CAPITOLO SETTIMO

Amareggiato e confuso, restò seduto su un mucchio di stracci per più di un’ora dopo che il cuore ebbe smesso di pulsargli nelle tempie e il suo respiro ansante si fu placato. Dunque nascondersi e sfuggire i problemi non era il modo di risolverli? E qualsiasi iniziativa era meglio che marcire nella camera-cella d’albergo agli ordini di quella femmina mercenaria? Cupamente Ethan meditò su quant’era facile per un uomo riesaminare la sua posizione morale dopo aver sentito crepitare sulla testa l’infernale scarica di un distruttore neuronico. Girò lo sguardo nella penombra dello sgabuzzino in cui s’era rifugiato. Se non altro la prigione di Quinn aveva un bagno.

Ora non gli restava altro che rivolgersi alle autorità della stazione. Rimettersi in contatto con Quinn era da escludersi, questo la mercenaria l’aveva chiarito senza equivoci, ed era inutile che lui s’illudesse ancora di poter fare una pace separata con quei pazzoidi cetagandani. Ethan batté leggermente la nuca sulla parete metallica alcune volte, per sottolineare quei pensieri e rafforzare la fiducia nelle sue capacità; poi si alzò dal mucchio di stracci e guardò se in quello sgabuzzino c’era qualcosa di utile.

Un armadietto pieno di tute da lavoro gli ricordò improvvisamente che i suoi abiti lo etichettavano come uno straniero, ma a quel pensiero ne seguì un altro assai più allarmante: possibile che Quinn gli avesse piazzato addosso una microspia? Non sarebbe stata la prima volta, e le opportunità non le erano certo mancate. Si spogliò completamente e sostituì gli indumenti athosiani con una tuta rossa e un paio di stivali appena un po’ larghi per lui. Erano di una gomma dura che gli irritava la pelle dei piedi, ma non osò tenere neanche i calzini. Quel travestimento gli sarebbe servito solo per il tempo di sgattaiolare — prima individuare, e poi sgattaiolare — fino al più vicino posto di polizia della stazione. Non era un furto. Alla prima opportunità avrebbe restituito la tuta e gli stivali.

Scivolò fuori dal piccolo locale — dopo aver memorizzato il numero della porta per esser certo di ritrovare i suoi abiti, più tardi — e svoltò a sinistra in un corridoio deserto cercando d’imitare l’andatura ferma e tranquilla di un operaio della stazione diretto al lavoro. Oltrepassò due donne in tuta azzurra che si portavano dietro un carrello antigravità, e che sembravano avere troppa fretta per far caso a lui. Ethan non ebbe il coraggio di fermarle e chiedere loro la strada. Nei suoi abiti da turista avrebbe potuto farlo, ma un operaio kliniano avrebbe dovuto sapere dov’era la stazione di polizia. La sua domanda le avrebbe insospettite ancor più del suo accento.

Si stava chiedendo se era davvero saggio sentirsi tranquillo, in base all’assunzione che se lui non sapeva dov’era non lo sapevano neanche i suoi nemici, quando un grido e un tonfo seguiti da altri rumori confusi gli fecero alzare lo sguardo. Poco più avanti, a un incrocio, due carrelli antigravità s’erano scontrati con violenza. Ci furono grida e imprecazioni e qualcuno fece un goffo tentativo di afferrare il carico, ma la pila di fragili cassette che era su uno dei veicoli si rovesciò al suolo. Nel corridoio echeggiò un ciangottio assordante; palle di piume gialle esplosero nell’aria da uno dei contenitori fracassati e saettarono qua e là, rimbalzando sulle pareti.

Una donna cominciò a gridare: — La gravità! Aumenta la gravità! — Ethan riconobbe la voce, con un sussulto. Era quella robusta sorvegliante ecologica in tuta verde e azzurra, Helda qualcosa, dell’Ufficio Riciclaggio. Stava indicando verso la parete accanto a lui, rossa in faccia per l’indignazione. — La Gravità! Svegliati, razza di idiota, non vedi che stanno scappando? — lo accusò l’indisponente femmina. Si tirò fuori dal mucchio delle cassette rovesciate e barcollò verso di lui, ansando.

Mentre Ethan lottava con la coscienza per decidere se aveva il dovere etico di rinunciare al travestimento e prestare la sua assistenza di medico — le altre tre persone coinvolte nell’incidente erano ancora sedute al suolo e si lamentavano a gran voce, benché sembrassero in grado di alzarsi — Helda lo fece spostare dalla parete, spalancò un pannello e girò un interruttore a manopola. Gli spaventatissimi uccelli canori squittirono ancor più forte quando il loro sbatter d’ali cominciò a essere inutile, mentre la gravità li risucchiava al suolo. Ethan si sentì piegare di colpo le ginocchia quando il suo peso corporeo raddoppiò, e si ritrovò ad annaspare abbracciato alla sorvegliante ecologica, entrambi impegnati a non cadere dolorosamente sul marciapiede.

