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Il semicerchio tagliato, nella moquette davanti alla mia porta, era stato rimpiazzato. Non l’avevo quasi notato, a causa della luce fioca della lampada, ancora più debole del solito. C’ero quasi passato sopra senza accorgermi che era stato riparato. Non avevo più pensato alla moquette, preso com’ero da ben altri pensieri.

Mi fermai, teso come chi si prepara ad affrontare un pericolo ignoto. Il buffo era che la parte sostituita non era nuova. Era la stessa vecchia, consunta moquette di sempre. Mi chiesi come avesse fatto l’amministratore a ritrovare il pezzo che era stato tagliato.

Mi inginocchiai per esaminare da vicino, e m’accorsi che non c’era più traccia del taglio. Né tracce di cucitura. Niente punti. Passai la mano sull’area che era stata asportata, ma era proprio moquette, non carta con sotto nascosta una trappola. Sentivo la consistenza e lo spessore del materiale, tutta roba autentica.

Eppure mi inquietava. Quella cosa mi aveva quasi fregato una volta, e stava per farlo di nuovo. Non ero disposto a lasciarglielo fare. Rimasi lì inginocchiato per un po’, avvolto dal ronzio della lampadina.

Infine mi rialzai lentamente, presi la chiave e mi piegai in avanti verso la porta, per aprirla senza mettere i piedi sull’area davanti all’uscio. Chi mi avesse visto piegato in quello strano modo, avrebbe pensato che ero matto.

Aperta la porta con uno scatto, saltai il pezzo di moquette sostituita ed entrai. Chiusi la porta alle mie spalle, accesi la luce.

Era lì, la mia camera, la mia casa, il luogo in cui trovavo sicurezza e riposo. Ma che purtroppo, mi tornò in mente, sarebbe stato mio per soli novanta giorni ancora.

Ma perché? Che sarebbe successo, alla scadenza, non solo a me ma a tutti gli altri inquilini sfrattati? E alla città?

“Trattiamo qualunque affare” c’era scritto sul biglietto di visita. Come i rigattieri, che commerciano bottiglie, ossa, stracci, tutto quello che si può vendere. Ma il rigattiere è un commerciante onesto: compra per guadagnare. Quella gente, invece, perché comprava? Perché Fletcher Atwood comprava? Certamente non per guadagnare, se pagava un’azienda più di quanto valesse per poi non farne niente.

Mi sfilai il cappotto e lo buttai su una sedia, lanciandovi sopra il cappello. Consultai l’elenco del telefono che era sul tavolo, cercando il numero di Atwood. Ce n’erano un’infinità. Ma nessuno si chiamava Fletcher.

Così decisi di chiedere al servizio informazioni.

In tono piatto, l’impiegata rispose: — Mi spiace, questo abbonato non risulta dai nostri elenchi.

Riattaccai, chiedendomi che fare.

Mi trovavo in una situazione d’emergenza, che richiedeva un’azione immediata. Ma quale? Cosa si può fare per evitare che un’intera città venga comprata? E innanzi tutto, se l’avessi detto a qualcuno, mi avrebbe creduto?

Scorsi mentalmente una lista di nomi. Certo, il Vecchio sarebbe stata la prima persona cui confidare tutto quello che sapevo, se non altro per dovere professionale. Ma temevo fortemente che, al primo accenno di quelle incredibili novità, mi avrebbe licenziato sui due piedi considerandomi un asino incompetente.

Pensai al sindaco, al capo della polizia, al procuratore distrettuale. Anche con loro, dopo tre parole correvo il rischio di finire catalogato come l’ennesimo balordo, sempre se non mi sbattevano direttamente in cella.

Forse, il senatore Roger Hill mi avrebbe ascoltato. Stavo per sollevare il ricevitore, ma ritirai la mano.

Che cosa avrei raccontato a Washington?

Immaginai di dirgli: “Ascoltami, Rog. Qualcuno sta tentando di comprare tutta la città. Mi sono introdotto furtivamente in un ufficio e ho trovato gli atti legali; c’erano poi diversi abiti appesi e una scatola da scarpe piena di pupazzi, e un grosso buco nel muro…”

Troppo ridicolo, troppo fantastico per sperare di essere preso sul serio. Se qualcuno fosse venuto a raccontare a me quella storia, l’avrei preso per matto.

Prima di parlare dovevo procurarmi prove solidissime. Roba da inchiodare gli accusati. Dovevo essere in grado di dimostrare chi, come, perché, e alla svelta. Cominciando da Fletcher Atwood. Dovunque si trovasse in quel momento, era lui la prima persona da scovare. Sul suo conto avevo due elementi solidi: non aveva un telefono, e alcuni anni prima aveva comprato il Belmont Place, a Timber Lane. Esisteva qualche dubbio che avesse mai effettivamente abitato là, ma era pur sempre un inizio. Anche se Atwood fosse risultato assente, nella casa avrei potuto trovare qualcosa che mi mettesse sulle sue tracce.

