CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ethan passò attraverso il rivelatore d’armi senza provocare un solo fremito di reazione nei sensori che lo avevano analizzato da capo a piedi fino alla profondità delle ossa, e respirò più liberamente. Il Reparto Detenzione di Stazione Kline era un ambiente spoglio capace di mettere soggezione a chiunque, privo delle sottigliezze della psico-architettura e dei colori studiati per rallegrare i turisti. Se quell’effetto era voluto, certo otteneva il suo scopo. Ethan si sentiva in colpa per il solo fatto d’essere entrato in visita al Settore Minima Sicurezza, dov’erano tenuti i carcerati in attesa di giudizio o ritenuti non pericolosi.

— La comandante Quinn è nell’Infermeria Numero Due, ambasciatore Urquhart — lo informò il secondino incaricato di fargli da guida. — Da questa parte, prego.

Su per un pozzo antigravità, a destra e a sinistra lungo corridoi dalle pareti metalliche non verniciate. La gente che viveva da generazioni in una stazione spaziale, rifletté Ethan, doveva aver finito per sviluppare un senso dell’orientamento molto particolare basato su cose come le differenze di gravità, o di pressione, che caratterizzavano il passaggio da un settore all’altro. Per non parlare della sensibilità a certi dettagli.

La scarsa percezione dei colori poteva rivelarsi un handicap mortale, in un luogo dove gli avvertimenti di cui tenere conto erano molteplici. Le uniformi degli agenti di custodia, come tutti gli abiti da lavoro del personale, avevano un codice di colori ben preciso, e la quantità di arancione e di nero variava a seconda del grado. I semplici secondini avevano tute arancione con poche strisce nere. Quello che lo accompagnava rallentò il passo per rivolgere un formale saluto, che fu restituito distrattamente, a un uomo dai capelli bianchi la cui uniforme non era molto rallegrata dal colore arancio. Uno poteva farsi un’idea di tutte le gerarchie della stazione in base a quel genere di indizi.

Il capitano Arata, che stava uscendo dall’Infermeria Due giusto mentre Ethan e la sua guida arrivavano, esibiva molto nero con fasce arancione solo sul colletto, sulle maniche, e sul lato esterno dei pantaloni. Anche la sua faccia era piuttosto scura.

— Ah, ambasciatore Urquhart. — Il cipiglio fu messo da parte e sostituito con un sorrisetto dal sapore ironico. — È venuto a visitare la nostra avventurosa mercenaria spaziale? Non c’era bisogno che si prendesse il disturbo. Fra poco sarà di nuovo una persona libera, con soddisfazione di tutti i parenti e amici che l’hanno tenuta su di morale in questi giorni. La sua carta di credito è risultata essere qualcosa di stupefacente, sostenuta addirittura da garanzie diplomatiche, e le pene pecuniarie stabilite dal tribunale sono state pagate. Aspetta solo il nulla osta dei medici, per andarsene.

— Sembra che lei non ne sia altrettanto soddisfatto, capitano — osservò Ethan. — Comunque, io ho solo qualche domanda da farle.

— Anch’io — sospirò Arata. — Parecchie. Le auguro di avere più fortuna di me con le risposte. Nelle ultime settimane, quando supponevo che mi frequentasse perché ho un sorriso simpatico, non faceva che risucchiarmi informazioni abbastanza riservate. Ora che sono io a volere informazioni, cosa ottengo? Un sorriso simpatico. — Scosse il capo. — Ma sono certo che la persuaderò a collaborare. Ci sono responsabilità tuttavia, che anche altre persone potrebbero aiutarci a precisare. — E guardò Ethan con aria d’attesa, per chiarire che quella non era soltanto un’allusione.

— Le auguro buona fortuna nella sua indagine — disse Ethan, cordialmente deciso a non essergli d’aiuto neppure un po’. Aveva fatto fronte alle domande della Sicurezza sui terribili eventi accaduti ai moli trincerandosi dietro i suoi privilegi diplomatici, dopo aver lasciato alla prolifica inventiva di Quinn la versione ufficiale dell’intera faccenda. Nell’interrogatorio preliminare, a cui avevano partecipato entrambi, nonostante le sue condizioni fisiche la mercenaria aveva mescolato menzogne e verità, montando una storia abbastanza fantasiosa che tuttavia poteva reggere su tutti i punti verificabili dalla Sicurezza. Nella sua spiegazione, ad esempio, Millisor e Rau stavano cercando di rapirla allo scopo di farle il lavaggio del cervello e trasformarla in un doppio agente, infiltrata fra i Mercenari Dendarii ma in realtà al servizio dei cetagandani. I due killer di Casa Bharaputra, ancora a piede libero, erano stati accusati di tutti i crimini che avevano commesso e di qualcuno con cui non c’entravano niente… come la scomparsa di Okita, il cui cadavere veniva per il momento cercato nello spazio. Buona parte delle energie della Sicurezza erano adesso rivolte al consolato del Gruppo Jackson, che dava rifugio ai due bharaputrani, e si stavano negoziando i termini della loro deportazione. Terrence Cee era rimasto nell’ombra. Ethan non aveva osato aggiungere o sottrarre una parola a quel poco che la Sicurezza sapeva di lui.

