20

— Un nuovo segnale — disse Vargas. — Leggermente diverso. Abbiamo cominciato a riceverlo questa notte.

— Aspettami — disse Krug. — Vengo da te.

Era a New York. Quasi immediatamente passò nell’osservatorio di Vargas in Antartide, costruito sul pianoro polare in un punto equidistante dal Polo e dalle residenze della Costa di Knox. Alcuni sostenevano che la civiltà trasmat impoveriva la vita da una parte mentre la arricchiva dall’altra: l’effetto theta ti faceva passare agilmente dall’Africa all’Australia, al Messico, alla Siberia con un singolo passo di danza, ma ti toglieva ogni vero senso del luogo e del passaggio, e così pure ogni concetto geografico del pianeta. Trasformava la Terra in una singola, infinita cabina trasmat. Krug si era ripromesso varie volte di fare il giro del mondo in aeroplano, per vedere il deserto sfumare nella prateria, la foresta nella tundra spoglia, la montagna nella pianura. Ma non si era mai deciso a trovare il tempo necessario.

L’osservatorio era costituito da una serie di eleganti cupole, bianche e lucide, poggiate su una coltre di ghiaccio spessa due chilometri e mezzo. Tunnel scavati nel ghiaccio collegavano tra loro le cupole e davano accesso alle apparecchiature esterne: il vasto cerchio dell’antenna parabolica del radiotelescopio; la rete metallica del ricevitore di raggi X; lo specchio che raccoglieva le trasmissioni dell’osservatorio orbitante, librato a grande altezza sul Polo Sud; il tozzo, corto telescopio ottico a diffrazione multipla, le tre punte dorate dell’antenna per le frequenze idrogeno; la rete sospesa di un sistema multiradar e tutto il resto degli strumenti che occorrevano agli astronomi per fare la guardia all’universo. Invece di usare nastri refrigeranti per evitare la fusione del ghiaccio sotto le costruzioni, lì era stata impiegata una singola piastra scambiatrice di calore per ciascuna delle strutture, cosicché ogni edificio era una piccola isola sul vasto ghiacciaio.

Nell’edificio centrale c’era un mucchio di apparecchi che ronzavano, ticchettavano e lampeggiavano. Krug non capiva molto di quella strumentazione, ma ne ricavava un’impressione debitamente scientifica. C’erano molti tecnici che si aggiravano affaccendati; un alfa, fermo su un balzo da capogiro, si faceva leggere dei numeri da alcuni beta sotto di lui; ogni tanto s’accendeva un breve sprazzo di luce rossa all’interno di una serpentina di vetro lunga una ventina di metri, e a ogni scarica scattavano numeri rossi e verdi su un contatore.

Vargas disse: — Osserva la serpentina a radon. Registra gli impulsi ricevuti. Ecco. Inizia un nuovo ciclo, lo vedi?

Krug contemplò la registrazione degli impulsi.



— È completo — disse Vargas. — Adesso c’è una pausa di sei secondi, poi ricomincia.

— 2-5-1, 2-3-1, 2-1 — disse Krug. — E prima era 2-4-1, 2-5-1, 3-1. Hanno eliminato completamente il gruppo con il 4, hanno spostato all’inizio del ciclo il gruppo con il 5, hanno completato il gruppo del 3, hanno aggiunto un impulso nel gruppo finale… accidenti, Vargas, ma che senso ha? Cosa significa?

— Non abbiamo individuato nel nuovo messaggio più contenuti di quanti non ne avessimo individuati nel primo. Entrambi hanno fondamentalmente la stessa struttura. Solo una piccola alterazione…

— Ma deve significare qualcosa!

— Forse sì.

— E come possiamo scoprirlo?

— Glielo chiederemo — disse Vargas. — Presto. Per mezzo della tua torre.

Krug lasciò cadere le spalle. Si piegò in avanti, afferrò le manopole lisce e fredde, verdi, di un incomprensibile strumento che sporgeva dalla parete. Quei messaggi hanno 300 anni — disse, cupo. — Se il loro pianeta è come dici tu, è come se per noi fossero 300 secoli. Anche più. Non ricorderanno il messaggio inviato dai loro antenati. Saranno mutati in modo incomprensibile.

— No. Una continuità ci dev’essere. Non potrebbero avere raggiunto il livello tecnologico necessario per inviare messaggi interstellari, se non fossero capaci di conservare il ricordo delle generazioni precedenti.

