7

Manuel Krug aveva avuto una giornata piena d’impegni. Ore 8. California. Sveglia, nella sua villa sulla costa di Mendocino. Il Pacifico tumultuoso quasi sulla soglia di casa. Mille ettari di sequoie come giardino, Clissa al suo fianco nel letto, flessuosa e ritrosa come una gatta. Si sentiva ancora la mente annebbiata dalla festicciola della sera precedente a Taiwan, con il Gruppo dello Spettro, e dal troppo sakè di Nick Ssu-ma, bevuto senza accorgersi che tagliava le gambe. Sullo schermo a vapori di sodio, l’immagine del maggiordomo beta che sussurrava con insistenza: «Signore, signore, per favore, alzatevi. Vostro padre vi aspetta alla torre». Clissa che si rannicchiava tutta contro di lui. Manuel sbatté gli occhi, sforzandosi di allontanare dal cervello la coltre di bambagia che lo avvolgeva. «Signore, scusatemi, avevate lasciato ordini irrevocabili di svegliarvi!». E subito una nota a 40 hertz brontolò dal pavimento; un secondo cono di suoni, a 15 mila hertz, sventagliò su di lui dal soffitto; si scoprì impalato tra i due, incapace di rifugiarsi nel sonno. Un crescendo. E il risveglio riluttante, risentito. Poi la sorpresa: Clissa che si muoveva, che gli prendeva titubante la mano per appoggiarsela sul seno fresco e minuto. Manuel lasciò convergere le dita, e lo trovò ancora soffice. Proprio come s’aspettava. L’approccio della moglie bambina è molto ardito, ma la carne è debole anche se lo spirito è volenteroso. Erano sposati da due anni e lui, nonostante l’impegno, lo sforzo e l’abilità non era ancora riuscito a destarle pienamente i sensi. — Manuel… — sussurrava lei — Manuel… toccami…

Allontanarla era una crudeltà. — Dopo… — dovette dirle, con quei due spaventosi fasci di suono che gli entravano in collisione nel cervello. — Bisogna alzarsi: ci aspetta il patriarca. Oggi ci tocca andare alla torre.

Clissa gli fece il broncio. Scesi dal letto, subito l’infame suono cessò. Fecero doccia e colazione e si vestirono. — Davvero vuoi che ti accompagni? — chiese lei.

— Sì. Mio padre ha detto chiaro che sei invitata — rispose Manuel. — Dice che è giunta l’ora di vedere la torre anche per te. Come mai non hai voglia di andarci?

— Ho paura di commettere qualche sciocchezza, di dire qualche stupidaggine. Mi sento terribilmente immatura quando gli sono vicina.

— Ma tu sei terribilmente immatura. Non badarci: gli piaci moltissimo. Devi far solo finta di essere molto molto molto affascinata dalla torre: se anche dirai qualche sciocchezza, lui non se ne accorgerà.

— E gli ospiti… il senatore Fearon, lo scienziato, e chissà chi altro… Manuel, mi sento già imbarazzata adesso!

— Clissa!

— Sì. Sì.

— E ricorda: la torre deve sbalordirti. Come se fosse la più grande impresa dell’umanità dopo il Taj Mahal. Dovrai dirglielo, dopo averla vista. Non come te l’ho detto io, s’intende; devi dargli l’idea con parole tue.

— Lui ci tiene molto alla torre, no? — chiese Clissa. — Si aspetta davvero di parlare con le stelle?

— Sì.

— E quanto gli costerà?

— Miliardi — rispose Manuel.

— Ci consuma l’eredità per costruirla. Spenderà tutto.

— No, tutto no. Qualche spicciolo ci rimarrà sempre. Ma in fondo i soldi se li è fatti lui: se li spenda pure come gli garba.

— Ma per un’ossessione… per una fantasticheria…

— Piantala, Clissa. Queste cose non ci riguardano.

— Almeno, dimmi una cosa. Supponiamo che tuo padre muoia improvvisamente, domani, e che tutto venga in mano a te. Cosa succederebbe alla torre?

Manuel formò le coordinate per il balzo trasmat a New York.

— Farei sospendere i lavori entro ventiquattr’ore — rispose. — Ma se solo provi a dirglielo ti taglio la gola. Ora entra. Si parte.


Ore 11 e 40. New York. Già quasi mezzogiorno, ed era sveglio solamente da una quarantina di minuti (precipitosissimi), dopo la levataccia alle otto. Era uno dei soliti fastidi della civiltà trasmat: passando a oriente si perdevano piccoli segmenti cronologici, che finivano in fondo a qualche saccoccia temporale nascosta.

Ma, naturalmente, il conto veniva pareggiato dai doni elargiti a chi viaggiava nel verso opposto. L’estate del ’16, alla vigilia del matrimonio, Manuel e gli amici del Gruppo dello Spettro avevano fatto la corsa dell’alba, percorrendo la faccia del mondo in direzione occidentale. Avevano cominciato alle sei del sabato, nella Riserva di Caccia Ambroseli, con il sole che montava da dietro il Kilimanjaro, e poi erano saltati a Kinshasa, Accra, Rio, Caracas, Vera Cruz, Albuquerque, Los Angeles, Honolulu, Auckland, Brisbane, Singapore, Pnompenh, Calcutta, Mecca. Nel mondo dei trasmat non c’era bisogno di visti né di passaporti: il mezzo di trasporto istantaneo aveva fatto diventare assurdi quei vecchiumi. Il povero Sole, come sempre, arrancava nel cielo a meno di duemila chilometri l’ora, ma i viaggiatori potevano balzare da un punto all’altro senza le remore dell’astro. Si erano fermati un quarto d’ora qui, venti minuti là, a farsi un bicchiere o a iniettarsi un sollevato, a comprare ricordini di viaggio e a visitare famose anticaglie, ma avevano continuato a guadagnare tempo, indietreggiando sempre più nelle ore della notte precedente, superando il sole nella corsa intorno al globo, ed erano entrati nella sera del venerdì. Naturalmente si erano persi tutto il guadagno quando, tagliando il meridiano del cambiamento di data, erano cascati nel pomeriggio del sabato. Ma avevano rosicchiato la perdita continuando a ovest: al loro ritorno al Kilimanjaro non erano neppure le undici, si trovavano nello stesso sabato mattina in cui erano partiti, avevano fatto il giro del mondo e vissuto un venerdì e mezzo.

Con il trasmat si potevano fare cose di questo genere. Inoltre, programmando con cura la successione dei balzi, si potevano anche vedere ventiquattro tramonti nella stessa giornata, o passare la vita sotto il bagliore di un eterno mezzodì. Comunque, arrivando a New York alle undici e quaranta dalla California, Manuel provava fastidio per aver dovuto regalare al trasmat una bella fetta della sua mattinata.

Nell’ufficio, il padre lo salutò formalmente con una pressione delle palme, poi passò ad abbracciare Clissa in modo molto più caloroso. Leon Spaulding gli aleggiava al fianco, con espressione inquieta. Quenelle guardava dalla finestra il panorama cittadino e girava la schiena a tutti. Manuel non provava alcuna simpatia per lei. Di solito, le amanti del padre lo lasciavano indifferente. Il vecchio sceglieva sempre lo stesso tipo di donna: labbra piene, poppe grosse, grandi chiappe, occhi foschi, cosce pesanti. Gusti da contadino.

— Devono ancora arrivare il senatore Fearon, Tom Buckleman e il professor Vargas — spiegò Krug. — Thor ci farà visitare la torre in grande stile. Che impegni hai per il resto della giornata, Manuel?

