35

Fermai la macchina sul margine del cortile, come mi aveva detto Higgins, al lato del cancello che portava verso i granai, in modo da non ostruire l’entrata. Il luogo era deserto, eccetto per un cane di razza incerta che mi si avvicinò scodinzolando, per darmi ufficiosamente il benvenuto.

Gli diedi qualche colpetto affettuoso sulla testa, e con lui accanto passai il cancello e attraversai il cortile. Poi però, all’altezza del buco nella recinzione che immetteva in un campo di trifoglio, gli ordinai di andarsene, perché non volevo che mi seguisse fin dal vecchio, e magari irritasse le sue bestiole. Sembrava che il cane non volesse saperne di lasciarmi, quasi assicurando che si sarebbe comportato bene, ma non cambiai parere, e glielo dimostrai con una serie di pacche sul groppone, finché non si convinse ad allontanarsi (ma girandosi ancora qualche volta indietro per accertarsi che non avessi cambiato idea).

Finalmente solo, attraversai il campo lungo un solco tracciato nel trifoglio. Di tanto in tanto, qualche cavalletta tardiva saltava su e scappava, disturbata dal mio passaggio.

Al termine del campo c’era un altro buco in un’altra recinzione, sempre dietro al solco, che stavolta era impresso in mezzo a una fitta vegetazione. Il sole al tramonto creava lunghe ombre. Tutt’intorno si udivano gli squittii degli scoiattoli che allestivano un carosello tra le foglie morte e precipitandosi giù dai tronchi degli alberi.

Attraversai un valloncello, e sull’altro lato, annidata sotto un grande masso che emergeva dai fianchi della collina, scorsi la baracca dell’uomo che cercavo.

Lo trovai seduto all’esterno, su una vecchia sedia a dondolo che scricchiolava al punto da far temere che sarebbe caduta a pezzi da un momento all’altro. Il pavimento interno era formato da lastre di roccia che il vecchio probabilmente aveva portato con le sue mani dal greto del torrente in secca che si snodava in fondo al valloncello. Sulla spalliera della sedia a dondolo era distesa una pelle di pecora, le cui zampe anteriori oscillavano libere, insieme alla sedia.

— Buonasera, straniero — mi disse il vecchio, senza scomporsi, come se fosse abituato a ricevere ospiti inattesi. Pensai che probabilmente si era accorto da tempo del mio arrivo, perché avevo camminato per parecchio allo scoperto.

Io viceversa non lo avevo notato, perché solo adesso mi rendevo conto di quanto la capanna si armonizzasse bene con la collina e il grande masso che la sovrastava, come un pezzo naturale di paesaggio. Era bassa, non molto grande, fatta di tronchi che, col passare del tempo, avevano assunto un colore neutro. Presso la porta c’era una pompa dell’acqua, con sotto una catinella. Un secchio, da cui spuntava un mestolo, era posato sul tavolo. Ammucchiata in un angolo c’era la legna per il fuoco, vicino a un ceppo in cui era infissa un’ascia a doppio taglio.

— Charley Munz? — chiesi.

— Precisamente. Come ha fatto a trovarmi? — disse.

— Larry Higgins mi ha parlato di lei.

— Ah, sì. Larry è un buon amico. Se l’ha mandata lui, niente da ridire.

A suo tempo doveva essere stato un omaccione. Ora, con l’età, si era in parte rattrappito. La camicia pendeva flaccida da due spalle ancora poderose, i pantaloni davano l’impressione di essere mezzi vuoti, come capita osservando i vecchi. Non portava il cappello, in compenso i suoi capelli grigio ferro davano l’idea che avesse un berretto. La barbetta era corta ed incolta, ma non seppi decidere se fosse trascurata, o intenzionalmente così.

Mi presentai dicendogli il mio nome, e che mi interessavo di puzzole, e sapevo del suo libro.

