Capitolo 1 LA BUFERA

Il vento che arrivava dalla baia sembrava una cosa viva. Lacerava e sconvolgeva la distesa d’acqua in un pulviscolo di frammenti cosi minuti che era difficile stabilire dove finisse l’elemento liquido e dove cominciasse l’atmosfera. Il vento sembrava sempre sul punto di sollevare ondate capaci di spazzare via la «Bree» come un sughero, ma poi le disperdeva in miriadi di spruzzi impalpabili, prima che riuscissero ad alzarsi di mezzo metro.

Solamente gli spruzzi arrivavano fino a Barlennan, che se ne stava comodamente sdraiato, in alto, sul castello di poppa della «Bree». Già da un pezzo aveva portato la nave al sicuro in secca sulla spiaggia, cioè da quando aveva capito di dover passare l’inverno lì. Tuttavia non poteva fare a meno di sentirsi un po’a disagio anche dopo questa decisione. Quelle ondate erano le più alte che avesse mai visto in mare, e in un certo senso non trovava del tutto rassicurante nemmeno sapere che proprio la mancanza di peso, se da una parte permetteva alle onde di alzarsi tanto, dall’altra avrebbe anche impedito ai flutti di provocare veri e propri danni, se fossero riusciti a spingersi molto addentro sulla spiaggia.

Il Comandante Barlennan non era particolarmente superstizioso, ma trovandosi così vicino agli Orli del Mondo, non avrebbe davvero saputo dire cosa poteva succedere. Perfino l’equipaggio, che certo non era dotato di molta immaginazione, ogni tanto mostrava evidenti segni di malessere. Era la maledizione che regnava in quella regione, mormoravano…

Qualunque mistero ci fosse al di là dell’Orlo, la cosa che mandava le terribili raffiche di vento invernale a spazzare per migliaia di chilometri quella parte del mondo poteva non gradire di essere disturbata dalla spedizione di Barlennan. Al minimo incidente l’equipaggio ricominciava a mormorare, e di incidenti, lievi o gravi che fossero, se ne verificavano spesso.

Chiunque pesi poco più di un chilogrammo, invece dei duecentocinquanta a cui è stato abituato per tutta la vita, si trova nella condizione di commettere un sacco di errori. Era una costatazione ovvia per il Comandante, ma lui aveva una mentalità scientifica e l’abitudine a pensare in termini logici e razionali.

Perfino Dondragmer, che avrebbe dovuto comportarsi molto meglio… Il lungo corpo di Barlennan si tese, e il Comandante si accorse di essersi messo a urlare ordini, prima ancora di essersi reso conto fino in fondo di cosa stava succedendo a metà circa della nave. Il Secondo aveva scelto proprio quel momento, a quanto pareva, per verificare la resistenza dei sostegni di uno degli alberi e, approfittando della quasi totale mancanza di peso, aveva cercato di rizzarsi verticalmente sul ponte in tutta la sua altezza. La vista di quel corpo torreggiante, in precario equilibrio sulle sei gambe più arretrate, era uno spettacolo fantastico, e anche se ormai tutto l’equipaggio della «Bree» era abituato da un pezzo a giochetti del genere, non fu l’acrobazia ciò che colpì Barlennan. Quando il proprio peso si aggira sul chilo o poco più, ci si deve tenere aggrappati a qualcosa, altrimenti si viene spazzati via con la prima raffica di vento, e nessuno può tenersi aggrappato a qualcosa con sei gambe in movimento. Quando la nuova raffica si fosse abbattuta sulla nave… ma già non era più possibile sentire gli ordini, anche se Barlennan urlava a squarciagola. Era ormai arrivato strisciando oltre lo spazio vuoto di sicurezza che lo separava dalla scena dell’azione, quando notò che il suo Secondo aveva assicurato un gruppo di cavi al proprio equipaggiamento e al ponte, legandosi alla nave così saldamente come l’albero stesso a cui lavorava.

Barlennan si rilassò ancora una volta. Conosceva il motivo che aveva spinto Don a comportarsi cosi: non era che un gesto di sfida all’ignota causa che aveva provocato quella tremenda bufera e stava deliberatamente imponendo a tutto l’equipaggio quell’atteggiamento di noncuranza di fronte al pericolo. Bravo ragazzo, pensò Barlennan, e di nuovo rivolse l’attenzione alla baia.