Krug si voltò di scatto: — Sai cosa dico? La nebulosa planetaria, il sole azzurro… continuo a credere che non possa ospitare degli esseri intelligenti. Anzi, che non possa ospitare nessuna forma di vita! Ascolta. Le stelle azzurre durano poco, Vargas. La superficie di un pianeta richiede milioni di anni solo per raffreddarsi quanto basta per solidificare. Con un sole azzurro non ce n’è affatto il tempo. E se quel sole ha un pianeta, quel pianeta è ancora allo stato magmatico. Vorresti farmi credere che i segnali provengono da un popolo che vive su una sfera di fuoco?

Vargas disse, piano: — Quei segnali provengono da NGC 7293, la nebulosa planetaria in Acquario.

— E ne sei sicuro?

— Sicurissimo. Posso mostrarti tutti i dati, se vuoi.

— Lascia stare. Ma come fanno? Una sfera di fuoco…

— Non è detto che sia una sfera di fuoco. Forse alcuni pianeti si raffreddano prima degli altri. Non possiamo sapere quanto ci abbia messo a raffreddarsi. Non sappiamo la distanza che separa il pianeta dal suo sole. Alcuni modelli suggeriscono la possibilità che un pianeta possa raffreddarsi abbastanza in fretta, anche con un sole azzurro, da…

— È una sfera di fuoco, quel pianeta — ripeté Krug, ostinato.

Vargas, ora sulla difensiva, disse: — Forse. Ma forse no. E anche se lo fosse, credi che tutte le forme di vita debbano abitare pianeti dalla superficie solida? Si possono benissimo immaginare civiltà di esseri delle alte temperature, evoluti su mondi che non si sono ancora raffreddati. Se…

Krug sbuffò. — E hanno trasmettitori fatti di metallo liquido? — disse.

— Non è detto che quei segnali siano prodotti con uno strumento meccanico. Supponiamo che riescano ad alterare la struttura molecolare delle…

— Professore, tu mi racconti favole. Vado da uno scienziato e ascolto delle favole!

— In questo momento, le favole sono l’unico modo per spiegare i dati in nostro possesso — disse Vargas.

— Ma sai benissimo che la spiegazione dev’essere più plausibile! So solo che riceviamo dei segnali, e che i segnali giungono dalla nebulosa planetaria, fuor d’ogni dubbio. So bene quanto la cosa sia poco plausibile. Ma non è detto che l’universo debba sempre essere plausibile. Non è detto che i suoi fenomeni debbano sempre avere una spiegazione immediata. Il trasmat non sarebbe stato plausibile per uno scienziato del diciottesimo secolo. Noi raccogliamo dati come meglio possiamo, e poi cerchiamo di spiegarli con delle ipotesi; a volte queste ipotesi sono piuttosto azzardate, perché i dati a disposizione sembrano privi di senso, tuttavia…

— L’universo non bara — disse Krug. — L’universo gioca onesto!

Vargas sorrise. — Non c’è dubbio. Ma per riuscire a spiegarci la NGC 7293 occorrono altri dati. Per ora dobbiamo accontentarci delle favole.

Krug assentì. Chiuse gli occhi e accarezzò manopole e contatori, mentre sfrigolava, divampava, ribolliva nel suo intimo un’impazienza rabbiosa, mostruosa. Ehi, voi gente delle stelle! Ehi, voi che mandate i segnali! Chi siete? Dove siete? Maledizione, voglio saperlo!

Cosa volete dirci?

Cosa state cercando?

Cosa significa tutto ciò? E se morissi senza scoprirlo!

— Sai cosa vorrei fare? — riprese d’improvviso Krug. — Vorrei andare fuori, nel tuo radiotelescopio. Arrampicarmi sul suo grande disco. E portare le mani alla bocca per gridare dei numeri a quei bastardi. Com’è il segnale, adesso? 2-5-1, 2-3-1, 2-1? Mi fa impazzire. Dovremmo rispondere subito. Mandare numeri: 4-10-2, 4-6-2, 4-2. Tanto per fargli vedere che siamo qui. Tanto per farglielo sapere.

— Con una trasmissione radio? — chiese Vargas. — Ci vogliono trecento anni perché arrivi. Presto la torre sarà finita.

— Già, presto. Presto. Dovresti vederla. Vieni a farle una visita, la prossima settimana. Stanno montando le nuove macchine. Presto parleremo con quei bastardi.

— Vuoi sentire l’arrivo del segnale in audio? Voglio dire, del nuovo segnale?

— Certo.

