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Nei sobborghi della città mi fermai a un piccolo centro commerciale per comprare il giornale. Volevo sapere se Gavin era riuscito ad avere notizie più dettagliate sugli ammanchi di denaro dalle banche.

Potevo dirglielo io quel che stava accadendo, ma non mi avrebbe ascoltato, come gli altri. Avrei potuto andare al giornale e scrivere il mio articolo più sensazionale, ma non sarebbe stato pubblicato. E anche ammettendo che l’avessero stampato, chi mi avrebbe preso sul serio?

Prima di scendere dalla macchina, cercai nella tasca della giacca un biglietto da 10 dollari, dato che da 5 non ce n’erano.

Sfogliando le banconote mi chiesi, a puro titolo di curiosità, quanto denaro avessi. Non ne avevo idea, e, del resto, non importava. Il denaro avrebbe cominciato a perdere tutto il suo valore entro poche settimane, forse entro pochi giorni. In breve l’avrebbe perso del tutto. Sarebbe diventato cartaccia. Non potevi né mangiarla né usarla per vestirti né poteva ripararti dal vento o dalle intemperie. Perché non era altro, non era mai stato altro, che uno strumento creato dall’uomo per sostenere il suo peculiare sistema di cultura e di vita. Di fatto, non aveva altro significato delle tacche sul calcio di una pistola o dei graffiti sui muri. In ogni caso, nulla più di un complicato pallottoliere.

Entrai nel drugstore e presi un giornale dalla pila ammucchiata sul banco: in prima pagina c’era la fotografia del Cane, sorridente e felice come una Pasqua.

Non ebbi alcun dubbio che fosse lui. L’avrei riconosciuto dovunque. Era stato ripreso in posa, come un allegro compagnone, davanti alla Casa Bianca.

Ma la bomba era il titolo:


CANE PARLANTE CHIEDE DI CONFERIRE CON IL PRESIDENTE


— Signore — disse il negoziante — lo vuole o no il giornale?

Gli porsi la banconota, che lui guardò perplesso.

— Non li ha spicci? — chiese. Risposi di no.

Mi diede il resto, che misi in tasca insieme al giornale, e tornai alla macchina. Volevo leggere l’articolo, ma solo in macchina, non sapevo neanch’io perché. Comunque volevo sedermi tranquillamente e leggerlo senza l’ansia di essere disturbato.

La storia era molto interessante, forse fin troppo.

Raccontava di come il Cane fosse arrivato a Washington per conferire con il presidente. Era passato inosservato dall’ingresso esterno, ma, quando aveva tentato di entrare alla Casa Bianca, le guardie l’avevano cacciato. Se ne era andato riluttante, cercando di spiegare, in modo canino, che non voleva creare pasticci, ma che sarebbe stato molto grato di vedere il presidente. Aveva tentato un paio di volte di passare, finché le guardie non avevano deciso di chiamare l’accalappiacani.

Quando questi era arrivato, il Cane se n’era andato con lui, tranquillo e scodinzolante. Ma poco dopo l’accalappiacani era tornato portandolo con sé, e aveva spiegato che sarebbe stata una buona idea presentare la bestia al presidente. Il Cane (aveva detto) gli aveva parlato, spiegandogli che per lui era molto importante poter incontrare il capo dell’esecutivo.

Le guardie erano andate al telefono e poco dopo, mentre il cane veniva trattenuto, l’accalappiacani era stato trasferito in un ospedale, dove veniva tenuto tuttora sotto osservazione. Una guardia aveva poi spiegato con molta enfasi al Cane che gli sembrava piuttosto ridicola la speranza di poter essere ricevuto dal presidente.

L’articolo continuava dicendo che l’animale era sempre stato molto calmo, e si era comportato educatamente. La bestia si era accucciata fuori della Casa Bianca, senza dar noia a nessuno, neanche agli scoiattoli che passeggiavano sul prato.

“Il nostro inviato”, concludeva l’articolo, “ha provato a parlargli. Gli ha posto varie domande, alle quali il cane non ha risposto, limitandosi a sorridere”.

E adesso il Cane se ne stava lì, in prima pagina, con tutta la sua possanza. Un arruffato simpaticone, che però nessuno si sarebbe sognato di prendere sul serio.

Non era colpa del giornalista che aveva scritto l’articolo, se la cosa appariva inverosimile. Come inverosimile sarebbe stata la notizia delle palle da bowling che rotolavano sulla faccia della Terra di cui volevano impossessarsi.

Se la minaccia avesse avuto contorni cruenti o spettacolari, avrebbero capito. Invece non li aveva, e questo la rendeva ancora più mortale.

