21

Guardai nello specchietto retrovisore. Il Cane aveva ragione. Eravamo seguiti da una macchina con un solo faro acceso.

— Potrebbe essere un equivoco — dissi.

Rallentai e girai a sinistra. La macchina che ci seguiva fece lo stesso. Girai ancora a sinistra e poi a destra. E l’altra dietro.

— Forse è la polizia — disse Joy.

— Con un solo faro? — dissi. — E poi la polizia metterebbe la sirena, se ci inseguisse per eccesso di velocità.

Feci altri giri, entrai in un viale, diedi gas, la macchina rimase sempre appiccicata dietro di noi.

— Che facciamo? — chiesi. — Volevo andare al laboratorio di Stirling, all’Università. Dobbiamo parlargli. Ma non potremo farlo ora.

— Quanta benzina c’è? — chiese Joy.

— Più di mezzo pieno.

— Andiamo alla capanna — propose Joy.

— La capanna di Stirling?

Lei annuì. — Cerchiamo di prendere il largo sul lago, con la sua barca.

— Potrebbero trasformarsi in mostri come quello di LochNess.

— Forse no. Forse non hanno mai sentito parlare del mostro di Loch Ness.

— O in altre forme di mostri acquatici di altri mondi.

— Ma se rimaniamo in città, potrebbe intervenire la polizia!

— Magari! — risposi.

Mi resi conto, invece, che sarebbe stato peggio. Se la polizia ci avesse fermati, avremmo perso un’infinità di tempo. In primo luogo, non ci avrebbero creduto. Come spiegare la storia delle palle da bowling? Inorridii al pensiero del cane parlante. Avrebbero pensato che mi prendevo gioco delle forze dell’ordine, magari usando doti da ventriloquo. E sarebbero stati grossi guai.

Dopo aver superato una mezza dozzina di isolati, mi diressi verso la statale a nord. Non mi rimaneva che tentare la via della capanna di Stirling.

Il traffico era scarso, animato solo da qualche raro camion. Guidavo velocemente. Fermai la lancetta del tachimetro sui 140 all’ora. Potevo andare anche più forte, ma non volli, perché sapevo che c’erano curve traditrici, e non ricordavo esattamente dove.

— Ci seguono ancora? — chiesi.

— Sì, ma li abbiamo distaccati — rispose il Cane. — Non sono più molto vicini.

Ero sicuro che non ce l’avremmo fatta a seminarli. Distanziarli, però, sì. Potevo solo tentare di ingannarli. Sarebbe stato possibile all’incrocio con la strada che portava alla capanna sul lago. Ma non potevo scommetterci.

Se proprio volevamo liberarci di loro, bisognava escogitare qualcos’altro.

L’aspetto del terreno cominciava a mutare. Dalla piatta zona agricola stavamo passando a una zona collinosa, piuttosto arìda, con conlfere e laghetti. Se non ricordavo male, da lì la strada cominciava a snodarsi con molte curve, per parecchi chilometri, attraversando o superando collinette, paludi e laghetti, come un serpente.

— A che distanza sono? — chiesi.

— Qualche chilometro — disse Joy.

— Ascolta bene.

— Ti ascolto.

— A una delle prossime curve, fermerò la macchina e scenderò. Tu continua a guidare per un po’, poi fermati e aspetta. Quando sentirai uno sparo, torna indietro — dissi a Joy.

— Ma sei matto! — reagì. — Non puoi affrontarli! Non sai cosa ti succederà…

— Siamo pari, allora — osservai. — Anche loro non sanno che cosa farò io.

— Ma da solo…

— Non sono solo — la rassicurai, indicando il fucile. — C’è qui la vecchia Betsy, che è in grado di abbattere un alce. E di suonare la marcia funebre a un grizzly che carica.

Passammo la prima curva a gran velocità. Faticai a mantenere la macchina in strada, mentre le ruote stridevano mordendo l’asfalto. Poi la seconda curva, ancora troppo in velocità. Poi finalmente la terza. Pigiai a fondo il freno bloccando la macchina, che slittò un poco, fermandosi in mezzo alla carreggiata. Afferrai il fucile e saltai giù.

— È tutta tua — dissi a Joy.

Non protestò. Non disse una parola. Aveva mosso le sue obiezioni, io le avevo respinte, e la cosa era finita lì. Era una ragazza in gamba.

Si mise alla guida e partì come un proiettile. Vidi la macchina allontanarsi a gran velocità, scomparendo al di là della curva successiva.

Rimasi solo. In una quiete spaventosa. Nel silenzio si udiva solo il debole fruscio delle poche foglie ancora attaccate sui rami di un pioppo e il sibilo spettrale del vento tra gli aghi dei pini. Sullo sfondo pallido del cielo si stagliavano i contorni neri delle colline. Nell’aria c’era odore di autunno.

Notai che il fucile era sporco e vi passai sopra una mano. Era coperto da qualcosa che sembrava grasso, una sostanza appiccicaticcia dall’odore di lozione da barba. Un profumo che mi era familiare ormai.

Andai verso la banchina, cercando di pulire con la mano il grasso che insozzava il fucile. Ma non ci riuscivo. La mano ci scivolava sopra senza far presa.

Fra pochi secondi dalla curva sarebbe comparsa la macchina, lanciata in velocità. Avrei dovuto sparare subito, istintivamente, quasi alla cieca, perché cominciava a far buio.

E se la macchina avesse trasportato comuni esseri umani? Se per coincidenza, invece di inseguirci, stesse solo percorrendo la nostra stessa strada? Al solo pensiero sentii il sudore colarmi lungo la schiena.

Ma no, non era possibile, mi dissi. Avevo fatto tante deviazioni, tante giravolte senza senso, e tuttavia quell’automobile con un solo faro ci aveva seguito dovunque.

La strada saliva in curva verso la sommità della collinetta, per ridiscendere con un’altra curva dall’altro lato. Dovevo sparare mentre la macchina si trovava al centro della curva, dove potevo distinguerne la sagoma contro il cielo più chiaro.

Mentre sollevavo il fucile, mi tremavano le mani. Non potevo sparare in quelle condizioni. Riabbassai l’arma, cercando inutilmente di calmarmi.

Feci un altro tentativo. Spianai il fucile, e proprio in quell’istante la macchina arrivò sulla curva, e io vidi la cosa che mi fece smettere di tremare, che mi stabilizzò il polso, rendendomi saldo come una roccia.

Sparai un primo colpo, riarmai, ne sparai un secondo. Riarmai ancora, ma non ce n’era più bisogno. La macchina era uscita di strada e precipitava lungo i fianchi del colle, schiantandosi contro gli arbusti e gli alberi. Mentre rotolava su se stessa, la luce dell’unico faro, rimasto miracolosamente acceso, sciabolava il cielo come un riflettore.

Poi anche la luce si spense. Il silenzio riprese il sopravvento.

Abbassai il fucile, estrassi la cartuccia che stavo per far esplodere, bloccai il grilletto.

Espirai tutto il fiato che avevo trattenuto. Inspirai di nuovo, profondamente.

Perché non era una macchina umana, e non trasportava esseri umani.

L’avevo capito quando era passata al centro della curva. In quella frazione di secondo, avevo visto che l’unica luce non era posizionata né a destra né a sinistra: proveniva direttamente dal centro del parabrezza.

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