Vargas premette un interruttore. Dagli altoparlanti sulla parete del laboratorio venne un sibilo secco e freddo: il suono dello spazio, la voce dell’abisso e della tenebra… Quel suono faceva pensare alla pelle vecchia, abbandonata, di un serpente. Al di sopra di quel suono rinsecchito, qualche secondo dopo, vennero alcune dolci note a frequenza superiore. Bit bit. Pausa. Bit bit bit bit bit. Pausa. Bit. Pausa. Pausa. Bit bit. Pausa. Bit bit bit. Pausa. Bit. Pausa. Pausa. Bit bit. Pausa. Bit. Silenzio. E poi, di nuovo, bit bit: l’inizio del ciclo successivo.

— Bellissimo — sussurrò Krug. — La musica delle sfere. Ah, quei misteriosi bastardi! Senti, professore, vieni a vedere la torre la prossima settimana… martedì prossimo. Ti farò chiamare da Spaulding. Rimarrai sbalordito. E, senti, qualsiasi cosa di nuovo, qualsiasi cambiamento nel segnale: voglio esserne subito informato!

Bit bit bit.

Si diresse al trasmat.

Bit.

Krug balzò a nord, lungo il meridiano, seguendo la linea dei 90 gradi est: doppiò il Polo Nord ed emerse a fianco della sua torre. Era passato da un pianoro gelato a un altro pianoro gelato, dal fondo del mondo alla sua cima, dalla tarda primavera all’inizio dell’inverno, dal giorno alla notte. Dappertutto c’erano androidi affaccendati. La torre, dalla visita del giorno precedente, pareva essere cresciuta di una cinquantina di metri. Il cielo sfolgorava di piastre luminose. Il canto di NGC 7293 riecheggiava seducente nella mente di Krug. Bit bit. Bit.

Al centro di controllo trovò Thor Guardiano, innestato al calcolatore. L’alfa, che non poteva accorgersi della presenza di Krug, sembrava perso in un sogno narcotico, afferrato ai precipizi di qualche lontana superficie d’intervento uomo-macchina. Un beta dall’aria intimorita si offrì d’inserirsi nel circuito per avvertire Thor, mediante il computer, che era arrivato Krug. — No — disse Krug. — Adesso è occupato. Lascialo lavorare. — Bit bit bit bit bit. Si soffermò alcuni istanti a osservare il gioco delle espressioni che si rincorrevano sul calmo volto di Thor. Chissà cosa passava per la mente dell’alfa in quel momento? Numeri di spedizione, registri di carico trasmat, deformazioni da saldatura, bollettini meteorologici, preventivi di costo, coefficienti di sforzo, dati sul personale. Krug si sentì sbocciare nel petto un forte orgoglio. E perché no? C’era un mucchio di cose di cui andare orgoglioso. Era stato lui a costruire gli androidi, e gli androidi costruivano la torre, e presto la voce dell’uomo sarebbe giunta alle stelle.

Bit bit bit. Bit.

Con affetto, e con una punta di sorpresa lui per primo, strinse in un rapido abbraccio le larghe spalle di Thor. Poi uscì. Rimase qualche tempo nella gelida oscurità, a rimirare l’attività frenetica che si svolgeva a ogni livello della torre. Sulla cima stavano montando altri blocchi con un ritmo febbrile. All’interno, le piccole figure spostavano gli schermi per neutrini, univano le grandi barre di rame, posavano le solette, estendevano verso l’alto il sistema di condizionamento e d’illuminazione. Dalla notte gli giungeva una ritmica pulsazione: tutti i rumori del cantiere si fondevano in un singolo ritmo cosmico, un profondo ronzio che saliva regolarmente a un vertice d’intensità. Nella mente di Krug s’incontravano i due suoni, quello interiore e quello proveniente dall’esterno: boom, bit; boom, bit; boom, bit.

Si avviò verso il trasmat, senza badare alle gelide folate del vento artico.

