La luce era accesa, nel laboratorio al terzo piano. Quindi Stirling stava lavorando. Bussai forte alla porta d’ingresso del palazzo, finché non si sentì il passo pesante di un portinaio abbastanza sul nervosetto, che mi intimò di andarmene. Invece continuai a bussare, finché non aprì. Gli dissi chi ero, e lui, brontolando, mi fece passare. Il Cane scivolò dentro al mio fianco.
— Lasci fuori il cane — mi ordinò il portiere. — Qui non possono entrare.
— Questo non è un cane comune — osservai.
— E cos’è, secondo lei?
— Un esemplare — gli risposi.
E con questo gli tappai la bocca. Ci avviammo su per le scale, mentre il portiere rimaneva nell’atrio a mugugnare.
Trovai Stirling chino sul tavolo del laboratorio, intento a buttare giù appunti. Indossava un camice bianco incredibilmente sporco.
Quando entrammo, ci lanciò uno sguardo distratto. Non doveva essere al corrente dell’ora, perché non si mostrò affatto sorpreso del nostro arrivo.
— Sei venuto per il fucile? — mi chiese.
— No. Ti ho portato qualcosa — risposi, mostrandogli il sacco.
— Devi mandare via il cane — mi disse subito. — Non sono ammessi in questo palazzo.
— Questo non è un cane — spiegai. — Non so come definirebbe se stesso, né da dove venga, ma è un alieno.
Stirling si voltò completamente verso di noi, con una faccia interessata. Lanciò un’occhiata di traverso al Cane.
— Un alieno? — chiese, non molto sorpreso. — Vuoi dire che proviene dalle stelle?
— Esattamente — rispose il Cane.
Stirling aggrottò le sopracciglia senza dire una parola. Il suo cervello era al lavoro.
— Prima o poi, doveva succedere — sentenziò alla fine. — Certo, non era facile prevedere in che modo, ma doveva succedere.
— Così, non sei sorpreso? — dissi.
— Più dall’aspetto del nostro visitatore che dal fatto in sé.
— Piacere di conoscerla — disse il Cane. — So che lei è un biologo. La cosa mi interessa molto.
— Ma il vero motivo per cui siamo qui — dissi a Stirling — è questo sacco.
— Sacco? Ah sì, ero sicuro che ne avessi uno.
Glielo mostrai. — Alieni anche questi — dissi.
La cosa cominciava a diventare dannatamente ridicola. Stirling alzò un sopracciglio con espressione sorniona.
In fretta e furia, incespicando nel parlare, gli spiegai cos’erano quegli esseri, o meglio ciò che io pensavo che fossero. Avevo una gran fretta di rivelare tutto quello che sapevo. Mi sembrava di avere pochissimo tempo a disposizione. E forse non sbagliavo.
Stirling appariva eccitato, ora. Gli luccicavano gli occhi.
— È proprio ciò di cui ti parlavo stamattina — disse.
Bofonchiai una domanda, non ricordavo.
— È un essere extra-ambientale — mi spiegò. — Qualcosa che può vivere dovunque, che può essere qualunque cosa. Una forma di vita dotata di perfetta adattabilità. Può conformarsi a qualsiasi condizione…
— Stamane non parlavi di questo - gli dissi, ora che il suo discorsetto mi era tornato alla memoria.
— Può darsi — ammise senza scomporsi. — Forse non è esattamente ciò che avevo in mente, ma il risultato non cambia.
Si girò verso il banco del laboratorio, e cominciò a frugare in un cassetto. Finalmente tirò fuori quel che cercava. Un sacco di plastica trasparente.
— Versiamole qui dentro — disse Stirling. — Poi le esamineremo con cura.
Con l’aiuto del Cane, rovesciai il mio sacco improvvisato, facendo cadere le sfere in quello tenuto aperto dal mio amico. Alcuni frammenti caddero sul pavimento e, senza curarsi di assumere la forma di sfere, strisciarono verso il lavandino, si arrampicarono su per i sostegni di ferro e scomparvero giù per il tubo di scarico.
Il Cane si lanciò alla loro caccia, ma erano troppo veloci. Tornò indietro con le orecchie penzoloni e la coda fra le gambe.
— Se la sono filata giù per il tubo — disse.
— Non importa — osservò Stirling, tutto eccitato. — Ne abbiamo tante qui.
