Sistemai la macchina nel parcheggio dietro casa, stavolta nel posto riservato.
C’era tanta pace in quel luogo, e rimasi a godermela un po’, prima di scendere dalla vettura. La temperatura era piacevolmente tiepida. Nel cortile, risultante dalle tre ali dell’edificio, non c’era un soffio di vento. Il sole splendeva a picco su un pioppo che cresceva in un angolo, facendo risplendere i magnifici colori autunnali delle sue foglie, come l’albero di una Terra promessa. In quell’atmosfera sonnolenta, udii lo zampettare ritmico di un cane nel vialetto. Non appena mi vide, la bestia si accucciò e rimase a fissarmi con le orecchie dritte. Era grosso la metà di un cavallo, e con un pelo così arruffato che sembrava non avesse nessuna forma definita. Con una poderosa zampa posteriore si grattò via aristocraticamente una pulce.
— Ehi bello, qui! — lo chiamai. Lui si rialzò e si allontanò lungo il viottolo. Prima di scomparire, si fermò ancora per un attimo a osservarmi.
Scesi dalla macchina e mi avviai verso l’ingresso. Non c’era nessuno, i miei passi risuonavano nel silenzio. Nella cassetta della posta trovai un paio di lettere. Le ficcai in tasca e salii lentamente le scale fino al secondo piano.
Volevo fare una buona dormita, perché cominciavo a essere un po’ stanco per la levataccia di quella notte.
Davanti alla porta del mio appartamento mancava ancora il pezzo di moquette. Mi fermai ad osservare. Me ne ero quasi dimenticato, ma ora ebbi un brivido ripensando alla sera prima, e mi affrettai a cercare le chiavi per entrare al più presto, lasciando al di là dell’uscio la visione di quel buco.
Entrai, chiusi la porta, buttai cappello e cappotto su una sedia e mi fermai a guardarmi intorno. Era tutto fermo e a posto. Non c’era nulla di strano.
Il mio appartamentino non poteva dirsi di lusso, però a me piaceva. Era il primo posto in cui avevo vissuto abbastanza a lungo da poterlo considerare casa mia. Ci abitavo da sei anni e mi ci trovavo bene. In un angolo avevo messo l’hi-fi, contro una parete c’era la panoplia con i fucili, mentre la parete di fondo era interamente occupata da libri, stipati in un mostro di biblioteca che avevo rappezzato con le mie mani.
Andai in cucina, dal frigorifero presi una bottiglia di succo di pomodoro. Me ne versai un bicchiere, poi cominciai a sorseggiarlo mentre mi sedevo in soggiorno. Cavai di tasca le due lettere trovate nella cassetta della posta. Una era del sindacato, e già sapevo che sollecitava le quote arretrate. La seconda aveva un’intestazione composta da molti nomi. Aprii la busta e tirai fuori il foglio. Lessi:
Gent. Sig. Graves,
ci pregiamo informarLa che, a norma dell’articolo 31 del contratto di locazione, non Le verrà rinnovato l’affitto dell’appartamento al numero 210 di Wellington Arms, con effetti a partire dal 1° gennaio p.v.
Seguiva una firma indecifrabile.
E l’assurdo era che i tizi che avevano mandato quella lettera non erano i proprietari dell’edificio. La casa apparteneva al vecchio George Weber, che abitava all’appartamento numero 116, al primo piano. Mi alzai con l’intenzione di scendere a chiedergli cosa significasse quella lettera, quando mi ricordai che era partito per la California con la moglie.
Forse, pensai, il vecchio George aveva affidato l’amministrazione dell’edificio a un’agenzia, mentre era fuori. Ma, anche in questo caso, c’era qualcosa che non andava. Ero un buon amico del vecchio George. Non mi avrebbe mai cacciato di casa. Di tanto in tanto se ne veniva su da me per bere un goccetto, ogni martedì sera si giocava a carte, e ogni autunno si andava insieme nel Sud Dakota a caccia di fagiani.
Guardai di nuovo la lettera. Era intestata “Ross, Martin, Park Gobel”. Sotto il nome dell’agenzia, a caratteri più piccoli, c’era scritto “Amministrazione di Immobili”.
Mi chiesi cosa nascondesse l’art. 31. Mi venne l’idea di controllare il contratto di affitto, ma rinunciai perché non avrei mai saputo dove cercarlo.
Composi il numero della Ross, Martin, Park Gobel.
Mi rispose una voce femminile, professionale, trillante, della serie “Grazie per averci chiamati”.
— Signorina — dissi — qualcuno nella vostra agenzia deve aver preso un granchio. Ho qui una vostra lettera che mi intima di lasciare l’appartamento.
Ci fu un leggero scatto e rispose la voce di un uomo, al quale spiegai l’accaduto.
— Come mai la vostra agenzia è finita qui in mezzo? — gli chiesi. — Che io sappia, il proprietario è George Weber, mio buon vicino e vecchio amico.
— È lei a sbagliarsi, signor Graves — rispose il mio interlocutore, con voce calma e maestosa come quella di un giudice. — Il signor Weber ha venduto la sua proprietà a un nostro cliente varie settimane fa.