Nessuno di loro, in quel momento, avrebbe potuto dire dove si trovava la linea costiera. Un vortice accecante di spruzzi e di sabbia bianca nascondeva ogni cosa che fosse a più di cento metri di distanza dalla «Bree», in tutte le direzioni. Anche la nave cominciava a non essere quasi più visibile, mentre le goccioline di metano lanciate a tutta velocità dal vento colpivano come tante pallottole, spiaccicandosi sopra le conchiglie oculari. Per lo meno il ponte, sotto i suoi molteplici piedi, era ancora saldo come una roccia; e il battello, benché fosse alleggerito di molto, non sembrava disposto a farsi spazzare via dal vento. Cosa impossibile, ad ogni modo, si disse il Comandante, pensando alle decine di cavi che trattenevano la nave alle ancore profondamente sepolte nella sabbia e ai bassi alberi che punteggiavano la spiaggia. Impossibile, certo, eppure la sua non sarebbe stata davvero la prima nave a scomparire durante una spedizione così pericolosamente vicina all’Orlo. Forse i sospetti dell’equipaggio nei confronti del Volatore non erano del tutto infondati. In fin dei conti, quella strana creatura lo aveva persuaso a fermarsi lì per tutto l’inverno e in un certo senso era riuscita a convincerlo senza garantire la minima protezione alla nave o all’equipaggio. D’altra parte, se il Volatore avesse voluto annientarli, avrebbe potuto farlo molto più facilmente e direttamente che non ingannandoli a parole. Se quell’immensa macchina su cui viaggiava avesse dovuto passare sulla «Bree» anche in questa parte del mondo, dove il peso aveva così poca importanza, sarebbe stata la fine. Barlennan si costrinse a pensare ad altro. Conosceva l’esatta misura del terrore congenito di tutti i meskliniti all’idea di stare, sia pure per breve tempo, sotto qualunque massa solida.

Già da un pezzo l’equipaggio si era rifugiato sotto i pesanti teli del ponte: persino il Secondo aveva smesso di lavorare, ora che la bufera si abbatteva con tutta la sua forza su quel tratto di costa. Erano tutti presenti: Barlennan aveva contato le gibbosità sotto i teli di protezione quando ancora poteva vedere per intero la nave. I cacciatori non erano usciti, e del resto nessun marinaio aveva avuto bisogno di sapere dal Volatore che si stava avvicinando una tempesta. Nessuno, da dieci giorni a quella parte, si allontanava dalla nave oltre gli otto chilometri di sicurezza, e con quella mancanza di peso otto chilometri non erano certo una distanza notevole!

Non mancavano le scorte, naturalmente. Barlennan non era uno sciocco e si era preoccupato che l’approvvigionamento fosse più che sufficiente. Tuttavia, vettovaglie fresche erano quanto mai desiderabili. Si chiese per quanto tempo quel nuovo uragano li avrebbe tenuti prigionieri. Ecco una cosa che gli strumenti non rivelavano, mentre non mancavano mai di segnalare l’arrivo di qualunque perturbazione atmosferica. Forse il Volatore lo sapeva. Comunque, non c’era altro da fare per proteggere la nave, e tanto valeva parlare a quella strana creatura. Barlennan provava ancora un moto d’incredulità quando guardava l’apparecchio che gli aveva dato il Volatore, insistendo molto sulle portentose virtù dei suoi poteri.

L’apparecchio, protetto da una custodia, si trovava sul castello di poppa accanto a Barlennan. Era un blocco apparentemente solido lungo un sette centimetri e alto e largo circa la metà. A una delle estremità della superficie opaca brillava un punto trasparente, che aveva tutto l’aspetto, e probabilmente le funzioni, di un occhio. L’unica altra caratteristica dell’oggetto era un piccolo foro rotondo su una delle facce oblunghe. L’apparecchio giaceva con questa faccia rivolta verso l’alto e con l’estremità «oculare» che sporgeva leggermente da sotto il telo di custodia. Il telone si apriva sottovento, com’era logico così che il tessuto aderiva ora strettamente alla superficie della macchina.

Barlennan infilò a fatica un braccio sotto la custodia muovendo la mano a tastoni fino a trovare il foro, in cui andava inserita la sua pinza. L’apparecchio non aveva nessun pezzo mobile, come una manopola o un bottone o una leva, ma la cosa non lo preoccupava affatto, perché non gli era mai capitato di vedere congegni del genere, così come non aveva mai visto relè termicofotonici a capacità elettrica. L’esperienza gli aveva insegnato che se inseriva un qualsiasi oggetto opaco in quel foro inevitabilmente il Volatore lo veniva a sapere. Perché poi succedesse cosi, non tentava nemmeno di capirlo. Era un po’, si diceva talvolta con tristezza, come voler insegnare arte nautica a un bambino di dieci giorni. Potevano anche avere l’intelligenza necessaria per capire — ed era comunque un pensiero confortante — ma mancavano assolutamente dell’esperienza diretta che poteva svilupparsi soltanto nel corso di parecchi anni.

