9

Un’ora e mezzo dopo, avevo trovato la risposta. Ed era agghiacciante.

Molte ditte di quella zona avevano ricevuto la disdetta. Molte, il cui affitto aveva una scadenza a lungo termine, avevano venduto. Pareva che la maggior parte degli edifici avesse cambiato di proprietà nelle ultime settimane.

Incontrai persone sull’orlo della disperazione, altre già rassegnate. Alcune se la prendevano a morte, altre ammettevano la sconfitta.

— Le dirò — mi confidò un droghiere — forse non è poi così male. Tra tasse, leggi e altre seccature, che gusto c’era a continuare? Certo, ho cercato un altro locale, ma è stato solo un riflesso condizionato, le abitudini sono dure a morire. In ogni caso non se ne trovano. Così realizzo come meglio posso, ritiro il denaro dalla banca e rimango a vedere che succede.

— Ha già dei progetti? — gli chiesi.

— Be’, mia moglie e io in passato abbiamo parlato spesso di prenderci una lunga vacanza, ma senza mai riuscire a farla, perché il negozio mi legava mani e piedi, e trovare dei buoni sostituti era un calvario.

Poi veniva il barbiere, che sventolava le forbici, aprendole e chiudendole freneticamente.

— Madonna! — esclamò. — Non si può più vivere, qui. Quelli là non ti lasciano più fare niente!

Volevo chiedergli chi fossero “quelli là”, ma non mi diede la possibilità di inserire una sola parola nel suo discorso.

— Che questo non è più un bel mestiere — continuò. — Si viene qui solo per un taglio. Qualche shampoo, ma vuoi mettere, una volta si faceva la barba, e poi un massaggio, e poi metti un po’ di brillantina. Adesso, solo tagli. E quelli là non ti lasciano nemmeno più fare questo.

Riuscii finalmente a chiedere chi fossero “quelli là”, ma disse che non poteva dirmelo. Anzi, la domanda lo scocciò, perché pensava che volessi rigirare il coltello nella piaga.

I titolari di due vecchie aziende, tra gli altri, avevano resistito a ripetute offerte, una più lusinghiera dell’altra.

— Vede, signor Graves — disse uno dei proprietari — a un certo punto stavo per accettare. Forse sono stato stupido a rifiutare. Ma sono molto anziano e questa ditta fa parte di me. Se avessi venduto, mi sarebbe parso di aver venduto me stesso. Non so se riesce a comprendere.

— Certo, la capisco — dissi.

Alzò la mano, una mano diafana, segnata da sottili vene blu, passandosela sul volto e sui capelli bianchi che ancora gli ornavano la testa.

— E poi c’è la questione dell’orgoglio — disse. — Orgoglio nel modo di fare le cose. Le assicuro che nessun altro avrebbe potuto portare avanti la ditta come ho fatto io. Oggi non esistono più le belle maniere, non c’è più cortesia, non c’è più stima. Non c’è più l’abitudine di trovare il lato migliore del prossimo. Gli affari sono ridotti a semplici operazioni di ragioneria, compiute da macchine insieme a uomini che, come le macchine, non hanno un’anima. Manca il senso dell’onore, della fiducia, non c’è più moralità. Sembra di stare in mezzo a un branco di lupi.

Mi toccò un braccio con la mano diafana, di cui avvertii appena il tocco.

— Ma mi sta dicendo che tutti i miei vicini hanno ricevuto la disdetta o hanno ceduto?

— Quasi tutti.

— Anche Jake, quello del mobilificio? È una vecchia volpe, ma in fondo la pensa come me.

Gli dissi che Jake non cedeva, insieme ad altri sei o sette.

— Jake è fatto come me — riprese il vecchio. — Riteniamo un privilegio essere commercianti, mentre per gli altri è solo un mezzo per far quattrini. Per Jake però è diverso, perché ha un figlio a cui lasciare l’azienda. Forse è per questo che non molla. Io non ho famiglia, solo una sorella. Quando non ci saremo più, finirà anche l’azienda. Ma finché vivremo, rimarremo al nostro posto, a servire i nostri clienti con tutto il rispetto possibile. Per noi il commercio non consiste solo nel calcolare i guadagni. È un modo per portare un contributo alla civiltà. È la colla che tiene insieme la nostra società, e non esiste nessuna professione più onorevole.