— Sfortunatamente per una certa persona — concluse Arata, gratificandolo di uno sguardo acuto come una pistola ad aghi, — io ho inoltrato domanda al tribunale per l’uso del penta-rapido.

Ethan ebbe un sorriso blando. — Spero che non ci siano conseguenze diplomatiche — disse, e si separarono con un cenno del capo.

Il secondino scortò Ethan nel corridoio dell’infermeria. Se non fosse stato per le porte metalliche chiuse da serrature speciali, la corsia dov’era ricoverata Quinn avrebbe potuto essere una comune corsia di ospedale. O meglio, non tanto comune; Ethan cominciava a sentire la mancanza di finestre che si potessero aprire, una delle tante cose che nello spazio gli davano la nostalgia di Athos.

Quinn era seduta davanti a uno schermo e guardava un documentario di produzione straniera, uno dei tanti che arrivavano con ogni nave. Non sentendosela d’intavolare subito l’argomento per cui era venuto lì, Ethan esordì con quel pensiero: — Che ne pensa delle finestre, lei che è cresciuta su una stazione? — le chiese. — Voglio dire, quelle che usano alla superficie di un pianeta, non le cornici che avete qui per metter a loro agio i turisti.

— Mi rendono paranoica — rispose subito lei. — Continuo a guardarmi attorno in cerca di una sfoglia autosigillante per chiuderle. Hai intenzione di chiedermi qualcos’altro, ad esempio come sto?

— Lei ha un buon aspetto — disse distrattamente Ethan, — a parte il braccio fratturato e. le contusioni. Ho già chiesto al medico di guardia. Analgesici per via orale e nessuno sforzo fisico per qualche giorno.

La bruna mercenaria aveva infatti un bell’aspetto. Il suo colorito era sano, e si muoveva con scioltezza, salvo il braccio sinistro immobilizzato. Si alzò in piedi e agitò una mano verso lo schermo per abbassare il volume. Non indossava la tuta gialla degli altri detenuti dell’infermeria, ma i suoi pantaloni bianchi e grigi, anche se non aveva la blusa dell’uniforme e al posto degli stivaletti portava le pantofole. Sul tavolo c’erano oggetti che dovevano esserle stati portati dagli amici e dai parenti.

— Non intendo fare sforzi, anche se il medico si riferiva a quelli che solitamente si fanno in due. — Gli occhi di lei ebbero uno scintillio. — E tu cosa provi oggi per le donne, dottor Urquhart?

— Oh… — Lui si strinse nelle spalle. — Più o meno quello che prova lei per le finestre, temo. Lei pensa che si abituerà alle finestre, o che finiranno per piacerle?

— Perché no? Ma qui tutti mi accusano d’essere una che va a cercare le emozioni forti. — Il suo sorriso vacillò. — Non ho ancora dimenticato il mio primo impatto con la superficie di un pianeta, dopo aver firmato coi Mercenari Dendarii… i Mercenari di Oser, come si chiamavano prima che l’ammiraglio Naismith prendesse il comando. Per tutta la vita avevo sognato di conoscere sulla pelle il vero clima di un pianeta di tipo terrestre. Nebbie di montagna, brezza oceanica, questo genere di cose. I depliant dicevano che quel pianeta aveva un clima "temperato", e io lo presi come sinonimo di "mite". Atterrammo in cerca di carburante nel mezzo di una bufera di neve. Ci volle un anno prima che mi offrissi di nuovo volontaria per una missione su un pianeta.

— Già, lo immagino. — Ethan rise, si rilassò un poco e sedette.

Elli Quinn annuì. — Avete la neve, su Athos? — Senza attendere la risposta proseguì: — Sai cosa trovo attraente in te. e anche un po’ sorprendente? Il fatto che venendo da una società piuttosto chiusa, piuttosto xenofoba, tu riesca a fare uno sforzo d’immaginazione e vedere molte piccole cose della nostra società attraverso gli occhi degli altri.

Lui scrollò le spalle, imbarazzato. — A me è sempre piaciuto vedere cose nuove, scoprire come funzionano le cose. La biologia molecolare lo richiede. Comunque la curiosità non è una cosa proibita dalla nostra teologia.

— Secondo voi athosiani esistono delle virtù carnali?