— Oh, Dio, ancora tu! — sbottò Helda. — Avrei dovuto immaginarlo. Che stai facendo qui? Sei di servizio?

— No — gracidò Ethan.

— Bene. Allora puoi aiutarmi a recuperare questi dannati volatili, prima che spargano il virus della toxoplasmidosi in tutta la stazione. Muoviti!

Ethan conosceva già la toxoplasmidosi. una malattia sub-virale poco contagiosa che attaccava l’RNA, e volonterosamente tenne dietro alla femmina, sulle mani e sulle ginocchia, alla cattura dei dieci o dodici isterici uccelli ora inchiodati al suolo dal loro peso. Solo quando l’ultimo di essi fu ricacciato nella cassetta e il coperchio aggiustato con la cintura di Helda, la sorvegliante ecologica si decise a prendere atto dei gemiti delle vittime umane dello scontro, ora distese al suolo e per nulla soddisfatte dell’espediente col quale lei aveva risolto la situazione. Quando la femmina ebbe riportato le piastre gravitazionali del pavimento di quella sezione allo 0,8 G standard, Ethan si sentì d’un tratto così leggero che avrebbe potuto volare, per il sollievo.

Una delle vittime era un uomo con l’uniforme verde-pino e azzurro-cielo come quella di Helda. Aveva sulla fronte un taglio da cui gli ruscellava sangue su tutta la faccia. Ethan lo diagnosticò a colpo d’occhio vistoso ma superficiale. Un paio di minuti di pressione sui vasi sanguigni intorno alla ferita — non ad opera delle sue mani; lui aveva toccato gli uccelli — avrebbe fermato la perdita di sangue senza problemi. Gli altri due pallidi adolescenti arrivati a bordo dell’altro carrello, uno maschio e l’altra femmina — l’occhio ormai esperto di Ethan l’aveva immediatamente identificata come tale — vacillarono in piedi e guardarono con orrore la faccia del ferito, evidentemente convinti di averlo ammazzato.

Ethan, stringendo le mani a pugno per ricordare a se stesso che non doveva toccare niente, mise nella sua voce una brusca autorità da adulto e istruì il ragazzo su come improvvisare un tampone e medicare la ferita. La femmina stava piagnucolando di avere un polso fratturato ma, visto come lo muoveva, Ethan avrebbe scommesso tutti i suoi dollari betani che l’articolazione era intatta. Nel frattempo Helda, tenendo le mani a pugno come lui, era andata ad aprire con un gomito un pannello trasparente della parete e stava convocando i soccorsi. Il primo pensiero della sorvegliante ecologica fu per una squadra di decontaminazione del suo dipartimento, il secondo per la Sicurezza della Stazione, e da ultimo ma senza molta convinzione si decise a chiamare anche un meditec per i feriti.

Sollevato, Ethan rifletté che non tutto il male veniva per nuocere. Invece di dover vagare chissà per quanto tempo in cerca della Sicurezza della Stazione, questa stava per venire da lui. Avrebbe potuto affidarsi alle loro mani e lasciare che fossero le autorità a occuparsi di tutti i suoi problemi.

Ad arrivare per prima fu la squadra di decontaminazione. I portelli stagni del settore furono chiusi, e gli addetti cominciarono a ripassare le pareti, il soffitto e la pavimentazione con aspiratori sonici, sterilizzatori a raggi X e potenti disinfettanti.

— Descrivi tu l’incidente alla Sicurezza, Teki — ordinò Helda al suo assistente, mentre entrava nella vettura antigravità sigillata che la squadra di decontaminazione aveva portato con sé. — E accertati che questi giovani malandrini abbiano una bella multa salata.

I due adolescenti assunsero un’espressione costernata, non molto rassicurati dal segreto cenno di complicità con cui Teki cercò di rassicurarli.

— Allora cosa aspetti? Andiamo — disse Helda a Ethan.

— Eh? Mmh… — Grugniti e monosillabi potevano mascherare il suo accento, ma non consentivano di domandare informazioni. Ethan azzardò un: — Andiamo dove?

— In quarantena, naturalmente.

In quarantena? E per quanto? Quelle parole dovevano essergli sfuggite di bocca involontariamente, perché l’uomo della decontaminazione che gli era venuto accanto per farlo entrare nel carrello rispose, placando le sue preoccupazioni:

— Ti daremo soltanto un colpetto e una ripulita da capo a piedi. Se hai un impegno urgente potrai telefonare di là. Noi confermeremo che il ritardo non è colpa tua.

