La situazione era grave, perché il vento favoriva gli aerei in arrivo da ogni parte, per bloccare la nave.
Ma Dondragmer reagì con decisione eccezionale: puntando contro l’interprete la balestra che lui stesso aveva dato loro, disse freddo e risoluto — Un momento, Reejaaren. Se credi di tornartene a terra ti sbagli di grosso. Se non sali immediatamente a bordo sarà come se tu volessi scappare E non illuderti che mi manchi la mira per usare la tua balestra! Su, muoviti!
L’ultimo ordine fu urlato con tanta rabbia dal Secondo che il raffinato Reejaaren non esitò a salire a bordo della «Bree», tremante di collera e di paura insieme.
— E voi pirati credete di salvarvi, in questo modo? — disse. — Non avete fatto che peggiorare la vostra situazione Gli alianti interverranno contro la nave comunque, appena salperà, anche se io sarò a bordo.
— Allora dai l’ordine che ci lascino stare.
— Non obbediranno a nessun ordine mio, finché mi sapranno vostro prigioniero.
— In ogni caso — intervenne Barlennan — dovremo tenerti qui con noi fino a quando non si sia raggiunto un accordo che ci permetta di partire. A meno che, nel frattempo, non riusciamo a trovare il modo di eliminare quelle macchine volanti di cui siete tanto fieri. È un peccato che non abbiamo pensato di portare un po’«dei nostri armamenti moderni in queste regioni arretrate del pianeta.
— Si potrebbe provare l’effetto che ha su di loro qualche tiro bene aggiustato di questa balestra — propose Dondragmer.
Krendoranic, il marinaio che aveva in consegna le munizioni della «Bree» e che aveva seguito il colloquio con il massimo interesse, approvò calorosamente.
— Si, Comandante — disse. — Tentiamo. È da quando abbiamo lasciato la tribù del fiume che desidero fare un esperimento.
— Che cosa vuoi fare? — chiese Barlennan, seguendo Krendoranic verso uno dei portafuoco come lo chiamavano a bordo. Krendoranic non rispose, ma sollevato il coperchio di una cassetta ne tirò fuori un pacchetto avvolto in un materiale che non lasciava filtrare la luce. Era un pacchetto sferico e chiaramente fatto apposta per essere lanciato dalla forza del braccio. Come tutti gli altri, Krendoranic era stato favorevolmente impressionato da quella nuova arte di lanciare proiettili. Ma ora voleva estendere il principio a più ampie applicazioni.
Prese infatti il pacchetto e lo legò a un verrettone di balestra mediante una striscia di tessuto. Poi inserì il verrettone nella scanalatura dell’arma.
A un cenno, uno dei marinai che formavano la squadra dei lanciafuoco gli si avvicinò con il congegno di accensione, rimanendo in attesa di ulteriori ordini. Dopo di che, con grande delusione degli osservatori terrestri, strisciò per meglio puntarla verso il cielo. Cosa che, però, impedì ai terrestri di seguire la scena.
Gli alianti, nel frattempo, volteggiavano sempre più bassi sulla «Bree», facendo prevedere prossimo il lancio dei primi giavellotti. A un tratto Krendoranic latrò un ordine al suo subordinato, mentre prendeva di mira uno dei velivoli che si stava abbassando. Nell’istante in cui ebbe messo bene a fuoco l’aliante, impartì un altro ordine, e il suo aiutante avvicinò l’ignitore al pacchetto posto sulla punta lievemente rialzata del verrettone. Subito dopo, appena si levarono le prime lingue di fuoco, le pinze di Krendoranic si tesero sul grilletto e una scia fumosa si materializzò nell’aria, segnando la traiettoria del dardo lanciato dalla balestra.
Il verrettone mancò quasi l’obiettivo, dato che il tiratore ne aveva sottovalutato la velocità. Ma il pacchetto di cloro esplose contro la coda dell’apparecchio che si mise ad ardere furiosamente. La nuvola fiammeggiante si stava adesso dilatando sulla parte posteriore del velivolo, che si lasciava dietro una scia di fumo, in cui incorse il resto dello stormo. L’aliante in fiamme si abbatté sulla spiaggia, e l’equipaggio lo abbandonò un istante prima dell’urto. Due dei velivoli rimasti avvolti dalla sua scia di fumo persero anchè essi la rotta, perché le esalazioni di cloruro d’idrogeno avevano stordito gli equipaggi, e sprofondarono entrambi nella baia; In effetti, quello di Krendoranic fu uno dei più grandi tiri contraerei della storia.
Prima ancora che il terzo aereo si abbattesse, Barlennan ordinò che venissero mollate le vele. Il vento era piuttosto contrario, ma c’era abbastanza fondale per le chiglie mobili; e la «Bree» cominciò ad allontanarsi dalla bocca del fiordo.