Mancava un quarto alle sette, dovevo andare a prendere Joy. Mi sarei limitato a cambiare camicia e cravatta. Dopotutto, uscivamo soltanto per cenare.

Entrai in camera da letto, senza accendere la luce perché quella del soggiorno era sufficiente. Da un cassetto tolsi una camicia, strappai via la confezione di plastica messa dalla lavanderia e sfilai il sostegno di cartone, quindi aprii la camicia scuotendola e la gettai su una sedia. Poi mi avvicinai all’armadio per prendere la cravatta. Mentre tiravo il pomello, mi resi conto di non aver acceso la luce, mentre ne avrei avuto bisogno per scegliere quella da mettere.

Prima di avvicinarmi all’interruttore, richiusi la porta dell’armadio che avevo aperto a metà. Lo feci soprappensiero, dato che avrei potuto andarci lasciandolo aperto. Ma nel brevissimo tempo impiegato per aprire e richiudere l’armadio, avvertii un movimento all’interno. Non so se lo vidi, o lo udii, o se si trattò di una sensazione fisica. Mi sembrava che gli indumenti avessero assunto vita e mi attendessero. Come se le cravatte si fossero trasformate in serpenti, restando apparentemente immobili come cravatte, ma pronti a colpire.

Se avessi richiuso l’anta solo dopo aver percepito quel movimento, forse sarebbe stato troppo tardi. Perché non poteva venire liquidato come un semplice rumore legato alla chiusura dello sportello. Per fortuna avevo cominciato a riaccostare già prima di avvertire quel movimento, o almeno, prima di rendermene conto.

Terrorizzato per quanto avveniva lì dietro, retrocessi nella stanza. Mi gonfiava l’orrore, quell’orrore che ribolle in un uomo quando la sua stessa casa tenta di azzannarlo.

Perfino in quella situazione, però, riuscivo a muovermi delle obiezioni. Soprattutto la solita: tutto ciò non era possibile. Ok, una sedia può tramutarsi in un paio di mascelle e inghiottire l’uomo che c’era seduto pacificamente sopra; il tappetino del bagno può scivolare pericolosamente da sotto i suoi piedi; il boiler può cadergli in testa; ma l’armadio si suppone essere immune da questi rischi. Perché è una parte dell’uomo. È lo spazio in cui appende le sue pelli artificiali, quindi il più vicino a lui, in un’intimità senza pari tra gli oggetti domestici.

Ma proprio mentre mi dicevo che tutto ciò non era vero, e davo la colpa alla mia fantasia sovreccitata, udii di nuovo il rumore proveniente dal mobile chiuso.

Quasi con riluttanza — strano, vero? — come colpito da un incantesimo mortale, arretrai dalla camera da letto e mi fermai in soggiorno. Continuavo a guardare nella camera da letto, nel buio oltre la porta. C’era qualcosa, ne ero certo. A meno di non mettere in dubbio i miei sensi e il mio equilibrio psichico, qualcosa c’era.

Qualcosa dello stesso tipo della trappola davanti alla mia porta e dei pupazzi contenuti in quella straordinaria scatola per scarpe.

Perché stava accadendo a me? Dopo il fatto dei pupazzi, dell’ufficio scassinato, della ragazza che aveva ordinato il Manhattan, poteva essere logico che l’obiettivo fossi io. Però tutto era cominciato con la trappola, che era stata messa prima.

Tesi le orecchie per ascoltare meglio. Ma il rumore era cessato, o perché me n’ero andato o perché non ero abbastanza vicino da udirlo.

Dalla panoplia presi la pistola automatica. Riempii il caricatore e lo inserii. Poi presi una manciata di proiettili e me li ficcai in tasca.

Indossai il cappotto, facendo scivolare l’automatica nella tasca destra. Feci per prendere le chiavi della macchina. Ma non le trovai.

Non erano nel cappotto, né nella giacca, né nella tasca dei pantaloni. Nel portachiavi avevo le solite chiavi: quella della porta di ingresso, della panoplia, del cassetto dell’ufficio, della cassetta di sicurezza alla banca, più altre chiavi che non mi servivano quasi mai, e che costituiscono quell’inutile ma inevitabile collezione di chiavi dimenticate che ognuno si porta sempre appresso.

C’erano tutte, ma non quelle della macchina. Guardai sul tavolo. Guardai in giro per la cucina. Niente.

Poi ricordai dove le avevo lasciate. Le vedevo, nella mia mente, penzolare dal cruscotto dell’auto, attaccate al portachiavi, con la chiave del bagagliaio che penzolava e quella di accensione inserita nel cruscotto. Le avevo dimenticate in macchina quand’ero tornato a casa nel pomeriggio. Una cosa che non mi era quasi mai successa.

Mi avviai all’uscita. Fatti due passi, mi fermai: “Non posso andare nel buio del parcheggio, mentre le chiavi sono dentro la macchina”.