Ethan fu sul punto d’informare il tecnico che lui era uno straniero nei guai, ma la pressione della sua mano gli fece capire che le misure di quarantena avrebbero avuto comunque la precedenza sulle sue necessità personali. Si lasciò spingere dentro la vettura a bolla, e sedette di fronte alla sorvegliante ecologica dipingendosi un sorrisetto inespressivo sulla faccia.

Lo sportello fu chiuso e sigillato, isolando l’interno dai rumori del corridoio, e la vettura a bolla fluttuò via. Mentre Ethan guardava fuori attraverso l’abitacolo trasparente, seccato di aver dovuto andarsene in quel modo, sopraggiunsero due veicoli della Sicurezza con a bordo gli agenti in uniforme nera e arancione. Se anche avesse gridato loro che voleva essere interrogato, dubitava che avrebbero potuto sentirlo.

— Non toccarti la faccia — gli raccomandò Helda distrattamente, voltandosi a dare un ultimo sguardo alla scena dell’incidente. Tutto sembrava ormai sotto controllo; la squadra di decontaminazione si stava occupando dei carrelli e delle cassette di volatili, e i portelli stagni di quel settore erano stati riaperti.

Ethan le mostrò i suoi pugni chiusi perché capisse che sapeva già cosa fare.

— Sembra che tu sappia cosa fare, se c’è pericolo di contaminazione — gli concesse Helda scontrosamente, girandosi di nuovo verso di lui. Si appoggiò allo schienale — Per un momento avrei detto che eri diventato sordo dall’ultima volta che ti ho visto, o che Moli e Portelli avevano assunto un handicappato di troppo.

Ethan scrollò le spalle. Nella vettura cadde il silenzio. Il silenzio si prolungò. Lui si schiarì la gola. — Di che si trattava? — domandò, con un cenno del capo all’indietro verso la zona dell’incidente.

— Un paio di ragazzi stupidi che giocavano a guerre stellari con un carrello antigravità. I loro genitori mi sentiranno. Se uno vuole il brivido della velocità, prende una vettura e si cerca un settore deserto, I carrelli da carico servono per lavoro. O stavi parlando degli uccelli?

— Gli uccelli.

— Un carico condannato. Avresti dovuto sentire le urla del comandante di quel mercantile, quando glieli abbiamo sequestrati. Come se lui avesse il diritto di spargere epidemie in tutta la galassia. Ma avrebbe potuto capitare di peggio. — La femmina sospirò. — Avrebbe potuto trattarsi di mucche.

— Mucche? — mormorò Ethan.

Lei sbuffò. — Un’intera dannata mandria di mucche vive, dirette su un pianeta del Sesto Quadrante per l’allevamento e la riproduzione. Piene di germi patogeni dalle corna alla coda. Sono stata costretta a tagliarle a pezzi per farle passare nello sportello del degradatore. Il lavoro più sporco e faticoso che tu abbia mai visto. Le abbiamo ridotte in atomi, comunque, su questo puoi scommetterci. Subito i proprietari hanno fatto causa alla stazione, per danni. — Nei suoi occhi ci fu un lampo. — E hanno perso. — Dopo un momento aggiunse: — Odio il sudiciume e i germi.

Ethan annuì ancora, sperando di apparirle ragionevole e comprensivo. Quella femmina robusta e dall’aria minacciosa era l’ultima persona della stazione di cui avrebbe desiderato la compagnia, a parte Millisor e Rau. Con una persona simile all’Ufficio Riciclaggio, c’era da temere che perfino gli esseri umani ammalati, scoperti a bordo di navi in transito, fossero resi innocui per i loro simili con sistemi altrettanto spicci.

— Allora, che state facendo voi dei Moli e Portelli? L’avete poi ripulita quella porcheria al Molo 13? — gli domandò d’un tratto Helda.

— Ah, be’… — Ethan si schiarì la gola.

Lei corrugò le sopracciglia. — Che ti succede? Hai il raffreddore?

Ethan non avrebbe osato ammettere che le sue mucose ospitavano un virus. — Ho un po’ di abbassamento di voce. Mal di gola — bofonchiò.

— Ah. — La femmina si appoggiò allo schienale con aria delusa. Poi. visto che ora il peso della conversazione ricadeva tutto sulle sue spalle, si guardò attorno in cerca di qualche argomento. — Bah. Quello sì che è uno spettacolo disgustoso — disse, indicando il marciapiede con un pollice. Ethan guardò fuori ma non vide niente, a parte un paio di kliniani di passaggio. — Viene da chiedersi con che coraggio i suoi la lascino uscire di casa.