— A quanto pare — mi disse — desidera sedersi a scambiare quattro chiacchiere con me.

— Se non disturbo.

Si alzò, come per entrare in casa.

— Si metta pure comodo — disse. — Si fermerà un pochino, no?

Mi guardai intorno in cerca di una sedia, in modo abbastanza scortese, temo.

— Usi la mia — disse lui — l’ho riscaldata per lei. Io prenderò un ceppo, e sarà tutta salute, perché me ne sono già stato in panciolle tutto il pomeriggio.

Mentre mi abbandonavo sulla sedia a dondolo, il vecchio entrò nella baracca. Pensai che si sarebbe offeso se non avessi accettato queDa sedia che, peraltro, era abbastanza comoda. Ammirai il paesaggio. Il terreno era cosparso di foglie, che non avevano ancora perduto i loro bei colori. Alcuni alberi le conservavano ancora quasi tutte. Uno scoiattolo si fermò nei pressi di un tronco caduto, ondeggiando la coda mentre mi fissava imperterrito.

In quel luogo provavo una sensazione di calma, di pace meravigliosa, come non conoscevo da anni. Capii perché il vecchio Eolo si fosse crogiolato lì per l’intero pomeriggio. Dappertutto l’occhio scopriva qualcosa di rilassante. Non trasalii nemmeno quando una puzzola arrivò saltellando da dietro l’angolo della capanna.

L’animale si fermò un attimo a guardarmi, alzando un zampetta come per salutare, quindi si allontanò placidamente verso il prato. Non era un esemplare molto grande, ma a me lo sembrò, e mi immobilizzai più che potevo, senza muovere un muscolo.

Riemerse il vecchio, tenendo in mano una bottiglia. Vide la puzzola e scoppiò a ridere: — L’ha spaventata, scommetto, eh?

— Solo per un momento — risposi. — Ma sono rimasto fermo, e non se l’è presa.

— Le presento Luna — mi disse — una gran seccatrice. Me la ritrovo sempre tra i piedi.

Tolse un ciocco dalla pila della legna da ardere, e vi si mise a sedere pesantemente. Stappò la bottiglia, me la porse.

— A parlare, vien sete — disse. — È quasi un mese che non viene un’anima viva a bere un goccetto con me. Spero che mi terrà compagnia, signor Graves.

Non potei fare a meno di inumidirmi le labbra. Non avevo bevuto tutto il giorno, né avevo avuto il tempo per pensarci. Adesso bruciavo per la sete.

— Reggo bene, signor Munz — risposi — le farò compagnia volentieri.

Alzai la bottiglia e tracannai un discreto sorso. Non era certo whisky di marca, ma il sapore era buono. Pulii con la manica l’imboccatura della bottiglia e gliela passai. Il vecchio bevve anche lui, e mi restituì la bottiglia.

In quel mentre Luna, la puzzola, gli andò vicino e gli poggiò le zampe sulle ginocchia. Lui allungò una mano e se la mise accucciata in grembo.

Rimasi incantato a guardare quella perfetta intesa, tanto che scolai un altro paio di sorsi dalla bottiglia, dimenticando il padrone di casa.

Restituii la bottiglia al vecchio, che la trattenne in una mano, grattando con l’altra l’animale sotto il mento.

— Sono contento che sia venuto — mi disse — fosse anche soltanto per scambiare quattro chiacchiere. Non sono un selvaggio, qui si è sempre i benvenuti. Ma mi accorgo che qualcosa le rode dentro. C’è una ragione precisa per cui è venuto, vero? Bene, sputi il rospo, liberamente.

L’osservai per un attimo e presi la grande decisione. Andava contro ogni logica, e anche contro il piano che avevo elaborato. Forse a indurmi a farlo fu quella grande pace, la serenità di quell’uomo semplice, e il relax della sedia a dondolo, e chissà quali altre mille ragioni nascoste. Se avessi indugiato, avrei cambiato idea. Ma qualcosa dentro di me, quel pomeriggio, mi convinse.