— Non ho ancora…

— Vai a Duluth. Desidero che tu prenda conoscenza del tipo di lavorazione svolto da quella fabbrica. Leon, avverti Duluth: mio figlio sarà da loro nel primo pomeriggio, per una breve visita d’ispezione.

Spaulding si allontanò. Manuel scrollò le spalle: — Come vuoi tu, Padre.

— È ora che ti assuma più responsabilità, ragazzo mio. Per sviluppare le tue disposizioni manageriali. Un giorno sarai a capo di tutto, non ti pare? Quel giorno, quando la gente dirà Krug, intenderà parlare di te.

— Cercherò di essere degno della tua fiducia — disse Manuel.

Sapeva che non sarebbe mai riuscito a incantare il vecchio con quel tipo di affermazioni. E l’esibizione d’orgoglio paterno non incantava neppure lui. Manuel sapeva benissimo che il padre lo disprezzava, fondamentalmente. Riusciva perfino a vedersi come lo vedeva il padre: un perdigiorno, un eterno playboy. E invece come si vedeva lui stesso: sensibile, dolce, troppo raffinato per scendere a lottare nell’arena finanziaria. Ma subito, da quell’immagine, nacque una terza prospettiva di Manuel Krug: vacuo, schietto, idealista, futile, incompetente. Qual era il vero Manuel? Non lo sapeva neppure lui. Più invecchiava, meno si capiva.

Il senatore Fearon uscì dal trasmat.

— Henry — disse Krug — tu conosci già mio figlio Manuel… il futuro Krug dei Krug, l’erede…

— Sono passati tanti anni — disse Fearon. — Buon giorno, Manuel!

Manuel toccò la palma del politico, fredda. Gli rivolse un sorriso affabile. — Ci siamo incontrati cinque anni fa, a Macao — disse. — Lei era di passaggio, diretto a Ulan Bator.

— Ma certo, ma certo! Che memoria invidiabile. Krug, hai proprio un ragazzo di valore, sai! — esclamò Fearon.

— Aspetta qualche anno — disse Krug. — Quando mi ritirerò dalla scena, vi farà vedere lui come lavora un vero costruttore di imperi!

Manuel tossicchiò e distolse lo sguardo, imbarazzato. Un impulso coatto di amor dinastico portava il vecchio Krug, tutte le volte, a pretendere che il figlio fosse la persona adatta per ereditare il gruppo delle imprese economiche fondate o incamerate da lui. Da ciò le continue esibizioni di preoccupazioni per dare qualche “insegnamento” a Manuel, e da ciò le ruvide, continue insistenze in pubblico sul fatto che Manuel, un giorno o l’altro, avrebbe preso la direzione.

Manuel non aveva alcun desiderio di prendersi sulle spalle l’impero del padre. E non pensava neppure di essere capace di farlo. Solo ora era giunto, con la maturità, a superare la fase del playboy, e cercava a tentoni il modo di uscire dalle frivolezze come un altro avrebbe potuto cercare il modo di uscire dall’ateismo. Cercava qualcosa che gli offrisse uno scopo: un recipiente che potesse accogliere le sue ambizioni e le sue capacità ancora prive di forma. Forse un giorno ne avrebbe trovato uno. Ma dubitava che si sarebbe trattato delle Imprese Krug.

Il vecchio lo sapeva quanto lui. Interiormente, disprezzava la vacuità del figlio, e a volte quel disprezzo affiorava anche alla superficie. E tuttavia continuava sempre a fingere apprezzamento per i suoi giudizi, per la sua astuzia e le sue potenziali capacità d’amministratore. Davanti a Thor Guardiano, davanti a Leon Spaulding, davanti a chiunque lo stesse a sentire, Krug si dilungava a parlare delle grandi virtù dell’erede. Un’illusione ipocrita, la giudicava Manuel. Ingannando se stesso, cerca di portarsi a credere a quel che (lo sa benissimo) non si avvererà mai. Ma l’inganno non riuscirà. Non può riuscire. Continuerà ad accordare più fiducia, fiducia vera, al suo androide Thor che al figlio. E per buone ragioni. Perché non dovrebbe preferire un abile androide a un figlio senza qualità? Ci ha fatti lui tutte due, no?

Che passi pure le sue aziende a Thor Guardiano, si disse Manuel.

Intanto, erano arrivati gli altri ospiti. Krug li imbrancava tutti verso le cabine trasmat.

— Alla torre! — ruggiva. — Alla torre!


Ore 11 e 10. La torre. Comunque, era riuscito a riguadagnare buona parte dell’ora perduta, con quel passaggio al fuso orario successivo. Ma avrebbe preferito fare a meno del viaggio. Come se non bastasse, oltre a dover far vetrina nel gelido autunno dell’Artico, sforzandosi di ammirare l’assurda torre del padre (la Piramide di Krug, così ne parlava Manuel agli amici) c’era stata la faccenda del blocco caduto, la morte degli androidi. Brutto incidente.

Clissa aveva una mezza crisi d’isteria. — Non guardare — le disse, proteggendola in un abbraccio mentre lo schermo a parete del centro di controllo trasmetteva la scena del blocco che veniva sollevato via dai cadaveri. Si voltò verso Spaulding e gli disse: — Un sedativo, presto.

L’ectogeno gli trovò una fiala di qualcosa. Manuel ne schiacciò il beccuccio contro il braccio di Clissa e l’attivò. Il farmaco le guizzò sotto la pelle con un debole soffio, a velocità ultrasonica.

— Sono morti? — chiese Clissa, continuando a voltare la testa dall’altra parte.

— Credo di sì. Uno è ancora vivo, forse. Gli altri sono morti senza accorgersene.

— Che pena, quelle povere persone…

— No, non persone — rettificò Leon Spaulding. — Androidi. Solo androidi.

Clissa alzò il capo. — Gli androidi sono persone come tutti! — scattò. — Non voglio più sentire questo tipo di discorsi! Non hanno anch’essi il loro nome, i loro sogni, la loro personalità…

— Clissa — la esortò Manuel, piano.

— …le loro ambizioni? — continuò lei. — Sono persone, certo! Alcune persone sono morte sotto quel blocco, pochi istanti fa. E come possa lei, proprio lei, fare un’affermazione simile…

Clissa! - ripeté Manuel, preoccupato.

Spaulding era immobile, con gli occhi vitrei per la collera. L’ectogeno pareva sul punto di ribattere qualcosa d’offensivo, ma riuscì a controllarsi con un tremendo sforzo di volontà e a superare quel momento.

— Mi spiace — mormorò Clissa, abbassando gli occhi. — Non intendevo offenderla, Leon. Io… io… oh, Dio, Manuel, perché devono succedere cose orribili come queste? — E riprese a singhiozzare. Manuel fece un gesto per avere dell’altro sedativo, ma suo padre scosse il capo e si avvicinò a loro, togliendogli Clissa.

Krug cullò la nuora nelle immense braccia, premendosela sull’ampio petto. — È finito — disse, battendole la mano sulla spalla — finito, finito, finito. È stato terribile, sì. Terribile. Ma non hanno sofferto. Sono morti senza accorgersene. Adesso Thor si prenderà cura dei feriti. Gli staccherà i centri del dolore e si sentiranno subito meglio. Povera Clissa, povera, povera, povera Clissa… non hai mai visto morire nessuno, vero? È spaventoso, così d’improvviso. Lo so. Lo so. — La confortava con tenerezza, accarezzandole i lunghi capelli di seta, battendole la mano sulla schiena, baciandole le guance umide di pianto. Manuel fissava la scena, stupito. In tutta la sua vita non aveva mai visto tanta gentilezza in suo padre.