— Chi? — balbettò Ethan, colto del tutto di sorpresa.

— Quella ragazza. La cicciona.

Lui si girò a guardare indietro. L’obesità della femmina in oggetto era così minima che lui l’avrebbe a stento diagnosticata tale, e non faceva che aggiungere qualche cuscinetto in più alle sue naturali sporgenze fisiche.

— Può darsi che sia un carattere genetico non modificabile nel solito modo — suggerì in tono mite.

— Ha. Questa è soltanto una patetica scusa per la mancanza di autodisciplina. Probabilmente quella svergognata si alza la notte per rimpinzarsi di costose leccornie importate dall’esterno. — Helda scosse il capo. — Ripugnanti porcherie straniere. Non si sa neanche dove le fabbrichino. Io, invece, mangio soltanto verdure prodotte dalle nostre buone vasche idroponiche, ed evito quelle carni ad alto contenuto proteico, troppo grasse, il cui impatto sul colesterolo è micidiale… — E proseguì in una verbosa dissertazione sui saggi metodi con cui teneva sotto controllo i suoi processi digestivi, finché l’auto a bolla giunse a destinazione e si fermò.

Ethan attese che Helda fosse uscita prima di sganciare la cintura di sicurezza. Poi scivolò giù dal sedile e cautamente mise fuori la testa.

L’aria del settore d’isolamento per le malattie infettive aveva un odore di laboratorio che lo riempì di nostalgia per il centro di riproduzione di Sevarin. Deglutì saliva; il pensiero d’essere così lontano da casa sua gli aveva fatto venire un groppo in gola.

— Da questa parte, egregio. — Un tecnico ecologico in tuta sterile gli accennò di precederlo. Altri due tecnici stavano già ripassando l’auto a bolla con gli sterilizzatori a raggi X. Dal parcheggio delle vetture Ethan fu indirizzato in fondo al corridoio, a una specie di spogliatoio, mentre il tecnico lo seguiva sterilizzando le invisibili impronte delle sue scarpe con un aspiratore sonico.

Mentre Ethan si spogliava, il tecnico lo obbligò a leggere una targa con le istruzioni per la doccia di decontaminazione, quindi infilò i suoi stivali e la rossa tuta da operaio in uno scomparto di vetro per il lavaggio sterilizzante, mugolando: — Niente biancheria intima? Che razza di gente!

Il documenti di Ethan e la sua carta di credito erano in una tasca della tuta, e nel vederla inondata da getti di liquido gli sfuggì un’imprecazione lamentosa. Ma ormai era inutile protestare. Si fece la doccia per i dieci minuti prescritti, si asciugò, sternuti più volte a causa del sapone disinfettante che gli aveva irritato le mucose, e infine uscì nello spogliatoio e attese, nudo come un verme, per quello che gli parve un tempo interminabile. Stava meditando sulla possibilità di spaccare a calci lo scomparto di lavaggio, che non voleva saperne di aprirsi per restituirgli le sue cose, e di andarsene insalutato ospite, quando il tecnico in tuta bianca fece ritorno.

Lo scomparto giunse al termine del suo ciclo e si aprì. Il tecnico mise la tuta rossa ancora umida e le scarpe su una panca, tirò fuori un hypospray e quando gli ebbe fatto l’iniezione nel braccio disse: — Puoi proseguire. Seconda a destra. Prima di andartene fermati alla Registrazione. È dall’altra parte. — Gli volse le spalle e sparì nel locale attiguo.

Ethan frugò nella tuta. Il suo portafoglio era ancora lì, asciutto e intatto. Sospirò di sollievo, si rivestì, raddrizzò le spalle per trovare il coraggio di fare una piena confessione a chi aveva ora l’incarico di registrarlo, e seguendo la poco decifrabile indicazione del tecnico uscì dalla parte opposta a quella a cui era entrato.

Stava pensando d’essersi perduto in qualche altro posto "vietato ai non addetti" quando vide una porta aperta, e un locale dove dietro un banco c’era un impiegato che si occupava di numerosi terminali e altre attrezzature interfacciale coi computer della stazione. In quel momento il giovanotto che era stato sul carrello dei volatili gialli, Teki, un po’ pallido e con un vistoso bendaggio di plastica bianca sulla fronte, lo raggiunse a passi svelti e arrivò alla porta insieme a lui. Sulla soglia si fermò con un sorrisetto esitante, e accennò a Ethan di entrare per primo. La corpulenta Helda era già lì, in piedi davanti al bancone, con le braccia conserte e l’aria impaziente.