Stirling aveva parlato di esseri extra-ambientali, e proprio questo erano gli alieni. Potevano adattarsi a tutto; potevano assumere qualsiasi aspetto; potevano assimilare e usare ai loro fini ogni forma di pensiero; potevano piegare alle loro iniziative qualsiasi sistema economico, politico o sociale. Erano “cose” ad altissima flessibilità: sarebbero riuscite ad adattarsi a qualsiasi situazione che avessimo escogitato per combatterle.

Era perfino possibile che non ci trovassimo di fronte a molti esseri-bocce, ma a un unico, gigantesco organismo in grado di suddividersi e di assumere tutte le forme necessarie ai suoi scopi, rimanendo però sempre se stesso, consapevole di tutto quello che le sue parti stavano facendo.

Come opporsi a una cosa del genere?

Sebbene, se si fosse trattato di un unico organismo gigantesco, c’erano alcune sfaccettature che era difficile comprendere. Perché quella ragazza senza nome mi stava aspettando a casa Belmont al posto di Atwood?

Non sapevamo niente di loro, e non c’era tempo per studiarli. Ed era una conoscenza assolutamente indispensabile, perché la vita e la cultura di un tale nemico erano sicuramente complesse e specifiche quanto le nostre.

Potevano trasformarsi a piacere. Potevano perfino vedere nel futuro, sebbene in modo approssimativo, o almeno così sembrava. Erano lì in agguato, e ci sarebbero rimasti finché ne avessero avuto la possibilità. Era ammissibile, mi chiesi, che l’umanità corresse verso la propria fine, senza sapere chi ve la stava spingendo?

E io, mi chiesi, cosa posso fare?

Avrei dovuto gettar loro quel denaro in faccia, lanciando contro di loro la mia sfida. Sarebbe stato molto umano, forse anche facile. Ma ero così paralizzato dalla paura che non ero stato capace di fare alcunché.

Mi accorsi con stupore, in realtà, di averli sempre considerati un “loro”, non come una singola lei o un lui, come Atwood o la ragazza senza nome. Questo significava che il loro travestimento umano era più trasparente di quanto sembrasse?

Ripiegai il giornale, lo misi sul sedile e avviai il motore.

Non era il momento per gesti eroici. Era il momento di rare il possibile, non importa quali sarebbero state le apparenze. Se, fingendo di collaborare, avessi appurato qualcosa, qualche minimo indizio che potesse aiutare l’umanità, quella era la strada giusta da seguire. Se fossi arrivato al punto di propagandare le loro idee, non potevo forse eludere la loro sorveglianza, inserendo messaggi in codice che a loro sarebbero sfuggiti, mentre sarebbero risultati chiarissimi agli uomini?

Mi accodai nella corrente del traffico. Era una buona automobile. La migliore che avessi mai guidato. Malgrado la sua provenienza, malgrado tutto, ero orgoglioso di averla.

Arrivato al motel, trovai altre due macchine oltre quella di Quinn. Con lo spargersi della voce, entro poco tempo tutti gli ambienti del motel sarebbero stati occupati. Bastava una leva, un martello, uno scalpello, per scassinare la serratura ed entrare. Almeno per il momento, nell’avversità le persone sarebbero state solidali tra loro. Solo più avanti avrebbero cominciato a pensare ognuno per sé. Per poi magari, ancora più in là nel tempo, tornare a fare gruppo, perché la forza dell’Uomo risiede nell’unità.

Quando scesi dalla Cadillac, Quinn usciva dalla sua casetta. Mi venne incontro.

— Che meraviglia! — commentò.

— È di un mio amico — risposi. — Riposato bene?

— Non dormivo così bene da un sacco di tempo! Mia moglie è felice. Dopo tanta tristezza…

— Abbiamo parecchi nuovi vicini, a quanto pare — osservai.

Annuì. — Sono passati di qui e si sono fermati a chiedermi come avessi fatto a entrare. E gliellio detto. Poi sono andato a comprare il fucile come mi ha suggerito. Per me è una novità, e mi fa uno strano effetto, ma dà anche un senso di sicurezza. Non avevano carabine, così ho preso un fucile da caccia. Forse è meglio, perché non sono un gran tiratore.

— Non è riuscito a trovare altro? — gli chiesi.

— No. Ho provato da tre armaioli, ma erano sforniti di tutto. Solo dal quarto sono riuscito a trovare questo fucile da caccia, che ho comprato al volo.

Così, anche i fucili cominciavano a scarseggiare, acquistati da gente che riteneva più prudente avere un’arma a portata di mano per ogni evenienza.