Fece un robusto nodo alla sommità del sacco, lo sollevò, lo fissò a un gancio che pendeva da un sostegno, e lasciò il sacco sospeso a mezz’aria sopra il banco. La plastica era così trasparente che si potevano osservare senza difficoltà ogni linea e ogni sfumatura delle sfere.
— Intende sezionarle? — chiese il Cane.
— Tutto a suo tempo — rispose Stirling. — Prima voglio studiarle e sottoporle a qualche esperimento.
— Doloroso? — chiese ansiosamente il Cane.
— Cos’è questa storia? — mi chiese Stirling.
— Non li considera amici — gli spiegai. — Gli stanno rovinando il mestiere e la reputazione.
Da un angolo si sentì squillare il telefono.
Ci colpì e ci ammutolì tutti.
Il telefono squillò di nuovo. In quel suono c’era qualcosa di terrificante. Fino a quel momento eravamo rimasti, sicuri e tranquilli, a osservare le sfere con curiosità di accademici. Lo squillo del telefono cambiò le cose e fece irrompere il mondo dentro il laboratorio. Non eravamo più soli, al sicuro. Non esistevamo solo noi. Quegli esseri sospesi nel sacco di plastica adesso erano ben altro che un innocuo vetrino da laboratorio, erano una minaccia. Qualcosa di cui avere paura. Qualcosa da odiare.
Adesso vedevo il grande manto nero della notte, là fuori, e percepivo il gelo e l’arroganza che intrappolavano il mondo. La stanza si contrasse in un freddo puntino luminoso che si rifrangeva sul banco lucido del laboratorio, sul lavandino, sugli attrezzi di vetro. Io non ero altro che un pallido riflesso, e altrettanto Stirling e il Cane.
— Pronto? — disse Stirling al telefono. E dopo un istante: — No, non l’ho sentito. Ci deve essere uno sbaglio, perché è qui da me.
Ascoltò ancora un momento, poi interruppe: — Ti dico che è qui con me. Con un cane parlante.
Altra pausa. — No. Non è ubriaco, te l’assicuro, sta benissimo…
Mi feci avanti. — Da’ qua! — dissi.
Mi passò il ricevitore. Era Joy. — Parker, sei proprio tu? Ma che succede? La radio…
— Sì, ho sentito anch’io. Quelli sono scemi.
— Perché non mi hai telefonato? Sapevi che avrei ascoltato il notiziario!
— Ma come facevo a saperlo? Sono stato occupatissimo. Sono riuscito a rintracciare Atwood, che però se l’è filata trasformandosi in palle da bowling, ma l’ho chiuso in un sacco e ho trovato il Cane che mi aspettava in macchina…
— Parker, ti senti bene?
— Certo — risposi. — Benissimo.
— Parker, ho così paura.
— Sciocchezze — le dissi. — Non c’è da aver paura. Non ero io, nella mia macchina. E poi, ho trovato Atwood e…
— Non voglio dir questo — mi interruppe. — Ci sono delle cose qui fuori.
— Ci sono sempre delle cose, fuori — osservai. — Cani, gatti, scoiattoli e altra gente…
— Cose che camminano silenziosamente. Sono dappertutto e guardano dentro, e… Ti prego, vieni a prendermi, Parker!
Allora ebbi paura. Joy non era una donna che si lasciasse spaventare facilmente dal buio o dalla sua immaginazione. Nella sua voce c’era qualcosa che lottava contro l’isterismo.
— Ok — dissi. — Resisti. Sarò lì il prima possibile.
— Parker, ti prego…
— Metti il cappotto e aspettami vicino alla porta. Arriverò in macchina. Ma non uscire prima che io sia arrivato.
— Va bene — disse, quasi con calma.
Riattaccai rumorosamente, e mi rivolsi a Stirling: — Il fucile!
— È appeso lì nell’angolo.
Lo vidi e andai a prenderlo. Stirling frugò in un cassetto e mi porse una scatola di cartucce. La ruppi, facendone cadere alcune a terra. Stirling si chinò a raccoglierle. Riempii il caricatore del fucile e mi infilai le altre cartucce in tasca.
— Vado a prendere Joy — gli dissi.
— Qualche problema? — mi chiese.
— Non lo so — risposi.
Uscii sbattendo la porta, e mi precipitai giù per le scale. Il Cane mi seguì.