L’accidiosa femmina gratificò Teki di uno sguardo freddo. — Era l’ora che ti staccassi da quel telefono. Credevo che tu avessi detto alla tua amichetta dai capelli ritinti di non chiamarti durante l’orario di lavoro.

— Non era Sara — rispose Teki, pazientemente. — Era una mia parente, e per questioni di lavoro. — Poi, per dirigere altrove l’attenzione di Helda, le indicò Ethan. — Ecco qua il nostro aiutante.

Ethan era rimasto indietro, ma visto che lo stavano guardando si avvicinò di malavoglia al bancone dell’impiegato. Si chiedeva da dove avrebbe dovuto cominciare, per rendere logica e accettabile la sua storia. Avrebbe voluto che Helda non fosse lì ad ascoltare.

— Uh, bene — disse l’impiegato in tuta verde e azzurra che si occupava delle registrazioni. — Mi fornisca la tessera assicurativa, prego. — E tese una mano verso Ethan.

Voleva un qualche genere di documento usato dai lavoratori della stazione, suppose lui. Trasse un profondo respiro, si fece coraggio, guardò la sorvegliante ecologica che lo scrutava accigliata, e lasciò perdere la confessione in favore di un: — Ehm, uh… in questo momento non ce l’ho qui…

L’espressione di Helda si fece ancor più disgustata. — Dovresti portarla sempre con te sul lavoro, tuta rossa. Come ti chiami?

— Ma ora sono fuori servizio — si difese Ethan disperatamente. — L’ho lasciata nell’altra tuta. — Se fosse riuscito a lasciarsi alle spalle quella terribile femmina, sarebbe andato dritto dalla Sicurezza della Stazione…

Helda agitò severamente un dito verso di lui.

Teki intervenne prima che potesse aprir bocca: — Avanti, Helda, lascialo respirare. Dopotutto è qui perché ha voluto aiutarci con quei dannati uccelli, no? — Detto questo prese Ethan sottobraccio, rivolse un cenno d’intesa all’impiegato, il quale passò ad occuparsi d’altro con una scrollata di spalle, e lo condusse alla porta. — Puoi andare a prendere la tua tessera assicurativa e portarla qui più tardi, con comodo.

— Questa è una procedura irregolare — fece notare Helda dal banco, rivolta all’impiegato. Ma lui scosse il capo e accennò a Ethan che poteva andarsene.

— Non far caso a Helda — disse Teki mentre si separava da lui davanti alla camera degli sterilizzatori UV, l’ultimo locale a chiusura stagna all’uscita del reparto d’isolamento. — Non è sempre stata così insopportabile. Prima che suo figlio se ne andasse dalla stazione per emigrare fra i mangiafango di un pianeta, era più sopportabile… anche se non per lui. evidentemente. Non ti ha neanche ringraziato per il tuo aiuto, scommetto, eh?

Ethan scosse il capo.

— Be’, io ti ringrazio — disse Teki, toccandosi la fronte. La porta della camera degli sterilizzatori UV si richiuse sul suo sorriso.

— Arrivederci — mormorò Ethan. uscendo dell’altra parte. Si guardò attorno. Era in un corridoio della stazione, identico a migliaia d’altri. Si passò una mano sulla faccia, chiuse un attimo gli occhi per placare le sue sofferenze spirituali, poi fece un sospiro e s’incamminò in una direzione a caso.


Due ore dopo stava ancora camminando in una direzione a caso, con il dubbio frustrante d’essere già passato più volte negli stessi posti. Gli uffici della Sicurezza della Stazione, che sulla Passeggiata dei Viaggiatori erano frequenti quanto invisibili, nei settori abitati soltanto dai kliniani sembravano non esserci affatto; oppure da quelle parti usavano targhe meno universalmente comprensibili e lui li stava oltrepassando senza accorgersene. Quando un’altra vescica gli si formò sui piedi, irritati dalla gomma di quegli stivali, Ethan imprecò sottovoce e proseguì zoppicando.

Ciò che vide guardandosi attorno all’incrocio successivo gli risollevò il morale. Su quelle porte le targhe avevano di nuovo scritte in più lingue, solide serrature a combinazione e gli avvertimenti di "vietato l’ingresso" dedicati ai turisti. Si avviò da quella parte. Un altro incrocio, un altro portello stagno, e si trovò in una strada assai frequentata. Non distante da lì, accanto a una fontana, c’era una mappa stradale di quei settori.