— Stanno succedendo cose molte strane — riprese Quinn. — Non ne ho ancora parlato a mia moglie, per non spaventarla. Andando a fare la spesa, ho fatto un salto alla nostra vecchia casa, quella che abbiamo venduto. Era la prima volta che la rivedevo da quando ce ne siamo andati. Neanche mia moglie ci è più tornata da allora, perché diceva che avrebbe sofferto troppo. Be’, era vuota, signor Graves. Perché ci hanno costretti a lasciarla, se non ne avevano bisogno? Dicevano di avere tanta fretta di occuparla, ma sembra che non fosse vero. Che ne pensa?

— Non so — risposi laconicamente.

Forse avrei dovuto dirgli la verità. Chissà, magari mi avrebbe creduto, dopo tante sofferenze. E Dio solo sa quanto avessi bisogno di trovare una persona disposta a credermi, per condividere l’incubo che mi opprimeva. Ma preferii non dirgli nulla, perché non ne vedevo alcun beneficio. Meglio non turbarlo ora che, in un certo senso, aveva ritrovato la tranquillità. Probabilmente pensava che tutto quello che gli era capitato fosse da attribuire a una cattiva congiuntura economica, che lui non riusciva ad afferrare, ma che comunque rientrava all’interno di categorie consolidate.

Se gli avessi detto la verità, l’avrei ridotto alla disperazione e messo di fronte all’ignoto. E questo avrebbe generato panico allo stato puro.

Se avessi potuto farmi capire da un milione di persone, e tutte sensate, in mezzo a quel milione ci sarebbe stata certamente una minoranza che avrebbe affrontato la cosa con calma e obbiettività, mettendosi alla testa di un movimento antialieni. Ma raccontare certe cose a un piccolo gruppo di persone in una singola cittadina non avrebbe avuto alcuno scopo.

— Tutto questo non ha alcun senso — proseguì Quinn. — Tutto quanto non ha senso. Ho passato notti intere a spremermi le meningi, senza ricavarne nulla. Ma ero uscito per invitarvi a pranzo con noi, lei e sua moglie. Niente di eccezionale, si intende. Però abbiamo l’occorrente per una grigliata, potremo bere un paio di bicchieri e scambiare quattro chiacchiere.

— Joy non è mia moglie, signor Quinn — gli dissi. — Sono le circostanze che ci hanno, diciamo, messi insieme.

— Ops! — rispose. — Chiedo scusa, un equivoco. Spero di non aver toccato un tasto sbagliato.

— No, no, affatto.

— Allora restate a pranzo con noi?

— Sarà per un’altra volta. Comunque la ringrazio molto. È che ho un sacco di cose da portare a termine.

Rimase fermo a guardarmi, poi disse: — Mi dovrebbe spiegare una cosa che non mi è ancora chiara, signor Graves. Ieri sera ha detto che non si trovano case né qui né in altre città. Come fa a saperlo?

— Sono un giornalista, me ne sto occupando.

— Ha già scoperto cosa c’è sotto, quindi?

— Non molto, per la verità.

Rimase un momento in silenzio, e io non aggiunsi altro. Quinn salutò e rientrò in casa. Poveraccio lui, e non che io mi sentissi meglio.

Entrai in casa. Joy non era ancora tornata. Probabilmente in redazione Gavin non l’aveva lasciata con le mani in mano.

Tolsi di tasca il denaro e lo nascosi sotto il materasso del mio letto. Non era un nascondiglio molto fantasioso, ma nessuno immaginava che avessi tanti soldi con me. Certo non potevo lasciarli in giro.

Presi il fucile, uscii per rimetterlo in macchina.

Quindi feci una cosa che avevo in mente fin da quando ero partito da casa Belmont: esaminai la Cadillac da cima a fondo. Sollevai il cofano e guardai il motore, mi sdraiai sotto la vettura.

Quando ebbi finito, non avevo più alcun dubbio. Era proprio ciò che sembrava. Un’automobile di un modello di lusso, ma assolutamente normale. Niente di strano, nessun pezzo in più o in meno. Non avevo trovato bombe né altri segni di manomissione. Quindi ero sicuro che non si trattasse di un altro trucco ideato dalle sfere per imitare qualcosa di terrestre. Era fatta di solido acciaio, vetro e cromo.

Mentre con le nocche battevo sul parafango, per sentire il suono robusto della struttura, pensai che sarebbe stato utile richiamare il senatore Roger Hill. L’aveva detto lui di rifarmi vivo, “passata la sbornia”, se volevo rivelargli qualcosa.

Sobrio, ero sobrio. E di cose da rivelare ne avevo.

Prevedevo la sua probabile reazione, tuttavia tentare non nuoceva. Gli avrei telefonato dal solito ristorantino.

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