— Il signor Weber non me ne ha mai parlato.
— Forse gli è passato di mente — osservò l’altro, dando l’impressione di parlare con un ghigno sulle labbra. — Il nostro cliente ha preso possesso dell’immobile alla metà del mese.
— E per prima cosa mi ha mandato la disdetta?
— Non solo a lei, a tutti gli inquilini. Il nostro cliente ha bisogno della sua proprietà per destinarla ad altri fini.
— Per farne un parcheggio, per esempio?
— Esattamente — confermò. — Proprio un parcheggio.
Riattaccai senza preoccuparmi di salutare, tanto era inutile continuare a sprecar fiato con quel buffone.
Mi sprofondai di nuovo nella poltrona in salotto, ascoltando il traffico giù in strada. Arrivarono anche il chiacchiericcio e le risatine di un paio di ragazze. Il sole batteva sulle finestre a ovest, diffondendo una luce calda e dorata. Ma la stanza aveva qualcosa di freddo, un gelo terrificante che si introduceva da qualche dimensione lontana, infiltrandosi non nelle pareti ma nelle mie ossa.
Prima la ditta Franklin, poi il bar di Eddy, ora questo posto che chiamavo casa mia. No, mi sbagliavo, pensai. Tutto era cominciato con l’uomo che aveva telefonato a Dow e aveva parlato con Joy. Con lui e tutti quelli che avevano pubblicato disperate inserzioni sui giornali. La cosa era cominciata così.
Riagguantai il giornale dal tavolo su cui l’avevo scagliato entrando, aprendolo alle pagine degli annunci, ed eccoli, proprio come aveva detto Dow. Intere colonne sotto la voce “Cerco casa”. Strisciate di testo con dentro tutta la sofferenza di chi implorava un tetto.
Che stava succedendo? Dove erano finiti tutti i nuovi appartamenti, che sorgevano come funghi alla periferia della città?
Telefonai a un agente immobiliare di mia conoscenza. Rispose una segretaria, dovetti aspettare finché l’amico non avesse finito con un altro cliente.
Alla fine arrivò: — Parker! Cosa posso fare per te?
— Mi hanno sbattuto fuori di casa — dissi. — Mi serve un tetto.
— Oh, mio Dio! — esclamò lui.
— Anche una sola camera andrebbe bene — spiegai — purché sia abbastanza grande.
— Quando devi lasciare la casa, Parker?
— Entro la fine dell’anno.
— Spero di poter fare qualcosa, se la situazione migliora. Ti terrò presente. Qualunque cosa, dici? — promise.
— Ma è proprio così grave la situazione?
— Non me ne parlare. La gente viene in ufficio, mi chiama al telefono… Sembra che siano tutti a caccia di case!
— Ma che succede? Come è possibile, con tante nuove costruzioni? Si vedono dappertutto i cartelli di case da affittare o in vendita.
— Non so — rispose, e sembrava a pezzi. — Non tento neanche di spiegarmelo. Non riesco a capire. Potrei vendere centinaia di case, affittare migliaia di appartamenti, ma non riesco a trovarne uno libero e rischio il fallimento per mancanza di offerta. Le case mancano da una decina di giorni. La gente preme, tenta persino di corrompermi, pensando che voglia speculare. Non ho mai avuto tanti clienti, eppure non riesco a concludere un solo affare.
— C’è gente in arrivo da fuori?
— Non credo, Parker. Di sicuro, non così numerosa.
— Nuove coppie in cerca di casa?
— Ti dirò che la metà delle persone che cercano casa è gente anziana che ha venduto casa perché la famiglia si è assottigliata, e quindi non aveva più bisogno di tutto quello spazio. L’altra metà è gente che ha bisogno di una casa più grande, perché la famiglia è cresciuta.
— E ora non si trova niente — dissi.
— Proprio così.
Non avendo altro da dire, lo ringraziai. — lì terrò presente — ripeté. Ma con poca convinzione.
Riagganciai, mi sedetti e mi chiesi che stesse succedendo. Perché qualcosa stava succedendo. Qui il problema non era un eccesso di domanda, ci trovavamo di fronte a fenomeni che sfidavano tutte le leggi dell’economia. C’era sotto qualcosa, me lo diceva il mio fiuto. I Franklin erano stati venduti, Eddy aveva ricevuto la disdetta, il vecchio George aveva venduto la sua proprietà, la gente invadeva le agenzie immobiliari in cerca di un posto per vivere.
Mi rialzai, indossai cappello e cappotto. Sforzandomi di non notare il buco semicircolare nella moquette, uscii. Un terribile sospetto si era impossessato di me, terrorizzandomi.
Il mio palazzo sorgeva ai margini di una zona di negozi, che si era sviluppata parecchi anni prima, molto prima che a qualcuno venisse in mente di riempire le campagne di caotici centri commerciali. Se il mio sospetto era fondato, dovevo cercare la risposta tra quei negozi.
Partii a caccia della risposta.