Quel discorso mi suonò come uno squillo di tromba proveniente da secoli passati. Per un attimo, mi parve di vedere sventolare vessilli di altre epoche.

Forse anche il vecchio provò le mie stesse sensazioni, perché aggiunse: — Ma oggi è decadenza dappertutto. Siamo rimasti in pochi al mondo, nascosti chissà dove, a mantenere alta la nostra bandiera.

— Grazie mille — gli dissi. — Mi ha fatto bene sentirla parlare così.

Mentre gli stringevo la mano, mi chiesi perché gli avevo detto quella frase. Certo, quell’uomo aveva fatto o detto qualcosa per ridarmi fiducia. Fiducia in che cosa? Nell’Uomo? Nel mondo? Forse anche in me stesso.

Uscii dal locale e mi fermai un po’ sul marciapiede, rabbrividendo nell’aria fredda del tramonto.

Ormai non erano più semplici nessi casuali. Non si trattava solo della ditta Franklin o del mio appartamento o del bar di Eddy. Non era una situazione limitata a poche persone che non riuscivano a trovare casa.

C’era sotto un piano. Uno scopo malvagio, portato avanti con una determinazione e una metodicità diaboliche.

Da qualche parte, dietro tutta quella manovra, c’era un’organizzazione ben oliata che si muoveva rapidamente e in segreto. A quanto sembrava, tutte le transazioni erano avvenute nelle ultime settimane, e tutte miravano a provocare delle chiusure con date quasi coincidenti.

Una cosa non sapevo, e potevo solo cercare d’indovinarla, ed era se fosse stata una singola persona, un gruppo o un esercito di gente a mettersi in affari per poi chiudere tutte le attività. Avevo cercato di scoprirlo, ma nessuno ne aveva idea. Molti di quelli con cui avevo parlato avevano già lasciato i loro quartieri e non ne sapevano niente.

Dalla cabina del telefono di un negozio chiamai il mio ufficio e chiesi di Dow.

— Dove sei stato? — mi chiese.

— In giro — risposi.

— Qui l’adrenalina è alle stelle — disse Dow. — Hennessey ha comunicato di aver ricevuto la disdetta del contratto d’affitto.

— Hennessey! — Mi chiedo perché ne rimasi sorpreso, sapendo quel che già conoscevo.

— Non è possibile — disse Dow. — Non tutt’e due nello stesso giorno!

Hennessey era il secondo grande magazzino della città. Chiusi Franklin e Hennessey, il centro commerciale sarebbe praticamente diventato un deserto.

— Come mai non hai fatto in tempo a pubblicare l’intervista all’aeroporto nella prima edizione? — gli chiesi, cercando di prendere tempo mentre mi chiedevo quante cose sarebbe stato bene rivelargli.

— L’aereo era in ritardo — rispose.

— Perché non è trapelato niente del “caso Franklin”? — chiesi ancora.

— Sono stato da Bruce — disse Dow. — Mi ha mostrato il contratto in gran riservatezza, pregandomi di non rivelarne l’esistenza, per via di una clausola che annullava automaticamente l’atto, in caso di annuncio prematuro.

— E Hennessey?

— La proprietaria dell’immobile era la First National Bank. Probabilmente avranno inserito la stessa clausola nel contratto. Hennessey potrebbe stare lì ancora un anno, ma dopo?

— L’offerta sarà stata vantaggiosa. O almeno, così alta da indurii ad accettare.

— Nel caso dei Franklin, sì. Te ne parlo con la massima segretezza, e ti prego di non farne parola. Il prezzo era il doppio di quello che avrebbe pagato una persona sensata. Ma è curioso che il proprietario chiuda, dopo avere sborsato una cifra del genere. È questo che fa soffrire Bruce. Come se qualcuno lo odiasse così tanto da pagare il doppio del prezzo per comprare l’azienda solo allo scopo di farla morire. Parker, tutto questo non ha senso.