Ethan sbatté le palpebre, sorpreso dall’insolito accoppiamento di quelle due parole. — Io… non lo so. Così a occhio direi che possono esserci. Forse vengono chiamate con un altro nome. Ma sono sicuro che non ci sono virtù nuove sotto il sole di Athos… né nuovi vizi sotto il vostro. — Prima che Quinn gli facesse osservare che la lontana palla di cenere intorno a cui girava Stazione Kline non era un vero sole, Ethan smise di menare il can per l’aia: — A proposito di cose carnali, io… uh, prima che lei se ne torni dai Mercenari Dendarii vorrei chiederle se… mmh, cioè, avrei quella che lei potrebbe definire una richiesta un po’ insolita. Non si offende se gliene parlo?

Adesso Ethan aveva tutta l’attenzione della mercenaria, che lo scrutava con la testa inclinata di lato e un sorrisetto teso. — Come faccio a saperlo, prima che tu dica di che si tratta? Comunque penso di aver sentito proposte di tutti i generi, per quel che vale.

Lui era più vicino alla porta, fuori dalla quale c’era una guardia pronta a intervenire, e inoltre lei sarebbe stata poco propensa a lottare con una mano dietro la schiena, per così dire. Quali guai avrebbe potuto dargli? Ethan decise di andare avanti.

— Io ho già stabilito come e dove eseguire la mia missione e procurarmi le colture ovariche per Athos. Mi recherò su Colonia Beta, come mi ha consigliato lei, dove potrò anche approfittare delle organizzazioni universitarie che offrono complessi genetici di cittadini selezionati… Ho visto il loro catalogo, e lo considero molto attraente.

Lei annuì con educata approvazione e lo guardò, in attesa di quel che avrebbe detto.

— Del resto — continuò Ethan, — niente m’impedisce di cominciare fin d’ora. Parlando cioè di questa scelta di complessi genetici selezionati. Ciò che voglio dire è… a lei farebbe piacere donare un’ovaia al pianeta Athos, comandante Quinn?

Ci fu un momento di sbalordito silenzio. — Per tutte le comete dello spazio — disse lei con voce debole. — Questa ancora non l’avevo mai sentita.

— L’operazione è del tutto indolore — si affrettò a rassicurarla Ethan. — Qui a Stazione Kline c’è un laboratorio che può occuparsi della preparazione e conservazione di queste colture… ho trascorso la mattina da loro, per controllare. Non è una richiesta comune ma rientra nelle loro possibilità. E lei mi ha detto che mi avrebbe aiutato nella mia missione, se io l’avessi aiutata nella sua.

— L’ho detto? Ah. Suppongo di averlo detto…

Un nuovo pensiero colpì Ethan, che ansiosamente chiese:

— Lei ne ha una di cui può fare a meno, sì? Voglio dire, le femmine hanno due ovaie, come gli uomini hanno due testicoli. Lei non ne ha mai donata una prima, o non ha avuto un incidente in combattimento o qualcosa del genere… non le sto chiedendo l’unica che ha, insomma?

— No, sono ancora equipaggiata con tutte le mie parti di ricambio originali. — Quinn rise, ed Ethan fu subito rassicurato. — È solo che mi hai colto di sorpresa. Non è la proposta… non è la proposta che mi aspettavo, dopo che mi hai detto che ti incuriosiscono le esperienze nuove. Temo d’essere inguaribilmente materialistica.

— Non è colpa sua, ne sono certo — disse Ethan, comprensivo. — Essendo femmina e tutto il resto, voglio dire.

Lei aprì la bocca, la richiuse e scosse il capo. — Non si può spremere birra da una vacca — mormorò fra sé. — Be’, senti… — Inalò il fiato, lo lasciò uscire. — Senti… e chi sarebbe a beneficiare della mia, uh, donazione?

— Chiunque scegliesse il suo genotipo — disse Ethan. — In poco tempo la sua coltura sarebbe divisa in sub-colture ospitate in ogni centro di riproduzione di Athos. Fra un anno, di questi tempi, lei potrebbe avere già un migliaio di figli. Io stesso, non appena risolto il problema del mio coniuge alterativo designato, potrei senz’altro… uh… — Senza capire il perché si trovò ad arrossire, sotto lo sguardo improvvisamente allusivo della bruna. — Io preferirei avere tutti i miei figli dalla stessa coltura ovarica, capisce? Per quell’epoca potrei avere già diritto a quattro bambini. Io non ho mai avuto neppure un fratello, sa, proveniente dalla stessa coltura. Questa pratica sembra dare alle famiglie una certa piacevole omogeneità. La diversità nell’uguaglianza… — Si accorse che stava cominciando a balbettare e s’interruppe.

— Un migliaio di figli maschi — ironizzò lei, — e nessuna femmina?

— Be’, no… niente femmine. Non su Athos. — E timidamente aggiunse: — Le figlie femmine sono importanti per una femmina come i figli lo sono per un uomo?