Ma, naturalmente, Clissa rappresentava per il vecchio qualcosa di speciale: lo strumento della successione dinastica. Lei doveva fornire la forza stabilizzatrice che avrebbe fatto accettare a Manuel le proprie responsabilità; inoltre le spettava il compito di perpetuare il nome dei Krug. Che assurdità: Krug trattava la nuora come una preziosa statuina di porcellana, eppure pretendeva entro breve tempo che un ampio fiotto di nipoti le scaturisse dai fianchi…

Ora Krug si rivolse agli ospiti: — Peccato dover terminare la visita così. Ma almeno abbiamo visto ciò che volevamo vedere, prima dell’incidente. Senatore, signori, vi ringrazio d’esser venuti alla torre. E verrete ancora a vederla, spero, quando sarà più rifinita. Ora possiamo andare, no?

Clissa sembrava più calma. Manuel provava un vago fastidio perché era stato suo padre a calmarla, non lui.

Le prese il braccio. — Penso che noi due faremmo meglio a ritornare in California — disse. — Un paio d’ore insieme, sulla spiaggia, la metteranno a posto. Allora, noi…

— Oggi pomeriggio ti aspettano a Duluth — disse Krug, duro come un macigno.

— Ma io…

— Chiama un domestico androide che l’accompagni a casa — disse Krug. — Tu vai alla fabbrica. — Voltandosi via da Manuel, accennò un saluto agli ospiti, che già stavano partendo, e disse a Spaulding: — New York. Ufficio superiore.


Ore 11 e 38. La torre. Ormai se n’erano andati quasi tutti. Krug, Spaulding, Quenelle e Vargas erano ritornati a New York; Fearon e Buckleman a Ginevra; Malinotti a Los Angeles; Thor Guardiano era sceso a prestare soccorso agli androidi feriti. Due domestici beta di Manuel erano arrivati da Mendocino per riportare a casa Clissa. Sulla soglia del trasmat, Manuel l’abbracciò e le diede un bacio sulla guancia.

— Quando arriverai? — gli chiese lei.

— Un po’ prima di sera, credo. Abbiamo un appuntamento a Hong Kong, se ben ricordo. Arriverò in tempo a prepararmi per cena.

— Non prima?

— Devo andare a Duluth. La fabbrica di androidi.

— Fanne a meno.

— Non posso. Hai sentito anche tu: me l’ha ordinato. E poi il vecchio ha ragione: è ora che la veda anch’io.

— Che noia. Passare il pomeriggio in fabbrica!

— Devo. Dormi bene, Clissa. E quando ti sveglierai, avrai dimenticato tutte le brutte cose di oggi. Vuoi che ti faccia preparare un nastro cancellatore?

— Lo sai che non voglio farmi pasticciare nella memoria, Manuel.

— Sì, scusa. Ora è meglio che tu vada.

— Ti amo — gli disse lei.

— Ti amo — confermò lui. Fece un cenno agli androidi. La presero per le braccia e l’accompagnarono al trasmat.

Manuel era rimasto solo nel centro di controllo, salvo il paio di beta giunto a sostituire provvisoriamente Thor Guardiano. Passò accanto a loro e si diresse all’ufficio privato di Thor, verso il fondo della cupola. Si chiuse la porta alle spalle e attivò il telefono per una chiamata. Lo schermo s’illuminò. Manuel fece la combinazione della comunicazione cifrata, e sullo schermo si disegnarono le forme astratte che testimoniavano della segretezza della telefonata. Quindi formò il numero di Lilith Mesone, alfa, residente nel ghetto androide di Stoccolma.

L’immagine di Lilith comparve sullo schermo: una donna snella ed elegante, con splendidi capelli corvini, naso aristocratico, occhi di platino. Anche il suo sorriso era splendido. — Manuel! Dove sei? — gli chiese.

— Sono alla torre. Temo che arriverò in ritardo.

Molto in ritardo?

— Due o tre ore.

— Seccherò. Appassirò.

— Non posso evitarlo, Lilith. Sua maestà mi ha ordinato di ispezionare l’impianto di Duluth. E devo andare.

— Anche se ho dovuto rimescolare tutti i turni di una settimana per passare la serata con te?

— Non potevo certo farglielo presente — disse Manuel. — Via, si tratta di poche ore. Mi perdoni?

— E cos’altro posso fare? Ma sarà brutto andartene in giro ad annusare vasche quando invece potresti essere qui a…

— La chiamano noblesse oblige. E, poi, mi è venuta una certa curiosità su come nascono gli androidi, da quando ti… cioè da quando noi… Sai, non sono mai stato in una fabbrica.

Mai?

— Mai. Non me ne sono mai interessato. E ancora non m’interessa, salvo che sotto un certo punto di vista: così potrò scoprire cosa si nasconde sotto la tua deliziosa pelle rossa. Potrò sapere come la Sintetici Krug crea un’infornata di Lilith.

— E sei sicuro di volerlo davvero sapere? — chiese lei. Bruscamente, il suo timbro di voce era sceso a quello di un violoncello.

— Voglio sapere tutto quel che si può sapere di te — confessò Manuel, schietto. — Bene o male che sia. Mi perdoni per il ritardo? Vado a Duluth a prendere lezione di Lilith. E ti amo.

— Ti amo — rispose Alfa Lilith Mesone al figlio di Simeon Krug.


Ore 11 e 58. Duluth. Il più grande impianto terrestre della Sintetici Krug, s.r.l. (ce n’erano quattro altri, su altri quattro continenti, e varie fabbriche sui pianeti), occupava un edificio grande e lustro, lungo quasi un chilometro, parallelo alla riva del Lago Superiore. All’interno dell’edificio, e funzionanti in pratica come province separate, c’erano i laboratori: le varie stazioni del tragitto con cui si creava sinteticamente la vita.

Manuel visitava ora tali stazioni come un proconsole inviato dalla capitale a giudicare il lavoro dei governatori locali. Procedeva entro una vettura a bolla, che avanzava leggera e che, all’interno, era confortevole e seducente come una regressione uterina. Il veicolo scivolava su binari fluidi che si estendevano per tutta la lunghezza dell’edificio, sospesi molto al di sopra del livello a cui si svolgevano le varie operazioni. Nell’abitacolo, accanto a lui, c’era il direttore umano della fabbrica: un uomo sui quarant’anni, ricciuto ed elegante, che si chiamava Nolan Bompensiero. Bompensiero, pur essendo uno degli uomini chiave nel regno di Krug, sedeva rigido, teso, chiaramente preoccupato di non riuscire a soddisfare Manuel. E non sospettava quanto pesasse a Manuel l’incarico affidatogli, quanto lo annoiasse l’impianto, quanto poco si curasse di impugnare il proprio potere per confondere i dipendenti paterni. Manuel aveva solo Lilith per la testa. Qui è nata Lilith, pensava. Lilith è nata così.

A ogni reparto della fabbrica, un alfa (direttore di sezione) entrava nel veicolo e accompagnava Manuel e Bompensiero fino al termine della zona a lui affidata. Quasi tutte le lavorazioni dell’impianto erano dirette da alfa; tutta la gigantesca installazione impiegava non più di una mezza dozzina di umani. E gli alfa avevano la stessa espressione tesa di Bompensiero.