Per un attimo gli isolani sulla riva parvero sul punto di imbracciare le loro balestre, ma Krendoranic aveva nel frattempo preparato un altro dei suoi terribili dardi e lo stava puntando contro la spiaggia: bastò questo a farli fuggire tutti disperatamente.
Reejaaren aveva assistito alla scena, in silenzio, mentre tutto l’atteggiamento del corpo rivelava in lui sconcerto e orrore. Alcuni alianti continuavano ancora a volteggiare molto alti sulla «Bree», ma l’interprete sapeva che i loro equipaggi non avrebbero osato avvicinarsi troppo. Intanto la nave cominciava ad allontanarsi dalla costa.
Era tramontato il sole, e Barlennan colse l’occasione delle tenebre per dare a Lackland un ampio resoconto degli ultimi eventi. Quando sorse il sole Reejaaren, che aveva seguito la misteriosa conversazione del Comandante senza capirne una parola, ma convinto che il marinaio avesse informato i suoi superiori della propria missione di spionaggio servendosi di un metodo incomprensibile di comunicazione, chiese di essere rimandato a terra in tono del tutto diverso da quello che aveva usato fino allora con i «barbari». Barlennan lo calò in mare mentre la costa era ancora in vista, e l’infelice interprete, aggrappato a una specie di salvagente di fibra, rimase a galleggiare sballottato dalle onde sulla scia della «Bree».
— Barl — disse la voce di Lackland alla radio, quando tutto fu finito — pensi finalmente di poterti tenere per qualche settimana lontano dai guai, almeno finché noi quassù non siamo guariti dai disturbi nervosi e digestivi che ci procurano le tue disavventure? Ogni volta che la «Bree» resta presa in trappola, tutti su questa luna invecchiano di dieci anni.
Barlennan dette le più ampie assicurazioni, e la «Bree» continuò la sua non troppo rapida corsa verso il sud. Dopo qualche giorno dovettero dirottare per passare al largo di un altro gruppo di isole, tra le quali si vedeva un intenso movimento di alianti; ma anche gli apparecchi si tennero a debita distanza dalla nave. Evidentemente le notizie si diffondevano in fretta fra le popolazioni degli arcipelaghi. Alla fine anche l’ultima linea costiera scomparve all’orizzonte, e gli esseri umani comunicarono dall’osservatorio su Toorey che ora non ci sarebbero state più terre davanti alla «Bree».
Alla latitudine di circa quaranta gravità, dirottarono ancora la nave verso sudest, per evitare la costa della massa di terra continentale che, come aveva detto Reejaaren, si spingeva molto più a est davanti a loro. In realtà la «Bree» stava navigando entro un passaggio relativamente angusto fra due grandi mari, ma era uno stretto troppo ampio per poter essere riconosciuto come tale dalla nave.
Uno strano incidente si verificò un po’«più avanti nel nuovo mare. Alla latitudine di sessanta gravità, la canoa, ancora trainata a rimorchio, cominciò ad affondare sempre più sensibilmente nel liquido. La piccola imbarcazione venne subito accostata a poppa ed esaminata attentamente. C’era una grande quantità di metano liquido sul fondo, ma nella canoa, una volta svuotata del carico e issata a bordo per un controllo più accurato, non risultò la minima falla. Barlennan ne dedusse che dovevano essere stati gli spruzzi accumulati in molti giorni di navigazione, benché il liquido raccolto nel fondo cavo fosse stato molto più chiaro dell’oceano stesso. Rimise dunque la canoa in mare con il suo carico, ma dette ordine a un marinaio di tenere sotto continua sorveglianza la barca e di svuotarla ogni volta si rendesse necessario. Tutto andò bene per parecchi giorni. La canoa galleggiava quasi sopra la superficie del mare, appena era stata vuotata. Ma poi tornava a riempirsi di liquido, a un ritmo sempre più rapido. Altre due volte fu tirata a bordo e riesaminata, ma senza il minimo risultato. Lackland, consultato per radio, non seppe dare nessuna spiegazione; avanzò soltanto l’ipotesi che il legname fosse poroso, ma in questo caso la canoa avrebbe dovuto affondare fin dal primo giorno.
La situazione arrivò al culmine a circa duecento gravità, quando ormai la «Bree» aveva percorso più di un terzo del suo viaggio. I minuti di luce diurna erano in aumento, ora, man mano che la primavera avanzava e la «Bree» si allontanava sempre più dal suo sole, mentre i marinai si abbandonavano a un sempre più piacevole senso di benessere. Il marinaio che aveva l’incarico di svuotare la canoa, non era di conseguenza molto attento quando accostò la barca a poppa e vi si calò dentro. Ma la sua attenzione si risvegliò subito. La canoa era affondata un poco, naturalmente, sotto il peso del marinaio, e allora anche il legame elastico delle fiancate cedette leggermente. Col cedimento dei fianchi, la barca affondò ancora di più.