— Diciamo che il pensiero della continuità ha una certa attrattiva — ammise lei. — Nella mia vita professionale, tuttavia, non c’è molto spazio per i figli, maschi o femmine.

— Be’, lei può averne.

— Così pare. — La luce divertita nel suo sguardo aveva lasciato il posto a qualche ombra pensosa. — Però non potrei mai vederli, no? I miei mille figli maschi. Loro non saprebbero neppure chi sono io.

— Lei sarebbe soltanto due iniziali e un numero: EQ-1. Io però… io potrei usare il mio Livello di Sicurezza A con la censura per mandarle, diciamo, un olocubo, un giorno o l’altro… Se questo le interessa, voglio dire. Lei non potrebbe mai venire su Athos, né mandare dei messaggi video… almeno non con la sua faccia. Oppure potrebbe nascondere il suo sesso e oltrepassare la censura con questo stratagemma… — Ethan rifletté che avere a che fare con Quinn e le sue tendenze avventurose gli aveva fatto un brutto effetto, se si lasciava sfuggire di bocca suggerimenti così asociali. Si schiarì la gola.

Negli occhi di lei brillava di nuovo una scintilla maliziosa. — Contrabbandare immagini femminili su Athos, mimetizzandole magari con un paio di baffi… che idea rivoluzionaria.

— Io non sono un rivoluzionario e lei lo sa — replicò Ethan con dignità. Fece una pausa. — Anche se… la mia patria mi apparirà diversa quando sarò tornato. Io non voglio cambiare me stesso e le persone che amo. Non oltre certi limiti, comunque.

Lei si guardò attorno, come se vedesse oltre le paratie metalliche quella che era stata la sua casa, la sua gente, e la distanza che la separava da loro. — I tuoi istinti sono sani, dottor Urquhart, anche se suppongo che questo ormai serva a poco. Il cambiamento è in funzione del tempo, oltreché delle esperienze, e il tempo è una barriera implacabile.

— Una coltura ovarica può sfidare il tempo… per 200 anni o forse più, ora che stiamo perfezionando i nostri metodi di conservazione. Lei potrebbe continuare ad avere figli per molti anni dopo la sua morte.

— Io avrei potuto morire l’altro giorno sul molo. O potrei morire fra un mese, quanto a questo. Chissà cosa mi riserva il futuro.

— Questo vale per tutti.

— Già, ma le probabilità che un mercenario spenga cento candeline sono sei volte inferiori a quelle di qualsiasi altra professione, e non perché noi abbiamo il fiato più corto. La mia assicurazione sulla vita è quella che paga di meno, sa? — Quinn sospirò. — Be’. inutile pensarci. — Le sue labbra si piegarono. — E io che pensavo che Tav Arata avesse una gran faccia di bronzo. Tu li batti tutti, dottor Urquhart.

Ethan curvò le spalle, deluso, mentre le immagini dei quattro figli dai capelli neri e dallo sguardo luminoso svanivano di nuovo nel reame dei sogni irraggiungibili. — Mi scusi. Non avevo l’intenzione di offenderla. Allora io vado. — E si alzò in piedi.

— Non stai cedendo un po’ troppo facilmente? — borbottò lei, senza guardarlo.

Lui si affrettò a sedersi di nuovo. Intrecciò le dita e poi le strinse fra le ginocchia, per impedirsi di tamburellare nervosamente sui braccioli. Cercò di mostrarsi lucido e pratico. — I suoi figli sarebbero allevati con ogni cura. I miei lo sarebbero, senz’altro. Noi conferiamo i permessi di paternità con molta attenzione. Un uomo che non viva secondo la legge può vedersi annullare il diritto di paternità e privare dei figli che ha già, e questa è considerata una vergogna terribile, una disgrazia.

— A me cosa ne viene, però?

Ethan rivoltò quella domanda da tutti i lati. — Niente — ammise infine, onestamente. All’improvviso ebbe l’impulso di offrirle del denaro… dopotutto era una mercenaria. Ma subito l’idea gli sembrò sbagliata, anche se non avrebbe saputo dire perché. Curvò di nuovo le spalle.

— Niente. — Lei scosse lentamente il capo. — Quale donna potrebbe resistere a un simile invito? Ti ho mai detto che uno dei miei hobby è di fare una cosa stupida ogni giovedì?

Lui la guardò senza capire, poi si accorse che stava scherzando.

Lei si portò alle labbra l’ultima unghia non mangiucchiata, ma senza morderla. — Sei sicuro che Athos potrebbe sopportare un migliaio di piccoli Quinn?

— Forse di più, col tempo. Potrebbero vivacizzare il posto… magari migliorare il nostro esercito.

Quinn sembrò divertita da quel pensiero. — Cosa posso dirti? Dottor Urquhart, mi hai convinto.

