta è comparsa nella mia stanza. Aveva il volto cinereo; i suoi occhi grigi erano pieni di tristezza.

“Hai sentito la nostra conversazione”, mi ha detto. Non mi sono scomodato a risponderle. “A volte quella stronza mi fa venire voglia di prenderla a schiaffi. Con tutta la forza che ho. Non che sentirebbe qualcosa. Grassa com’è.”

“Il fatto è che non sopporti di essere in debito con qualcuno.”

“Non mi darebbe fastidio esserlo con te”, ha detto lei.

“Io non conto.”

“Già, immagino che tu abbia ragione”, ha borbottato. Poi, notando l’espressione sul mio volto: “E adesso cos’ho detto? Ho detto che sono d’accordo con te, Cristo santo! Perché devono essere tutti così suscettibili da queste parti?” È andata alla mia scrivania e ha esaminato il contenuto della bottiglia di gin. Ne restava a malapena un bicchiere. “Ne hai dell’altro?”

“Ce n’è mezza cassa nell’armadio della mia camera da letto.”

“Ti dispiace se…?”

“Serviti pure.”

“Sai, dovremmo parlare più spesso io e te, Eddie”, mi ha gridato mentre cercava il gin. “Dovremmo conoscerei meglio. Io non ho niente in comune con Dwight, e Zabrina da un paio di mesi a questa parte è di un umore a dir poco orrendo. È diventata talmente obesa ultimamente, Eddie. L’hai vista? Insomma, è così schifosamente grassa.”

Anche se sia Zabrina sia Marietta insistono nel dire che sono completamente diverse l’una dall’altra — e questa, sotto molti aspetti, è la verità — hanno in comune alcune qualità essenziali. In fondo all’anima sono entrambe donne determinate, testarde e ossessive. Ma se Marietta, che ha undici anni meno di Zabrina, si è sempre vantata di essere atletica, ed è snella quanto può esserlo una donna senza perdere le forme, Zabrina ormai da anni ha ceduto alla sua passione per i cioccolatini e per la torta di noci. Di tanto in tanto la vedo dalla mia finestra aggirarsi rotondamente per il prato. L’ultima volta che l’ho avvistata doveva pesare più o meno centocinquanta chili. (Siamo, lo avrete sicuramente capito ormai, un gruppo di persone ferite nel profondo. Ma, credetemi, quando conoscerete meglio le circostanze delle nostre vite, rimarrete stupiti da quanto possiamo essere funzionali.)

Marietta è tornata con una nuova bottiglia di gin, ha svitato il tappo e se ne è versata una dose generosa.

“Perché tieni tutti quei vestiti nell’armadio?” mi ha chiesto, buttando giù una sorsata. “Non credo avrai più l’occasione di indossarli, la maggior parte almeno.”

“Immagino che questo voglia dire che hai messo gli occhi su qualcosa.”

“La giacca dello smoking.”

“Prendila pure.”

Si è sporta in avanti e mi ha baciato su una guancia. “Ti ho sottovalutato per tutti questi anni”, ha detto, e si è affrettata ad andare a prendere la giacca prima che potessi cambiare idea.

“Ho deciso di scrivere il libro”, le ho detto quando è tornata.

Lei ha gettato la giacca sulla poltrona di Nicodemus e quasi si è messa a danzare per l’eccitazione. “Ma è magnifico”, ha esclamato. “Oh mio Dio, Eddie, ci divertiremo un sacco, tu e io.”

“Tu e io?”

“Sì, tu e io. Voglio dire, per la maggior parte del tempo sarai tu a scrivere, ma io ti aiuterò. Ci sono un mucchio di cose che non sai. Storie scabrose su Cesaria che lei stessa mi ha raccontato quando ero piccola.”

“Forse dovresti abbassare la voce.”

“Non può sentirmi. Ormai sta sempre nelle sue stanze.”

“Non abbiamo idea di cosa può sentire”, le ho fatto notare. Si racconta che Cesaria avesse ordinato a Jefferson di progettare la casa in modo che convogliasse tutti i suoni nelle sue stanze (nelle quali, tra l’altro, né io né Marietta abbiamo mai messo piede). Questa storia potrebbe essere apocrifa ma non ne sono così sicuro. Anche se sono trascorsi molti, molti mesi dall’ultima volta che l’ho vista, non ho difficoltà a credere che sia seduta lì, nel suo boudoir, ad ascoltare i suoi figli e i figli di suo marito che cospirano, piangono e poco alla volta perdono la ragione. Probabilmente, tutto questo le piace.

“E allora, anche se può sentirmi? Dovrebbe essere felice che ci imbarchiamo in un’impresa simile. Insomma, sarà la storia dei Barbarossa. La renderà immortale.”

“Sempre che non lo sia già.”

“Oh no… Sta invecchiando. Zabrina la vede spesso e dice che la vecchia stronza si sta indebolendo.”

“Trovo difficile immaginarlo.”

“È stato proprio questo a farmi venire l’idea per il nostro libro.”

“Non è il nostro libro”, ho puntualizzato. “Se lo farò, lo farò a modo mio. Il che significa che non sarà semplicemente la storia dei Barbarossa.”

Marietta ha svuotato il bicchiere. “Capisco”, ha detto, con voce leggermente più fredda. “E allora cosa sarà?”

“Oh, parlerà della famiglia. Ma parlerà anche dei Geary.”

Lei è rimasta in silenzio e ha guardato fuori dalla finestra, il punto della terrazza dove di solito mi fermo per dare da mangiare agli uccelli. Ci è voluto almeno un intero minuto perché riuscisse a parlare di nuovo. “Se parlerai dei Geary, allora non voglio avere niente a che fare con quel fottuto libro.”

“Come posso scrivere…”

“Né con te.”

Lasciami finire, vuoi? Come posso scrivere di questa famiglia — in particolare della storia recente di questa famiglia — e non scrivere dei Geary?”

“Sono feccia, Eddie. Feccia umana. E sono pericolosi. Tutti fino all’ultimo.”

“Non è vero, Marietta. E se anche fosse, ti ripeto: che razza di cronaca censurata sarebbe questo dannato libro se decidessi di escluderli?”

“D’accordo. Ti concedo qualche breve accenno.”

“Fanno parte della nostra vita.”

“Non fanno parte della mia”, ha replicato lei con rabbia. Il suo sguardo si è posato di nuovo su di me, e mi sono accorto che più che infuriata era addolorata. Ai suoi occhi, il mio desiderio di raccontare la storia in questo modo mi aveva reso senz’altro un traditore. Prima di parlare di nuovo, ha scelto le parole con grande cura, come un avvocato prima della sua arringa conclusiva.

“Ti rendi conto, vero, che questo potrebbe essere il solo modo per far sapere alla gente qualcosa della nostra famiglia?”

“A maggior ragione.”

“No, adesso lasciami finire tu”, ha sbottato lei. “Quando sono venuta qui a proporti di scrivere questo fottuto libro, l’ho fatto perché avevo la sensazione — e ce l’ho ancora - che non ci resti molto tempo. E il mio istinto sbaglia raramente.”

“Capisco”, ho sussurrato. Marietta ha delle doti profetiche, senza dubbio. Le ha ereditate da sua madre.

“Forse è per questo che Cesaria sembra così malconcia in questo periodo”, ha detto Marietta.

“Credi che senta quello che senti tu?”

Lei ha annuito. “Povera stronza”, ha detto dolcemente. “E questa è un’altra cosa di cui dobbiamo tenere conto. Cesaria. Lei odia i Geary ancora più di me. Le hanno portato via il suo amato Galilee.”

Ho fatto una smorfia nel sentire quell’assurdità. “Questo è uno dei miti sentimentali che ho intenzione di demolire, fin dall’inizio”, ho detto.

“Quindi tu non credi che ci sia stato portato via?”

“Assolutamente no. So cosa è successo la notte in cui se n’è andato, lo so meglio di chiunque altro al mondo. E ho intenzione di raccontare quello che so.”

“Naturalmente, anche se potrebbe non importare a nessuno”, ha osservato Marietta.

“Almeno, avrò raccontato le cose come stanno. Non è questo quello che volevi?”

“Non so che cosa diavolo mi è saltato in mente”, ha replicato lei. Il suo disgusto per ciò che avevo proposto era di nuovo evidente. “Comincio a rimpiangere di averti dato questa idea.”

“Be’, adesso è troppo tardi. L’ho già iniziato.”

“Sul serio?”

Questo non era completamente vero. Non avevo ancora cominciato a mettere gli eventi nero su bianco. Ma sapevo da dove sarei partito: dalla casa, da Cesaria e da Thomas Jefferson. Era come se il lavoro fosse già iniziato.

“Be’, non voglio farti perdere tempo”, ha concluso Marietta, dirigendosi verso la porta. “Ma non ti garantisco che avrai il mio aiuto.”

“Benissimo. Non ne ho bisogno.”

“Adesso no, ma presto ne avrai. Eccome. Ci sono molte informazioni di cui sono in possesso e di cui tu avrai bisogno. Allora vedremo quale sarà il prezzo della tua integrità.”

Detto questo, mi ha lasciato al mio gin. Il significato della sua ultima affermazione era più che evidente: aveva intenzione di propormi un baratto. Il taglio di una parte del mio libro che non avrebbe approvato in cambio di qualche informazione di cui avrei avuto necessità. Comunque, ero ben deciso a non permetterle di togliere una sola parola dal mio lavoro. Ciò che le avevo appena detto era vero. Non c’è modo di raccontare la storia dei Barbarossa senza raccontare quella dei Geary, e quindi anche la storia di Rachel Pallenberg, un nome che non mi aspetto di sentire mai pronunciare dalle labbra di Marietta. Non avevo nominato Rachel di proposito perché ero certo che, non appena lo avessi fatto, Marietta avrebbe cominciato a urlarmi elaborate oscenità. Inutile specificare che ho intenzione di dedicare una parte consistente di questa storia ai vizi e alle virtù di Rachel Pallenberg.

In ogni caso, questo libro sarà in qualche modo impoverito se non otterrò l’aiuto di Marietta; perciò ho intenzione di essere molto selettivo nell’esporle ciò che sto per fare. Marietta verrà a trovarmi; se non altro perché è un’egocentrica e il pensiero che le sue idee non compaiano nel libro sarà ancora più doloroso per lei del fatto che io intenda parlare dei Geary. D’altra parte, sa bene che ci sono molte questioni su cui dovrò fidarmi del mio istinto, fatti che non possono essere verificati con precisione. Faccende che riguardano lo spirito, la camera da letto, la tomba. Questi sono elementi fondamentali. Il resto sono soltanto geografia e date.

3

Più tardi quel giorno, ho visto Marietta che accompagnava fuori di casa la donna della quale l’avevo sentita parlare con Zabrina. Era, come quasi tutte le amanti di Marietta, bionda, minuta e probabilmente non aveva più di vent’anni. Dai vestiti, ho immaginato che fosse una turista, forse un’autostoppista, non una donna del posto.

Zabrina chiaramente aveva fatto ciò che Marietta le aveva chiesto e aveva liberato la povera ragazza dal panico (e da qualunque ricordo dell’esperienza che aveva indotto quel panico). Le ho osservate dalla terrazza con il mio binocolo. L’espressione vacua sul volto della ragazza mi ha disturbato. Quello era davvero l’unico modo con cui gli esseri umani potevano affrontare il miracoloso: con un panico che sfociava nella pazzia; o, se erano fortunati, con una pietosa asportazione della loro memoria che li lasciava, come in questo caso, calmi ma impoveriti? Che misera scelta avevano. (Quel pensiero mi ha subito riportato al libro. Era forse un’ambizione troppo grande la speranza di poter in qualche modo preparare, in queste pagine, il terreno per simili rivelazioni, così che al momento opportuno la mente umana non andasse in frantumi come uno specchio troppo fragile per riflettere tali meraviglie?) Provavo una sorta di tristezza per quell’ospite che era stata ripulita, per il suo bene, dall’esperienza che avrebbe potuto rendere la sua vita degna di essere vissuta. Che cosa sarebbe stata d’ora in avanti? Era possibile che Zabrina avesse lasciato nel suo profondo un seme del ricordo che, come una particella irritante nella carne di un’ostrica, col tempo avrebbe potuto diventare qualcosa di raro e bellissimo? Un giorno o l’altro, glielo avrei chiesto.

Nel frattempo, nascosta tra gli alberi, Marietta si era fermata con la sua compagna e le stava dando un addio ben più che affettuoso. Dal momento che ho promesso di raccontare la verità, per quanto sgradevole, non posso esimermi dal descrivere ciò che ho visto: mentre guardavo, Marietta ha scoperto i seni della ragazza; mentre guardavo, le ha stuzzicato i capezzoli e baciato le labbra e poi, mentre guardavo, ha sussurrato qualcosa, e la giovane si è inginocchiata, ha sbottonato i pantaloni di Marietta, glieli ha abbassati e ha infilato la lingua dentro di lei, muovendola così abilmente che persino dalla terrazza ho sentito chiaramente i gemiti di Marietta. Dio sa se sono grato per ogni piacere che mi viene concesso, e non intendo fingere di aver provato vergogna nel guardarle fare l’amore. È stato magnifico guardarle e, quando hanno finito e Marietta ha scortato la ragazza sul sentiero che si snoda dall’Enfant e conduce al mondo reale, ho sentito — benché possa sembrare assurdo — una fitta di solitudine.