— Qui è Charles Lackland — disse improvvisamente la macchina, interrompendo le sue riflessioni. — Sei tu, Barl?

— Sì, qui è Barlennan, Charles. — Il Comandante parlava la lingua del Volatore, e ogni giorno faceva sempre nuovi progressi.

— Sono molto contento di avere tue notizie. Hai visto che non ci eravamo sbagliati nel prevedere questa piccola bufera?

— È arrivata proprio quando avevi detto tu. Un momento… sì, c’è della neve insieme col vento. Non me n’ero accorto. Ma non vedo ancora traccia di polvere, ad ogni modo.

— Verrà. Quel vulcano deve averne vomitato nell’atmosfera circa quindici chilometri cubi, e ormai sono parecchi giorni che la nube di polvere si va espandendo.

Barlennan non continuò il discorso. Il vulcano in questione era ancora fonte di incomprensione fra loro, perché sembrava trovarsi in una regione del pianeta Mesklin che, secondo le conoscenze geografiche di Barlennan, non esisteva. Perciò, cambiando argomento, disse:

— Quello che mi stavo domandando, Charles, è quanto durerà questa bufera. So che i tuoi uomini possono vederla dall’alto, e dovrebbero quindi essere in grado di valutarne l’entità.

— Ti trovi già in pericolo? L’inverno è appena cominciato… hai davanti migliaia di giorni prima di poter uscire da questa zona.

— Lo so. Le scorte di vettovaglie sono più che abbondanti, ma ogni tanto si sente la necessità di un po’«di cibo fresco, e sarebbe utile sapere in anticipo quando potremo mandare fuori una spedizione di caccia, o anche due.

— Capisco. Ma ho paura che dovranno calcolare i tempi con molta precisione. Non mi trovavo in questa zona l’inverno scorso, ma so che durante l’inverno le bufere si susseguono in modo pressoché ininterrotto. Ci sei stato veramente nella regione equatoriale, in passato?

— Dove?

— Nella… ah, credo che quando parlate dell’Orlo in realtà vi riferiate all’Equatore.

— No, non mi sono mai spinto tanto vicino all’Orlo, e non vedo come qualcuno possa avanzare oltre un certo limite. La mia impressione è che se ci spingessimo ancora di più verso l’alto mare finiremmo per perdere anche gli ultimi residui di peso e voleremmo via come pagliuzze.

— Se ti è di conforto, posso assicurarti che ti sbagli. Continuando ad andare verso l’alto mare, il vostro peso ricomincerebbe ad aumentare. In questo momento sei sulla linea dell’Equatore, cioè proprio dove si pesa meno. È per questo che io mi trovo qui. Ora comincio a capire perché tu non vuoi credere che ci siano terre molto più a nord. All’inizio, quando abbiamo cominciato a parlare di queste cose, pensavo che dipendesse dalla nostra difficoltà di comunicare, ma adesso credo che tu abbia il tempo di spiegarmi le tue idee circa la natura di questo mondo. O forse possiedi delle carte geografiche, delle mappe…?

— Naturalmente, abbiamo una «coppa» qui, sul castello di poppa, ma temo che tu non possa vederla, adesso che il sole è appena tramontato ed Esstes non dà luce sufficiente con tutta questa nuvolaglia. Domani, quando sorgerà il sole, te la mostrerò. Le mie carte geografiche non ti sarebbero di molto aiuto, perché nessuna di esse riproduce territori abbastanza estesi da fornire un quadro sufficientemente chiaro della regione.

— Capito, Ma, in attesa dell’alba, non potresti descrivermele a voce?

— Non sono sicuro di essere padrone della tua lingua fino a questo punto. Comunque proverò. A scuola mi hanno insegnato che il nostro pianeta è come una grande coppa dalla cavità molto profonda. La zona in cui vive la maggior parte della popolazione è vicina al fondo della coppa, dove il peso è più forte. Secondo la teoria dei nostri saggi questo peso è causato da una specie d’immenso vassoio piatto su cui posa Mesklin. Più ci si allontana dal fondo verso l’Orlo, più il nostro peso diminuisce e, perché nello stesso tempo ci si allontana anche dal vassoio. Su cosa poi sia posato il vassoio, nessuno lo sa. Al riguardo si sentono raccontare una quantità di strane leggende, soprattutto da parte delle razze meno civilizzate.