Non c’è male, per un poveraccio senza molta istruzione, si disse. La torre. Gli androidi. Tutto. Ricordò il Krug di quarantacinque anni prima: il Krug che cresceva da miserabile in una cittadina dell’Illinois con ancora l’erba in mezzo alla strada. Non pensava affatto a mandare messaggi alle stelle, allora. Desiderava solo dare uno scopo a se stesso. Non era nessuno, allora. Che Krug! Pelle e ossa. Pustoloso. Ignorante. A volte, nelle olotrasmissioni, sentiva dire che l’umanità si affacciava su una nuova Era dell’oro: bassi livelli di popolazione, assenza di tensioni sociali e razziali, tutta una legione di servomeccanismi per fare i lavori più faticosi. Sì. Sì. Bello. Ma anche in un’epoca dorata come quella, qualcuno rimaneva sempre al fondo della piramide; come Krug. Orfano di padre a cinque anni. La madre sempre sbronza a forza di sollevati, di stimolatori sensoriali, di pillole oniriche di tutte le specie. Qualche soldo entrava, non molti, da un ente assistenziale. Robodomestici? Neanche l’ombra: i robot li avevano gli altri. Buona parte delle volte, persino il terminale col notiziario non funzionava perché non avevano pagato la bolletta. Il suo primo trasmat l’aveva usato quando aveva diciannove anni. Non si era mai allontanato dall’Illinois. E ricordava com’era allora: scontroso, chiuso in se stesso, perfino un po’ strabico; a volte passava settimane intere senza parlare con anima viva. Non leggeva. Non giocava. Però sognava; sognava sempre. Aveva fatto le scuole in un alone di rabbia, senza imparare nulla. Poi si era scosso lentamente a quindici anni, spinto da quella stessa rabbia, e l’aveva rivolta all’esterno invece di lasciarla incancrenire: Ve lo faccio vedere io, cosa sono capace di fare. Vi metto a posto tutti! Si era programmato da solo gli studi. Tecnologia dei servomeccanismi. Chimica. Non si era preoccupato di studiare le scienze fondamentali: aveva imparato a mettere insieme le cose. Dormire? E chi se ne fa niente del dormire? Studiare. Studiare. Sgobbare. Costruire. Un’eccezionale capacità di comprendere il funzionamento delle cose: così avevano definito il suo genio. Aveva trovato un finanziatore a Chicago. Tutti dicevano che l’epoca del capitalismo privato era finita, che era finita l’epoca delle invenzioni individuali. Ma lui era riuscito ugualmente a costruire un robot migliore degli altri. Krug sorrise, ricordando: il viaggio trasmat a New York, le riunioni, gli avvocati. E poi i soldi in banca. Il nuovo Edison. Aveva diciannove anni. Si era riempito di strumenti il laboratorio e aveva adocchiato un progetto più ambizioso. A ventidue anni aveva intrapreso la costruzione degli androidi. C’era voluto un mare di tempo. E proprio in quegli anni, dalle stelle più vicine, erano cominciate a ritornare le sonde, vuote. Nessuna forma progredita di vita, salvo la nostra. Ormai la sua posizione finanziaria era solida: poteva distrarre la propria attenzione dagli affari, concedersi il lusso di pensare al posto dell’uomo nel cosmo. Ci aveva pensato. Si era opposto alle teorie di moda, sull’unicità dell’uomo. E aveva continuato a lavorare, pasticciando con gli acidi nucleici, mescolando, curvandosi sulle centrifughe, sforzandosi gli occhi, affondando le mani in provette piene di composti organici, legando insieme le catene proteiche, avvicinandosi sempre più al successo. Perché credere che l’uomo sia solo nell’universo, visto che l’uomo stesso può creare la vita? Guardate come si fa presto! Ecco, l’ho fatto: sono forse Dio? Le vasche si scuotono. Viola, verde, oro, rosso, blu. E alla fine ne esce la vita. Gli androidi sorgono incerti dalla schiuma dei composti chimici. Fama, Denaro. Potere. La moglie; il figlio; l’impero industriale. Proprietà su tre pianeti e cinque lune. Tutte le donne che vuole. Era cresciuto fino a raggiungere le proprie fantasticherie di adolescente. Krug sorrise. Il giovane Krug, rachitico e pustoloso, era ancora lì, dentro all’uomo massiccio, ed era sempre rabbioso, ribelle, appassionato. Gliel’hai fatta vedere, no? Gliel’hai fatta vedere! E adesso raggiungerai gli uomini delle stelle. Bit bit bit. Boom. La voce di Krug che supera gli anni luce. “Pronto? Pronto? Ehi, voi, pronto! Qui parla Simeon Krug!” Guardando all’indietro nel tempo, vide la propria vita come un singolo processo definito, senza interruzioni e senza deviazioni, verso quell’unica meta. Se non l’avessero mosso quelle forti, indefinite ambizioni, oggi gli androidi non sarebbero esistiti. E senza gli androidi non ci sarebbe stato un numero sufficiente di operai specializzati per costruire la torre. E senza la torre…

Entrò nella cabina trasmat più vicina e regolò le coordinate senza pensarci: lasciò che le dita scegliessero automaticamente la destinazione. Uscì dal campo e si trovò nella residenza californiana del figlio Manuel.