Mi resi conto che il ragionamento era illogico, anzi folle, ma non potevo farci niente. Con le chiavi della macchina in tasca, non avrei esitato. Ma mi paralizzava il pensiero di andare fuori al buio mentre le chiavi penzolavano al loro posto. Tutto cozzava contro la logica, ma per me era così.

Ero spaventato a morte. Le mani mi tremavano, come mi accorsi solo in quell’istante.

Erano le sette, Joy mi stava già sicuramente aspettando. Si sarebbe arrabbiata, e non potevo biasimarla. “Non un minuto dopo”, aveva detto. “Mi viene fame presto”.

Mi avvicinai al tavolo per telefonare, ma bloccai la mano a mezz’aria. Una nuova idea terrificante mi era balenata nel cervello. E se il telefono non fosse più stato un telefono? E se niente, in quella stanza, fosse più stato ciò che appariva? E se tutto, negli ultimi minuti, si fosse trasformato in una trappola micidiale?

Estrassi la pistola, toccai l’apparecchio con la punta della canna, e non si tramutò in una grottesca forma di vita. Continuando a impugnare la pistola, sollevai il ricevitore, lo appoggiai sul tavolo e composi il numero.

Mi chiesi cosa le avrei detto.

In realtà fu semplice. Le dissi: — Sono Parker.

— Come mai sei in ritardo? — mi chiese, con una dolcezza un po’ sospetta.

— Joy, sono nei guai.

— Che ti è capitato, stavolta? — chiese in tono ironico. Di rado mi trovavo davvero nei pasticci, quando usavo quella scusa.

— Sono realmente nei guai — risposi. — Un affare pericoloso. Mi spiace, ma stasera non si va fuori.

— Pauroso! — esclamò. — Passo io a prenderti.

— Joy! — gridai. — Ascoltami, per amor di Dio! Resta lontana da me. Mi devi credere. So quello che faccio. Stammi lontana!

La sua voce era ancora calma, giusto un pelo più stridula: — Di che si tratta, Parker? Che guaio è?

— Non lo so nemmeno io — risposi disperatamente. — Succedono cose strane. Avverto un pericolo, ma non mi crederesti se te ne parlassi. Nessuno mi crederebbe. Me la sbrigo da me, e desidero che non ti immischi. Forse domani sarò pazzo furioso, ma…

— Parker, sei sobrio?

— Vorrei tanto non esserlo.

— Sei sicuro di sentirti bene?

— Sì, certo, benissimo — risposi. — Ma c’è qualcosa nell’armadio, e una trappola davanti alla mia porta, e ho trovato quella scatola piena di pupazzi…

Mi sarei mangiato la lingua: mi era sfuggito di bocca.

— Rimani lì — disse lei. — Sarò da te in un minuto.

— Joy! — urlai. — Non farlo!

Ma aveva riagganciato. Disperato, composi di nuovo il suo numero.

Dovevo fermarla, quella pazzoide. Sentivo il segnale di chiamata ripetersi infinite volte, creando un terribile senso di vuoto, ma non rispose nessuno.

Non avrei dovuto parlare, pensai. Avrei dovuto fingere di essere ubriaco e scusarmi di non poter uscire con lei. Forse sarebbe andata su tutte le furie, mi avrebbe riattaccato il telefono in faccia, ma tutto sarebbe finito lì. O avrei potuto inventare un’altra scusa plausibile, ma non ne avevo avuto il tempo. Ero troppo spaventato.

Riabbassai la cornetta, presi il cappello e mi avviai alla porta. Mi fermai un istante sulla soglia a guardarmi indietro. La mia casa adesso aveva qualcosa di estraneo. Di alieno. Come un posto mai visto prima, in cui uno va a sbattere casualmente. Ed era piena di cose che scivolavano e sussurravano e producevano impercettibili fruscii.

Aprii la porta di scatto, saltai nel corridoio e mi precipitai giù per le scale. Continuando a chiedermi quanto di quel rumore furtivo fosse realmente risuonato nell’appartamento, e quanto solo nella mia testa.

Raggiunsi l’atrio, uscii. Era una notte tranquilla e piacevole, nell’aria si sentiva odore di foglie bruciate.

Arrivò anche un rapido, buffo rumore ritmico, e da dietro l’angolo del palazzo, dalla parte verso il parcheggio, sbucò un cane che scodinzolava allegramente. Era grosso la metà di un cavallo, dal pelo così arruffato da nascondere i suoi lineamenti. Sembrava venuto fuori direttamente dalla luce di quel tramonto autunnale.

— Qui, bello! — lo chiamai. Si avvicinò e si accucciò sul marciapiede, battendo il terreno con la coda. Stavo per accarezzarlo sulla testa, quando sentii il rumore di una macchina che si avvicinava in velocità. Inchiodò davanti a noi.

Si aprì uno sportello.

— Salta dentro — disse Joy. — Via di qui!

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