— Mi sembra che i tuoi saggi avrebbero ragione, se uno si accorgesse di salire verso l’alto tutte le volte che si allontana dal fondo della coppa, cioè dal centro, e se tutti gli oceani tendessero a raccogliersi verso il punto più basso, vale a dire al centro della coppa — obiettò Lackland. — Non hai mai approfondito la questione con uno di loro?

— Da giovane ho visto un disegno che spiegava tutta la situazione. Il diagramma del mio maestro mostrava una grande quantità di linee che salivano dal vassoio e si piegavano per incontrarsi esattamente nel centro di Mesklin. Il loro tracciato lungo la coppa seguiva praticamente una linea retta, a causa della curvatura, e il maestro disse che il peso si scaricava lungo quelle linee invece di correre direttamente giù verso il vassoio. Non riuscii a capire bene, ma il ragionamento mi sembrò abbastanza logico. L’ipotesi, ho saputo poi, aveva la sua conferma nei fatti. Infatti le distanze rilevate sulle carte concordavano esattamente con quelle calcolate in base alla teoria. E questa è una cosa che posso capire facilmente, e mi sembra rappresenti un punto fermo. Se la forma non corrispondesse a quella indicata dai saggi, le distanze risulterebbero tutte sbagliate, appena si cominciasse ad allontanarsi dal nostro punto medio d’osservazione.

— Giustissimo. Vedo che i tuoi saggi sono molto istruiti in fatto di geometria. Quello che non riesco a capire è perché non si siano resi conto che sono due le forme che danno alle distanze il loro giusto valore. In fin dei conti, non puoi vedere anche tu che la superficie di Mesklin s’incurva verso il basso? Se la vostra teoria fosse esatta, l’orizzonte dovrebbe trovarsi in alto, sopra la tua testa. Non ti pare?

— Capisco. Ecco perché le tribù primitive affermano che il nostro pianeta ha la forma di una coppa. È soltanto qui, nelle vicinanze dell’Orlo, che le cose sembrano diverse. Deve dipendere, penso, dalla luce. Dopo tutto, in questa regione il sole sorge e tramonta anche d’estate, e non vedo perché ci si dovrebbe meravigliare se tutto quanto appare piuttosto strano. Diamine, si direbbe quasi che l’orizzonte… è così che lo chiami, vero?… sia più vicino a noi a nord e a sud di quanto non sembri a est e a ovest. Una nave, la si può vedere molto più lontana a est o a ovest. Dipende dalla luce, sicuramente.

— Mmm! Penso che per il momento sia alquanto difficile rispondere alla tua osservazione. — Barlennan non conosceva così bene il modo di parlare del Volatore da accorgersi di una lieve sfumatura ironica nella sua voce. — Non mi sono mai trovato in un punto della superficie molto lontano dall’Orlo, come lo chiami tu, e, personalmente, non potrò mai trovarmici. Fino ad ora non mi ero reso conto che le cose potessero apparire come le hai descritte tu, e non riesco nemmeno a capire perché debbano sembrare così, almeno per il momento. Comunque, spero di riuscirci quando porterai quell’apparecchio radiotelevisore nella nostra piccola spedizione.

— Sarà una gioia per me sentire le tue spiegazioni sugli errori dei nostri saggi — disse Barlennan cortesemente. — Quando sarai disposto a farlo, voglio dire. Frattanto, sono molto curioso di sapere da te quando ci sarà una tregua in questa serie di bufere.

— Basteranno pochi minuti per avere una risposta dalla nostra stazione meteorologica su Toorey. Ti chiamerò verso l’alba e ti comunicherò le previsioni; per allora avremo abbastanza luce perché tu possa mostrarmi la coppa. D’accordo?

— Benissimo. Aspetterò. — Barlennan si rannicchiò presso l’apparecchio, mentre l’uragano infuriava intorno a lui. Le pallottole di metano che gli bombardavano la schiena corazzata non lo disturbavano, perché colpivano con molta più violenza nelle latitudini più elevate. Ogni tanto, si dava una specie di scrollatina per liberarsi del leggero strato di ammoniaca che continuava ad accumularsi sul vascello, ma anche l’ammoniaca, almeno per il momento, non rappresentava un grosso fastidio. Verso la metà dell’inverno, cioè dopo cinque o seimila giorni, lo strato di ammoniaca avrebbe cominciato a sciogliersi sotto i raggi del sole, per poi riconsolidarsi quasi subito. L’essenziale era liberare il vascello da quella specie di nevischio prima della seconda gelata, altrimenti l’equipaggio di Barlennan sarebbe stato costretto a spaccare il ghiaccio tutt’intorno alla spiaggia per un tratto equivalente a duecento lunghezze di nave. La «Bree» non era un battello fluviale, ma una vera e propria nave oceanica.