Mi soffermai a riflettere su alcuni punti. Questo spiegava tutta la segretezza. Perché non fossero trapelate indiscrezioni. E perché il vecchio George non mi avesse accennato alla vendita della casa, squagliandosela invece in California per non rispondere alle domande dei suoi amici e inquilini. Forse in ogni contratto erano state stabilite tutte quelle condizioni restrittive, con date di scadenza che probabilmente coincidevano. Era tutto incredibile.

— Parker — chiese Dow — ci sei ancora?

— Sì — risposi. — Dimmi ancora una cosa, Dow. Chi ha comprato i Magazzini Franklin?

— Non lo so — disse. — Un’associata che si occupa di amministrazione di immobili, la Ross, Martin, Park Gobel ha redatto gli atti. Ho telefonato…

— E hanno risposto che agivano per conto di un loro cliente, e che non potevano dirti altro.

— Esatto. Come fai a saperlo?

— Intuito — dissi. — Tutta questa faccenda puzza.

— Ho preso informazioni sulla Ross eccetera. Ha aperto solo dieci settimane fa.

Aggiunsi un dettaglio frivolo: — Anche Eddy è stato sfrattato. Diventerà un deserto, quel quartiere.

— Eddy?

— Sì, quello del bar.

— Parker, ma che sta succedendo?

— Che mi possano impiccare se lo so — dissi. — Che altro c’è di nuovo?

— Le banche. Sono piene di contanti. Per tutta la settimana non hanno fatto altro che accettare depositi e ordini di investimenti.

— Bene — dissi. — Fa piacere notare che almeno la situazione economica è buona…

— Parker — scattò — che ti passa per la testa?

— Niente. Ci vediamo domattina — dissi, e riattaccai prima che mi facesse altre domande.

Perché non gli avevo detto quel che sapevo? Non c’era motivo per tacere. Anzi, c’era una grossa probabilità che fosse mio dovere informarlo.

Tuttavia non avevo detto niente, non ce l’avevo fatta, non ero riuscito a sputarlo fuori. Come se, tacendo la cosa, le potessi impedire di essere vera. E ciò era assai stupido.

Di nuovo in strada, tirai fuori la lettera della Ross, Martin, Park Gobel. La ditta aveva il recapito nel vecchio McCandless Building, una specie di mausoleo in mattoni, destinato a scomparire presto, secondo il nuovo piano regolatore.

Già immaginavo il posto. Ascensori cigolanti, scalinate di marmo con pesanti ringhiere di bronzo annerite dal tempo, solenni corridoi con pannelli di quercia sbiaditi e alti soffitti, grandi porte a vetri. Al pianterreno, il porticato con il tabaccaio, il giornalaio, il lustrascarpe e altre attività minori.

Erano passate le cinque. Le strade brulicavano di macchine: impiegati che tornavano a casa, diretti a ovest per imboccare la statale che li portava alla zona residenziale tra i laghi e le colline.

Era l’“ora blu”, quando la luce del sole comincia ad abbassarsi e non è ancora giunto il tramonto. L’ora più bella della giornata, per tutti quelli che non hanno preoccupazioni.

Mentre camminavo lentamente, rimuginavo alcune idee. Tornavo ostinatamente su quella che ritenevo essere un’idea fissa che non mi piaceva, ma sapevo per esperienza che non dovevo sottovalutare le mie fissazioni.

Entrai in un negozio di ferramenta e acquistai un aggeggio per tagliare il vetro. Quasi vergognandomene, lo ficcai in tasca e fui di nuovo in strada.

Adesso c’era più gente sul marciapiede, e in strada più automobili che assordavano con i loro clacson. Mi appoggiai a un edificio, osservando il flusso umano.

Per un attimo pensai che era ora di smetterla con le fantasie, di tornare a casa a cambiarmi per andare a prendere Joy.

Stavo lì, indeciso, quando al semaforo davanti a me si fermò un taxi, imbottigliato nel traffico. Era vuoto. Presi una decisione istantanea, senza quasi il tempo di formularla. Scesi dal marciapiede, il taxista mi vide e aprì lo sportello.

— Dove, signore?

Gli diedi l’indirizzo del McCandless Building.

— Ha notato che il mondo sta andando in malora? — chiese il tassista, tanto per cominciare la conversazione.

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