— Dunque… tu sei qui — mormorò, seguendo l’olovideo con un dito. Luci colorate gli bagnarono il polpastrello. Il più vicino posto della Sicurezza era a cinquanta metri da lì. Ethan si girò a raffrontare la mappa con l’aspetto di quella strada. Il suo albergo si trovava al livello inferiore. L’albergo di Elli Quinn era due livelli più in alto, poco più lontano. Ansiosamente si domandò dove fosse quello in cui i due cetagandani l’avevano interrogato. Non molto distante, poteva starne certo. Pregò Dio il Padre di salvarlo dagli incontri indesiderati e s’avviò sul marciapiede, guardandosi attorno in cerca di uomini dalla faccia dipinta o femmine brune in uniforme grigia e bianca.

SICUREZZA — STAZIONE KLINE diceva l’insegna luminosa sopra il chiosco circolare dalle pareti di vetro, attraversato verticalmente da un pozzo antigravità. Ethan salì sulla terrazza soprelevata su cui sorgeva, entrò nel chiosco e si accorse che dall’interno si aveva una visuale completa della strada. Computer e consolle di comunicazione riempivano il piccolo locale. Un agente della Sicurezza sedeva coi piedi sulla scrivania davanti ai monitor, e mangiucchiava qualcosa da una confezione sorvegliando con sguardo pigro il traffico di auto a bolla e di pedoni.

Una femmina della Sicurezza, si corresse Ethan con un gemito interiore. Giovane, scura di capelli, con indosso quell’uniforme quasi-militare arancione e nera aveva una generica somiglianza con la comandante Quinn.

Ethan si schiarì la gola. — Ehm, uh… mi scusi, lei è di servizio?

L’agente femmina sorrise. — Ahimè, sì. Da quando mi infilo questa uniforme ed esco di casa per iniziare il mio turno, sono al servizio del pubblico. Quando smonto, però, e per sua informazione ciò accade alle 24.00, sono soltanto al servizio di me stessa — aggiunse in tono incoraggiante. — Conosco un posto dove fanno ottime polpettine di tritone. Le piacciono?

— Uh, no… grazie — rispose Ethan. Le restituì un sorriso nervoso, incerto. Quello di lei si fece abbagliante. Lui riesumò la domanda che s’era preparato. — Lei ha saputo qualcosa di un tizio che ha sparato con un distruttore neuronico, questa mattina, in una strada della Passeggiata dei Viaggiatori?

— Dio, sì. Ne stanno parlando anche giù ai Moli e Portelli?

— Be’… — Ethan ricordò di avere una tuta rossa; questo stava generando qualche altro malinteso imprevisto. — Senta, io non sono un cittadino di Stazione Kline.

— Questo l’avevo capito dal suo accento — annuì cordialmente lei. Mise giù i piedi dalla scrivania e vi poggiò un gomito, sostenendosi il mento con la mano. Lo guardò con espressione comprensiva. — È dura emigrare dal pianeta natale per andare a lavorare qua e là per la galassia, eh? Oppure lei è stato abbandonato qui da qualche nave?

— Uh… né l’una né l’altra cosa. — Visto che lei continuava a sorridere, Ethan fece altrettanto. Quel comportamento così gravido di contatto personale faceva parte del rituale di comunicazione fra i sessi? Né Quinn né la sorvegliante ecologica Helda avevano usato segnali facciali tanto intensi, ma Quinn aveva ammesso di essere atipica, e la sorvegliante ecologica sembrava non appartenere all’ambiente ecologico della razza umana.

La bocca stava cominciando a fargli male. — Senta, circa quella sparatoria…

— Ah. Lei ha parlato con qualcuno che ha assistito al fatto? — Un po’ dell’atteggiamento intimo della femmina si dissolse, e sedette in posizione meno rilassata. — Stiamo cercando dei testimoni.

Ethan decise d’essere prudente. — Ah… e perché?

— Per precisare l’imputazione nei confronti dello sparatore, l’uomo che abbiamo arrestato. Naturalmente costui afferma che è stato un incidente, un colpo partito per caso mentre mostrava l’arma a un suo amico. Ma l’informatore che ha telefonato per segnalarci il fatto ha dichiarato che costui stava prendendo di mira un uomo, il quale è fuggito illeso. L’informatore però non si è più sentito, e i cosiddetti testimoni oculari che si trovavano nelle vicinanze sono i soliti chiacchieroni: tutti con qualcosa di drammatico da raccontare, però quando si viene al sodo finiscono per ammettere che in quel momento stavano guardando da un’altra parte, o non erano ancora usciti da questo o quel locale, e insomma non ce n’è uno che sappia dire dove puntava quel dannato distruttore neuronico. — Fece un sospiro. — Ora, se dimostrassimo che l’individuo ha sparato a qualcuno, potremmo condannarlo e farlo deportare. Ma se è stato solo un incidente, tutto quello che possiamo fare è sequestrargli l’arma illegale, appioppargli una forte multa e lasciarlo andare. E questo dovremo farlo entro le prossime dodici ore, se l’accusa di tentato omicidio non potrà essere elevata nei suoi confronti.