Quattro

Anche se Marietta aveva deriso la mia convinzione che la casa sia una sorta di congegno acustico che porta notizie da tutte le stanze alle orecchie di un’anima in particolare, quella notte ho avuto la conferma del mio sospetto.

Non ho mai dormito bene e non dormirò mai bene. Non importa quanto io sia stanco, appena appoggio la testa sul cuscino pensieri di ogni genere, la maggior parte dei quali del tutto insignificanti, prendono ad aggirarmisi per la mente. E così è stato l’altra notte; frammenti della mia conversazione con Marietta, rimescolati al punto da non avere più alcun senso e scanditi dai suoi gemiti di piacere, formavano la colonna sonora. Ma le immagini erano di tutt’altro genere. Nell’occhio della mia mente, non apparivano né il volto né il corpo di Marietta; piuttosto, i volti, e i corpi di uomini e donne che non riconoscevo nemmeno. No, devo correggermi, li riconoscevo; semplicemente, non riuscivo a ricordare i loro nomi. Alcuni sembravano grottescamente felici; certi camminavano nudi per le strade di una città che penso fosse Charleston, sfrecciando lungo i marciapiedi e defecando dai castagni. Ma ce n’erano altri, molto meno felici: un momento prima erano fratelli e sorelle della concubina di Marietta dal volto inespressivo, un momento dopo strillavano come animali torturati — come se fossero stati privati del bene dell’oblio, e stessero ricordando qualcosa di intollerabile. So che ci sono psicanalisti che teorizzano che ogni creatura che appare in un sogno o in un sogno a occhi aperti sia un aspetto della personalità di chi sogna. Se questo fosse vero, dovrei supporre che le bestie nude delle strade di Charleston siano la parte di me che rispecchia mio padre e che le altre anime terrorizzate che singhiozzavano follemente siano la parte umana ereditata da mia madre. Ma ho il sospetto che questo sia uno schema troppo semplice. In cerca di un sentiero, il teorico ignora tutto ciò che è confuso e contraddittorio finendo per arrivare a una graziosa bugia. Io non sono due in uno; io sono molti di più. Una parte di me possiede la compassione di mia madre e la passione di mio padre per la carne cruda. Un’altra ha l’amore di mia madre per le storie di omicidi e il debole di mio padre per i girasoli. Chi può dire quante ce ne sono? Troppe perché possano essere contenute da qualsiasi dogma, ne sono certo.

Il fatto è che quei sogni mi hanno lasciato terribilmente sconvolto. Mi sono svegliato di colpo, prossimo alle lacrime, cosa davvero rara per me.

E poi, nell’oscurità, ho sentito un suono di passi strascicati e un ticchettio sul pavimento di legno e, abbassando lo sguardo verso la fonte del rumore, in una losanga di luce lunare, ho visto una sagoma appuntita che avanzava verso il mio letto. Era un porcospino. Non mi sono mosso. Ho semplicemente lasciato che la creatura venisse da me (il mio braccio penzolava dal letto, la mano che sfiorava il pavimento) e che mi appoggiasse il naso umido contro le dita.

“Sei venuto fin qui tutto da solo?” gli ho chiesto dolcemente. A volte lo fanno, soprattutto i più giovani, i più avventurosi; scendono le scale nella speranza di trovare qualche bocconcino appetitoso. Ma appena posta la domanda, ho avuto la mia risposta, dato che il mio corpo ha reagito all’ingresso nella stanza della signora dei porcospini, Cesaria. Vedete, la mia pietosa anatomia, ferita al punto che non ha più alcuna speranza di guarigione, si stava rianimando. Era incredibile. Capitava molto di rado che mi trovassi al cospetto della moglie di mio padre, ma le mie esperienze passate mi avevano insegnato che l’effetto di quella visita sarebbe durato per giorni interi. Se anche se ne fosse andata subito, avrei sentito spasmi nelle mie estremità inferiori per una settimana o più, anche se i muscoli delle mie gambe erano atrofizzati. E il mio pene, che da troppo tempo era solo uno strumento con cui orinare, si sarebbe alzato come quello di un adolescente e avrebbe preteso di essere munto anche due volte ogni ora. Dio, ho pensato, c’era da meravigliarsi al pensiero che quella donna fosse stata venerata? Probabilmente potrebbe resuscitare i morti se solo lo volesse.

“Vieni via, Tansy”, ha detto al porcospino.

Tansy ha ignorato gli ordini, e ammetto che la cosa mi ha divertito. Si poteva disobbedire persino a lei.

“Non mi disturba”, ho detto.

“Ma fa’ attenzione. Gli aculei.”

“Lo so.” Ho ancora le cicatrici che mi aveva lasciato uno dei suoi porcellini spinosi, come preferisce chiamarli lei. E penso che il fatto di vedermi sanguinare l’avesse scossa: i suoi occhi come notte liquida nel suo volto di ossidiana; la sua sensibilità nei miei confronti in qualche modo terrificante probabilmente perché avevo temuto il suo tocco, la sua energia curativa. Avevo temuto che mi trasformasse, che facesse di me un suo devoto per sempre. Così eravamo rimasti fermi, entrambi immobili, entrambi turbati da qualcosa di essenziale che l’altro possedeva (il suo potere, il mio sangue) mentre il porcellino spinoso si era seduto sul pavimento tra noi e aveva preso a grattarsi.

“Questo libro…” ha iniziato Cesaria.

“Marietta te ne ha parlato?” ho domandato.

“Non ho bisogno che qualcuno me ne parli, Maddox.”

“No. Naturalmente no.”

E la sua affermazione successiva mi ha lasciato profondamente sorpreso. Ma naturalmente non sarebbe quella che è — non potrebbe generare le leggende che genera — se non fosse una continua sorpresa.

“Devi scriverlo senza paura”, ha detto. “Scrivi con la testa e con il cuore e non curarti delle conseguenze.”

Non l’avevo mai sentita parlare con tanta dolcezza. Non in tono debole, ma con una tenerezza che avevo sempre pensato che non potesse provare per me. Per la verità, non pensavo che potesse provarla per nessuno.

“Quindi la faccenda dei Geary?”

“Deve esserci tutto. Fino all’ultimo dettaglio. Non risparmiare nessuno di loro. E non risparmiare nessuno di noi. Tutti abbiamo ceduto ai compromessi nell’arco degli anni. Abbiamo trattato con il nemico invece di fermargli il cuore.”

“Tu odii i Geary?”

“Dovrei dire di no. Sono solo umani. Niente di più. Ma, sì, li odio. Se non esistessero, avrei ancora un marito e un figlio.”

“Galilee non è morto.”

“Lo è per me”, ha replicato lei. “È morto nell’istante in cui si è schierato con loro contro tuo padre.” Ha schioccato leggermente le dita e il porcospino si è voltato e si è avviato verso di lei. Per tutta la conversazione l’avevo solo intravista, ma in quel momento, mentre il porcospino le si avvicinava, si è chinata per prenderlo tra le braccia e la luce lunare, riflessa dalle assi del pavimento, per un attimo me l’ha mostrata chiaramente. Non era, come mi aveva detto Marietta, fragile o indebolita; tutt’altro. Ai miei occhi appariva come una donna giovane, prodigiosamente dotata dalla natura: la sua bellezza cruda e raffinata allo stesso tempo, i lineamenti del volto così forti da farla sembrare quasi un idolo vivente, scolpito nella luce argentea in cui si trovava. Ho detto che era bellissima? Ho sbagliato. Quella di bellezza è una nozione troppo banale; evoca solo volti che compaiono su riviste. Un’eloquenza amorevole, una simmetria rassicurante; niente di tutto questo può descrivere il suo viso. Quindi forse dovrei accettare il semplice fatto che non posso renderle giustizia con le parole. Vi basti sapere che vi si spezzerebbe il cuore nel vederla; e che, allo stesso tempo, ciò che è spezzato dentro di voi verrebbe guarito; e sareste due volte quello che siete stati prima di quell’istante.

Con il porcospino tra le braccia, si è incamminata verso la porta. Ma, una volta sulla soglia, si è fermata (ho solo udito tutto questo; era di nuovo invisibile per me).

“L’inizio è sempre la parte più diffìcile”, ha detto.

“Be’, in effetti ho già iniziato…” ho replicato, in tono esitante. Benché non avesse mai detto né fatto niente per intimidirmi, ero ancora spaventato — forse ingiustamente — al pensiero che potesse attaccarmi in qualche modo.

“Come?” ha domandato.

“Come ho iniziato?”

“Sì.”

“Con la casa, naturalmente.”

“Ah…” Ho percepito il sorriso nella sua voce. “Con il signor Jefferson?”

“Con il signor Jefferson.”

“È stata una buona idea. Iniziare da lì. Con il mio fantastico Thomas. Sai, è stato l’amore della mia vita.”

“Jefferson?”

“Pensi che avrebbe dovuto esserlo tuo padre?”

“Be’…”

“Non era niente di simile all’amore con tuo padre. È diventato amore, ma non è così che è cominciato. Quando una come me e uno come lui si accoppiano, non è per amore. Ci accoppiamo per fare figli. Per preservare il nostro genio, come avrebbe detto tuo padre.”

“Forse avrei dovuto cominciare da lì.”

Cesaria è scoppiata a ridere. “Con il nostro accoppiamento?”

“No, non è questo che intendevo.” Ero grato per l’oscurità che copriva il mio rossore, anche se i suoi occhi probabilmente potevano vederlo lo stesso. “Io… io… volevo dire con il primogenito. Con Galilee.”

L’ho sentita sospirare. Poi non ho sentito più niente, e per un attimo ho pensato che se ne fosse andata. Ma no. Era ancora nella stanza.

“Non siamo stati noi a battezzarlo Galilee”, ha detto. “Si è scelto da solo il nome quando aveva sei anni.”

“Non lo sapevo.”

“Ci sono molte cose che non sai, Maddox. Molte cose che non puoi nemmeno immaginare. È per questo che sono venuta a invitarti… quando sarai pronto… a vedere il passato…”

“Hai altri libri?”

“Non libri. Niente di così tangibile…

“Mi dispiace, davvero non capisco.”

Ha sospirato ancora una volta, e io ho temuto che la sua offerta, qualunque cosa implicasse, sarebbe stata ritirata perché la stavo rendendo impaziente. Ma il suo sospiro non era dovuto all’irritazione quanto alla pesantezza del suo cuore.

“Galilee era tutto per noi”, ha mormorato. “Ed è diventato niente. Voglio che tu capisca come siamo arrivati a questo.”

“Farò del mio meglio, te lo giuro.”

“Ne sono sicura”, ha detto lei con dolcezza. “Ma potrebbe volerci più coraggio di quanto ne possiedi. Sei cosi umano, Maddox. Ho sempre trovato difficile apprezzare questo tuo lato.”

“Non posso farci molto.”

“Tuo padre ti amava proprio per questa ragione…” la sua voce ridotta a un sussurro. “Che disastro, tutto questo. Che terribile tragico disastro. Aver avuto così tanto ed essersi lasciato sfuggire tutto tra le dita.”

“Voglio capire com’è accaduto”, ho replicato, “più di qualunque altra cosa, voglio capire.”

“Sì”, ha detto Cesaria, quasi distrattamente. I suoi pensieri erano già altrove.

“Che cosa devo fare?” le ho chiesto.

“Spiegherò tutto a Luman”, ha risposto lei. “Si occuperà di te. E, naturalmente, se dovesse essere troppo per la tua sensibilità umana…”

“Zabrina potrà sempre cancellarlo.”

“Infatti. Zabrina potrà sempre cancellarlo.”

Cinque

1

Da quel momento in poi, ho incominciato ad avere una visione diversa della casa. Tutto era attesa. Stavo aspettando un segno, una prova, un’immagine fugace di quella misteriosa fonte di conoscenza che Cesaria mi aveva invitato a condividere. Sotto quale forma mi sarebbe apparsa, se non si trattava di libri? Da qualche parte, nella casa, c’era forse una raccolta di cimeli di famiglia che avrei potuto esaminare? O forse stavo prendendo tutto troppo alla lettera? Ero stato invitato in un luogo dello spirito più che in un luogo materiale? E se sì, avrei avuto le parole per esprimere quanto avrei sentito in quel luogo?

Per la prima volta nell’arco di tre mesi ho deciso di lasciare la mia stanza e uscire. Per fare questo ho bisogno dell’aiuto di qualcuno. Jefferson non aveva certo progettato questa casa prevedendo la presenza di un invalido (e dubito che Cesaria abbia mai pensato di poter essere colpita da una tale fragilità), e quindi ci sono quattro gradini nel corridoio che conduce all’atrio principale; gradini che sono troppo ripidi perché possa scenderli con la sedia a rotelle senza che qualcuno mi dia una mano. Dwight deve portarmi giù in braccio, come un bambino, e poi aspetto, prono sul divano dell’atrio, che recuperi la sedia a rotelle e mi aiuti a riprendervi posto.