Per prima cosa Manuel attraversò le stanze dove venivano sintetizzati i nucleotidi d’alta energia che costituivano il DNA: i mattoni dell’edificio della vita. Ascoltava senza troppa attenzione il rapido, nervoso fervorino di Bompensiero, afferrandone solo qualche frase qua e là.

— …acqua, ammoniaca, metano, acido cianidrico e altri composti chimici… impieghiamo scariche elettriche per stimolare la formazione di composti organici complessi… con l’aggiunta di fosforili…

“…si tratta di un processo molto semplice, quasi primitivo, no? Si svolge sulla falsariga del famoso esperimento di Miller del 1952… una sorta di scienza medievale, nelle vasche che lei può vedere proprio sotto di noi…

“…il DNA determina la struttura delle proteine cellulari. Una normale cellula vivente richiede centinaia di proteine, che in maggior parte svolgono funzione enzimatica: catalizzatori biologici…

“…una proteina tipica è una catena molecolare che contiene circa duecento amminoacidi come subunità, legati tra loro in una determinata sequenza…

“…della codificazione di ogni singola proteina si occupa un singolo gene, che a sua volta è una particolare regione della molecola lineare del DNA… ma, naturalmente si tratta di cose che lei già conosce, mi scuso se torno a ripetere dei concetti così elementari, ma, sa, desidero solo…”

— Certo — disse Manuel.

— …e in queste vasche formiamo i nucleotidi e li uniamo per ottenere i dinucleotidi, poi li mettiamo in fila per dar luogo al DNA, l’acido nucleico che determina la composizione delle…

Lilith, da queste vasche? Lilith, da quel puzzolente brodo di coltura?

Il veicolo avanzava senza scosse. Un direttore alfa ne discese, un altro alfa salì con un rigido inchino e un sorriso tirato.

Bompensiero spiegò: — La matrice originale DNA la forniamo noi, progettandola secondo le necessità. Essa costituisce il piano costruttivo della forma vivente che intendiamo creare. Il punto cruciale consiste nel portare alla replicazione spontanea la materia vivente, perché non potremmo certo costruire un androide cellula per cellula, una alla volta. Occorre raggiungere quello che chiamiamo il punto d’innesco. E certo lei ben saprà che il DNA non si occupa direttamente della sintesi proteica, che un altro acido nucleico fa da intermediario: l’RNA. Questo può venir codificato per trasportare il messaggio genetico fissato nel DNA…

“…quattro basi, cioè quattro subunità chimiche, disposte in combinazioni variabili formano il codice: adenina, guanina, uracile, citosina…

“…in queste vasche… e lei può quasi immaginare di vedere le catene molecolari mentre si formano… l’RNA trasmette le istruzioni del DNA… la sintesi proteica viene condotta da alcuni organelli infracellulari chiamati ribosomi, che sono metà proteine e metà RNA… adenina, guanina, uracile, citosina… le istruzioni per la sintesi di ciascuna proteina sono portate da un singolo gene, e quelle istruzioni, iscritte nell’RNA messaggero, hanno la forma di una serie di triplette delle quattro basi RNA… mi segue?”

— Sì, certo — disse Manuel, che in quella vasca vedeva nuotare Lilith.

— Ecco. Adenina, adenina, citosina. Citosina, citosina, guanina. Uracile, uracile, guanina. AAC, CCG, UUG: sembra quasi una litania religiosa, no, signor Krug? Abbiamo a disposizione sessantaquattro combinazioni delle basi RNA, da impiegare per contrassegnare i venti amminoacidi: un ottimo vocabolario! Potrei mettermi a salmodiare tutta la serie mentre attraversiamo questa sala. AAA, AAG, AAC, AAU. AGA, AGG, AGC, AGU. ACA…

L’alfa che li accompagnava tossì forte e si toccò l’inguine, con una smorfia.

— Eh? — fece Bompensiero.

— Un dolore improvviso — spiegò l’alfa. — Qualcosa che non ho digerito. Scusatemi.

Bompensiero ritornò a guardare Manuel: — Be’, non c’è bisogno di continuare tutta la sequenza. E così formiamo le proteine, vede, montando le molecole viventi esattamente nel modo in cui vengono montate in natura, salvo che in natura il processo è innescato dalla fusione dei gameti sessuali, mentre invece noi sintetizziamo i singoli mattoni genetici. E seguiamo lo schema genetico umano, è chiaro, perché vogliamo ottenere un prodotto finale simile all’uomo, ma potremmo sintetizzare, volendolo, maiali, rane, cavalli, proteinoidi centauriani: qualsiasi forma di vita, insomma. Scegliamo il codice genetico, prepariamo l’RNA e voilà, il prodotto finale vien fuori esattamente come desideriamo!

— E ovviamente — disse l’alfa — non seguiamo il codice genetico umano in tutti i punti.

Bompensiero si affrettò ad annuire. — Il mio collaboratore ci ha fatto notare un punto essenziale. Fin dall’inizio della sintesi degli androidi, suo padre, signor Krug, ha deciso che, per ovvie ragioni sociali, dev’essere possibile riconoscere la natura sintetica degli androidi. Per questo inseriamo talune modificazioni genetiche, indispensabili. La pelle rossa, l’assenza di pelo sull’epidermide, una differente struttura della pelle: tutte queste cose sono programmate solo per questioni di identificazione. Inoltre ci sono altre modificazioni, programmate per ottenere un’efficienza superiore. Visto che possiamo recitare la parte degli dèi, perché non approfittarne per ottenere il risultato migliore?

— Già, perché no? — disse Manuel.

— Abolire l’appendice, dunque. Aggiustare la struttura della pelvi e della colonna vertebrale per eliminare tutti i fastidi causati dai nostri difetti di costruzione. Sensi più acuti. Programmare il rapporto ottimale muscoli-grasso, bellezza fisica, durata, velocità, riflessi. Perché costruire androidi brutti? Perché costruirli lenti? Perché costruirli goffi?

— Vorrebbe dire — chiese Manuel, incidentalmente — che gli androidi sono superiori ai normali esseri umani?

Bompensiero non parve molto soddisfatto di quella domanda. Esitò a rispondere, come per soppesare le parole in vista delle loro connotazioni politiche, poiché ignorava la posizione di Manuel nei confronti della vexata quaestio dei diritti sociali degli androidi. Infine disse: — Penso che non vi siano dubbi sulla loro superiorità fisica. Fin dal concepimento li programmiamo perché siano forti, belli, sani. In parte la cosa è stata fatta anche sugli esseri umani, soprattutto nelle due ultime generazioni, ma lì non possiamo disporre dello stesso grado di controllo, o almeno non abbiamo cercato di disporne, perché teniamo presenti le varie obiezioni di tipo umanitario, l’opposizione dei ritiristi eccetera. Comunque, se lei considera che gli androidi sono sterili, che la loro intelligenza, nella stragrande maggioranza, è piuttosto bassa, che neppure gli alfa hanno mostrato… scusami, amico mio… molta capacità creativa…

— Certo — disse Manuel. — Certo. — Indicò il pavimento, molto al disotto della quota a cui viaggiavano. — Che lavorazione fanno, laggiù?

— Sono le vasche della replicazione — spiegò Bompensiero. — Le catene della materia nucleica fondamentale si dividono e si allungano. Ogni vasca contiene un brodo di zigoti concepiti da poco, giunti al punto d’innesco, prodotti dal nostro metodo di montaggio per mezzo di sintesi proteica invece che dal processo sessuale dell’unione dei gameti naturali. Sono stato chiaro?