Rau arrestato dalla Sicurezza? Il sorriso di Ethan si allargò. — E quel suo amico?

— Se venisse fuori qualcosa potrebbe essere accusato di complicità, ovviamente. Tuttavia non aveva armi addosso al momento del nostro intervento, cosicché a suo carico non c’è nulla.

Millisor dunque era a piede libero, se lui aveva interpretato bene le parole dell’agente femmina. Il sorriso di Ethan si spense. E così anche quel Setti, che lui non aveva mai visto e che non avrebbe potuto riconoscere neppure sbattendogli addosso. Si schiarì la gola.

— Io mi chiamo Urquhart.

— Io Lara — rispose l’agente della Sicurezza.

— Bel nome — disse automaticamente Ethan. — Però…

— Era il nome di mia nonna — gli confidò lei. — Io credo che restare legati ai nomi di famiglia dia il senso della continuità, non le sembra? A meno che uno non abbia la sfortuna di innamorarsi di una che ha una madre di nome Steirilla, com’è successo anni fa a un mio amico. Quando hanno avuto una bambina lui ha deciso di chiamarla Illa.

— Ecco… non era esattamente questo che stavo dicendo.

Lei inclinò la testa. — E cosa?

— Mi scusi, ma non capisco.

— Voglio dire: cos’è che stava dicendo, allora?

— Ehm…

— … quhart — finì lei. Agitò una mano. — Non è poi un brutto nome, Emquhart. Ne ho sentiti di peggio. Non credo che lei dovrebbe farsi venire un complesso. Oppure quand’era bambino la prendevano in giro per questo?

Lui restò a guardarla a bocca aperta, con la testa completamente vuota. Ma prima che il percorso della conversazione potesse diventare ancor più contorto, un’altra agente della Sicurezza, anch’essa femmina ma alquanto più anziana di lei, arrivò giù con l’ascensore antigravità che collegava il chiosco ai livelli superiori e inferiori. Emerse dal pozzo con andatura rapida e autoritaria.

— Guarda di non socializzare troppo sul lavoro, caporale… non è la prima volta che mi costringi a dirtelo — brontolò, passandole accanto per andare ad aprire un armadietto. — Mettiti il cinturone, abbiamo una chiamata.

L’agente giovane indirizzò smorfie buffe alla schiena della collega, e sussurrò a Ethan: — Alle 24.00, allora, d’accordo? — Si alzò in piedi, poi assunse un atteggiamento più professionale quando l’altra tirò fuori dall’armadietto due cinturoni a cui erano appese grosse fondine. — È una cosa seria, signora?

— Dobbiamo unirci a una caccia all’uomo, in corso al Livello C7 e C8. Un prigioniero è scomparso dal Reparto Detenzione.

— È evaso?

— Non mi è stato detto "evaso". Mi è stato detto solo "scomparso" — L’agente anziana ebbe una smorfia acida. — Quando Echelon insiste con questa sua terminologia strana, la situazione mi piace poco. Il detenuto è quel mangiafango arrestato stamattina per possesso illegale di un distruttore neuronico. Io ho guardato quell’arma, e una cosa posso dirtela: è una pistola militare, ed è stata usata molto spesso. — Consegnò alla collega uno dei due grossi storditori, controllò la carica del suo e si allacciò il cinturone.

— Roba militare, dici? La cosa puzza, allora. — La caporale esaminò la sua uniforme allo specchio, si rassettò i capelli con cura e poi diede anche lei uno sguardo alla carica della sua pistola.

— Proprio così, e non poco. Scommetterei un mese di paga che lui e quell’altro tipo sono due agenti di qualche servizio militare, due spie, con tanto di documenti falsi.

— Dovrei averci fatto l’abitudine, ma non è così. Quei rompitasche impestano le stazioni spaziali peggio dei topi. Pensi che abbiano dei complici o siano soltanto in due?

— Spero che non siano un’intera banda. È gente imprevedibile, violenta, capace di tutto, che mette in pericolo la sicurezza di chiunque si trovi coinvolto nelle loro attività. E quando tu li arresti per aver infranto la legge, ecco che qualche ambasciata subito protesta e qualcuno paga uno stuolo di avvocati per tirarli fuori dai guai, mentre qualche altro mangiafango fa di tutto per confondere le prove a loro carico e chiudere la bocca ai testimoni… — L’agente più anziana fece segno a Ethan di uscire dalla porta. — Senta, lei, se non è una cosa urgente vada via e torni più tardi. Qui dobbiamo chiudere. — Si rivolse alla caporale: — Tu resta incollata a me, chiaro? Niente atti eroici.