Come aveva promesso, il Volatore ottenne in pochi minuti le informazioni meteorologiche richieste. La sua voce risuonò ancora una volta nel minuscolo altoparlante dell’apparecchio, proprio quando i primi raggi del sole rischiaravano la coltre di nubi che si era addensata sulla baia.

— Ho paura di non essermi sbagliato, Barl. Non c’è nessuna tregua in vista. Praticamente l’intero emisfero boreale, espressione che per te non ha nessun significato, sta liberandosi della sua calotta di ghiaccio con estrema violenza. So che in genere queste bufere durano per tutto l’inverno, senza interruzioni, anche se in realtà le tempeste si susseguono separatamente nelle più elevate latitudini australi, per poi frantumarsi per effetto dell’accelerazione di Coriolis a mano a mano che si allontanano dall’equatore.

— Per effetto di che?

— È una legge fisica, la stessa per cui se lanci un proiettile lo vedrai sempre deviare verso sinistra…

— Che cosa significa «lanciare»?

— Oh, già, non avevamo mai usato prima questo termine, vero? Ecco, lanciare è l’azione che tu compi quando raccogli un oggetto e lo spingi con forza lontano da te, facendogli compiere un certo percorso in aria prima che tocchi di nuovo il suolo.

— È un’azione che non facciamo mai nelle regioni dove le condizioni sono più normali di qui. Ci sono moltissime cose che si possono fare qui vicino all’Orlo, e che altrove sono impossibili o per lo meno pericolose. Se io dovessi «lanciare» un oggetto nella zona dove vivo di solito, non toccherebbe il suolo ma qualcuno, e quasi certamente me.

— In effetti potrebbe rivelarsi piuttosto pericoloso. Tre G qui all’equatore sono già un bel fastidio; e ai poli si arriva addirittura quasi a settecento. Eppure, se tu trovassi un oggetto abbastanza piccolo da poterlo prendere e lanciare, perché non potresti riprenderlo al volo o almeno ridurne l’urto di caduta?

— Mi è difficile immaginare una possibilità del genere, comunque credo di saperti rispondere. Mi mancherebbe il tempo. Se un oggetto viene lasciato andare, lanciato o non lanciato, ricade al suolo prima che si possa fare il minimo gesto. Raccogliere un oggetto e portarlo con sé è una cosa, strisciare è un’altra; ma lanciare un oggetto e… si dice saltare?… sono cose molto diverse.

— Già, immagino sia cosi. Noi eravamo partiti dall’idea che la durata delle vostre reazioni fosse proporzionale alla gravità, ma adesso capisco che il nostro era un ragionamento antropocentrico.

— Il tuo discorso, per quanto ho potuto capire, mi sembra ragionevole. Non ci sono dubbi che siamo molto diversi, noi e voi. Ma almeno abbiamo una cosa in comune: la possibilità di comunicare intelligentemente. E questo, spero, ci permetterà di arrivare a un’intesa vantaggiosa per entrambi.

— Ne sono convinto. E allora sarà meglio che tu mi faccia un quadro preciso dei luoghi dove intendi andare. Da parte mia, ti indicherò sulle tue mappe le zone dove desidero che tu vada. Non si potrebbe dare un’occhiata a questa «coppa» adesso? C’è luce sufficiente per l’apparecchio visivo.

— Certo. Però la «coppa» è sul ponte e mi è impossibile rimuoverla. Non mi resta che spostare l’apparecchio in modo che tu la possa vedere. Aspetta un istante.

Barlennan si diresse, strisciando attraverso la nave, verso un punto ricoperto da un telo e intanto si attaccava alle bitte del ponte. Finalmente scostò il telo e lasciò allo scoperto un punto più chiaro dell’assito. Poi tornò indietro, assicurò l’apparecchio fonotelevisivo con quattro cavi saldamente annodati alle bitte strategicamente disposte, ne tolse la custodia e cominciò a trascinarlo sul ponte. Lo strumento pesava più di quanto Barlennan avesse calcolato, anche se le sue dimensioni lineari erano ridotte, ma il Comandante non voleva correre il rischio di vederselo spazzare via da una raffica di vento. La violenza della bufera non si era affatto attenuata, e ogni tanto il ponte scricchiolava e gemeva paurosamente. Con l’estremità oculare dell’apparecchio che quasi toccava la «coppa», Barlennan rialzò l’altra estremità puntellandola con un sostegno, in modo che il Volatore potesse guardare verso il basso. Poi si spostò sull’altro lato della «coppa» e cominciò la sua lezione.