— Chiarissimo — disse Manuel, che fissava affascinato il fluido lento e rosato contenuto nei grandi serbatoi circolari. Gli pareva quasi di riuscire a vedere minuscoli puntini di materia vivente: un’illusione, lo sapeva benissimo.

La vettura continuò ad avanzare senza rumore.

— Questi sono i vivai — spiegò Bompensiero, quando entrarono nel padiglione successivo e videro file su file di lucide cripte metalliche, collegate tra loro da una complessa ragnatela di tubi. — In sostanza si tratta di uteri artificiali: ciascuna camera di crescita contiene dodici embrioni in una soluzione di fluido nutritizio. Qui a Duluth produciamo alfa, beta e gamma: tutto l’assortimento degli androidi. Le differenze qualitative tra i tre gradi sono già inserite nella struttura genetica nel corso del processo originale di sintesi, ma forniamo anche diversi valori di sostanze nutritizie. Queste sono le sale degli alfa, qui sotto, a sinistra. A destra ci sono i beta, e nella prossima sala tutti gamma.

— E la proporzione tra loro?

— Un alfa per 100 beta e per 1000 gamma. È stato suo padre a calcolare la proporzione fin dall’inizio, e da allora non c’è mai stato bisogno di cambiarla. È perfettamente adatta alle necessità umane.

— Mio padre tiene sempre conto del futuro — disse Manuel, vagamente.

Si chiedeva che aspetto avrebbe avuto il mondo se le industrie Krug non gli avessero dato gli androidi. Probabilmente non sarebbe stato molto diverso da quello che era oggi. Invece di una piccola élite umana, culturalmente omogenea, servita da computer, da robot meccanici e da schiere di androidi servizievoli, ci sarebbe stata una piccola élite umana, culturalmente omogenea, servita solo da computer e da robot meccanici. Ma anche così, l’uomo del ventitreesimo secolo avrebbe avuto la vita facile lo stesso.

Talune tendenze determinanti erano già affiorate nei due secoli precedenti, molto prima che il prototipo di tutti gli androidi uscisse goffamente dalla sua vasca. Per prima cosa, con inizio verso la fine del ventesimo secolo, c’era stata una grande diminuzione della popolazione. Nelle guerre e nei disordini generalizzati erano morte centinaia di milioni di civili, in Asia e in Africa; la carestia aveva decimato quei continenti, e così pure il Sudamerica e il Vicino Oriente; nelle nazioni più sviluppate tecnicamente, le pressioni sociali e l’avvento di contraccettivi sicuri al cento per cento avevano dato lo stesso risultato. All’arresto del tasso d’incremento della popolazione aveva fatto seguito, nell’arco di due generazioni, una diminuzione sempre più marcata della popolazione effettiva.

L’erosione e poi la quasi totale scomparsa del proletariato era stata una delle conseguenze di questo stato di cose, mai prima verificatosi. Poiché il declino nella popolazione era stato accompagnato dalla sostituzione della macchina all’uomo in quasi tutte le forme di lavoro ripetitive e anche in qualcuna non tanto ripetitiva, coloro che non disponevano di particolari capacità per contribuire alla nuova società venivano scoraggiati dal riprodursi.

Non desiderati, privi di speranze, privi di un’effettiva collocazione sociale, i non istruiti e i non istruibili erano diminuiti da una generazione all’altra: un processo darwiniano di selezione che era stato incoraggiato, dapprima astutamente, e poi sempre più apertamente, da funzionari premurosi che si occupavano di non negare ad alcun cittadino il bene della contraccezione. Quando le masse erano divenute la minoranza, le leggi genetiche avevano fatto rispettare la tendenza. Coloro che si erano dimostrati inadatti non potevano avere discendenti; coloro che raggiungevano la media, e non di più, potevano avere due figli per famiglia, non di più; solo coloro che superavano la norma potevano contribuire alla razza umana. Fu così che il livello della popolazione rimase fisso. Fu così che i più intelligenti ereditarono la Terra.

Il nuovo aspetto della società toccava tutto il pianeta. L’avvento del viaggio trasmat aveva trasformato tatto il mondo in paese; la gente di quest’unico paese planetario parlava la stessa lingua (l’inglese) e nutriva lo stesso tipo di pensieri. Tendevano verso il meticciato, culturalmente e geneticamente. Qua e là si conservavano curiosi piccoli gruppi in cui le usanze del passato rimanevano incontaminate, soprattutto come attrattiva turistica, ma verso la fine del ventunesimo secolo c’erano poche differenze di aspetto, di atteggiamenti mentali o di cultura tra i cittadini di Karachi, Cairo, Minneapolis, Atene, Addis Abeba, Roma, Rangoon, Pechino, Canberra e Novosibirsk. Inoltre, il trasmat aveva reso un’assurdità i vecchi confini nazionali, e i vecchi concetti di sovranità si erano fusi tra loro.

Ma questo colossale sommovimento sociale, che aveva portato con sé l’ozio, la grazia e la comodità universale, aveva anche portato un’enorme, continua carenza di manodopera. I robot diretti da computer non si erano mostrati all’altezza di molte occupazioni: erano degli eccellenti spazzini e degli eccellenti operai, ma non erano altrettanto utili come camerieri, bambinaie, cuochi, giardinieri. Costruiamo robot migliori, diceva qualcuno; altri invece sognavano di poter essere serviti da esseri umani sintetici. E la cosa pareva tecnicamente possibile. L’ectogenesi (cioè lo sviluppo artificiale di embrioni al di fuori dell’utero, la nascita di bambini da uova e spermatozoi conservati in ibernazione) era già praticata da molto tempo, soprattutto per venire incontro ai desideri delle donne che non volevano lasciar cadere nell’oblio il proprio materiale genetico, ma che preferivano evitare la fatica e i rischi della gravidanza. Gli ectogeni, nati per procura da uomo e donna, avevano origine ancora troppo umana per servirsene come strumenti; ma perché non portare il procedimento al passo successivo, e fabbricare dei veri e propri androidi?

Era stato Krug a farlo. Egli aveva offerto al mondo gli esseri umani sintetici, molto più versatili dei robot: creature longeve, abili, fornite di personalità complessa, completamente sottomesse ai bisogni dell’uomo. Gli androidi venivano comprati, non assunti, e per consenso generale venivano considerati dalla legge come una proprietà, non come persone. In poche parole, erano schiavi. Manuel a volte pensava che sarebbe stato più semplice andare avanti con i robot. I robot erano delle cose che potevano venire trattate come cose e a cui si poteva pensare come a cose. Mentre invece gli androidi erano delle cose che avevano un aspetto imbarazzantemente vicino a quello degli uomini, e probabilmente non sarebbero rimasti per sempre sottomessi, disposti ad accettare la loro condizione di cose.

La vettura continuò a scivolare sul binario, percorrendo un padiglione dopo l’altro: vivai silenziosi, scarsamente illuminati, quasi vuoti tranne che per la presenza di alcuni sorveglianti androidi. Ogni nuovo androide passava i primi due anni di vita entro una camera come quella, spiegò Bompensiero, e le stanze che attraversavano contenevano gruppi successivi di età variabile da alcune settimane a venti mesi e più. In alcuni padiglioni le camere erano aperte; squadre di tecnici beta le preparavano ad accogliere nuove infusioni di zigoti allo stadio d’innesco.