Non aveva pensato a far visita al figlio. Rimase immobile, batté gli occhi al sole del pomeriggio e rabbrividì al tocco dell’atmosfera tiepida sulla pelle, che fino a pochi istanti prima era esposta ai rigori dell’Artico. Aveva sotto i piedi un pavimento di lastre d’ardesia; le pareti ai suoi fianchi erano due ondeggianti turbini di luce prodotta dai proiettori polifasici installati nelle fondamenta; sopra di lui non c’era il tetto, ma solo un campo di repulsione regolato sui toni alti dello spettro: si scorgevano, al di là, i rami carichi di frutti di un albero con foglie piumose, verde scuro. Sentiva il ruggito della risacca. Cinque o sei domestici androidi, intenti alle faccende quotidiane, si arrestarono e lo fissarono a bocca aperta. Sentì un mormorio intimorito: “Krug… Krug…”

Giunse Clissa. Indossava una veste verde e vaporosa che le rivelava il seno piccolo e alto, i fianchi ossuti, le spalle strette. — Non mi avevi detto che saresti venuto…

— Sono venuto così, d’impulso.

— Ti avrei preparato qualcosa!

— No, lascia stare: non mi serve nulla di particolare… Ho fatto un salto qui, ecco tutto. Manuel è…

— No, non c’è.

— Ah. E dov’è?

Clissa scrollò le spalle. — Fuori. Affari, credo. Non arriverà prima di sera, penso. Posso offrirti…

— No. No. Che bella casa avete, Clissa. Accogliente. Vera. Tu e Manuel dovete essere proprio felici qui. — Rivolse uno sguardo alle sue forme sottili. — Ed è un così bel posto per avere bambini. La spiaggia… il sole… gli alberi…

Un androide portò due poltroncine chiare come specchi: le schiuse e le fissò con gesto collaudato. Un altro aprì la cascata che scrosciava dietro la casa. Un terzo accese una candela aromatica: odore di garofano e di cinnamomo si diffuse nel cortiletto. Un quarto offrì a Krug un vassoio di dolci lattiginosi. Krug scosse la testa. Rimase in piedi, e così pure Clissa. Clissa pareva a disagio.

Rispose: — Siamo ancora sposini, sai. Abbiamo tempo per i bambini…

— Siete sposati da due anni, no? È abbastanza lunga, come luna di miele!

— Be’…

— Almeno chiedete il certificato. Potreste cominciare a pensare ai figli. Voglio dire, sarebbe ora che voi… sarebbe ora che io… un nipote…

Clissa serrò le dita sul vassoio e glielo presentò. Il suo volto era impallidito; i suoi occhi parevano due opali in una maschera di ghiaccio. Krug scosse ancora la testa.

Disse: — Comunque, tutto il lavoro di allevare i figli lo farebbero gli androidi. E se non vuoi affaticarti puoi sempre averli per ectogenesi.

— Scusami — disse lei, piano. — Ne abbiamo già parlato altre volte. Oggi sono un po’ stanca.

— Mi spiace. — Si diede dello sciocco perché aveva insistito troppo. Il suo solito errore: la diplomazia non era il suo forte. — Non ti senti bene?

— No, solo un po’ di stanchezza — disse lei, senza convincerlo. Parve fare uno sforzo per mostrare più volontà. Fece un gesto, e uno dei beta versò una catasta di cerchietti metallici, luccicanti, che ruotavano misteriosamente su un asse nascosto: una nuova scultura, si disse Krug. Un altro androide regolò le pareti, e subito lui e Clissa si trovarono immersi in un cono di calda luce ambrata. Una musica accarezzò l’aria, proveniente da una nube sfavillante di ripetitori che galleggiavano, minuti come polvere, nell’aria del cortile. Clissa disse, con più enfasi del necessario: — Come va la tua torre?

— Bellissima. Bellissima. Dovresti vederla.

— Sì, potrei venire la prossima settimana. Se non fa troppo freddo. È già arrivata a 500 metri?

— Di più, di più. E continua a salire. Ma per me non farà mai abbastanza in fretta. Sono ansioso di vederla terminata, Clissa. Di poterla usare. L’impazienza mi fa quasi star male.

— Mi sembri un po’ teso, oggi — disse lei. — Rosso, eccitato. Qualche volta dovresti rallentare un po’ il ritmo.