— Sì, signora.

Pochi secondi dopo Ethan era di nuovo fuori, sulla balconata che circondava il chiosco, mentre le due agenti femmina si affrettavano via sul marciapiede. La bruna agente di nome Lara si girò a dargli un ultimo sguardo, vide il suo esitante cenno di saluto e sorrise gaiamente, agitando le dita di una mano verso di lui.


Tre corridoi e l’ascensore antigravità in fondo alla Passeggiata dei Viaggiatori. Su per due livelli. Alcune svolte in una zona poco frequentata fino all’albergo di Quinn. L’odore ormai familiare del corridoio, la porta in fondo a destra. Ethan si umettò nervosamente le labbra e bussò.

Nessuna risposta. Bussò ancora.

Si girò a guardare verso l’atrio, chiedendosi se…

La porta scivolò di lato con un soffio d’aria compressa. Il suo sollievo si spense alla vista del robot delle pulizie, che gli girò attorno con un ronzio indifferente e si allontanò. La stanza era pulita e vuota, anonima come se nessuno l’avesse mai occupata.

— Ma dove può essere andata? — domandò Ethan a voce alta, battendo un pugno sullo stipite per sfogare la frustrazione.

Con sua sorpresa, il robot delle pulizie si fermò. — Signore o signora, la prego di riformulare la sua richiesta — disse una voce, da una griglia della sua carrozzeria di plastica bianca.

Ethan si accostò al robot, ansiosamente. — La comandante Quinn… la persona che occupava questa camera, dov’è andata?

— Signore o signora, il cliente che occupava la camera a lei ora assegnata ha lasciato libera la camera suddetta alle ore undici zero-zero. Per ulteriori lamentele sullo stato della camera lei può rivolgersi a questa unità.

Alle undici del mattino? Doveva essere andata via pochi minuti dopo che lui era uscito, calcolò Ethan. — Oh, Dio il Padre…

— Signore o signora — lo interpellò educatamente il robot, la prego di riformulare la sua richiesta.

— Non stavo parlando con te — brontolò Ethan, passandosi una mano fra i capelli. All’improvviso si accorse di avere le lacrime agli occhi.

Il robot estruse un aspiratore sonico e ripulì qualche traccia di polvere lasciata dalle sue scarpe. — Signore o signora, ha altre lamentele da rivolgere a questa unità?

— No, no…

La macchina girò su se stessa e ronzò via lungo il corridoio.


Giù per due livelli, attraverso tre corridoi. Su per gli scalini della balconata. Le agenti della Sicurezza non erano ancora tornate. Il chiosco era chiuso e vuoto.

Ethan tornò accanto alla fontana, a cinquanta metri da lì. e attese. Stavolta avrebbe detto subito chi era alle autorità della stazione, senza tergiversare. Se Rau, sparandogli, aveva rivelato d’essere sul lato sbagliato della legalità, lui doveva di conseguenza essere sul lato giusto. Questo ragionamento sembrava logico. E in tal caso lui non doveva aver niente da temere dalla Sicurezza.

Tuttavia, se quella gente non era riuscita a trattenere Rau nel loro Reparto di Detenzione, quante probabilità avevano di ricatturarlo? Quell’individuo doveva essere esperto nel suo mestiere di spia, oltreché spietato e deciso a tutto. Ethan si sforzò d’ignorare quella riflessione, attribuendola alle paure astutamente impiantate in lui da Quinn. La Sicurezza della Stazione gli offriva le migliori possibilità. In effetti, ora che aveva irrevocabilmente offeso Quinn, la Sicurezza era la sua unica possibilità.

— Dottor Urquhart? — Una mano gli calò su una spalla.

Ethan sobbalzò come a un colpo di pistola e girò su se stesso. — Chi è lei? Che cosa vuole?

Il giovanotto biondo che gli si era avvicinato fra le aiuole intorno alla fontana lo guardò con aria di scusa. Era di altezza media, snello e robusto, vestito in uno stile a lui non familiare: camicia lunga senza maniche, larghi pantaloni allacciati alle caviglie con dei nastri, stivali di pelle d’aspetto rigonfio e floscio. — Mi perdoni. Se lei ò il dottor Ethan Urquhart di Athos, io l’ho cercata in tutta la stazione.

— Perché?

— Speravo che lei potesse aiutarmi. La prego, signore, non se ne vada… — Il giovanotto allungò una mano per fermarlo, mentre Ethan indietreggiava. — Lei non mi conosce, lo so, ma ho una richiesta urgente da fare al pianeta Athos. Lasci che mi presenti: io mi chiamo Cee, Terrence Cee.

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