— In questa stanza — disse Bompensiero, molti locali più avanti — c’è un gruppo di androidi maturi, pronti per “nascere”. Le interessa scendere fino a terra per vedere da vicino la decantazione?

Manuel annuì.

Bompensiero girò una levetta e la vettura si spostò dolcemente dai binari e scese una rampa. Quando si arrestò, tutti scesero. Manuel vide una truppa di gamma intorno a una delle camere vivaio. — Ora sono stati prosciugati i fluidi nutritizi contenuti nella camera. Da una ventina di minuti, gli androidi contenuti all’interno stanno respirando aria: la prima aria della loro vita. Adesso apriamo le valve della camera. Ecco; si avvicini, signor Krug, si avvicini pure.

La camera venne scoperchiata. Manuel guardò dentro.

Vide dodici androidi adulti (sei maschi e sei femmine), rilasciati sul fondo metallico. Avevano la bocca semiaperta, gli occhi vacui, e agitavano piano braccia e gambe. Sembravano inermi, vuoti, vulnerabili. Lilith! pensò. Lilith!

Bompensiero, al suo fianco, bisbigliò: — Nei due anni tra innesco e decantazione, l’androide raggiunge la piena maturità fisica. Lo stesso processo, per un essere umano, dura da tredici a quindici anni. Questa è un’altra delle modificazioni genetiche introdotte da suo padre, signor Krug, per motivi di economia. Non produciamo androidi bambini.

Manuel disse: — Mi pare di avere sentito da qualche parte che produciamo anche un tipo di androide bambino da allevare come sostituto, per donne che non possono…

La prego - ribatté seccamente Bompensiero. — Lasciamo stare queste… — e si fermò subito, ricordando solo allora chi aveva redarguito. Con voce più pacata riprese: — Personalmente, non saprei dirle molto su questo tipo di cose. In questo impianto non svolgiamo lavorazioni del genere.

I gamma sollevavano i dodici androidi neonati, togliendoli dalla camera vivaio e infilandoli in certi meccanismi cavi che sembravano un incrocio tra una sedia a rotelle e una corazza. I maschi erano snelli e muscolosi, le femmine erano slanciate, con seno alto. Ma c’era qualcosa di spaventoso nella loro assenza di mente. Completamente passivi, privi totalmente di spirito, gli androidi, nudi e umidicci, non offrivano alcuna reazione mentre venivano chiusi, uno alla volta, in quei ricettacoli meccanici. Rimaneva visibile solo la faccia, dietro una mascherina trasparente, e gli occhi che fissavano senza espressione.

Bompensiero spiegò: — Non sono ancora capaci di usare la muscolatura. Non sanno né stare in piedi, né camminare, né fare alcunché. Queste macchine d’addestramento stimoleranno la coordinazione muscolare. Dopo un mese di permanenza, un androide è capace di comandare il proprio corpo. Adesso, se torniamo alla vettura…

— Quegli androidi che abbiamo visto — disse Manuel. — Si trattava di gamma, no?

— Di alfa.

Manuel era sbalordito. — Ma mi sembravano così… così… — Non riusciva a pronunciare la parola. — Deficienti.

— Sono appena nati — disse Bompensiero. — Perché, lei si aspettava che uscissero dal vivaio già pronti per innestarsi a un computer?

Ritornarono alla vettura.

Lilith!

Manuel vide giovani androidi muovere i primi passi, e incespicare, e cadere, e ridere, e rimettersi in piedi e camminare meglio la seconda volta. Visitò un’aula scolastica dove la materia d’insegnamento era il controllo degli sfinteri. Osservò alcuni beta sonnolenti che si sottoponevano allo stampo di personalità: un’anima veniva incisa sulla loro mente informe. S’infilò un elmetto e ascoltò una lezione di lingua. L’istruzione di un androide, gli spiegarono, durava un anno per un gamma, due per un beta, quattro per un alfa. Il massimo, dunque, erano sei anni dal concepimento alla maturità. Non aveva mai pensato, prima di allora, alla rapidità del processo.

Per qualche motivo, questa nuova conoscenza gli rendeva gli androidi infinitamente meno umani. Il pacato, autorevole, imponente Thor Guardiano avrà nove o dieci anni, si disse Manuel. E l’adorabile Lilith Mesone ne avrà… quanti? Sette? Otto?

Manuel provò il desiderio di allontanarsi immediatamente da quel posto.

— C’è un gruppo di beta pronto per lasciare la fabbrica — disse Bompensiero. — Oggi sosterranno il controllo finale, con prove di precisione linguistica, coordinazione, risposte motorie, regolazione metabolica e altre. Forse vorrà condurre personalmente l’ispezione…

— No — disse Manuel. — È stata una visita molto piacevole. Ma le ho già rubato fin troppo tempo, e inoltre ho un appuntamento. Davvero, devo proprio…

Bompensiero non parve dispiaciuto di toglierselo dai piedi. — Come lei desidera — disse affabilmente. — E, naturalmente, siamo sempre a sua disposizione quando desidererà farci nuovamente visita, e…

— Per favore, dov’è la cabina trasmat?


Ore 22 e 41. Stoccolma. Passando in Europa, Manuel perse il resto della giornata. Una serata gelida, scura, era scesa su questa parte del globo; le stelle splendevano chiare e un vento di neve increspava le acque del Mälaren. Per escludere ogni possibilità di venire seguito, Manuel aveva formato le coordinate della cabina trasmat pubblica posta nella hall dello stupendo Grand Hotel. Poi, rabbrividendo, si era immerso rapidamente nella tenebra autunnale, aveva raggiunto un’altra cabina, accanto alla grande mole dell’Opera Royal, aveva appoggiato il pollice sulla piastra d’incasso e si era acquistato un passaggio per l’altra parte di Stoccolma. Era emerso nel tranquillo, giubilato distretto residenziale di Östermalm. Oggi quel quartiere era diventato il ghetto degli androidi. Scese in fretta la Birger Jarlsgatan e raggiunse la casa dove abitava Lilith: un palazzone del diciannovesimo secolo, che ai suoi tempi era stato un edificio lussuosissimo. Si fermò fuori dall’ingresso, si guardò attentamente alle spalle, vide che la strada era vuota, ed entrò rapidamente nell’androne. Dalla portineria, un robot lo scrutò e gli chiese con voce metallica, da rana, lo scopo della sua presenza. — Visita a Lilith Mesone, alfa — rispose Manuel. Il robot non fece obiezioni. Manuel poteva scegliere tra l’ascensore e le scale. Scelse le scale. Odore di muschio e ombre danzanti sulle pareti lo accompagnarono fino al quinto piano dove abitava Lilith.

Lilith lo accolse in un’elegante vestaglia variegata, aderentissima e lunga fino a terra. Poiché era una pellicola dello spessore di una molecola, non le nascondeva nessuna parte del corpo. Scivolò in avanti a braccia tese, le labbra socchiuse, il petto ansante, sussurrando il suo nome. Lui l’abbracciò.

La vide scivolare, come un piccolo grumo, sul liquido di una vasca.

La vide come una massa di nucleotidi in replicazione.

La vide nuda e umidiccia, con il vuoto negli occhi, uscire a passi incerti dalla camera vivaio.

La vide come una cosa, fabbricata dall’uomo.

Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa.

Lilith.

L’aveva conosciuta cinque mesi prima. Da tre erano amanti. Li aveva presentati Thor Guardiano. Lilith faceva parte dello staff di Krug.