Dwight è senz’altro la persona più amabile che io abbia mai conosciuto; anche se avrebbe tutte le ragioni per odiare il Dio che lo ha creato e probabilmente ogni essere umano dello stato del North Carolina. È nato con una sorta di lesione cerebrale che gli rendeva diffìcile esprimersi e quindi per un certo periodo è stato considerato un ritardato. La sua infanzia e i primi anni della sua adolescenza sono stati infernali: dato che gli era stata negata qualunque vera educazione, aveva languito, seviziato da entrambi i suoi genitori.

Poi un giorno, quando aveva quattordici anni, si era inoltrato nella palude, forse per uccidersi; Dwight dice di non ricordare esattamente la ragione. Né saprebbe dire per quanto tempo era rimasto a vagare per quei luoghi — sicuramente molti giorni e molte notti — finché Zabrina non lo aveva trovato nei pressi dei confini dell’Enfant. Era in uno stato di totale sfinimento. Lei lo aveva portato in casa e, per ragioni tutte sue, lo aveva accudito nelle sue stanze senza parlare di lui con nessuno. Non ho mai insistito con Dwight perché mi spiegasse esattamente la natura della sua relazione con Zabrina, ma sono quasi certo che ai tempi in cui lui era più giovane, lei lo abbia usato sessualmente, e che lui fosse piuttosto felice di quella sistemazione. All’epoca non era proprio com’è adesso, ma certamente era una donna sostanziosa; per Dwight non era stato un problema. Più di una volta mi è capitato di sentirlo accennare alla sua passione per le rotondità del corpo femminile. Non ho modo di sapere se questa sua inclinazione sia precedente o sia nata in seguito al suo incontro con Zabrina. Posso solo dire che lei aveva tenuto segreta la presenza di Dwight per quasi tre anni, durante i quali si era dedicata a educarlo; e lo aveva fatto bene. Quando lo aveva presentato a Marietta e a me non rimaneva che un’impercettibile traccia della sua vecchia difficoltà nell’esprimersi ed era già in parte l’uomo che sarebbe diventato. Adesso, trentadue anni dopo, era parte della casa come le assi del pavimento sotto i miei piedi. Anche se la sua relazione con Zabrina era finita per ragioni che non ero mai riuscito a scoprire, Dwight parla ancora di lei con una sorta di reverenza. Zabrina è e sarà sempre la donna che gli ha insegnato Erodoto e che ha salvato la sua anima (due cose che, a mio avviso, sono strettamente collegate).

Certo, Dwight sta invecchiando più in fretta di tutti noi. Adesso ha quarantanove anni, e i suoi capelli sono sempre più radi e grigi (cosa che gli dà un’aria piuttosto erudita) e il suo corpo, un tempo snello, si sta appesantendo soprattutto attorno alla vita. Il compito di trasportarmi in giro per la casa sta diventando troppo gravoso per lui, e gli ho già detto più di una volta che prima o poi dovrà mettersi in cerca di un’altra anima perduta, di qualcuno che potrà addestrare a svolgere i lavori più pesanti qui in casa.

Ma forse questa è solo accademia. Se Marietta ha ragione, e i nostri giorni qui sono davvero contati, Dwight non dovrà istruire nessuno che segua i suoi passi. Lui e tutti noi saremo già scomparsi per sempre.


Abbiamo mangiato insieme quel giorno, non nella sala da pranzo, troppo grande per due sole persone (talvolta mi chiedo che genere di ospiti Cesaria avesse avuto in mente di invitare), ma in cucina. Pollo in gelatina e focaccine all’erba cipollina e ai semi di sesamo, seguiti dalla specialità di Dwight in materia di dolci: una torta fatta di strati di mandorle e cioccolato, servita con una dolce panna montata. (Dwight deve la sua abilità di cuoco a Zabrina, ne sono certo. Il suo repertorio di dolci è straordinario: ogni genere di frutta candita, torrone, praline e ogni possibile meraviglia letale per i denti.)

“Ho visto Zabrina, ieri”, ha detto, servendomi un’altra fetta di torta.

“Le hai parlato?”

“No. Aveva quell’espressione da non vi avvicinate. Sa com’è fatta.”

“Hai intenzione di restare lì a guardarmi mentre mi ingozzo come un maiale?”

“Sono così pieno che non credo che riuscirò a stare sveglio, oggi pomeriggio.”

“Che male c’è nel fare una piccola siesta? È una vecchia tradizione del Sud. Quando fa caldo, si sonnecchia finché l’aria non si rinfresca.” Ho sollevato lo sguardo dal mio piatto e mi sono accorto che Dwight aveva un’espressione cupa sul volto. “Cosa c’è che non va?”

“Non mi piace più dormire quanto mi piaceva una volta”, ha risposto a bassa voce.

“Come mai?” gli ho domandato.

“Faccio brutti sogni…” ha risposto lui. “No, non brutti. Dolorosi. Sogni dolorosi.”

“Su cosa?”

Dwight ha scrollato le spalle. “Non saprei dirlo con esattezza. Molte cose. Gente che conoscevo quand’ero piccolo.” Ha tratto un profondo respiro. “Stavo pensando che forse dovrei tornare là fuori… sa… da dove sono venuto.”

“Per sempre?”

“Oh, Signore, no. Io appartengo a questo posto e sarà sempre così. No, tornare là fuori ancora una volta per vedere se i miei sono ancora vivi, e se sì a dirgli addio.”

“Staranno invecchiando.”

“Non sono loro che stanno per andarsene, signor Maddox, e lo sappiamo entrambi. Siamo noi.” Ha raccolto con il dito la panna montata rimasta sul suo piatto e se l’è portata alla bocca. “Sono questi i sogni che faccio. Sogno di noi che ce ne andiamo. Di tutto che se ne va.”

“Hai parlato con Marietta?”

“Ogni tanto.”

“No, voglio dire di questo.”

Lui ha scosso la testa. “No è la prima volta che ne parlo con qualcuno.”

È seguito un silenzio innaturale. Poi ha aggiunto: “Che cosa ne pensa?”

“Dei sogni?”

“Dell’idea di andare a trovare i miei eccetera.”

“Penso che dovresti andare.”

2

Anche se ho cercato di seguire il mio stesso consiglio e di fare la siesta quel pomeriggio, la mia testa, nonostante la malinconia della mia breve chiacchierata con Dwight — o forse proprio a causa di essa — ronzava come un alveare in piena attività. Mi sono ritrovato a pensare a certi paralleli che esistevano tra famiglie del tutto diverse sotto ogni altro aspetto. I familiari di Dwight Huddie che vivevano in un parcheggio di roulotte, da qualche parte nella contea di Sampson: si erano mai chiesti cosa ne fosse stato di lui, che avevano perso in un luogo che non avrebbero mai visto, in un luogo di cui non avrebbero mai conosciuto l’esistenza? Avevano mai pensato di andare a cercarlo in tutti quegli anni, o per loro era come morto, proprio come Galilee lo era per Cesaria? E poi c’erano i Geary. Quella famiglia, nonostante tutta la sua celeberrima classe, aveva a suo tempo amputato alcuni dei suoi figli come membra infettate dalla cancrena. Di nuovo: come morti. Ero sicuro che continuando avrei trovato legami come quelli in altre parti di questa storia: modi in cui i dolori e le crudeltà di una stirpe riecheggiavano nell’altra.

Il problema che dovevo ancora affrontare e che fino a quel momento avevo evitato era come meglio spiegare quei collegamenti. La mia mente era piena di possibilità ma non avevo ancora capito come tutto quello che sapevo sarebbe stato ordinato e raccontato; non avevo alcuna idea di quale sentiero seguire.

Per distrarmi dall’ansia, ho fatto una lenta esplorazione della casa. Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta che l’avevo visitata, stanza dopo stanza, e dovunque guardassi i miei strani occhi nuovamente curiosi venivano ricompensati. Tutt’attorno a me c’erano lo straordinario gusto di Jefferson e la sua passione per i dettagli, sposati a una selvaggia libertà espressiva che, ne sono sicuro, apparteneva a mia madre. È una stupefacente combinazione: rigore jeffersoniano e virtuosismo barbarossiano; una costante lotta di desideri che crea forme e volumi completamente diversi da qualunque altra cosa abbia mai visto prima. Il grande studio, per esempio, ora caduto in disuso, che sembrava il modello perfetto di un luogo austero dedicato all’indagine intellettuale finché l’occhio non raggiungeva il soffitto dove crescevano potenti colonne elleniche, che porgevano un raccolto di frutti ultraterreni. La sala da pranzo, dove il pavimento era composto da un disegno così favoloso di piastrelle di marmo da sembrare una grande piscina di acqua verde mare. Una lunga galleria di alcove ad arco, ciascuna delle quali conteneva un bassorilievo illuminato con tale perfezione che le scene stesse sembravano proiettare una particolare lucentezza. Non c’era niente, mi sembrava, che fosse stato lasciato al caso; ogni forma, anche la più minuta, era stata progettata per disegnare una schema più ampio, proprio come lo schema stesso non faceva che riportare l’occhio a ogni dettaglio. Era tutto un unico glorioso invito: al piacere della vista, sì; ma anche alla calma certezza del proprio posto in tutto questo, al semplice piacere di essere lì in quel momento, a sentire l’aria che fluiva tra le stanze e accarezzava il volto, o a godere dei riflessi della luce su una parete. Più di una volta mi sono ritrovato gli occhi pieni di lacrime semplicemente per la bellezza di una stanza, per poi scoprirmi calmato dalle lacrime da quella stessa bellezza che voleva soltanto la mia felicità.

Detto questo, bisogna aggiungere che la casa era tutt’altro che priva di difetti. Gli anni e l’umidità cominciano a pesare; forse nemmeno una stanza è riuscita a sfuggire al decadimento e alcune — soprattutto quelle più vicine alla palude — sono in condizioni così misere che ho dovuto costringere Dwight a portarmici in braccio perché i pavimenti erano troppo marci per la mia sedia a rotelle. Persino quelle camere, dovrei dire, avevano un innegabile tocco di grandeur. La putrefazione che si allarga sulle pareti le fa assomigliare a carte nautiche di mondi ancora senza nome; le piccole foreste di funghi che crescono sulle assi fradice del pavimento hanno un loro bizzarro fascino. Dwight non era molto convinto. “Questi sono posti cattivi”, ha osservato, certo che il loro stato di deterioramento fosse dovuto a qualche male dello spirito che le aveva colpite. “Sono accadute cose cattive, qui.”

Quest’ultima affermazione non mi sembrava avere molto senso, e gliel’ho detto. Se le pareti di una stanza erano marce e quelle di un’altra no era solo a causa di qualche infiltrazione d’acqua; non si trattava della dimostrazione di un karma negativo.

“In questa casa”, ha ribattuto Dwight, “è tutto collegato.” Non ha voluto aggiungere altro sull’argomento ma immagino che fosse abbastanza chiaro. Proprio come io ero arrivato ad apprezzare il modo in cui la casa oscillava tra lo spirito e la vista, così Dwight mi stava spiegando che c’era una connessione tra la condizione fisica e quella morale dell’Enfant.


Aveva ragione, naturalmente, anche se allora non riuscivo a capirlo. La casa non era semplicemente uno specchio del genio di Jefferson e della visione di Cesaria: era un ricettacolo di tutto ciò che aveva contenuto. Il passato era ancora presente lì, in modi che i miei sensi limitati dovevano ancora afferrare.

Sei

Durante quei giorni che ho passato a riprendere confidenza con la casa, ho incontrato Marietta un paio di volte (ho persino intravisto Zabrina in qualche occasione anche se non ha dimostrato alcun interesse a conversare con me e si è affrettata ad allontanarsi). Ma di Luman, dell’uomo che secondo Cesaria avrebbe potuto istruirmi, nemmeno l’ombra. Forse la mia matrigna aveva deciso di non concedermi l’accesso ai suoi segreti? O forse semplicemente si era dimenticata di dire a Luman che sarebbe stato lui la mia guida? Dopo un paio di giorni ho deciso di andarlo a cercare da solo, per dirgli quanto desiderassi cominciare il mio lavoro, ma che non avrei potuto farlo senza conoscere le storie a cui aveva accennato Cesaria, storie che non potevo nemmeno immaginare.

Luman, come ho già detto, non vive nella casa principale, anche se Dio sa se non c’è abbastanza spazio, abbastanza stanze vuote all’Enfant, per ospitare più di una famiglia. Preferisce vivere in quella che un tempo era la Casa del Fumo; un edificio modesto che, a suo avviso, è molto più adatto a lui. Fino a quel momento non mi ero mai avvicinato più di tanto a quel luogo, e mi ero guardato bene dall’entrarvi; Luman è sempre stato terribilmente attaccato al suo isolamento.

Tuttavia, la mia crescente irritazione mi ha reso più audace. Mi sono fatto portare lì da Dwight, giù lungo quello che un tempo era stato un sentiero piacevole ma che adesso era incolto e invaso dalle erbacce. L’aria si è fatta decisamente più pesante, e in alcuni punti era affollata di zanzare. Ho acceso un sigaro per tenerle a bada e dubito che la cosa abbia funzionato, ma un buon sigaro mi mette sempre di buon umore, così ho smesso di interessarmi al fatto che gli insetti stessero facendo di me la loro cena.