Lui balzò in piedi e le strinse la mano con entusiasmo.


Ethan prese appuntamento con Elli Quinn telefonandole a casa di suo padre, e poi andò a incontrarla in un bar poco frequentato dai turisti, in una galleria laterale della Passeggiata dei Viaggiatori. La bruna mercenaria era arrivata in anticipo e stava bevendo un liquore azzurro da un calice a forma di fiore, che sollevò un po’ per farsi vedere e un po’ per salutarlo mentre lui s’avvicinava fra i tavolini.

— Come sta? — s’informò subito lui, sedendosi.

Quinn si appoggiò pensosamente una mano sul lato destro dell’addome. — Bene. Avevi ragione, non me ne sono neppure accorta. Non sento niente. Quasi mi dispiace di non avere neppure una cicatrice con cui dimostrare la mia generosità. — Sembrava che dicesse sul serio.

— L’ovaia ha reagito benissimo al trattamento di coltura — le assicurò Ethan. — le cellule si stanno già riproducendo. Fra quarantott’ore saranno pronte per essere surgelate e spedite. E subito dopo, se non ci saranno contrattempi, anch’io partirò per Colonia Beta. Lei quando se ne andrà? — La vaga ipotesi (speranza?) che potessero viaggiare sulla stessa nave gli attraversò la mente.

— Io parto stasera. Prima di trovarmi in altre difficoltà con la polizia della stazione — rispose lei, cancellando le possibilità di conoscerla meglio che Ethan cominciava a figurarsi. Non aveva avuto il tempo di chiederle nulla dei pianeti dove lei era stata nel corso dei suoi viaggi. — Voglio essere molto lontana da qui prima che arrivino dei cetagandani a indagare sulla morte di Millisor. In effetti è più probabile che vadano sul Gruppo Jackson, dove possono sempre trovare qualcuno disposto a raccontargli tutto per denaro… non escluso lo stesso Barone Luigi. Gli auguro di divertirsi, ma io ho altro da fare. — Si appoggiò allo schienale, soddisfatta come una gatta che avesse fatto piazza pulita nella gabbia e si leccasse via dai baffi un’ultima piuma.

— Anch’io conto di non incontrare nessun cetagandano — disse Ethan, — finché è possibile.

— Non dovrebbe esserti troppo difficile. Per tua tranquillità, potrei dirti che dopo la sua fuga dal Reparto Quarantena il Ghem-colonnello Millisor ha mandato un rapporto ai suoi superiori, informandoli che Helda ha distrutto le colture ovariche fatte dai bharaputrani. Questo dovrebbe distogliere da Athos l’interesse del governo di Cetaganda. In quanto a Terrence Cee è un altro paio di maniche, perché lo stesso rapporto conferma la sua presenza qui su Stazione Kline. Almeno, questo è ciò che Millisor e Rau hanno detto in mia presenza giù ai moli, intanto che aspettavamo il tuo arrivo.

«Questa mattina — continuò Quinn, — ho cominciato a lavorare alla mia relazione conclusiva per l’ammiraglio Naismith. Ce n’è abbastanza da dargli da pensare per mesi. Sono felice di non essere io a dover decidere cosa fare con quel materiale. Bene. Per rendere perfetta la mia ultima giornata a Stazione Kline ci mancava soltanto una cosa… e sembra che stia venendo da questa parte giusto ora. — Rivolse un cenno del capo a qualcuno alle spalle di Ethan, e lui si voltò a guardare.

Terrence Cee stava attraversando la galleria verso i tavolini del bar. La sua tuta verde da operaio gli dava un’apparenza comune, ma Ethan notò che quegli occhi azzurri facevano voltare tre o quattro clienti di sesso femminile.

Il giovanotto trovò una sedia e la portò al loro tavolo; annuì verso Quinn e sorrise brevemente a Ethan. — Buon pomeriggio comandante, dottore.

Quinn sembrava felice di vederlo. — Buon pomeriggio, signor Cee. Posso offrirle un drink? Borgogna, sherry, Champagne, birra…

— Un thè nero — disse lui. — Grazie.

Quinn infilò la sua carta di credito in una fessura del tavolo automatico. La stazione, evidentemente, non importava tutti i generi voluttuari. Un thè assai profumato, una varietà nera coltivata nella serra di Stazione Kline, uscì dal distributore in una tazza di cristallo fumante.

Anche Ethan ordinò un thè nero, celando sotto modi noncuranti il lieve disagio che gli dava la vicinanza di Cee. Il telepate non poteva avere più nessun interesse per Athos, a quel punto.

Cee sorseggiò. Ethan sorseggiò. — Bene — disse Quinn. — Me li ha portati?