— Rallentare il ritmo? E perché? Sono così vecchio? — Si accorse che aveva gridato. In tono più sommesso, aggiunse: — Sì, forse hai ragione. Non lo so. Ma ora è meglio che me ne vada. Non voglio portarti via altro tempo. Desideravo solo farvi una visita. — Bit bit. Boom. - Di’ a Manuel che non c’era nessuna ragione particolare, d’accordo? Tanto per dare un saluto. Quand’è che ci siamo visti l’ultima volta? Due settimane, tre. Non l’ho più visto. Da quando è uscito fuori da quel suo salone di trasferimento. A volte un uomo ha anche voglia di vedere il figlio. — L’abbracciò d’impulso, la trasse a sé, le fece una carezza. Gli sembrava di essere un orso che accarezzava una silfide. Attraverso la veste sottile, sentiva la pelle di lei, gelida. Era tutta ossa. Se l’avesse stretta troppo l’avrebbe spaccata in due… Chissà quanto pesava, cinquanta chili? Macché, meno. Ha il corpo di una bambina. Magari non può neppure averne, di figli. Krug si scoprì a cercare di immaginare Manuel a letto con lei, e subito rifiutò quel pensiero, stupito. Le baciò una gota gelida. — Prenditi cura di te — disse. — Anch’io farò lo stesso. Prendiamoci cura tutt’e due, riposiamoci. Salutami Manuel.

Corse al trasmat. Dove andare, ora? Krug si sentiva febbricitante. Gli bruciavano le guance. Era alla deriva, galleggiava nell’ampio petto del mare. Una serie di coordinate trasmat gli si affacciava alla mente; frenetico, le compose sulla macchina. Bit. Bit. Bit. Lo squamoso fruscio delle stelle gli pungeva il cervello. 2-5-1, 2-3-1, 2-1. Pronto? Pronto? L’effetto theta lo inghiottì.

Al passo successivo si trovò in una caverna immensa, stantia.

C’era un soffitto alto chilometri e chilometri, opaco per la distanza. C’erano pareti metalliche, color giallo sporco e riflettenti, che si incurvavano verso un lontano punto di convergenza, Un’illuminazione aspra, brillante e instabile. L’aria era macchiata di ombre dentate. Si sentivano rumori di costruzione: crac, tum, pin; bruum. C’erano androidi al lavoro, dappertutto. Si avvicinavano a lui, si fermavano a una certa distanza, lo fissavano con timore, dandosi colpi di gomito, sussurrando: “Krug… Krug… Krug…”. Cos’avranno gli androidi da guardarmi tutti così? Rivolse loro un’occhiataccia. Si sentiva madido di sudore. Aveva le gambe malferme. Bisogna che mi faccia dare da Spaulding un tranquillante: ma Spaulding chissà dov’è. Oggi Krug viaggiava da solista.

Davanti a lui comparve un alfa: — Non ci aspettavamo il piacere di una vostra visita, signor Krug.

— Un capriccio. Sono di passaggio, tanto per dare un’occhiata. Scusa, come ti chiami?…

— Romolo Fusione, signore.

— Che forza di lavoro hai, Alfa Fusione?

— Settecento beta, signore, e novemila gamma. Gli alfa sono pochi, qui: per la maggior parte dei lavori di sorveglianza ci affidiamo ai sensori. Posso accompagnarvi, signore? Preferite vedere le vetture lunari o i moduli gioviani? O forse l’astronave?

L’astronave. L’astronave. Krug finalmente comprese dov’era: a Denver, nel principale centro nordamericano per la produzione di veicoli speciali delle Imprese Krug. In quell’enorme sotterraneo venivano fabbricati i mezzi di trasporto da impiegare in tutti quei casi in cui il trasmat si mostrava insufficiente: trattori oceanici, trasporti terrestri, alianti stratosferici, rimorchiatori pesanti, moduli batisferici per mondi ad alta pressione, propulsori ionici per viaggi interplanetari, sonde interstellari, celle gravitazionali, razzi atmosferici, minirotaie, trivelle stellari. Qui, inoltre, una squadra scelta progettava da sette anni la prima nave interstellare con equipaggio umano. Negli ultimi tempi, con la costruzione della torre, il progetto dell’astronave era stato un po’ trascurato, ricordò Krug.

— L’astronave — disse. — Sì, proprio quella. Vediamola.

Un sentiero si aprì tra i beta per lasciarlo passare, e Romolo Fusione lo accompagnò a una piccola vettura a bolla. L’alfa si mise ai comandi; scivolarono senza rumore sul pavimento dell’impianto, superando file di veicoli semilavorati di tutti i tipi. Giunsero a una rampa che portava al piano inferiore di quella fabbrica sotterranea. Scesero. La vettura si fermò. Uscirono.