Mentre ci avvicinavamo alla porta, ho notato che era socchiusa e che all’interno qualcuno si stava muovendo. Luman sapeva che ero lì, e forse sapeva anche perché.

“Luman? Sono Maddox! Ti va bene se Dwight mi porta dentro? Dovrei parlarti.”

“Non abbiamo niente di cui parlare”, la risposta è giunta dalla semioscurità.

“Non sono d’accordo.”

Il volto di Luman è comparso dietro la porta socchiusa. Sembrava stordito, come un uomo che si è appena lasciato andare non a uno ma a molti eccessi. La sua faccia larga e bronzea luccicava di sudore, aveva le pupille a capocchia di spillo e le cornee ingiallite. La sua barba probabilmente non veniva né accorciata né lavata da diverse settimane.

“Gesù”, ha ringhiato. “Non puoi lasciar perdere e basta?”

“Hai parlato con Cesaria?” gli ho domandato.

Si è passato una mano tra i capelli, tirandoseli indietro con tale violenza da farlo apparire un atto di masochismo. Le pupille gli si sono dilatate all’improvviso fino a raggiungere le dimensioni di un quarto di dollaro. Quello era un trucco che non gli avevo mai visto fare prima, e sono rimasto così sorpreso che mi sono quasi lasciato scappare un grido. Ma ho cercato di trattenermi. Non volevo che pensasse di essere in una posizione di superiorità. Somigliava troppo a un cane impazzito. Se avesse sentito la paura in me ero certo che mi avrebbe perlomeno cacciato via. E nel peggiore dei casi? Chi poteva dire che cosa sarebbe stata capace di fare una creatura dalla mente perversa come lui? Probabilmente qualunque cosa.

“Sì”, ha detto alla fine, “mi ha parlato. Ma non penso che tu abbia bisogno di vedere la roba che lei vuole mostrarti. Non sono affari tuoi.”

“Lei pensa di sì.”

“Ah.”

“Ascolta, possiamo almeno parlare lontani dalle zanzare?”

“Non ti piace farti mordere?” ha detto lui con un piccolo ghigno cattivo. “Oh, a me piace spogliarmi e farmi mangiare da loro. Mi manda su di giri.”

Forse sperava di respingermi con quel commento, di farmi andare via, ma non avevo intenzione di dargliela vinta così facilmente. Ho continuato a fissarlo.

“Hai un altro di quei sigari?”

Ero venuto preparato. Non solo avevo altri sigari, avevo anche del gin e, nel caso avessi dovuto sedurlo intellettualmente, un piccolo pamphlet sui manicomi della mia collezione personale. Molti anni prima, Luman aveva trascorso alcuni mesi incarcerato a Utica, un istituto nella parte nord dello stato di New York. Un secolo dopo (così mi aveva detto Marietta) era ancora ossessionato dal fatto che un uomo sano potesse essere scambiato per pazzo e che un pazzo potesse essere messo a capo del Congresso. Ho preso prima il sigaro.

“Ecco”, ho detto.

“È cubano?”

“Naturalmente.”

“Lanciamelo.”

“Te lo può portare Dwight.”

“No. Lanciamelo.”

Ho gettato gentilmente il sigaro verso di lui. È caduto a una trentina di centimetri dalla soglia. Lui si è chinato e lo ha raccolto, facendoselo scivolare tra le dita e annusandolo.

“Ottimo”, ha detto soddisfatto. “Li tieni in un portasigari?”

“Sì. Con questa umidità.”

“Certo, certo”, ha detto lui, con un timbro di voce chiaramente meno ostile. “Be’, allora”, ha continuato, “faresti meglio a portare qui il tuo povero culo.”

“È un problema se Dwight mi accompagna?”

“Basta che poi se ne vada”, ha risposto Luman. Poi, rivolgendosi a Dwight: “Senza offesa. Ma questa è una faccenda tra me e il mio fratellastro”.

“Capisco”, ha detto Dwight, mi ha preso tra le braccia e mi ha portato fino alla porta che Luman ha spalancato. Mi sono sentito investire da un’ondata di calore maleodorante; la puzza di un porcile in piena estate.

“Mi piace questo odore”, ha spiegato Luman. “Mi ricorda il vecchio paese.”

Non ho detto niente; ero — non so quale sia la parola adatta — sbalordito, forse atterrito, dalle condizioni interne dell’edificio.

“Mettilo sulla vecchia culla, là”, ha ordinato Luman indicando uno strano letto-bara vicino al caminetto. Ancora peggiore della culla stessa — che sembrava più che altro uno strumento di tortura e non un luogo di riposo — era il fatto che il caminetto era tutt’altro che freddo: lì stava bruciando un grande fuoco fumoso. Nessuna meraviglia che Luman sudasse così copiosamente.

“È sicuro?” mi ha chiesto Dwight, chiaramente preoccupato per me.

“Andrà tutto bene”, ho risposto. “Non mi farebbe male dimagrire un po’.”

“Potresti”, ha detto Luman. “Devi essere in forma per combattere. Tutti noi dobbiamo esserlo.”

Si è acceso un fiammifero, e con la cautela del vero appassionato ha lentamente fatto ardere la punta del sigaro. “Mio Dio”, ha sospirato, “davvero ottimo. Mi piace essere corrotto così, fratello. Se un uomo sa come corrompere, vuol dire che è stato educato a dovere.”

“Visto che siamo in argomento…” l’ho interrotto. “Dwight, il gin.”

Dwight ha appoggiato la bottiglia sul tavolo completamente coperto di detriti come ogni altra superficie della tana infernale di Luman.

“Be’, sei veramente molto gentile”, ha detto Luman.

“E questo.”

“Mio Dio, mio Dio, un’autentica pioggia di regali oggi, vero?” Gli ho dato il libro. “Che cos’è?” Ha guardato la copertina. “Oh, questo sì che è interessante, fratello.” Ha sfogliato il libro riccamente illustrato. “Mi chiedo se ci sia una fotografia della mia piccola vecchia culla.”

“Questa viene da un manicomio?” ho chiesto, abbassando lo sguardo sul letto su cui mi aveva adagiato Dwight.

“Certo. Sono stato incatenato lì per duecentocinquantacinque notti.”

“Qui dentro?”

“Lì dentro.”

Mi si è avvicinato e ha alzato una coperta sudicia su cui ero seduto per farmi osservare meglio la scatola stretta e crudele dentro la quale era stato chiuso. Le cinghie erano al loro posto.

“Perché la tieni?”

“Per ricordare”, ha risposto lui, incrociando il mio sguardo per la prima volta da quando ero entrato. “Non posso permettermi di dimenticare, perché nel momento in cui avrò dimenticato, sarà come perdonarli per quello che mi hanno fatto, e non lascerò che questo accada.”

“Ma…”

“So cosa stai per dire: sono tutti morti. Ed è proprio così. Ma questo non significa che non potrò rifarmi su di loro quando il Signore ci chiamerà tutti al suo giudizio. Li fiuterò e li troverò,come il cane pazzo che ero secondo loro. Prenderò le loro anime e non ci saranno santi in Paradiso capaci di fermarmi.” Il volume della sua voce e la sua veemenza si sono intensificati mentre parlava; quando ha finito, io sono rimasto in silenzio per un attimo o due, per dargli il tempo di calmarsi. Poi ho detto:

“Mi sembra che tu abbia le tue buone ragioni per tenerti la culla”.

Per tutta risposta, Luman ha grugnito. È andato al tavolo e ha preso posto su una sedia. “Non ti chiedi mai…?” ha cominciato.

“Che cosa?”

“Perché uno di noi finisce in un manicomio e un altro finisce storpio, e un altro finisce in giro per il mondo a scoparsi ogni bella donna su cui posa lo sguardo?”

Quell’ultimo naturalmente era Galilee; o almeno, il Galilee del mito familiare: il vagabondo che inseguiva i suoi sogni irrealizzabili da un oceano all’altro.

“Allora, non te lo chiedi mai?”

“Ogni tanto.”

“Vedi? La vita è ingiusta. È per questo che la gente impazzisce. È per questo che comprano pistole e ammazzano i loro figli. O finiscono in catene. La vita è ingiusta!” Stava ricominciando a gridare.

“Se posso dirlo però…”

“Puoi dire quel cazzo che vuoi!” ha replicato Luman. “Voglio ascoltarti, fratello.”

“… siamo più fortunati della maggior parte della gente.”

“Perché lo pensi?”

“Siamo una famiglia speciale. Abbiamo… voi avete capacità che la maggior parte della gente sarebbe pronta a uccidere per avere…”

“Certo, posso scoparmi una donna e poi farle dimenticare di avermi mai conosciuto. Certo, posso ascoltare quello che un serpente dice a un altro. Certo, ho una madre che è abituata a essere una delle più grandi donne di tutti i tempi e un padre che ha conosciuto Gesù. E allora? Mi hanno messo in catene lo stesso. E penso ancora di essermelo meritato, perché in fondo all’anima ero convinto di essere un inutile figlio di puttana.” Ha abbassato la voce fino a un sussurro. “E questo è un fatto che davvero non è cambiato.”

Sono rimasto senza parole, non solo a causa di quella serie di immagini (Luman che ascoltava i serpenti? Mio padre un confidente di Cristo?) ma anche per l’assoluta disperazione nella sua voce.

“Nessuno di noi è ciò che avrebbe dovuto diventare, fratello”, ha aggiunto. “Nessuno di noi ha fatto niente che si possa definire importante, e adesso è tutto finito e non avremo mai più un’altra occasione.”

“Allora, permettimi di scrivere del perché.”

“Oh… Sapevo che ci saremmo tornati, prima o poi”, ha replicato lui. “Non c’è alcun buon motivo per scrivere un libro, fratello. Ci farà solo sembrare dei perdenti. Tutti tranne Galilee, naturalmente. Lui sembrerà straordinario e fantastico, mentre io sembrerò un pazzo imbecille.”

“Non sono qua per implorare”, ho detto io. “Se non vuoi aiutarmi, tornerò da Cesaria.”

“Sempre che tu riesca a trovarla.”

“La troverò. E le chiederò di dire a Marietta di mostrarmi ciò che avresti dovuto mostrarmi tu.”

“Lei non si fida di Marietta”, ha detto Luman, si è alzato ed è andato ad accovacciarsi davanti al fuoco. “Si fida di me perché sono rimasto qui. Perché sono stato fedele.” Ha arricciato le labbra. “Fedele come un cane. Sono stato qui nel mio canile e ho fatto la guardia al suo piccolo impero.”

“Perché vivi qui?” gli ho chiesto. “C’è così tanto spazio in casa.”

“Odio quella casa. È troppo civilizzata. Non riesco a respirare lì dentro.”

“È per questo che non mi vuoi aiutare? Perché non vuoi entrare in casa?”

“Oh, merda”, ha detto lui, apparentemente rassegnato a quel tormento, “se proprio devo, lo farò. Ti porterò su, se ci tieni davvero così tanto.”

“Su dove?”

“Alla cupola, naturalmente. Ma quando lo avrò fatto, amico mio, sarai da solo. Non resterò con te. Non lì.”

Sette

Ho incominciato a capire che una delle maledizioni della famiglia Barbarossa è l’autocommiserazione. C’è Luman, nella sua Casa del Fumo, che medita la vendetta contro uomini già morti; ci sono io, nella mia biblioteca, convinto che la vita mi abbia fatto un terribile sgarbo; c’è Zabrina, nella sua solitudine, grassa di dolci. E persino Galilee, là fuori, sotto un cielo senza limiti, che mi scrive lettere malinconiche sull’insensatezza della sua esistenza. Era patetico. Noi, che eravamo i frutti benedetti di un albero così straordinario, come potevamo essere finiti tutti a lamentarci del fatto di vivere, invece che a trovare un significato in quel fatto? Non ci meritavamo ciò che ci era stato dato: il nostro sfarzo, le nostre doti, le nostre visioni. Le avevamo sperperate e ora ci lamentavamo di quello che ci rimaneva.

Era troppo tardi per cambiare tutto questo?, mi sono chiesto. C’era ancora una possibilità che quattro bambini ingrati riscoprissero la ragione per cui erano stati creati?

Solo Marietta, a mio avviso, era sfuggita alla maledizione, e lo aveva fatto reinventandosi. La vedevo spesso ritornare dalle sue visite al mondo esterno, a volte vestita come un camionista, con jeans troppo larghi e camicie sporche; a volte come una cantante da night club in abito da sera; a volte del tutto svestita, mentre correva sul prato al sorgere del sole, la pelle coperta di rugiada come l’erba.

Oh Dio, che cosa sto ammettendo? Be’, è presto detto. Alla lista dei miei peccati (che non è lunga quanto vorrei) dovrei aggiungere anche desideri incestuosi.


Luman avrebbe dovuto venire a prendermi alle dieci. Ma era in ritardo, naturalmente. Quando alla fine è arrivato, stringeva tra i denti l’ultimo centimetro del suo avana, e in mano teneva la bottiglia con l’ultimo centimetro di gin rimasto. Ho il sospetto che non fosse abituato a ubriacarsi spesso, perché il suo aspetto era ulteriormente peggiorato.

“Sei pronto?” ha chiesto con voce strascicata.