Lackland dovette riconoscere che sulla «coppa» la raffigurazione della superficie di Mesklin era stata fatta con logica e con notevole accuratezza. La curvatura corrispondeva esattamente a quella del pianeta, come si era aspettato. L’errore principale consisteva nel fatto che la curva era concepita concava, conformemente all’idea errata degli indigeni sulla forma del loro mondo. Aveva una larghezza di circa quindici centimetri, con una profondità di tre centimetri al centro. La «coppa» era protetta da un involucro trasparente — probabilmente di ghiaccio, pensò Lackland — e ciò rendeva più difficile a Barlennan far rilevare i particolari topografici, ma non si poteva togliere l’involucro senza che la «coppa» stessa si riempisse in pochi istanti di neve ammoniacale. Neve che si ammonticchiava su qualunque cosa si trovasse contro vento. La spiaggia rimaneva relativamente sgombra, ma tanto Lackland quanto Barlennan potevano immaginare benissimo cosa doveva succedere sull’altro versante delle montagne che a sud correvano parallele alla linea costiera. Barlennan si congratulò segretamente con se stesso di essere un marinaio. I viaggi sulla terraferma in quella regione non avrebbero rappresentato certo una gita di piacere per qualche migliaio di giorni ancora.

— Ora — disse al Volatore — circa i posti dove intendo andare, ti dirò che non ho particolari preferenze. Posso comperare e vendere ovunque, e per il momento a bordo ho ben poco che non siano vettovaglie. E anche di quelle, alla fine dell’inverno non me ne rimarranno molte. Per cui avevo progettato, dopo la nostra conversazione, di incrociare per qualche tempo intorno alle regioni di minore gravità e di raccogliere un buon quantitativo di certi prodotti vegetali molto ricercati dalle popolazioni che si trovano più a sud, per l’effetto che producono sui cibi.

— Spezie?

— Se questa è la parola che usate per questi prodotti, sì, spezie. Ne ho già trasportate e le preferisco… si può guadagnare molto da un solo carico, e del resto ciò avviene per tutte le merci che sono ricercate più per la loro rarità che per l’utilità.

— Ma allora, quando avrai finito di fare il carico, qui, avrà per te poca importanza la rotta da seguire per arrivare a destinazione?

— Precisamente. Credo di avere capito che i tuoi scopi ci porteranno vicino al Centro, e la cosa non mi dispiace affatto: più si va verso sud e più alti saranno i prezzi della mia merce, senza contare che un viaggio lungo, qualora dovesse risultare pericoloso, sarà compensato dall’aiuto che ci hai promesso.

— Proprio cosi. Il nostro accordo è questo anche se avrei preferito trovare qualcosa con cui pagarti, in modo da evitarti la necessità di dedicare tempo alla raccolta delle spezie.

— Lo so. Ma d’altra parte dobbiamo pur mangiare. Tu stesso hai detto che i vostri corpi, e quindi i vostri cibi, sono composti di sostanze molto diverse dalle nostre, e che a noi è impossibile usufruire delle vostre vettovaglie. E di materie prime, metalli e simili, posso trovarne con facilità quanti ne voglio. Mi piace invece pensare che un giorno potremo avere qualcuna delle vostre macchine, benché tu dica che dovrebbero essere ricostruite da cima a fondo per poter funzionare nelle nostre condizioni. Comunque mi sembra che il nostro accordo sia il migliore possibile, date le circostanze.

— Verissimo. Anche questo apparecchio radiotelevisivo è stato costruito apposta per voi, e tu non potresti nemmeno ripararlo, perché, se non mi sbaglio, il tuo equipaggio non possiede gli strumenti adatti. Durante il viaggio potremo ad ogni modo ritornare sull’argomento. Forse le cose che ogni volta impariamo l’uno dall’altro potranno aprire nuove e migliori possibilità.

— Ne sono certo — disse cortesemente Barlennan.

Non accennò, naturalmente, alla possibilità di realizzare i suoi piani segreti: il Volatore ben difficilmente li avrebbe approvati.

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