Cee annuì, bevve un altro sorso e mise sul tavolo tre dischetti, più una scatola sigillata larga la metà di una mano. Il tutto scomparve subito nella blusa di Quinn. All’occhiata interrogativa di Ethan, la mercenaria rispose: — Tutti quanti commerciamo in carne umana, qui, a quanto pare. — Dal che lui comprese che la scatoletta conteneva i campioni di tessuto organico promessi dal telepate.

— Credevo che Terrence venisse con lei, per lavorare coi Mercenari Dendarii — disse Ethan, sorpreso.

— Ho cercato di convincerlo e di costringerlo, ma ahimè… comunque l’offerta resta sempre valida, signor Cee.

Terrence Cee scosse il capo. — Quando sentivo sul collo l’alito di Millisor, mi sembrava quasi la sola possibilità. Lei mi ha aperto una via d’uscita mentre mi vedevo in trappola… e spero di averle dimostrato la mia riconoscenza, comandante Quinn. — Un cenno verso il pacchetto nascosto nella blusa di lei indicò che quella era la forma tangibile della sua gratitudine.

— E più di quanto speravo — annuì seccamente lei. — Se in seguito cambiasse idea, può sempre venire a cercarci. Non so dove saremo, ma lei si faccia indicare un posto agitato, cerchi un piccoletto dalla mente acuta in mezzo ai guai più rognosi che vede e gli dica che la manda Quinn.

— Me lo ricorderò — promise Cee in tono non impegnativo.

— Ad ogni modo, uh… non viaggerò sola soletta. — Quinn ebbe un sogghigno storio. — Ho intrappolato un’altra recluta da cui farmi portare le valigie. Un emigrante volonteroso… deciso a viaggiare dappertutto in cerca di fortuna. Vorrei farglielo conoscere, signor Cee. La cosa che lei apprezzerebbe di questo bravo ragazzo è che ha all’incirca la sua età, la sua altezza, stessa corporatura… capelli biondi, anche. — Alzò il calice a forma di fiore con quel che restava del liquore azzurro. — Confusione sui nostri nemici.

— Le sono grato, comandante — disse Cee, colpito.

— Dove, ah… dove pensa di andare, allora, se non le interessa il lavoro dei mercenari? — gli domandò Ethan.

Cee allargò le mani. — Mi si presentano molte scelte. Troppe, in realtà, e tutte ugualmente vuote di significato… scusatemi. — Fece del suo meglio per ritrovare un’espressione meno lugubre. — Da qualche parte, lontano da Cetaganda. — accennò ancora col capo verso la blusa di Quinn. — Spero che non abbia difficoltà a contrabbandare quel pacchetto. Dovrà surgelarlo in un contenitore termostatico al più presto, però. Uno molto piccolo, magari. Sarebbe prudente che nella lista dei suoi bagagli non apparisse nessun contenitore del genere.

Lei sorrise appena, grattandosi un dente (le sue unghie erano di nuovo ben curate) e mormorò: — Uno molto piccolo, oppure… mmh. Penso di avere la soluzione ideale a questo problema, signor Cee.


Ethan guardò con interesse mentre Quinn deponeva l’enorme scatola bianca per le spedizioni di materiale a temperatura controllata sul bancone dei MAGAZZINI REFRIGERATI — INGRESSO 297-C.

Il tonfo riuscì a distrarre l’attenzione della giovane femmina grassottella dallo schermo su cui si svolgeva un dramma sentimentale. Le immagini svanirono in attesa di un momento migliore, e l’impiegata si tolse l’auricolare.

— Sì. signora?

— Sono venuta a riprendere i miei tritoni — disse Quinn. Si protese verso il computer e infilò la ricevuta di plastica con l’impronta del suo pollice nella fessura rossa sotto lo schermo.

— Oh, sì, mi ricordo di lei — disse l’impiegata. — Una cella refrigerata da due metri cubi. Scatolone di plastica verde. Lo vuole scongelato subito? Occorrono venti minuti.

— Non lo voglio scongelato affatto. Lo spedirò così com’è, grazie — disse Quinn. — Temo che ottanta chili di tritoni non sarebbero molto appetitosi dopo quattro settimane di viaggio a temperatura ambiente.

L’impiegata storse il naso. — Non sarebbero appetitosi a nessuna temperatura.

— La loro possibilità d’essere graditi al palato cresce in ragione del quadrato della distanza dal luogo in cui abbondano. Questa è una legge valida per tutte le sostanze alimentari — sogghignò Quinn.

La porta del corridoio alle loro spalle si riaprì con un sibilo. Ethan e Terrence Cee si tolsero di mezzo quando entrò un carrello antigravità su cui c’era una mezza dozzina di contenitori sigillati, pilotato col telecomando da un sorvegliante ecologico in uniforme verde e azzurra.

— Oh-ho, il Bio-controllo ha la precedenza — disse l’impiegata del magazzino. — Mi scusi, signora.