— Ho mentito a Higgins per farmi dire dove potevo trovarla — gli confessai. — Gli ho detto che volevo aiutarla a terminare il libro che sta scrivendo. Ma basta con le bugie, a lei non mentirò. Le dirò le cose come stanno.

Il vecchio apparve imbarazzato: — Il libro? Quello sulle puzzole?

— Proprio quello — gli dissi. — Rimane inteso che la aiuterò, una volta portata a termine questa dannata faccenda, se vuole.

— Penso che sarebbe un eufemismo dire che avrei bisogno di qualche piccolo aiuto. Ma non è questo il motivo per cui lei è qui, se ho capito bene.

— No, infatti.

Scolò una profonda sorsata e mi passò la bottiglia. Bevvi di nuovo anch’io.

— D’accordo, amico — disse alla fine. — Sono tutt’orecchi.

— La prego di non interrompermi per nessun motivo. Mi lasci prima dire tutto quello che ho dentro, poi, se vorrà fare delle domande, risponderò.

— Sono un buon ascoltatore — rispose, mentre con una mano accarezzava la bottiglia che gli avevo restituito, e con l’altra la puzzola.

— Quello che sto per raccontarle potrà essere difficile da credere.

— È affar mio — rispose. — Parli e poi vedremo.

Gli raccontai tutto, dal principio alla fine. Cercai di dare il meglio, in ogni caso fu un resoconto onesto. La verità, nient’altro che la verità. Tutto ciò che era accaduto, tutto quello che sapevo, e che supponevo. Gli dissi che nessuno voleva credermi, e non potevo biasimarli. Gli raccontai di Joy, di Stirling, del direttore e del senatore, e dell’agente di assicurazioni che non trovava casa. Cercai di non tralasciare il minimo dettaglio.

Poi smisi di narrare, e scese il silenzio. Mentre parlavo, il sole era scomparso dietro l’orizzonte, e la foschia aveva ammantato i boschi. Si era anche levato un venticello gelido, che portava l’odore delle foglie morte.

Restando seduto, pensai a quanto ero stato imbecille. Vuotando il sacco in quel modo, mi ero tagliato le gambe da solo, perché avrei potuto convincerlo in altri infiniti modi a fare quello che desideravo da lui. Ma no, dovevo proprio prendere la strada più difficile!

Aspettavo le sue reazioni. Le avrei ascoltate, poi mi sarei alzato e me ne sarei andato. L’avrei ringraziato per il whisky e la cortesia, poi avrei riattraversato i campi e i boschi, al buio, fino alla macchina. Sarei tornato al motel per cena… anzi, in ritardo per la cena, facendo innervosire Joy. E il mondo sarebbe crollato senza opporre resistenza.

— Se è venuto a chiedere il mio aiuto — mi disse il vecchio, parlando al buio — mi dica che cosa posso fare per aiutarla.

— L… lei mi crede? — balbettai.

— Straniero — rispose — quello che penso io non conta. Di certo non sarebbe venuto a seccare me, se quello che ha raccontato non fosse vero. Inoltre, credo che alla mia età si riesca a distinguere quando un uomo sta mentendo.

Tentai di parlare senza riuscirci. Le parole mi si accavallavano in gola, mi veniva da piangere come non mi accadeva da decenni. Dentro di me sentivo crescere un sentimento di gratitudine e di speranza.

C’era un uomo che credeva alle mie parole, senza ritenermi pazzo, restituendomi tutta la dignità che temevo di essere sul punto di perdere irrimediabilmente.

— Quante puzzole potrebbe mettere insieme? — gli chiesi.

— Una dozzina, forse una ventina. Ce ne sono molte tra queste pietre. E vengono tutte le sere a trovarmi, a prendere un boccone dalle mie mani.