“Più che pronto.”

“Hai preso qualcosa da mangiare e da bere?”

“Perché dovrei aver bisogno di cibo?”

“Starai là per molto tempo. Ecco perché.”

“Da come parli, sembra quasi che sarò imprigionato.”

Luman mi ha rivolto un sogghigno, come se stesse decidendo se essere crudele oppure no. “Non fartela sotto”, ha detto alla fine. “La porta sarà aperta per tutto il tempo, solo che non te la sentirai di andartene. Dà una specie di dipendenza, una volta che si comincia.” Dopodiché, si è incamminato lungo il corridoio, lasciandomi ad arrancare dietro di lui.

“Non andare troppo in fretta”, gli ho detto.

“Hai paura di perderti nel buio?” ha ribattuto lui. “Fratello, sei proprio un figlio di puttana terribilmente nervoso.”

Non avevo paura del buio, ma avevo le mie buone ragioni per essere preoccupato all’idea di perdermi. Abbiamo svoltato un paio di angoli, e mi sono trovato in un corridoio che ero certo di non aver mai percorso prima, anche se pensavo di conoscere bene la casa, escluse le camere di Cesaria. Un altro angolo e poi un altro ancora, e un corridoio, e una stanzetta, e un’altra e un’altra ancora, e ho avuto la certezza di trovarmi in un territorio sconosciuto. Se Luman aveva deciso di prendersi gioco di me e di lasciarmi lì, avevo i miei dubbi che sarei riuscito a tornare verso una parte della casa più familiare.

“Senti l’odore dell’aria, qui?”

“Puzza di chiuso.”

“Puzza di morte. Nessuno ci viene, capisci? Nemmeno lei.”

“Come mai?”

“Perché ti fotte la testa”, ha risposto lui, voltandosi per lanciarmi un’occhiata. Non sono riuscito quasi a vedere la sua espressione nella semioscurità, ma sono certo che sul suo volto ci fosse quel ghigno dai denti ingialliti. “Naturalmente tu sei più sano di mente di quanto io sia mai stato, o forse non ti turberà così tanto perché hai un controllo migliore di te stesso. D’altra parte… forse ti spezzerai, e dovrò metterti nella mia piccola culla per la notte, così non potrai farti del male.”

Ho fermato bruscamente la sedia a rotelle. “Sai una cosa?” ho detto. “Ho cambiato idea.”

“Non puoi”, ha detto Luman.

“Non voglio più andarci.”

“Non è buffo? Prima sono io che non ti ci voglio portare, e adesso che ti ci ho portato tu non ci vuoi più andare. Vedi di deciderti.”

“Non ho intenzione di rischiare la mia sanità mentale.”

Luman ha finito la bottiglia di gin. “Capisco”, ha detto. “Be’, un uomo nelle tue condizioni non ha altro che la sua mente, giusto? Una volta che anche quella è andata non ha più niente.” Ha fatto un passo o due verso di me. “D’altra parte, se non entri, non potrai scrivere il tuo libro, per cui devi scegliere.” Si è spostato la bottiglia da una mano all’altra e viceversa, come per sottolineare le sue parole. “Libro. Mente. Libro. Mente. Tocca a te decidere.”

In quell’istante, l’ho odiato; semplicemente perché quello che aveva detto era vero. Se mi avesse lasciato sotto la cupola, e avessi perso la ragione, probabilmente non sarei più stato in grado di mettere le parole in un ordine sensato. D’altra parte, se non avessi rischiato la follia e avessi semplicemente scritto quello che già sapevo, non mi sarei forse chiesto per sempre quanto più ricca, quanto più vera sarebbe stata la mia opera se solo avessi avuto il coraggio di vedere ciò che la stanza aveva da mostrarmi?

“È una tua scelta”, ha detto Luman.

“Tu cosa faresti?”

“Lo vuoi sapere sul serio?” ha ribattuto lui, sinceramente sorpreso dal mio interesse nella sua opinione. “Be’, non è bello essere pazzi, non è per niente bello. Ma, per come la vedo io, non ci resta molto tempo. Questa casa non starà in piedi per l’eternità e quando crollerà, qualunque cosa potresti vedere là dentro…” ha indicato il corridoio davanti a me, in direzione delle scale che conducevano alla cupola “… sarà perduta per sempre. Quando questa casa crollerà, non ci saranno più visioni per te. Per nessuno di noi.”

Ho fissato il corridoio.

“Immagino che questa sia la mia risposta, allora”, ho sospirato.

“Quindi entri?”

“Sì, entro.”

Luman ha sorriso. “Aspetta”, ha detto, e poi ha fatto una cosa straordinaria. Ha sollevato me e la sedia a rotelle e ci ha portati entrambi su per le scale. Ho trattenuto il fiato, temendo che potesse farmi cadere o scivolare lungo la rampa. Ma abbiamo raggiunto la cima delle scale senza problemi. C’era uno stretto pianerottolo con un’unica porta.

“Ti lascio qui”, ha detto Luman.

“Non ti spingi oltre?”

“Lo sai come si apre una porta”, ha osservato lui.

“Che cosa succederà quando sarò dentro?”

“Scoprirai che sai anche questo.” Mi ha appoggiato una mano sulla spalla. “Se hai bisogno di qualcosa, chiama.”

“Tu sarai qui?”

“Dipenderà da come mi prende l’umore”, ha replicato lui, quindi è corso giù per le scale. Avrei voluto chiamarlo, ma ero a corto di tattiche per prendere tempo. Era arrivato il momento di farlo, se davvero me la sentivo.

Mi sono avvicinato alla porta, girandomi una sola volta per controllare se Luman era ancora in vista. Era scomparso. Ero rimasto solo. Ho fatto un profondo respiro e ho afferrato la maniglia della porta. C’era ancora una piccola parte di me che sperava che la porta fosse chiusa a chiave, che sperava che non sarei potuto entrare. Ma la porta si è aperta, quasi troppo prontamente, come se dall’altra parte mi attendesse un ospite molto zelante.

Avevo una vaga idea di ciò che avrei trovato dall’altra parte, almeno dal punto di vista architettonico. La stanza della cupola — detta anche “stanza del cielo”, come Jefferson aveva ribattezzato la sua a Monticello — era un ambiente in qualche modo strano ma bellissimo (così mi aveva detto Marietta, che ci era sgattaiolata una volta in compagnia di una delle sue amanti). A Monticello era stata usata come stanza dei giochi per i bambini, perché era difficile da raggiungere, ma la versione dell’Enfant trasmetteva un vago disagio; nessun bambino sarebbe mai stato felice di giocare lì. Anche se c’erano otto finestre e un lucernario, quel luogo era, per usare le parole di Marietta, “un tantino angosciante”.

Ho spalancato la porta con un piede, quasi aspettandomi di essere investito da un volo di uccelli o di pipistrelli. Ma la stanza era deserta. Non c’era nemmeno un solo mobile a rovinarne l’assoluta semplicità. Solo la luce delle stelle che filtrava da nove aperture.

“Luman”, ho mormorato tra me e me, “figlio di puttana…”

Mi aveva preparato per qualcosa di ben più spaventoso; un delirio, un assalto di visioni così violente capaci di farmi perdere la ragione. Ma lì non c’era niente, tranne la semioscurità.

Mi sono spinto avanti per un paio di metri, cercando attorno a me un buon motivo per avere paura. Non ho trovato niente. Ho continuato ad avanzare, provando un miscuglio di delusione e sollievo. Non c’era niente da temere, lì. La mia sanità mentale non correva alcun rischio.

A meno che, naturalmente, quel senso di sicurezza non fosse deliberatamente illusorio. Mi sono voltato a lanciare un’occhiata in direzione della porta. Era ancora aperta; ancora solida. E oltre la porta, c’era il pianerottolo dove insieme a Luman avevo discusso dell’eventualità di entrare o meno. Che bersaglio facile ero stato; doveva essersi divertito terribilmente nel vedere il mio disagio! Imprecando di nuovo contro di lui, ho distolto lo sguardo dalla porta e ho ricominciato a scrutare l’oscurità. Questa volta però, con mio grande stupore, mi sono accorto che la stanza del cielo non era così vuota come avevo pensato in un primo momento. A qualche metro da me — nel punto in cui si intersecavano le luci delle nove finestre — c’era una forma che vibrava tra le ombre, così sottile che all’inizio sono stato certo che non fosse nemmeno reale. Ho continuato a fissarla, resistendo all’impulso di sbattere le palpebre per paura che sarebbe svanita. Ma è rimasta davanti a me, e il suo movimento si è intensificato. Mi sono spinto in direzione della forma; lentamente, lentamente, come un cacciatore che si avvicina alla sua preda, cercando di non spaventarla. Ma la forma non si è allontanata. Né è diventata meno misteriosa. Ho continuato ad avvicinarmi con minor cautela, e ben presto mi sono trovato al centro della stanza, proprio sotto il lucernario. C’erano sagome nell’aria tutto attorno a me, sagome così evanescenti che non ero del tutto sicuro che esistessero davvero. Ho alzato lo sguardo sul mio zenit: ho visto le stelle attraverso il lucernario, ma non c’era niente che potesse proiettare quelle ombre mutevoli. Ho osservato le pareti, spostando gli occhi da una finestra a quella successiva, in cerca di una spiegazione. Ma non ho trovato niente. Dalle finestre filtrava un po’ di luce, ma non c’era alcuna traccia di movimento: un ramo sospinto dal vento, il battito di ali di un uccello su un davanzale. Qualunque cosa stesse proiettando le ombre, era lì nella stanza con me. Ho smesso di scrutare le finestre, borbottando confuso tra me e me, e ho avuto la sgradevole sensazione di essere osservato. Ho guardato di nuovo verso la porta, pensando che Luman potesse essere tornato di soppiatto per spiarmi. Ma no: il pianerottolo era deserto.

Be’, ho pensato, non c’è ragione che resti seduto qui a diventare sempre più paranoico. Tanto vale dichiarare apertamente le ragioni per cui sono venuto e vedere se qualcuno mi risponde.

Ho tratto un respiro ansioso e ho parlato.

“Sono venuto… sono venuto a vedere il passato”, ho detto. La mia voce sembrava flebile, come quella di un bambino. “Mi ha mandato Cesaria”, ho aggiunto, pensando che questo potesse in qualche modo assicurare alle forze che abitavano la stanza che la mia presenza era legittima, e quindi, se avevano qualcosa da mostrarmi, dannazione, che lo facessero.

Qualcosa di quanto avevo appena detto — forse l’accenno al passato o forse il nome di Cesaria — ha suscitato una risposta. Le ombre attorno a me si sono fatte più scure e i loro movimenti più complessi. Una qualche parte della sagoma, che si contorceva come una cosa viva, si è levata di fronte a me: su, su, verso il lucernario. Un’altra è volata verso la parete alla mia sinistra, trascinandosi dietro altri frammenti di aria scura, agitandosi come la coda di un aquilone. E un’altra ancora è caduta sulle assi lucide, allargandosi sul pavimento.

Credo di aver sussurrato qualche parola di stupore. “Oh mio Dio”, o qualcosa di simile. Avevo le mie buone ragioni. Quello spettacolo stava crescendo col trascorrere di ogni istante, le contorsioni di quelle ombre e le loro dimensioni si espandevano quasi che seguissero una qualche progressione logaritmica. Movimento che ispirava movimento; forme che ispiravano forme. Nell’arco di forse quarantacinque secondi, tutte le pareti della camera sono state eclissate da quelle astrazioni inquiete; grigio su grigio, eppure riempito di sottili accenni di visioni a venire. I miei occhi saettavano in ogni direzione, sbalorditi da ciò che vedevano, ma anche mentre il mio sguardo si spostava da un gruppo di forme nuvolose all’altro, avevo l’impressione che ci fosse qualcosa di quasi visibile attorno a me. Che fossi in procinto di capire il funzionamento di quelle astrazioni.

Eppure, persino in quella loro condizione mutevole, mi hanno toccato profondamente. Guardando quei movimenti sinuosi e contorti, ho incominciato a capire perché Luman fosse stato così riluttante all’idea di entrare in quella stanza. Nonostante i suoi modi, era un uomo di grande vulnerabilità: c’erano semplicernente troppe sensazioni per un’anima così tenera, lì. E continuando a guardare, ho avuto l’impressione di ascoltare una partitura musicale; o meglio, diverse partiture allo stesso tempo.

Quelle forme grandiose, che stavano sopra di me come colonne di fumo contro il sole, avevano tutta la potenza di un requiem; mentre le sagome più vicine, che si muovevano attorno a me, sobbalzavano e ondeggiavano come seguendo una polca ubriaca. E tra le une e le altre, c’erano corde sinuose di aria che mi circondavano levandosi verso il cielo, come componendo una rapsodia luminosa.

Dire che ero incantato sarebbe riduttivo. Era tutto così perfettamente misterioso: una seduzione dell’occhio e del cuore che mi portava vicino alle lacrime. Ma non ero rapito al punto da non chiedermi quali poteri dovessi ancora scoprire. Avevo evocato quella visione con la mia stessa disponibilità ad accettarla. Adesso era arrivato il momento di fare di nuovo la stessa cosa, di aprire il mio spirito ancora di più per vedere ciò che le ombre avevano da mostrarmi.