— Eccola — disse Romolo Fusione.

Krug vide uno strano veicolo di un centinaio di metri di lunghezza, con larghi governali che correvano dalla prua, sottile come un ago, fino alla poppa larga e aggressiva. La carena rossa sembrava fatta di calcestruzzo: aveva una consistenza scabra e ossuta. Non si vedeva nessuno strumento ottico. Gli eiettori di massa avevano la solita forma: finestrelle rettangolari spalancate sul fondo.

Romolo Fusione disse: — Sarà pronta per i voli di prova entro tre mesi. Abbiamo previsto una capacità di accelerazione continua di 2,4 g, che, ovviamente, porterà in breve tempo la nave a raggiungere una velocità prossima a quella della luce. Volete visitare l’interno?

Krug fece cenno di sì. All’interno, la nave sembrava comoda e non molto diversa dalle solite navi: scorse il centro comandi, il quadrato, la sala macchine, tutte le solite cose che si potevano vedere su qualsiasi astronave per viaggi entro il sistema solare. — Può accogliere un equipaggio di otto persone — gli disse l’alfa. — In volo, un campo di deflessione automatico circonda la nave per allontanare tutte le particelle libere nello spazio, che, naturalmente, a tali velocità avrebbero un effetto fortemente distruttivo. L’astronave è capace di autoprogrammarsi in modo completo; non occorre controllo. Ecco, questi sono i contenitori per l’equipaggio. — Romolo Fusione indicò quattro doppie file di unità d’ibernazione, scure e coperte da un coperchio di vetro, fissate alla parete. Ogni unità era lunga due metri e mezzo e larga uno. — Impiegano la solita tecnologia per la sospensione delle funzioni vitali — disse. — Il sistema di controllo dell’astronave, a un segnale dell’equipaggio o di una stazione a terra inizia automaticamente a pompare nel contenitore il liquido viscoso che serve da refrigerante, così abbassando fino al grado desiderato la temperatura corporea dei membri dell’equipaggio. Essi quindi compiono il viaggio immersi nel fluido refrigerante, e così si ottiene il duplice scopo di rallentare i processi vitali e di proteggere l’equipaggio dai pericolosi effetti dell’accelerazione. E la fase inversa del processo è altrettanto semplice, al risveglio. Abbiamo previsto quarant’anni come periodo massimo d’ibernazione: nel caso di viaggi più lunghi, l’equipaggio sarà destato a intervalli di quarant’anni, eseguirà un programma d’esercizi muscolari simile a quello normalmente usato per l’addestramento dei nuovi androidi, e dopo un breve intervallo di veglia ritornerà nei contenitori. In questo modo, uno stesso equipaggio può compiere un volo di qualsiasi durata.

— Quanto ci vuole — chiese Krug — perché questa nave raggiunga una stella a 300 anni luce di distanza?

— Tenendo presente il tempo necessario per raggiungere la velocità massima, e quello per la decelerazione — rispose Romolo Fusione — direi 620 anni. Se tuttavia consideriamo gli effetti relativistici di dilatazione del tempo, la durata soggettiva del viaggio non dovrebbe superare 20, massimo 25 anni; vale a dire che il viaggio potrebbe essere compiuto in un singolo turno d’ibernazione per l’equipaggio.

Krug rimuginò quelle cifre. Per l’equipaggio andava bene, ma la nave, se lui l’avesse mandata a NGC 7293 la prossima primavera, non sarebbe ritornata sulla Terra prima del trentacinquesimo secolo. Non avrebbe potuto salutarla al rientro. Ma non c’erano alternative.

— Per febbraio volerà? — chiese.

— Sì.

— Bene. Comincia a scegliere un equipaggio: due alfa, due beta, quattro gamma. Partiranno per un sistema da me scelto, all’inizio del prossimo anno.

— Come voi ordinate, signore.