Il corpo di lei premeva contro il suo. Manuel sollevò la mano e l’appoggiò sul seno. Il contatto era fermo, reale, tiepido oltre la vestaglia monomolecolare. Le sfiorò la pelle col pollice e la sentì alzarsi in eccitazione. Reale. Reale.

Una cosa.

La baciò, sfiorandole i denti, e sentì sulla lingua il sapore dei composti chimici. Adenina, guanina, citosina, uracile. Sentì nelle nari l’odore delle vasche. Una cosa. Una cosa. Una cosa bellissima. Una cosa in forma di donna. Proprio il nome adatto: Lilith. Una cosa.

Lei si sciolse dall’abbraccio. — Sei andato alla fabbrica — disse.

— Sì.

— E hai visto più cose sugli androidi di quanto non avresti voluto vederne.

— No, Lilith.

— E ora mi vedi con occhi diversi. Non puoi fare a meno di ricordare la mia realtà.

— Non è affatto vero — disse Manuel. — Lilith, ti amo. La tua realtà l’ho sempre saputa. E non ha mai fatto differenza. Ti amo. Ti amo.

— Prendi qualcosa? — chiese lei. — Un’erba? Un sollevato? Mi sembri un po’ scosso.

— No, grazie — rispose. — È stata una giornata lunga. Non ho neppure fatto colazione, e saranno quaranta ore che non dormo come Dio comanda. Mi basta solo un po’ di relax. Niente erba o sollevato. — Manuel si sfilò le fibbie dell’abito; lei lo aiutò a toglierselo. Poi Lilith azionò il doppler: la secca esplosione di ultrasuoni sciolse la trama della vestaglia e liberò la sua pelle, completamente rossa a eccezione delle macchie brune in punta ai seni. Aveva petto pieno, vita sottile; dai fianchi le luccicava un’impossibile promessa di fertilità. Una bellezza disumana, priva di difetti. Manuel lottò con l’arsura che si sentì salire alla gola.

Tristemente, lei disse: — Ho visto un cambiamento in te, nell’istante in cui mi hai toccato. Eri diverso. Ho sentito come un timore, un disgusto…

— No.

— Fino a oggi rappresentavo qualcosa di esotico, sì, ma di umano. Come un boscimano, che so, un eschimese. Non mi mettevi in un’altra categoria, fuori della razza umana. Ora pensi di esserti innamorato di un mucchio di composti chimici. Pensi che c’è qualcosa di torbido nella relazione con me.

— Lilith: smettila, ti prego. È solo immaginazione.

— Lo è davvero?

— Vengo da te. Ti bacio. Ti dico che ti amo. E adesso andiamo a letto insieme. Tu proietti un tuo senso di colpa, quando pensi che io…

— Manuel, cos’avresti detto, un anno fa, se un amico ti avesse confessato di essere andato a letto con un’androide?

— Conosco un mucchio di gente che c’è andata…

— Su, cos’avresti detto di lui? Che parole avresti usato? E cosa ne avresti pensato?

— Non ho mai badato a queste cose. Davvero. Non me ne sono mai interessato. Mai.

— Non sfuggire alla domanda. Ricorda quello che ci siamo promessi: di non dirci mai, tra noi due, quel tipo di innocenti bugie che la gente si dice sempre. Allora? Non puoi negare che, a ogni livello sociale, il rapporto sessuale tra uomini e androidi è considerato perversione. Magari l’ultima perversione rimasta sulla faccia della terra. Non ho ragione? Rispondi!

— D’accordo. — Incontrò gli occhi di lei. Non aveva mai visto una donna con occhi di quel colore. Lentamente, disse: — Molti pensano che andare a letto con gli androidi sia… dozzinale, volgare. L’ho sentito paragonare alla masturbazione. Come farlo con un manichino di gomma. E quando ho sentito questo tipo di affermazioni, ho sempre pensato che fossero stupide, spiacevoli manifestazioni di pregiudizio verso gli androidi. Per quel che riguarda me, naturalmente, non ho mai condiviso tale atteggiamento, altrimenti non mi sarei innamorato di te. — Una voce gli echeggiava nella mente, beffarda: Pensa alle vasche! Pensa alle vasche! Evitò di guardarla negli occhi; tenne fisso lo sguardo sullo zigomo. Aggiunse, cupo: — Lilith, ti giuro su tutto l’universo che non ho mai pensato che fosse vergognoso, o sporco, amare un’androide. E malgrado quel che dici di vedere in me dopo la visita alla fabbrica, ti ripeto che non lo penso neppure ora. Se vuoi che te lo dimostri…

La strinse a sé. Sulla sua pelle di seta, la mano gli scivolò giù, dal seno al fianco, all’addome. Lei si spostò leggermente, e lui serrò le dita sull’inguine, glabro come quello di una bambina; subito la diversità del contatto lo scosse: se ne sentì svirilizzato, anche se la differenza, prima, non gli aveva mai dato fastidio. Così liscio. Così tremendamente liscio. Abbassò gli occhi su quella pelle spoglia. Spoglia, sì, ma non perché ci fosse passato il rasoio. Spoglia come quella di una bambina. Come quella… di un’androide. Rivide le vasche. Vide gli alfa umidi e rossicci, gli occhi privi d’espressione. Si ripeté, caparbiamente, che amare un’androide non era peccato. L’accarezzò, e lei rispose come avrebbe risposto una donna, con l’ansia nel respiro, serrandogli la mano. Le baciò il petto e la strinse a sé. E subito gli parve di scorgere la bruciante immagine di suo padre, librata su di lui come una colonna di fuoco. Il vecchio demonio, il vecchio artefice! Che astuzia: inventare un prodotto simile! Un prodotto. Un prodotto che cammina, parla, seduce. Ansima nella passione, risponde fisiologicamente, questo prodotto. E io, che cosa sono? Un altro prodotto. Un mucchio di composti chimici, fabbricato con lo stesso stampo costruttivo… mutatis mutandis, certo. Adenina. Guanina. Citosina. Uracile. Partorito da una vasca o covato in un ventre, che differenza fa? Siamo una carne sola. Apparteniamo a razze diverse, ma la carne è sempre quella.

Il desiderio di lei gli ritornò, lo stordì. La girò, la piegò, la penetrò. Sentì le sue caviglie contro le gambe, si sentì stringere, serrare con reale passione. Ondeggiarono, salirono, veleggiarono insieme.

Infine, ridiscesi entrambi al plateau, lei disse: — Sono proprio stata una donnaccia…

— Come?

— La scenata di prima. Quando ti ho detto quel che dovevi avere per la testa.

— Scordatene, Lilith.

— Forse avevi ragione tu. Penso che fosse una proiezione dei miei timori. Forse mi sento in colpa perché sono l’amante di una persona umana. Forse voglio che tu pensi a me come a un manichino di gomma. Da qualche parte, dentro di me, devo vedermi così.

— No. No.

— Noi androidi non possiamo farne a meno. Lo mandi giù con l’aria che respiri. Mille volte al giorno siamo costretti a ricordare di non essere reali.

— Tu sei reale come tutti quelli che conosco, Lilith. Più reale di molti di loro. — Più reale di Clissa, pensò, ma non osò dirlo. — Lilith, non ti ho mai visto in questo stato. Cos’hai?