Ethan accolse con un sorriso l’arrivo del giovanotto. Era Teki, probabilmente appena uscito da uno dei locali del Riciclaggio, dietro l’angolo del corridoio. Teki si accorse di Quinn e di Ethan appena ebbe fatto girare il carrello, e non parve molto entusiasta di vederli. Terrence Cee, che non lo conosceva, si limitò a guardare l’orologio, seccato da quel contrattempo.

— Ah, Teki — disse Quinn, voltandosi. — Più tardi sarei passata a salutarti. Stasera parto. Mi sembra che ti sia ripreso benissimo dalla piccola disavventura delle settimana scorsa.

Teki sbuffò. — Sì, essere rapito e drogato e seviziato da una banda di pazzoidi assassini è proprio quello che io chiamerei una piccola disavventura. Comunque sto bene, grazie.

Un angolo della bocca di Quinn si curvò. — Sara ti ha perdonato per quell’appuntamento mancato?

Teki scrollò le spalle, ma non poté reprimere un sorrisetto. — Be’, sì… quando si è convinta che non avevo una storia con te, alla fine, è diventata molto, uh, affettuosa. — Tornò serio. — Però lo sapevo, dannazione, che stavi lavorando per il piccoletto. Adesso puoi dirmi di cosa si tratta, Elli?

— Sicuro, appena la Sicurezza me ne darà il permesso. Al momento c’è sempre un’indagine in corso.

Teki mugolò. — Non è leale! Me l’avevi promesso!

Lei allargò le braccia in gesto d’impotenza. Il cugino sbuffò, si accigliò, ma alla fine rinunciò a metterle il muso. — Te ne vai, allora? Quando?

— Fra poche ore.

— Ah. — Teki si mostrò alquanto deluso. Guardò Ethan. — Buongiorno, signor ambasciatore. Sa, mi dispiace per quello che Helda ha fatto con la sua roba. Spero che lei non pensi che nel nostro dipartimento siamo tutti così. In questi giorni Helda è assente per malattia… dicono che ha l’esaurimento nervoso. Io fungo da direttore della Stazione B, per adesso — aggiunse con modestia ma orgogliosamente. E le mostrò un polsino della giacca, dove c’erano due bande azzurre invece di una come prima. — Almeno, finché Helda non tornerà.

A un’occhiata più da vicino Ethan vide che la seconda banda azzurra era in realtà un semplice nastro adesivo. — Non preoccuparti — gli disse. — Puoi anche ordinare una blusa da direttore effettivo. Mi è stato assicurato che l’assenza di Helda è di carattere permanente.

— Sul serio? — Teki s’illuminò in viso. — Senta, mi dia il tempo di sbattere fuori questa robaccia… — indicò il carico del carrello, — e sarò da voi. Ce li avete due minuti per venire a bere qualcosa alla Stazione B, no?

— Soltanto due minuti — lo avvertì Quinn. — Non posso stare di più, se voglio salire in orario a bordo della nave.

Teki le accennò che capiva perfettamente. — Venite con me? — li invitò, manovrando il carrello antigravità per aggirare il bancone. L’impiegata aprì la porta sigillata del magazzino e tolse di mezzo alcune scatole di plastica per lasciarli passare.

— Io aspetto la mia roba qui, se non vi spiace — disse Quinn, ma Ethan, curioso di guardare tutto, seguì il giovanotto nell’interno. Terrence Cee era rimasto in disparte coi suoi pensieri, malinconica e solitaria figura, ed Ethan si girò a sorridergli per incoraggiarlo a restare nel gruppo.

— Allora cos’è successo con Helda? — domandò Teki a Ethan. — È vero che ha spedito su Athos una quantità di materiale organico rubato, e addirittura dei pezzi di cadavere?

Ethan annuì. — Ancora non riesco a capire cosa sperasse di ottenere. Non credo che lo sappia neanche lei. Forse ha riempito quelle scatole con altre ovaie perché temeva che avrebbero dovuto passare qualche ispezione… voglio dire, dopo aver buttato via le nostre, come ha confessato, qualunque cosa all’incirca dello stesso peso sarebbe andata bene, visto che in effetti nessuno era autorizzato ad aprire i contenitori salvo il destinatario. In questo modo ci lascia con degli interrogativi in più, che aggiungono mistero a questa assurdità.

Teki scosse il capo, come se fosse ancora incapace di crederci.

— Cos’è questa roba? — domandò Ethan, indicando il carrello fluttuante.

— Generi alimentari contaminati. Oggi, dopo le analisi, abbiamo sequestrato e distrutto l’intero carico, ma questi campioni vanno in magazzino. In caso di procedimenti legali, contestazioni, o per qualsiasi eventualità.