Lasciarono la nave e, passando, Krug carezzò la carena granulosa. L’infatuazione per la torre del comunicatore tachionico l’aveva un po’ distratto dal progetto della nave, e ora si accorgeva che era stato un errore: gli androidi avevano fatto un lavoro magnifico. Ora, comprese, la corsa alle stelle poteva svolgersi su un doppio fronte. La torre, una volta terminata, avrebbe tentato di entrare in comunicazione — in tempo reale! — con le intelligenze che, a dar retta a Vargas, vivevano su NGC 7293; intanto la nave, con equipaggio androide, avrebbe iniziato il lungo viaggio verso la nebulosa planetaria. E cosa mettere nell’astronave? Be’, per prima cosa l’intera registrazione delle conquiste dell’uomo. Sì: cubi a profusione, biblioteche intere; tutto il repertorio delle musiche d’ogni paese, sistemi d’informazione ad alta ridondanza. Forse era meglio scegliere come equipaggio quattro alfa e quattro beta: tutti esperti di problemi di comunicazione. E l’equipaggio, mentre dormiva, avrebbe ricevuto dalla Terra un’infinità di messaggi tramite fascio tachionico, con tutte le informazioni scaturite dai contatti con gli uomini delle stelle; forse, quando l’astronave avrebbe raggiunto la sua destinazione verso il 2850 o giù di lì, sarebbe già stato disponibile per l’equipaggio un completo vocabolario della lingua parlata dalla razza che andava a visitare. Magari un’enciclopedia, il frutto di seicento anni di comunicazione tachionica tra terrestri e abitanti di NGC 7293!

Krug batté affabilmente una mano sulla spalla di Romolo Fusione. — Ottimo lavoro. Ti farò sapere. Dov’è il trasmat?

— Da questa parte, signore.

Bit. Bit. Bit.

Krug ritornò al cantiere della torre.

Thor Guardiano non era più inserito nel computer del centro di controllo. Krug lo trovò nell’interno della torre, al quarto piano, intento a controllare l’installazione di una fila di apparecchi che sembravano sfere di burro infilate su un filo di vetro, come tante perline.

— Cosa sono? — chiese Krug.

Thor parve sorpreso di veder comparire, così all’improvviso, il proprio padrone. — Interruttori — rispose, riprendendosi subito. — Nel caso di un flusso positronico eccessivo…

— Già, già. Sai dove sono stato, Thor? A Denver. Sì, a Denver. Ho visto l’astronave. Non me ne ricordavo più, ma l’hanno quasi messa a punto. E subito la inseriremo nella sequenza del nostro progetto.

— Signore?

— La costruzione è affidata ad Alfa Romolo Fusione. Sceglierà un equipaggio, quattro alfa, quattro beta. Partiranno la prossima primavera, in ibernazione. Subito dopo aver trasmesso il nostro primo segnale alla NGC 7293. Mettiti in contatto con lui, concordate insieme le scadenze. Ah, un’altra cosa. Anche se siamo in anticipo sul programma, il lavoro non procede ancora in fretta come vorrei. — Boom. Boom. La nebulosa planetaria NGC 7293 fiammeggiava e sfrigolava nella mente di Krug. Al calore della sua pelle, il sudore evaporava con la stessa rapidità con cui lo emettevano i pori. Mi sto eccitando troppo, si disse. — Questa sera, alla fine del tuo turno, inoltra una richiesta di nuove assunzioni, Thor. Aumenta la manodopera del 50 per cento. Falla avere a Spaulding. E se hai bisogno di nuovi alfa non farti scrupoli. Chiedi. Assumi. Spendi. Tutto quello che vuoi. — Boom. - Voglio che tutto il piano di costruzione sia anticipato. Anticipare di tre mesi la data di scadenza. Chiaro?

Thor sembrava sbalordito. — Sì, signor Krug — disse debolmente.

— Bene. Sì. Bene. Continua a fare un buon lavoro, Thor. Non ho parole per dirti quanto sono orgoglioso di te. Quanto sono felice. — Boom. Boom. Boom. Bit. Boom. - Ti procureremo tutti i più abili beta dell’Emisfero Occidentale, se necessario. Anche di quello Orientale. Del mondo. La torre deve venire completata! — Boom. - In fretta! In fretta! Non lo sarà mai abbastanza in fretta!

Krug uscì. Fuori, nella gelida aria notturna, si sentì un po’ meno agitato. Rimase fermo per un istante, godendosi la bellezza, la snellezza, il fulgore della torre che sfavillava sul fondale nero della tundra buia. Poi alzò gli occhi e fissò le stelle. Strinse il pugno, lo scosse.

Krug! Krug! Krug! Krug!

Boom.

Nel trasmat. Coordinate: Uganda. Il lago. Quenelle che aspetta. Carne soffice, petto florido, cosce morbide, ventre nervoso. Sì. Sì. Sì. Sì. 2-5-1, 2-3-1, 2-1. Krug attraversò il mondo d’un balzo.

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