— La tua visita alla fabbrica — rispose lei. — Fino a oggi ero sicura che tu fossi diverso dagli altri. Che non avessi mai pensato, neppure per un momento, a come o a dove sono nata, o che ci fosse qualcosa di vergognoso in quel che c’è tra noi. Ma temevo che, dopo avere visto la fabbrica, dopo avere visto in dettaglio, clinicamente, tutto il processo, tu potessi cambiare. Poi, quando sei entrato, c’era qualcosa in te, qualcosa di gelido che non conoscevo… — Scosse le spalle. — Forse me lo sono immaginato. Sono certa di essermelo immaginato. Tu non sei come gli altri, Manuel. Tu sei un Krug; sei un re; non devi buttare giù gli altri per salire. Tu non dividi il mondo in uomini e androidi. Non lo hai mai fatto. E quella singola occhiata alle vasche non poteva cambiarti.

— Non poteva, certo — rispose lui, con la voce schietta che usava quando mentiva. — Gli androidi sono delle persone, e le persone sono delle persone, non ho mai pensato altrimenti e non lo penserò mai. E tu sei bellissima. E io ti amo molto. E chi crede che gli androidi siano una razza inferiore è un povero malato di mente.

— Sostieni la piena uguaglianza giuridica per gli androidi?

— Certo.

— Intendi dire androidi alfa, no? — chiese lei, maliziosamente.

— Io… ecco…

— Tutti gli androidi dovrebbero essere uguali agli esseri umani. Ma gli alfa dovrebbero essere più uguali degli altri.

— Vile! Mi prendi in giro…

— Prendo le difese delle prerogative degli alfa. Perché, un gruppo etnico oppresso non può stabilire distinzioni di classe nel proprio interno? Oh, ti amo, Manuel. Non prendermi sempre così sul serio.

— Non posso farne a meno. Sai, non sono intelligente come te, e non capisco mai se scherzi o no. — Le baciò la punta del seno. — Adesso devo andare.

— Ma sei appena arrivato!

— Mi dispiace moltissimo. Devo davvero andare.

— Sei arrivato in ritardo; abbiamo sprecato metà del tempo in quella discussione sciocca… rimani ancora un’ora con me, Manuel!

— Ho una moglie che mi aspetta in California — disse lui. — Ogni tanto, il mondo reale si fa sentire anche lui.

— E quando ci rivedremo?

— Presto. Presto. Presto.

— Dopodomani?

— Non credo. Ma presto, comunque. Ti chiamo io. — Si rivestì. Nella mente gli scoppiettavano quelle parole: Non sei come gli altri, Manuel… Non dividi il mondo in uomini e androidi. Era vero? Poteva essere vero? Le aveva mentito, chiaro: era marcio di pregiudizi e la visita a Duluth gli aveva spalancato nella mente una scatola di veleni. Ma forse avrebbe potuto superare queste cose con un atto di volontà. Si chiese se oggi non avesse trovato la vocazione che cercava. Che cosa avrebbero detto se il figlio di Simeon Krug avesse abbracciato la scottante causa dell’eguaglianza androide? Manuel il perdigiorno, l’ignavo, il playboy, trasformato in Manuel il crociato? Si baloccò con quel pensiero. Chissà. Era una buona occasione per togliersi il marchio della superficialità. Una causa, una causa, finalmente una causa! Chissà. Lilith lo accompagnò alla porta; si baciarono ancora, e la sua mano lo accarezzò; chiuse gli occhi. Ma, costernato, vide stagliarsi davanti a sé la sala delle vasche, e l’immagine di Nolan Bompensiero gli balenò nel cervello, spiegandogli affabilmente come s’insegnava agli androidi freschi di decantazione l’arte di controllare lo sfintere anale. Ferito, si sciolse dall’abbraccio di Lilith. — Presto — ripeté. — Ti chiamo io. — E uscì.


Ore 16 e 44. California. Uscendo dalla cabina trasmat, si trovò nell’atrio della propria casa, sulle lastre d’ardesia del pavimento. Il sole del pomeriggio stava quasi per affondare nel Pacifico. Tre androidi corsero subito da lui, portandogli un cambio d’abito, una tavoletta rinfrescante, un giornale. — Dov’è la signora Krug? — chiese. — Ancora addormentata?

— È alla spiaggia — lo informò un valletto beta.

Manuel si cambiò in fretta, prese il rinfrescante, scese alla marina. Clissa, a un centinaio di metri di distanza, diguazzava fra le onde. Tre uccelli dalle lunghe zampe le giravano intorno, e lei li chiamava, rideva, batteva le mani. La raggiunse senza essere visto. Al confronto con le forme voluttuose di Lilith, Clissa pareva malignamente immatura: cosce magre, fianchi piatti da adolescente, seno da dodicenne. Il triangolo nero alla base del ventre sembrava un’assurdità, una cosa fuori posto. Una bambina per moglie, pensò lui, e una donna di plastica per amante. — Clissa? — disse.

Lei si voltò. — Oh! Mi hai spaventato!

— Ti piace l’oceano? Ma l’acqua non è un po’ troppo fredda in questa stagione?

— No, per me non è mai troppo fredda, Manuel, lo sai. E tu, ti sei divertito alla fabbrica degli androidi?

— Era interessante — rispose lui. — Come ti senti? Meglio, mi pare.

— Meglio? Perché, stavo male?

Lui la fissò, sorpreso. — Stamane, alla torre. Tu eri… be’, un po’ scossa.

— Oh, quello! Non ci pensavo più. Dio, è stato terribile, no? Hai l’ora, Manuel?

— Le cinque meno dieci, minuto più minuto meno.

— Allora è meglio che cominci a prepararmi. Abbiamo quel ricevimento a Hong Kong.

Fu costretto ad ammirare l’abilità con cui Clissa riusciva a scrollarsi di dosso i traumi. Disse: — Adesso è ancora mattino, a Hong Kong. Non c’è fretta.

— Be’, allora perché non ti fai una nuotata con me? L’acqua non è fredda come credi. Oppure potremmo… — S’arrestò. — Non mi hai neppure abbracciato per salutarmi!

— Ciao — disse lui.

— Ciao. Ti amo.

— Ti amo — rispose. Baciarla era come baciare alabastro. Sentiva ancora sulle labbra il gusto di Lilith. Chi è la donna viva, appassionata, si chiese, e chi è la cosa fredda, artificiale? Nello stringere la moglie non provava nessuna sensazione. La lasciò. Lei gli prese il polso, lo tirò verso l’acqua: nuotarono un poco, e lui ne uscì raggelato, con i brividi. Al crepuscolo, presero un aperitivo nell’atrio. — Mi sembri così distante — gli disse lei. — È tutto quel viaggiare trasmat. Ti toglie le forze, anche se il dottore dice di no.

Per il ricevimento della sera, Clissa si mise al collo un tesoro unico: una collana di perle oblunghe, vetrose e opache. Una trivella stellare delle Imprese Krug, a 7,5 anni luce dalla Terra, aveva raccolto quei pezzi di materia dalla superficie dell’Astro di Volker, calcinato e morente. Krug li aveva regalati alla nuora come dono nuziale. Quale altra donna portava una collana di pezzi di stella? Ma nell’ambiente frequentato da Clissa i miracoli erano all’ordine del giorno: nessuno dei loro amici parve notare la collana. Manuel e Clissa rimasero al ricevimento fin dopo la mezzanotte ora di Hong Kong e, quando tornarono a Mendocino, in California era già mattino inoltrato. Programmate otto ore di sonno, si chiusero in camera. Manuel aveva perso il conto del tempo, ma sospettava di essere rimasto sveglio per ventiquattr’ore filate, anche più. A volte la cultura del trasmat comincia a pesare un po’ troppo, si disse, e chiuse le tende alla luce del giorno.

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