Sono pronto”, ho detto dolcemente, “quando volete…”

Le forme davanti a me hanno continuato le loro evoluzioni, senza dar segno di avere raccolto il mio invito. Nei loro movimenti c’era ancora un senso di mutamento, ma ho avuto la sensazione che stesse rallentando. Non stavo più assistendo ai cambiamenti rapidi come battiti di un cuore, che mi avevano sbalordito pochi minuti prima.

Ho parlato di nuovo: “Non ho paura”.

Ho mai detto qualcosa di così stupido in vita mia come quella dichiarazione di coraggio in un posto simile?

Le parole avevano appena lasciato la mia bocca, quando le ombre davanti a me hanno cominciato a contorcersi come se una scossa sismica avesse fatto tremare la cupola. Due o tre secondi più tardi, come un tuono che arriva un istante dopo il fulmine, l’onda d’urto ha colpito la sola forma non eterea che vi fosse nella stanza, vale a dire me. La mia sedia a rotelle è stata scaraventata all’indietro e si è rovesciata. Ho tentato inutilmente di riprenderne il controllo, ma la sedia è schizzata sulle assi, le ruote che strillavano, e ha colpito la parete vicino alla porta con tale violenza da sbalzarmi lontano.

Sono atterrato a faccia in giù e ho sentito qualcosa spezzarsi. Non avevo più aria nei polmoni. Se ne avessi avuto la forza, avrei potuto tentare di implorare clemenza, di rimangiarmi le mie parole troppo arroganti. Ma dubito che sarebbe servito.

Boccheggiando, ho cercato di mettermi seduto, in modo da poter scoprire dov’era atterrata la mia sedia a rotelle. Ma ho sentito un dolore acuto al fianco. Chiaramente si trattava di una costola rotta. Ho abbandonato i miei tentativi di muovermi per paura di causarmi danni peggiori.

Non ho potuto fare altro che giacere dov’ero stato scagliato con così poche cerimonie, e attendere che la stanza facesse il suo lavoro. Avevo invitato i poteri a mostrarmi il loro splendore, ed ero più che sicuro che non si sarebbero negati il piacere di mostrarmelo.

Otto

Non è accaduto niente. Sono rimasto lì, col respiro rapido e concitato, lo stomaco pronto a rivoltarsi, il corpo appiccicoso di sudore, e la stanza si è limitata ad aspettare. Le forme indefinibili che mi circondavano — che ormai avevano cancellato ogni dettaglio delle finestre, delle pareti e persino del pavimento — erano quasi immobili, le loro acrobazie interrotte almeno per il momento.

Era possibile che il fatto che mi fossi ferito avesse in qualche modo bloccato la presenza o le presenze che erano nella stanza? Forse si erano accorte di aver oltrepassato i confini dell’entusiasmo, e ora volevano soltanto che mi allontanassi arrancando per leccarmi le ferite? Erano in attesa che chiamassi Luman, forse? Ho pensato di farlo, ma alla fine ho deciso che non era una buona idea. Quella era una stanza in cui non si poteva pronunciare una sola parola a meno che non fosse strettamente necessario. Avrei fatto meglio a restare immobile e silenzioso, lasciando al mio corpo in preda al panico il tempo di calmarsi. Poi, una volta riacquistato il controllo, avrei cercato di strisciare fino alla porta. Presto o tardi, Luman sarebbe salito a prendermi, ne ero certo. Anche se avessi dovuto aspettare tutta la notte.

Nel frattempo ho chiuso gli occhi per liberarmi delle immagini attorno a me. Sebbene il dolore al fianco adesso fosse soltanto una pulsazione sorda, anche la testa e gli occhi mi pulsavano; non era molto difficile immaginare che il mio corpo fosse diventato un cuore grasso, dimenticato sul pavimento, prossimo a fermarsi.

Non ho paura, mi ero vantato qualche istante prima che l’energia mi colpisse. Ma ora? Oh, avevo talmente tanta paura, ora, Paura di morire lì, prima di aver finito di catalogare gli affari irrisolti che attendevano in fondo alla mia mente, che desideravano soltanto la mia attenzione e che, non ottenendola, non facevano che crescere e crescere per tutto il tempo. Be’, molto probabilmente adesso era troppo tardi; non avrei più potuto punirmi per ogni azione disonorevole che avevo commesso, né avrei più avuto occasione di riparare ai danni che avevo fatto. Danni da poco, certo, nel grande schema delle cose, ma gravi abbastanza perché me ne rammaricassi.

E all’improvviso, sulla mia nuca, un tocco; o almeno, quello che mi è parso un tocco.

“Luman?” ho mormorato, aprendo gli occhi.

Non era Luman; non era nemmeno un tocco umano o qualcosa che somigliasse a un tocco umano. Era una qualche presenza tra le ombre; o forse erano le ombre stesse. Erano sciamate su di me mentre tenevo gli occhi chiusi, e adesso erano così vicine che la loro intimità non era per niente minacciosa ma stranamente tenera. Era come se quelle forme senza senso fossero preoccupate per me, dal modo in cui mi sfioravano il collo, la fronte, le labbra. Sono rimasto assolutamente immobile, trattenendo il fiato, aspettandomi che da un momento all’altro il loro umore cambiasse e le loro attenzioni mutassero in qualcosa di ben più crudele. Ma no; sono rimaste semplicemente ad aspettare, vicino a me.

Sollevato, ho ricominciato a respirare. E in quell’istante ho capito di aver fatto di nuovo inconsapevolmente qualcosa di importante.

Mentre inspiravo, ho sentito l’aria densa e vibrante attorno alla mia testa affrettarsi verso le mie labbra aperte e giù, lungo la mia gola. Non ho avuto scelta, ho dovuto lasciarla entrare. Quando ho capito cosa stava succedendo era già troppo tardi per opporre resistenza. Ero un vaso che veniva riempito. Potevo percepirla sulla lingua, contro le tonsille, nella trachea…

Nel momento in cui l’aria è entrata in me, il dolore al fianco si è affievolito di colpo, e così il pulsare violento nella testa e negli occhi. La paura di una morte solitaria in quel luogo mi ha abbandonato e io sono scivolato, con un solo respiro, dalla disperazione a un piacevole rilassamento.

Che labirinto di manipolazioni conteneva quella stanza! Prima la banalità, poi un colpo e poi questa beatitudine oppiata. Sarei stato stupido, lo sapevo, a credere che la stanza del cielo avesse esaurito il suo repertorio di trucchi. Ma se la stanza era felice di darmi sollievo dal mio dolore, io ero altrettanto felice di accettare ciò che mi offriva. Lo desideravo con tutto me stesso. Ho inghiottito l’aria, bevendola avidamente. E con ogni respiro mi sono sentito sempre più lontano dal mio dolore. E non era soltanto il dolore al fianco e alla testa a diventare in qualche modo remoto; c’era anche una sofferenza ben più antica — un dolore sordo che infestava il terreno morto dei miei arti inferiori — che ora per la prima volta, in un arco di tempo pari a due vite umane, veniva alleviata. Non che il dolore mi venisse tolto; solo non lo riconoscevo più come dolore. Non è necessario che vi dica con quanta gioia l’ho bandito dalla mia mente, singhiozzando la mia gratitudine per la liberazione da quell’agonia che era diventata così familiare da farmi dimenticare quanto profonda fosse la ferita.

E in quel momento i miei occhi — che erano più acuti di quanto fossero mai stati, persino nella mia giovinezza — hanno trovato una nuova stupefacente visione. L’aria che stavo espellendo dai polmoni possedeva una solidità luminosa; fuoriusciva da me piena di particelle dalla delicata lucentezza come se dentro di me fosse stato acceso un fuoco e io stessi espirando frammenti di fiamma. Era forse una rappresentazione del mio dolore? Era forse il modo in cui la stanza — o il mio stesso delirio — dava forma a quella liberazione? Quelle domande sono rimaste a fluttuare nella mia mente per una decina di secondi prima di scomparire. Le particelle stavano per svelarmi la loro vera natura, e questa non aveva niente a che fare con il dolore.

Continuavano a fluire dalla mia bocca a ogni respiro, ma io non stavo osservando quelle che avevo appena esalato. Erano le prime che erano uscite da me a catalizzare la mia attenzione. Stavano seminando la loro lucentezza nelle ombre — scomparivano nel letto nuvoloso attorno a me. Le ho guardate con quello che mi piacerebbe definire un distacco scientifico. In fondo c’era una certa logica in tutto quello che mi stava succedendo; o almeno, così immaginavo. Le ombre erano solo metà dell’equazione: erano un luogo di possibilità, niente più di questo; il fango fertile della stanza in attesa di una scintilla galvanizzante che portasse alla luce… cosa?

Quella era la domanda. Che cosa voleva mostrarmi quel matrimonio tra fuoco e ombra?

Non ho dovuto aspettare più di una manciata di secondi per scoprire la risposta. Non appena le prime particelle si sono adagiate, le ombre hanno abbandonato la loro incertezza e sono sbocciate.

I limiti della stanza del lucernario non esistevano più. Quando sono arrivate le visioni — e, oh, come sono arrivate! - sono state immense.

Prima, dalle ombre, un paesaggio. Un paesaggio assolutamente primitivo: roccia e fuoco e una massa fluente di magma. Sembrava l’inizio del mondo; rosso e nero. Ho avuto solo un istante per dare un senso a quella scena. E l’istante successivo sono stato assediato da altre immagini, lo spettacolo davanti a me che si trasformava a ogni battito del mio cuore. Qualcosa stava sorgendo dal fuoco, oro e verde, levandosi in un cielo pieno di fumo. E mentre si alzava, i boccioli che portava sono diventali frutti e sono caduti sul terreno di lava. Non ho avuto nemmeno il tempo di guardarli consumarsi. Un movimento nel fumo alla mia destra ha attratto la mia attenzione. Un animale di qualche genere — dai fianchi pallidi, segnati da cicatrici — è entrato al galoppo nel mio campo visivo. Ho sentito la violenza dei suoi zoccoli nelle mie viscere. E prima che scomparisse ne è comparso un altro, e un altro ancora, e poi una mandria di quelle creature — non cavalli ma qualcosa di simile. Ero stato io a generarle? Le avevo forse esalate con il mio dolore; e anche il fuoco e le rocce e l’albero che sorgeva dalle rocce? Era tutta una mia invenzione o si trattava forse di un qualche ricordo remoto che gli incanti della stanza avevano reso visibile?

Mentre davo forma a quei pensieri, la mandria pallida ha cambiato direzione puntando verso di me. Istintivamente mi sono coperto la testa per proteggermi. Ma nonostante tutta la furia dei loro zoccoli, il loro passaggio non mi ha procurato più danni di quanti me ne avrebbe causati una leggera brezza; sono passati sopra di me e si sono allontanati.

Ho alzato lo sguardo. Nei pochi secondi in cui avevo distolto gli occhi, il terreno aveva dato vita a una nascita prodigiosa. Da ogni parte c’erano nuovi spettacoli da ammirare. Vicino a me, nell’aria stessa da cui veniva scolpito, si contorceva un serpente dai colori sgargianti come quelli di un fiore. Prima ancora che fosse del tutto creato, è stato afferrato da un’altra creatura e i miei occhi hanno incontrato una forma vagamente umana ma sottile e alata. Il serpente è scomparso in un secondo, inghiottito da questa nuova creatura che infine ha spostato lo sguardo su di me come se si stesse chiedendo se anch’io fossi commestibile. Chiaramente le sono apparso come una misera preda. Sbattendo le ali gigantesche, la creatura si è levata come un sipario per rivelare un altro dramma, ancora più strano.

L’albero che avevo visto nascere aveva sparso i suoi semi in ogni direzione. Nel giro di pochi istanti era sbocciata una foresta, dai rami e dal fogliame scuri come nubi temporalesche. E a saettare tra gli alberi c’erano creature di ogni genere, che salivano per nidificare e cadevano per decomporsi. Vicino a me è comparsa un’antilope pezzata che defecava per il terrore. Ho cercato la ragione della sua paura e là, a pochi metri dall’antilope, ho visto qualcosa che si muoveva tra gli alberi. Sono riuscito a scorgere solo il luccichio di un occhio o di una zanna prima che la creatura balzasse fuori dal suo nascondiglio, piombando sulla sua preda. Era una tigre, grande come quattro o cinque uomini. L’antilope ha cercato di darsi alla fuga ma il predatore non le ha lasciato scampo. Gli artigli della tigre sono affondati nei fianchi setosi dell’antilope, e la morte della preda non è stata né rapida né pietosa. L’antilope si è agitata selvaggiamente, anche se il suo corpo era già lacerato e la tigre le stava aprendo la gola sottile. Non ho distolto lo sguardo. Ho continuato a osservare la scena finché l’antilope non è stata ridotta a semplice carne fumante e la tigre si è accovacciata per cibarsene. Solo allora ho permesso ai miei occhi di allontanarsi in cerca di nuove distrazioni.