Il marinaio ebbe appena il tempo di sentire il fianco della canoa incurvarsi verso l’interno, quando tutta la barca sprofondò sotto la superficie liquida, mentre la pressione esterna diminuiva. Il peso del carico, maggiore di quello del metano, continuava a spingerla giù, e il marinaio si trovò a nuotare in mezzo al mare. La canoa s’immerse completamente, sempre attaccata alla cima di rimorchio, rallentando l’andatura della «Bree» con uno strattone, che mise subito in allarme tutto l’equipaggio.
Il marinaio, arrampicatosi di nuovo a bordo, spiegò quello che era successo. Quando ritirarono la cima, attaccata a un capo, riemerse la canoa grondante metano.
L’imbarcazione, ormai inutile, venne accantonata in un punto morto del ponte e trasformata in una specie di ripostiglio. Poi il Comandante ordinò che si riprendesse la navigazione regolare, e la monotona vita di bordo ricominciò a scorrere per centinaia, e poi per migliaia di giorni. Per i meskliniti, longevi di natura, lo scorrere del tempo contava ben poco; ma per i terrestri, nel loro osservatorio lunare, la crociera della «Bree» fini per diventare una noia interminabile, una parte del loro monotono trantran quotidiano nello spazio.
Trascorsero così quattro mesi terrestri, corrispondenti a novemilaquattrocento e più giorni di Mesklin. La gravità era salita da centonovanta circa, nel punto dove la canoa era affondata, a quattrocento, poi a seicento e oltre, come appariva sulla lignea bilancia a molla, che era il sestante della «Bree» per la misurazione della latitudine. I giorni continuavano ad allungarsi e le notti ad abbreviarsi, fino a quando il sole fece completamente il giro del cielo senza mai toccare l’orizzonte, benché a sud tendesse ad abbassarsi un po’«di più. Lo stesso sole pareva rimpicciolito e come raggrinzito ai marinai, che si erano abituati a vederlo nel breve periodo del passaggio di Mesklin al perielio. E l’orizzonte, visto dal ponte della «Bree» attraverso gli apparecchi televisivi, era più alto del livello della nave, «al di sopra» della nave come Barlennan aveva spiegato pazientemente a Lackland mesi prima, ascoltando poi con scetticismo la risposta del terrestre che gli aveva detto trattarsi soltanto di un’illusione ottica. Anche la terra, che finalmente apparve davanti alla prora, era senz’ombra di dubbio al di sopra del livello della nave. Com’era possibile che un’illusione ottica corrispondesse alla realtà dei fatti? Al momento dell’arrivo ebbero la dimostrazione definitiva che la terra era proprio più in alto della nave.
Giunsero infatti all’imboccatura di una vasta baia che si spingeva oltre, verso sud, per più di tremila chilometri, la metà circa della distanza che ancora li divideva dal razzo naufragato. Penetrarono nella baia a vele spiegate, ma sempre più lentamente, via via che la baia si restringeva alle dimensioni di un normale estuario. Poi, anziché cercare venti favorevoli con l’aiuto di Lackland, dovettero bordeggiare finché non si trovarono davanti alla bocca del fiume. Cominciarono quindi a risalirlo, ma veleggiando soltanto per brevi tratti perché la corrente contro il fondo piatto delle zattere era troppo forte e rapida. Il più delle volte, infatti, trascinarono la nave a rimorchio. Bastava per questo mandare sulla riva un’unica squadra munita di robuste corde per traino, perché in vicinanza di settecento gravità anche un solo mesklinita sviluppava una straordinaria forza di trazione. E così passarono altre settimane, durante le quali i terrestri sentirono dissolversi la noia e formarsi in loro una straordinaria tensione nervosa che a poco a poco contagiò tutta la stazione meteorologica di Toorey.
La meta era quasi in vista, e le speranze dei terrestri si facevano sempre più febbrili.
Tanto più grave, quindi, fu il colpo che provarono, forse più di quello sofferto mesi prima, quando il trattore di Lackland era giunto alla fine del suo viaggio. La ragione era quasi identica. Questa volta la «Bree» e il suo equipaggio erano ai piedi di una muraglia rocciosa a perpendicolo, invece che sull’orlo dello strapiombo. Il ciglio di quel burrone si trovava a non meno di cento metri sopra le loro teste, e con quasi settecento gravità arrampicarsi, saltare e altri rapidi movimenti a cui i meskliniti si erano abbastanza abituati nelle remote regioni degli Orli, rappresentavano qui un’impresa del tutto impossibile.
Il razzo si trovava solo a ottanta chilometri di distanza in linea d’aria; ma superare i cento metri sulla verticale per i piccoli, coraggiosi meskliniti era come scalare, per un essere umano sulla Terra, una parete di almeno cinquanta chilometri… di roccia a strapiombo.