— Potrebbe raccoglierle in modo da poterle trasportare?

— Trasportarle? — mi chiese.

— In città — risposi.

— C’è Tom, il proprietario della fattoria dove ha parcheggiato. Lui potrebbe prestarmi il suo pick-up.

— Senza far domande?

— Oh, farà un sacco di domande! Ma troverò qualche buona scusa.

— Bene, allora — dissi. — Ora le dico cosa desidero che faccia. Il modo in cui potrà dare il suo contributo al piano.

Rapidamente gli diedi delle istruzioni.

— Ma… le mie puzzole! — esclamò, addolorato.

— Pensiamo prima agli uomini — osservai. — Ricorda cosa le ho detto?

— E se mi ferma la polizia…

— Niente paura, c’è una soluzione anche per questo. Ecco… — Tirai fuori di tasca una manciata di dollari e glieli porsi. — Con questi potrà pagare qualsiasi multa, e ne avanza.

Guardando il denaro, il vecchio osservò: — È la roba che le hanno dato a casa Belmont!

— Una parte — precisai. — Anche lei, non lo porti tutto addosso. Potrebbe scomparire dalle tasche, trasformandosi in ciò che era prima. Meglio lasciarne un po’ qui.

Facendo scendere Luna da in grembo, mise il denaro in tasca. Poi si alzò e mi passò la bottiglia.

— Quando si comincia? — chiese.

— Posso telefonare a questo Tom?

— Certo. Ma facciamo così. Fra poco andrò ad avvisarlo che aspetto una telefonata. Quando lei chiamerà, Tom mi verrà ad avvisare con il camioncino, e allora gli chiederò il favore di prestarmelo. Senza dirgli tutta la verità, naturalmente, benché di Tom ci si possa fidare.

— La ringrazio di cuore.

— Ancora un goccio — disse, porgendomi la bottiglia. — Poi me la ridia, che ne ho bisogno anch’io.

Bevvi, gli allungai il whisky, e lui tracannò. Quindi disse: — Mi metterò subito al lavoro. Tra un paio d’ore avrò radunato un bel po’ di puzzole.

— Io intanto vado a controllare che sia tutto a posto — gli dissi. — Poi chiamerò Tom… come fa di cognome?

— Anderson — disse il vecchio. — Nel frattempo, io gli avrò già parlato.

— Grazie ancora, vecchio mio. E a presto.

— Un altro goccetto? — offrì.

Scossi la testa. — Devo lavorare — dissi.

Me ne andai, attraversando la campagna a passi pesanti, nella incerta luce del crepuscolo.

La fattoria presso cui avevo fermato la macchina aveva qualche finestra accesa, ma sull’aia non c’era nessuno.

Mentre mi avvicinavo alla macchina, udii ringhiare nel buio. Quel suono minaccioso mi fece drizzare i capelli in testa. Mi colpì come una martellata, lasciandomi paralizzato e inebetito, per tutta la paura e l’odio che trasudava, insieme a un rumore di zanne.

Disperatamente cercai la maniglia dello sportello, mentre il ringhio si avvicinava e cresceva di intensità. Riuscii ad aprire e piombai sul sedile, sbattendo la portiera. All’esterno, il ringhio continuava.

Avviai il motore, accesi i fari, e a quella luce vidi cos’era. Era il cane della fattoria che mi aveva accolto amichevolmente al mio arrivo, e che mi si era appiccicato alle calcagna finché non lo avevo mandato via. Ma il suo aspetto attuale non era affatto amichevole. Aveva il pelo irto, e ringhiando mostrava la candida fila dei denti aguzzi. Gli occhi erano verdi, fosforescenti alla luce dei fari. Si tirò da parte, con il dorso arcuato e la coda fra le gambe.

Terrorizzato, pigiai al massimo sull’acceleratore. Le ruote girarono un attimo a vuoto, poi la macchina partì con un guizzo, passando accanto al cane.

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