Ho notato qualcosa di luminoso tra gli alberi, più luminoso col passare di ogni istante. Come un fuoco affamato, si è arrampicato tra la vegetazione mentre si avvicinava. Nel fitto della foresta è dilagato il caos, mentre ogni specie — prede e cacciatori insieme — fuggiva al cospetto del bagliore. Ma sopra di me non c’era alcuna via di scampo. Il fuoco si è propagato troppo velocemente, consumando gli uccelli in volo e nei nidi, le scimmie e gli scoiattoli sui rami. Attorno a me sono caduti innumerevoli cadaveri anneriti e fumanti. E insieme a quei corpi hanno preso a scendere ceneri bianche e incandescenti.

Non temevo per la mia vita. Ormai conoscevo abbastanza bene quel luogo da poter confidare in una certa immunità. Ma quella scena mi ha colpito ugualmente. A cosa stavo assistendo? A una sorta di cataclisma primitivo che aveva piagato questo mondo? Che lo aveva disgregato dal cielo alla terra? E se sì, qual era la fonte del disastro? Non era un evento naturale, ne ero certo. Il bagliore sopra di me era ormai diventato una specie di tetto che nel momento della distruzione creava una volta lavorata in cui le vittime venivano immortalate nel fuoco. I miei occhi si sono riempiti di lacrime a quella vista. Ho sollevato una mano per asciugarmeli così da non perdere nemmeno una delle nuove glorie e nemmeno uno dei nuovi orrori che mi attendevano, e in quell’istante nel mio cuore ho sentito il primo suono prodotto da un essere umano da quando ero entrato nella stanza.

Non è stata una parola; o, se lo è stata, non si è trattato di una parola che conoscessi. Ma aveva un significato, ne ero convinto. Al mio orecchio è risuonata come il grido di un’anima appena nata nel bel mezzo del bagliore; un grido di celebrazione e di sfida. Eccomi! sembrava dire. Ora incominciamo!

Mi sono sollevato sulle mani, cercando di vedere chi stava gridando (uomo o donna che fosse), ma la pioggia di cenere e detriti era come un velo davanti a me e non sono riuscito a vedere quasi niente.

Le braccia non sono riuscite e sostenermi per più di pochi istanti. Ma mentre mi lasciavo ricadere sul terreno in preda alla frustrazione, il fuoco sopra di me — che forse aveva esaurito il suo nutrimento — si è spento. La cenere ha smesso di cadere. E là, a una ventina di metri da me, circondata dal bagliore come da un immenso fiore di fuoco, c’era Cesaria. Niente nel suo aspetto o nella sua espressione faceva pensare che il fuoco rappresentasse una minaccia per lei. Tutt’altro. Piuttosto sembrava godere di quel contatto; le sue mani si muovevano lungo il suo corpo mentre l’esplosione lo inondava, come se si stesse assicurando che quel balsamo penetrasse in ogni suo poro. I suoi capelli, ancora più neri della sua pelle, si torcevano e crepitavano; dai suoi seni sgorgava latte, i suoi occhi piangevano lacrime argentee e il suo sesso, che lei di tanto in tanto si toccava, generava fiumi di sangue.

Avrei voluto distogliere lo sguardo ma non ci sono riuscito. Era troppo squisita, troppo matura. Ho avuto l’impressione che tutto ciò che avevo visto in quell’ultimo lasso di tempo — il terreno di lava, l’albero e i suoi frutti, la mandria pallida, l’antilope e la tigre; persino la strana creatura alata che era apparsa per un attimo nel mio campo visivo — che tutte queste apparizioni fossero nella e della donna che si trovava davanti a me. Lei era la loro creatrice e la loro carnefice, il mare in cui nuotavano e la roccia da cui erano scaturite.

In quell’istante ho deciso che avevo visto abbastanza. Avevo bevuto tutto ciò che avevo potuto mantenendo la mia sanità mentale. Era tempo che voltassi le spalle a quelle visioni per rifugiarmi nella sicurezza della banalità. Avrei avuto bisogno di tempo per assimilare ciò a cui avevo assistito, e i pensieri che quello spettacolo aveva generato.

Ma andarsene era tutt’altro che facile. Staccare gli occhi dalla vista della moglie di mio padre è stata la cosa più difficile; ma quando finalmente l’ho fatto e mi sono voltato in direzione della porta, non sono riuscito a trovarla. L’illusione mi circondava da ogni parte; non restava più alcuna traccia della realtà. Per la prima volta dall’inizio delle visioni, ho ripensato ai discorsi di Luman sulla follia e sono caduto preda del panico. Era possibile che, senza accorgermene, avessi allentato la presa sulla sanità mentale? Ero alla deriva in quell’illusione in cui non c’era più terreno solido per i miei stessi sensi?

Con un brivido mi sono ricordato della culla in cui Luman era stato tenuto legato; e dell’espressione di rabbia insanabile nei suoi occhi. Era questo ciò che mi aspettava adesso? Una vita senza certezze, senza solidità; quella foresta come una prigione che avevo creato con il mio respiro, e l’altro mondo, in cui ero stato reale e felice, per quanto le mie ferite me lo avevano permesso, ridotto a un semplice sogno di libertà a cui non avrei potuto fare ritorno?

Ho chiuso gli occhi per tagliare fuori l’illusione. Ho pregato come un bambino in preda al terrore.

Oh Dio del cielo, veglia sul tuo servo in questo istante; ti prego… aiutami.

Ti prego. Allontana queste cose dalla mia testa. Non le voglio, Signore. Non le voglio.

Mentre mormoravo la mia preghiera, mi sono sentito investire da un’ondata di energia. Il bagliore tra gli alberi che si era fermato poco lontano da me, si stava muovendo di nuovo. Ho continuato a pregare, certo che se il fuoco stava venendo a prendermi, lo stesso valeva per Cesaria.

Salvami, Signore.

Anche lei stava venendo per mettermi a tacere. D’improvviso, ne sono stato sicuro. Lei faceva parte della mia follia e stava venendo a cancellare le parole che avevo mormorato per difendermi.

Signore, ti prego, ascoltami.

L’energia si è intensificata come se intendesse strapparmi le parole dalle labbra.

In fretta, Signore, in fretta! Mostrami come uscire di qui! Ti prego! Dio del cielo, ti prego!

“Shhh…” mi ha sussurrato Cesaria. Era proprio dietro di me. Ho avuto l’impressione che i capelli sulla nuca mi si rizzassero e bruciassero. Ho aperto gli occhi e mi sono guardato oltre la spalla. Eccola, ancora in un bozzolo di fuoco, la carne scura luccicante. Di colpo, mi sono sentito la bocca arida; non sono quasi riuscito a parlare.

“Voglio…”

“Lo so”, ha detto lei dolcemente. “Lo so. Lo so. Povero piccolo. Povero piccolo perduto. Rivuoi la tua mente.”

“Sì…” ho singhiozzato io, sull’orlo delle lacrime.

“Ma è lì”, ha continuato lei. “Tutto attorno a te. Gli alberi. Il fuoco. Me. È tutto tuo.

“No”, ho protestato. “Non sono mai stato in questo posto prima.”

“Ma questo posto è stato in te. È qui che tuo padre è venuto a cercarmi, un’eternità fa. Lo ha sognato in te quando tu sei nato.”

“Lo ha sognato in me…” ho ripetuto.

“Ogni visione, ogni sensazione. Tutto ciò che era e tutto ciò che sapeva e tutto ciò che sapeva sarebbe successo… è nel tuo sangue e nelle tue viscere.”

“E allora perché ne ho così paura?”

“Perché sei rimasto attaccato a un te stesso più semplice per tanto tempo, perché pensi di essere la somma di ciò che puoi tenere tra le mani. Ma ci sono altre mani che ti tengono, bambino mio. Piene di te. Traboccanti di te…”

Avevo il coraggio di credere a tutto questo?

Cesaria ha risposto come se avesse sentito i miei dubbi pronunciati ad alta voce.

“Non ti posso rassicurare. O decidi di credere che queste visioni sono una saggezza più grande di tutto quello che hai mai conosciuto, o decidi di liberartene, allora cadrai di nuovo.”

“Cadrò dove?”

“Ma sulle tue stesse mani, naturalmente”, ha detto lei. Era divertita da me? Dalle mie lacrime e dai miei tremori? Penso di sì. Ma non potevo biasimarla; anche una parte di me mi trovava ridicolo, impegnato a pregare un dio che non avevo mai visto per sfuggire alla vista di glorie per le quali un uomo di fede avrebbe dato qualsiasi cosa. Ma avevo paura e non riuscivo a staccarmi da quello stato d’animo. Avevo paura.

“Poni la tua domanda”, ha detto Cesaria. “Tu hai una domanda. Ponila pure.”

“Sembra così infantile.”

“Allora ascolta la risposta e passa ad altro. Ma prima devi chiedere.”

“Sono… al sicuro?”

“Al sicuro?”

“Sì. Al sicuro.”

“Nella tua carne? No. Non posso garantirtelo. Ma nella tua forma immortale, niente e nessuno può distruggerti. Se cadrai tra le tue stesse dita, ci saranno altre mani a sostenerti. Te l’ho già detto.”

“E… Sì, penso di crederti”, ho risposto.

“Allora”, ha detto Cesaria, “non hai alcuna ragione per impedire ai ricordi di raggiungerti.”

Si è avvicinata ancora di più. La sua mano era coperta di un’infinità di serpenti: sottili come capelli ma dai colori sgargianti, gialli, rossi e blu, attoreigliati attorno alle sue dita come gioielli vivi.

“Toccami…”

Ho alzato lo sguardo sul suo viso che aveva un’espressione dolce e calma, e poi ho osservato di nuovo la mano che voleva che prendessi.

“Non aver paura”, mi ha detto. “Non mordono.”

Ho preso la sua mano. Aveva ragione, i serpenti non mi hanno morso, ma hanno sciamato; dalle sue dita alle mie e poi sul dorso della mano e lungo il braccio. Ero così distratto da quella vista che non mi sono reso conto che Cesaria mi stava sollevando da terra finché non mi sono trovato quasi in piedi. Dico in piedi, anche se non riesco a immaginare come questo sia possibile; le mie gambe fino a quel momento erano state incapaci di sostenere il mio peso. Eppure mi sono trovato in piedi, aggrappato alla sua mano, il volto a pochi centimetri dal suo.

Non credo di essere mai stato così vicino alla moglie di mio padre prima di quel momento. Anche quando ero stato un bambino arrivato dall’Inghilterra ed ero stato accettato come suo figlio adottivo, Cesaria si era sempre tenuta a una certa distanza da me. Ma adesso ero in piedi, così vicino a lei, e anche se sentivo i serpenti attorcigliarmisi al braccio, non mi importava più: non ora che davanti a me vedevo il suo viso. Era perfetta. La sua pelle, nonostante fosse così scura, possedeva un chiarore incredibile, il suo sguardo, come la sua bocca, era allo stesso tempo invitante e proibito. Alcune ciocche dei suoi capelli sono state sollevate dalle ondate di calore che ci circondavano e mi hanno sfiorato le guance. Il loro tocco, benché leggero, è stato profondamente sensuale. Sentendolo e vedendo i suoi lineamenti squisiti, non ho potuto evitare di chiedermi come sarebbe stato essere ricevuto tra le sue braccia. Baciarla, giacere con lei, generare un figlio dentro di lei. Non c’era da meravigliarsi che mio padre fosse stato ossessionato da quella donna fino alla morte, anche se il loro amore aveva conosciuto ogni tipo di scontro, di delusione e di amarezza.

“E adesso…” ha detto lei.

“Sì?” Giuro che avrei fatto qualunque cosa per lei in quel momento. Ero come un innamorato di fronte alla sua amata; non avrei potuto negarle niente.

“Riprenditi tutto…”

Non ho capito di cosa stesse parlando. “Che cosa dovrei riprendermi?” ho domandato.

“Il respiro. Il dolore. Me. Tutto. Appartiene a te, Maddox. Riprenditi tutto.

Ho capito. Era tempo di riappropriami di tutto ciò che avevo cercato di negare a me stesso: le visioni che erano parte del mio sangue, anche se le avevo sempre tenute nascoste; il dolore che a sua volta, nel bene e nel male, mi apparteneva. E, naturalmente, la stessa aria dei miei polmoni, con la quale quel viaggio aveva avuto inizio.

Riprenditi tutto.

Avrei voluto implorarla perché mi concedesse qualche altro istante di grazia, per poterle parlare, forse; per poterla guardare, se non altro, prima che il mio corpo fosse restituito alla sua agonia. Ma lei stava già facendo scivolare le dita fuori dalla mia stretta.

Riprenditi tutto”, ha ripetuto una terza volta, e per essere certa che le obbedissi, ha avvicinato il volto al mio e ha tratto un profondo respiro, così dolce e forte da svuotarmi la bocca, la gola e i polmoni in un solo istante.

La testa ha cominciato a girarmi; sono comparse macchie bianche e ardenti ai margini del mio campo visivo, che hanno minacciato di offuscarmi del tutto la vista. Tuttavia il mio corpo ha agito con un suo vigore intrinseco e, senza che la mia mente glielo ordinasse, ha fatto ciò che voleva Cesaria: si è ripreso il respiro.