Entrarono in un lungo locale bianco dove neppure il riscaldamento sembrava funzionare bene, con alcune apparecchiature robotizzate e un compartimento stagno. Quella era la superficie più esterna della stazione, comprese Ethan.

Teki batté qualche rapida istruzione su una tastiera, inserì un disco di dati, mise i contenitori in una cassa di plastica ad alta resistenza etichettata con dei colori-codice, e attaccò la cassa al braccio estensibile di un robot. L’apparecchiatura si alzò dal pavimento e fluttuò nel compartimento stagno, che si chiuse e iniziò il ciclo di decompressione.

Il giovanotto premette un pulsante sulla parete, facendo scivolare di lato un pannello dietro cui c’era una finestra panoramica simile a quelle più grandi della Passeggiata dei Viaggiatori. La vista spettacolare della galassia era in parte bloccata dalle sporgenze periferiche della stazione. Era l’equivalente del cortile posteriore di un caseggiato o di un’enorme fabbrica, si disse Ethan, con la differenza che in quella zona c’era un’illuminazione intensa. Teki seguì con attenzione il robot, che uscito dal portello fluttuava nel vuoto lungo una vastissima griglia metallica di gabbie allineate. Quasi tutte le gabbie più vicine erano piene di cassoni sigillati, ma c’era anche merce in semplici sacchi di plastica e altra chiusa entro blocchi di ghiaccio informi.

— Quando Dio ebbe bisogno di un frigorifero, creò l’universo — ridacchiò Teki. — Da queste parti noi l’abbiamo ridotto a una pattumiera, però. Un giorno o l’altro dovremo mandare fuori delle squadre a distruggere tutte le porcherie rimaste qui attorno fin dall’Anno Uno, ma non è che rischiamo di restare a corto di spazio. Tuttavia, se diventerò un dirigente del Riciclaggio, dovrò pensare a una soluzione… responsabilità… finirla con questi sprechi…

Le parole del sorvegliante ecologico sfumarono via dagli orecchi di Ethan mentre la sua attenzione si spostava su un gruppo di contenitori trasparenti che fluttuavano a poca distanza, sotto la griglia. Dentro ogni contenitore sembravano esserci delle scatole rettangolari d’aspetto familiare. Aveva già visto usare piccole scatole uguali quel mattino, nel laboratorio biologico che s’era occupato della donazione di Quinn. Quante erano? Difficile contarle, difficile capirlo. Più di venti, sicuramente. Più di trenta. Da lì poteva vedere bene soltanto gli scatoloni che le contenevano; ce n’erano nove.

— Buttato via — mormorò fra sé. — Buttato… fuori?

Il robot giunse all’estremità della grata, spinse il suo carico in una delle gabbie vuote e la chiuse. L’attenzione di Teki era ancora fissa sull’apparecchiatura al lavoro, e la seguì finché fece ritorno al compartimento stagno. Ethan indietreggiò accanto a Cee, lo prese per un braccio e in silenzio gli indicò gli oggetti che fluttuavano nello spazio. Dapprima il telepate annuì distrattamente, poi guardò meglio. S’irrigidì, sbattendo le palpebre, e corse davanti alla finestra. I suoi occhi sembravano divorare la distanza. Aveva la fronte imperlata di sudore e imprecava fra i denti, a voce così bassa che Ethan riusciva a udirlo a stento. Le sue mani si aprivano e si chiudevano; le appoggiò contro la superficie trasparente.

Ethan strinse più forte il braccio di Cee. — Sono quelle? — sussurrò. — È possibile?

— Posso vedere lo stemma di Casa Bharaputra su un paio di scatole — ansimò Cee. — Ero presente quando le hanno sigillate.

— Helda deve averle portate qui lei stessa — mormorò Ethan. — Per non lasciare nessuna registrazione nei computer inserendo quella massa extra nel sistema di riciclaggio… e le ha buttate via. Intendeva proprio questo, letteralmente, quando lo ha detto. Ma la gravità della stazione non le ha lasciate allontanare molto.

— È possibile che le colture ovariche siano intatte? — domandò Cee.

— Congelate quasi allo zero assoluto… perché no?

I due si guardarono, ciascuno conscio di ciò che stava passando per la mente dell’altro.

— Dobbiamo avvertire Quinn — disse Ethan.

Le mani di Cee lo afferrarono con forza per le spalle. — No! — sibilò. — Lei ha già la coltura coi miei geni. Le ovaie di Janine… quelle appartengono soltanto a me.

— O ad Athos.

— No. — Cee stava tremando, pallido in faccia. I suoi occhi azzurri erano lame di ghiaccio. — Sono mie.

— Ognuna delle due soluzioni — disse Ethan, pesando con cura le parole, — non esclude necessariamente l’altra.

Nel teso silenzio che seguì, il volto di Cee cominciò a illuminarsi di speranza.

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