L’effetto è stato immediato, e per i miei occhi incantati terribile. Il volto favoloso che si trovava davanti a me si è dissolto come se fosse stato evocato dalla nebbia e come se i miei polmoni bisognosi lo avessero disfatto. Ho alzato lo sguardo sperando di intravedere ancora una parte di quel cielo antico prima che svanisse, ma era già troppo tardi.

Ciò che un momento prima mi era sembrato reale al di là di ogni dubbio, in un secondo era diventato niente. No, non niente. Si è dissolto in frammenti come aveva fatto l’aria incantata quando ero entrato nella stanza. Alcuni trattenevano ancora tracce di colore. C’erano sbavature di blu e bianco sopra di me, e attorno a me, dove la foresta non era stata consumata dalle fiamme, c’erano un centinaio di sfumature diverse di verde; e davanti a me, i luccichii d’oro del fuoco e un’oscurità punteggiata di scarlatto, dove avevo visto la moglie di mio padre. Ma anche questi ultimi resti sono evaporati nell’arco di un istante, e io mi sono ritrovato nell’arena di grigio su grigio che avevo scambiato per un labirinto di pareti screziate.

Tutti gli eventi che si erano appena dipanati avrebbero anche potuto apparirmi come fittizi, se non fosse stato per un semplice particolare: ero ancora in piedi. Qualunque forza la mia niente avesse scatenato, aveva agito con un potere tale da sollevarmi da terra e rimettermi in piedi. E io sono rimasto là, senza parole, certo che sarei ricaduto a terra da un momento all’altro. Ma anche quell’istante è passato; e così l’istante dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora, e io ero ancora in piedi.

Con cautela mi sono voltato a guardare al di là della mia spalla. Là, a meno di dieci metri da me, c’era la porta che avevo varcato prima delle visioni. Accanto a essa, rovesciata, c’era la mia sedia a rotelle. L’ho fissata. Avevo davvero il coraggio di credere che d’ora in poi non mi sarebbe più servita?

“Ma guardati…” ha detto una voce strascicata.

Ho spostato lo sguardo dalla sedia a rotelle alla porta, e ho visto Luman appoggiato allo stipite. Mentre ero occupato nella stanza, aveva trovato dell’altro liquore. Non una bottiglia ma una caraffa. Aveva lo sguardo vacuo di chi ha ecceduto non poco con l’alcool. “Sei in piedi”, ha detto. “Come hai fatto?”

“Io non…” ho risposto. “Voglio dire, non capisco perché non sono ancora caduto.”

“Ce la fai a camminare?”

“Non lo so. Non ho ancora provato.”

“Be’, Cristo, provaci.”

Ho abbassato gli occhi sui miei piedi che da centotrent’anni non prendevano più ordini da me. “Muovetevi”, ho mormorato.

E loro si sono mossi. All’inizio con difficoltà, ma si sono mossi. Prima il sinistro, poi il destro, voltandomi verso Luman e la porta.

Non mi sono fermato. Ho continuato a muovermi, il respiro rapido e affannoso, le braccia protese davanti a me per arrestare la caduta se le gambe avessero dovuto cedermi all’improvviso. Ma non è stato così. Era accaduto un qualche miracolo quando Cesaria mi aveva sollevato. La sua forza di volontà, o la mia, o quella di entrambi, mi aveva guarito. Potevo camminare. Col tempo, avrei potuto correre. Sarei andato in tutti i luoghi che non avevo visto durante gli anni in cui ero stato bloccato sulla sedia a rotelle. Fuori nella palude, e oltre, sulle strade; nei giardini che si trovavano oltre la Casa del Fumo di Luman; alla tomba di mio padre nelle stalle abbandonate.

Ma per il momento ero felice semplicemente di raggiungere la porta. Così felice che ho abbracciato Luman. Le lacrime mi sgorgavano dagli occhi e non avrei potuto fermarle nemmeno se mi fosse importato di farlo.

“Grazie”, gli ho detto.

Lui è stato piuttosto felice di accettare il mio abbraccio. Anzi, lo ha ricambiato con altrettanto fervore, premendomi il viso contro il collo. Anche lui stava singhiozzando, anche se non capivo esattamente perché. “Non vedo per cosa dovresti ringraziarmi.”

“Per avermi dato il coraggio”, ho risposto. “Per avermi convinto a entrare.”

“Allora non sei pentito?”

Sono scoppiato a ridere, e gli ho preso il volto tra le mani. “No, fratello, non sono pentito. Per niente.”

“Sei quasi impazzito?”

“Quasi.”

“E mi hai maledetto?”

“Varie volte.”

“Ma ne è valsa la pena?”

“Assolutamente.”

Luman ha fatto una pausa, riflettendo sulla domanda successiva. “Questo significa che possiamo sederci e sbronzarci fino a vomitare come fanno tutti i fratelli che si rispettino?”

“Sarà un piacere.”

Nove

1

Che cosa devo fare nel tempo che è rimasto? Semplicemente tutto.

Non so ancora quanto conosco; ma so che è molto. Ci sono immense parti della mia natura di cui non ho mai sospettato l’esistenza finora. Ho vissuto in una cella che avevo creato io stesso, mentre fuori dalle sue mura mi attendeva un paesaggio di ricchezza impareggiabile. Ma non ho avuto il coraggio di avventurarmi oltre le mie sbarre. Nella mia autocommiserazione ho pensato di essere un re minore e non ho voluto superare i confini di ciò che conoscevo per paura di perdere i miei dominii. Credo che la maggior parte di noi viva in miseri reami di questo genere. Ci vuole qualcosa di profondo perché ci trasformiamo, perché apriamo gli occhi sulla nostra gloriosa diversità.

Ora i miei occhi erano aperti, e sapevo che insieme alla vista sarebbero venute anche grandi responsabilità. Avrei dovuto scrivere di ciò che vedevo; avrei dovuto raccontarlo con le parole che appaiono proprio sulle pagine che ora state leggendo.

E ora avrei potuto sopportare il peso delle responsabilità. E lo avrei fatto con gioia. Perché ora conoscevo la risposta alla domanda più importante: che cosa si trovava al centro di tutti i fili della mia storia? Ero io. Non ero un narratore astratto di vite e amori, ero — sono — la storia stessa; la sua fonte, la sua voce, la sua musica. Forse a voi non sembrerà una rivelazione straordinaria, ma per me è qualcosa che cambia tutto il resto. Mi fa vedere con brutale chiarezza la persona che un tempo sono stato. Mi fa capire per la prima volta chi sono ora. E mi fa tremare al pensiero di ciò che devo diventare.

Devo raccontarvi non solo ciò che è accaduto nel mondo degli umani, ma anche quello che è successo tra gli animali, e tra coloro che hanno abbandonato la vita e che tuttavia continuano a vagare per la terra. Devo raccontarvi delle creature forgiate da Dio, ma anche di quelle che si sono generate da sole con la semplice forza di volontà o con l’appetito. In altre parole, ci saranno storie inevitabilmente profane, qui, proprio come ce ne saranno di sacre, ma non posso garantire che vi spiegherò la differenza tra le prime e le seconde.

Mi rendo conto che la cosa che più di tutte voglio fare è affascinarvi; condividere con voi una visione del mondo che porti ordine dove un tempo c’erano caos e discordanza. Niente accade per caso. Non veniamo al mondo senza una ragione, anche se possiamo non capire quale sia. Nemmeno un neonato che vive per una sola ora e che poi muore senza avere il tempo di vedere coloro che lo hanno creato ha vissuto invano: questa è la mia improvvisa certezza. Ed è mio dovere sudare fino a convincere anche voi. Talvolta racconterò di eventi epici — guerre e insurrezioni e la caduta di dinastie. Talvolta di eventi che sembreranno banali in confronto, e vi chiederete che cosa hanno a che fare con queste pagine. Fidatevi di me. Considerate quei frammenti come i trucioli di legno sul pavimento di un carpentiere, ammonticchiati alla fine della realizzazione di una grande opera. Il capolavoro ha lasciato il laboratorio, ma che cosa potremmo imparare studiando un particolare ricciolo di legno sul momento della creazione? Su come il carpentiere abbia esitato a un certo punto, o abbia completato una certa forma con assoluta sicurezza? E quei trucioli, allora, che sembrano inutili a un primo sguardo, non sono forse parte della grande opera, dal momento che sono ciò che è stato tolto per portarla alla luce?

Non rimarrò qua all’Enfant a cercare quei trucioli. Abbiamo grandi città da visitare: New York e Washington, Parigi e Londra; e luoghi ancora più a est, ancora più antichi di questi, come la leggendaria città di Samarcanda, i cui palazzi in rovina e le cui moschee danno ancora il benvenuto ai viaggiatori che percorrono la Via della Seta. E quando sarete stanchi delle città? Allora ci sposteremo in terre selvagge. Le isole delle Hawaii e le montagne del Giappone, le foreste dove giacciono ancora i morti della guerra civile, e tratti di mare che nessun navigatore ha mai solcato. Hanno tutti una loro poesia: le città luccicanti e quelle in rovina, le distese d’acqua e quelle di polvere; voglio mostrarvele tutte. Voglio mostrarvi tutto.

Semplicemente tutto: profeti, poeti, soldati, cani, uccelli, pesci, amanti, potenti, mendicanti, spettri. Niente è oltre la mia ambizione, ora, e niente sfugge al mio sguardo. Tenterò di evocare divinità comuni, e di mostrarvi le meraviglie dell’oscenità.

Un momento! Ma cosa sto dicendo? La mia penna dev’essere impazzita a promettere tutto questo. È un’operazione suicida. Non posso che fallire. Ma è questo ciò che voglio fare. Anche se dovessi coprirmi completamente di ridicolo, è questo che voglio fare.

Voglio mostrarvi la beatitudine, la mia e quella di altri. E certamente vi mostrerò la disperazione. Questo posso promettervelo senza esitare. Una disperazione così profonda che vi illuminerà il cuore così da scoprire che altri soffrono tanto più di voi.

E come finirà tutto questo? Questo spettacolo, questo fallimento. Onestamente, non ne ho la minima idea.

Seduto qui, mentre osservo il prato, mi chiedo quanto lontano sia il mondo dai confini del nostro piccolo e bizzarro dominio. Settimane? Mesi? Un anno? Non credo che qualcuno di noi qui conosca la risposta. Nemmeno Cesaria, con tutti i suoi poteri profetici, potrebbe dirvi tra quanto tempo il nemico piomberà su di noi. La sola cosa che so è che verrà. Dovrà venire, per il bene di tutti. Ho abbandonato l’idea di questa casa vista come un rifugio benedetto e incantato. Forse lo è stata un tempo. Ma la decadenza l’ha raggiunta, le sue grandi ambizioni sono marcite. Meglio che sia fatta a pezzi, magari con una certa misura di dignità; e, se così non sarà, non potremo farci niente.

Tutto ciò che voglio adesso è il tempo di incantarvi. Una volta fatto questo, immagino che apparterrò al passato, proprio come questa casa. Non sarei sorpreso se entrambi finissimo insieme in fondo alla palude. E a dire la verità, questa è una prospettiva che non mi disturberà poi così tanto se avrò fatto tutto ciò che devo prima di andarmene.

Semplicemente tutto.

2

E così alla fine mi ritrovo al principio.


Qual è li principio? Dovrei cominciare forse con Rachel Pallenberg, che ultimamente è stata sposata con uno degli uomini più belli e potenti d’America, Mitchell Monroe Geary? Dovrei descriverla in tutta la sua improvvisa desolazione mentre si aggira attorno a una cittadina dell’Ohio, d’un tratto persa anche se questo è il luogo dove è nata e cresciuta? Povera Rachel. Non ha lasciato solo suo marito ma diverse case e appartamenti, e una vita che sarebbe considerata invidiabile dal novantanove per cento della popolazione (il restante un per cento vive già un’esistenza simile e sa che è perlopiù priva di gioie). Ora Rachel è tornata a casa e ha scoperto di non appartenere più nemmeno a questo luogo, il che la spinge a chiedersi: qual è il mio posto?

È una notevole tentazione iniziare da qui. Rachel è così umana; le sue confusioni e le sue contraddizioni sono facili da comprendere. Ma se cominciassi con lei, temo che mi lascerei distrarre dalla modernità. Per prima cosa deve risuonare la nota mitica; devo mostrarvi qualcosa che giunge da un passato lontano, un tempo in cui il mondo era ancora una favola vivente.

Così non posso cominciare con Rachel. Arriverà ben presto in queste pagine, ma non ora.

Deve essere Galilee. Certo, deve essere Galilee. Il mio Galilee, che è stato ed è così tante cose: ragazzo-bambino adorato, amante di innumerevoli donne (e di un considerevole numero di uomini), carpentiere navale, marinaio, cow-boy, stivatore, giocatore di biliardo e magnaccia; codardo, ingannatore e innocente. Il mio Galilee.

Non comincerò con uno dei suoi grandi viaggi, né con una delle sue famose storie d’amore. Comincerò con ciò che accadde il giorno del suo battesimo. Non avrei saputo niente di tutto questo se non fossi entrato nella stanza del lucernario. Ma ora conosco questi eventi con la stessa chiarezza con cui conosco la mia stessa vita. Forse ancora più chiaramente, perché è trascorso solo un giorno da quando sono uscito da quella camera, e questi ricordi mi sembrano vecchi soltanto di ore.

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