CAPITOLO QUINTO

Ethan si svegliò di soprassalto, con il fiato mozzo e la netta impressione che qualcosa gli fosse piombato sullo stomaco. Aprì gli occhi e si guardò attorno, del tutto incapace di riconoscere il luogo in cui si trovava. Poi vide che in piedi accanto a lui c’era la comandante Quinn, che lo osservava nella debole luce della sua lampada elettrica, con un pollice uncinato sulla fondina vuota dello storditore. Alzando una mano a palpeggiarsi l’addome scoprì che la cosa di cui aveva sentito il peso era un fagotto. Lo svolse con un grugnito, sbattendo le palpebre; si trattava di due tute rosse del tipo usato nella stazione, di misura diversa, e un paio di stivali di plastica da operaio.

— Mettiti una di queste — ordinò la mercenaria. — e cerca di fare presto, per favore. Credo di aver trovato il modo di liberarci del cadavere, ma bisogna arrivare sul posto prima del cambio di turno, se voglio trovare di servizio le persone giuste.

Ethan scelse una delle due tute e la indossò, dopo aver annaspato sulle insolite cerniere a pressione. Gli stivali erano troppo larghi, ma fu mentre si chinava per infilarseli che un giramento di testa lo fece cadere sui cuscini. Senza nascondere una certa impazienza Quinn lo aiutò ad alzarsi, lo fece sedere sopra il contenitore e accese di nuovo la barella antigravità. A cavalcioni su quel cilindro giallo Ethan aveva la stupida impressione d’essere un bambino di cinque anni, ma si sentiva più riposato e lottò per ritrovare energia. Dopo che la bruna mercenaria ebbe controllato in corridoio salì anche lei in sella al contenitore, che non si abbassò di un millimetro sotto il suo peso; poi i due lasciarono quei locali non visti come quando c’erano entrati e si avviarono nei labirinti periferici della stazione.

Se non altro non aveva più la sensazione che il suo cervello fosse sospeso in un vaso di sciroppo, si disse Ethan. Il mondo scorreva attorno a lui con aspetto e velocità normale, e nei suoi occhi non esplodevano più lampi di colore infuocato che gli lasciavano tracce pulsanti nella rètina. Ma l’elenco di novità positive si fermava lì, perché le tute da operaio che Quinn gli aveva portato per nascondere i suoi abiti athosiani erano di un rosso abbagliante. E un’onda di nausea minacciava di sollevarsi dal fondo del suo stomaco verso la gola, inarrestabile come una marea lunare. Si distese in avanti, per abbassare il suo centro di gravità rispetto alla barella fluttuante, e desiderò dolorosamente qualcosa di più delle tre ore di sonno che la bruna mercenaria gli aveva concesso.

— La gente che ci vede passare mi noterà, con questa roba addosso — obiettò, mentre giravano in un corridoio più frequentato.

— Non ti preoccupare. — Lei si girò a indicare la tuta con un cenno del capo. — Quando uno sta trasportando un contenitore per merci, quell’abbigliamento è come il mantello dell’invisibilità. Il rosso è usato dalle squadre dagli addetti ai Moli e Portelli. Chi ti vede penserà che stai portando il contenitore da qualche parte. Finché non apri bocca, o non agisci come uno straniero.

Passarono dentro un lunghissimo stanzone dove migliaia di carote erano allineate fittamente su una grata, con le radici coperte di peluzzi bianchi immerse nella nebbia emessa dagli spray idroponici e le foglioline verdi alla sommità esposte alla luce. L’aria del locale (Quinn gli assicurò che stavano prendendo una scorciatoia) era fredda e umida, e odorava di sostanze chimiche.

Lo stomaco di Ethan gorgogliò. Quinn, che guidava la barella col telecomando, si girò a guardarlo. Lui scosse il capo. — Credo di aver fatto uno sbaglio a mangiare quella roba con le noccioline — mormorò cupamente.

— Be’, per l’amor del cielo, non vomitarla qui — lo pregò lei. — Se proprio devi, apriamo il contenitore e…

Ethan deglutì con fermezza. — No.

— Pensi che una carota ti aggiusterebbe lo stomaco? — domandò lei con sollecitudine. — Si allungò di lato, facendo ondeggiare follemente il loro mezzo di trasporto, e staccò una carota dalla grata. — Ecco, prova ad assaggiarla.

Lui esaminò dubbiosamente il tubero giallo irto di radichette e di foglie, quindi se lo infilò in una delle molte tasche della tuta. — Forse più tardi.

Oltrepassarono dozzine di banchi di ortaggi in crescita e sul fondo del locale Quinn fece sollevare la barella fino a un’uscita situata a qualche metro d’altezza. VIETATO L’INGRESSO era scritto sul portello in scintillanti lettere verdi.

La mercenaria ignorò il divieto con un’allegra indifferenza giovanile, che la dipinse agli occhi di Ethan come una creatura asociale. Si girò a guardare il portello mentre si richiudeva dietro di loro con un sibilo d’aria compressa. VIETATO L’INGRESSO c’era scritto anche da quella parte. Dannazione pensò innervosito, se infrango la legge potrei finire in prigione, qui su Stazione Kline…

Nel corridoio successivo Quinn fece abbassare la barella al suolo davanti a una porta su cui una targa diceva: CONTROLLO ATMOSFERICO, VIETATO L’INGRESSO — SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. Da ciò Ethan comprese che sarebbero entrali proprio lì.

La mercenaria scese dal contenitore e si alzò in piedi. — Ora qualunque cosa accada, cerca di non aprir bocca. Il tuo accento ti tradirebbe subito. A meno che tu non preferisca restare qui fuori con Okita finché non tornerò a occuparmi di voi…

Ethan si affrettò a scuotere il capo, allarmato dalla visione di se stesso che cercava di spiegare a un funzionario di passaggio che lui non era, nonostante le apparenze contrarie, un omicida alla ricerca di un posto dove seppellire un cadavere.

— E va bene. Due mani in più potranno farmi comodo. Ma stai pronto a eseguire subito i miei ordini, se sarà necessario. — Quinn aprì la serratura a combinazione e attraversò la soglia, seguita dalla barella antigravità come da un cane al guinzaglio.

Fu come penetrare nel palazzo di una sirena, sotto il mare. Linee iridescenti di luci ed ombre serpeggiavano con morbida lentezza sul pavimento, sul soffitto e… Ethan restò senza fiato per lo spavento nel guardare quelle pareti: barriere trasparenti alte tre piani dietro cui c’era un oceano d’acqua cristallina, nella quale cresceva un’oscillante foresta di alghe verdi. Miriadi di bollicine argentee sciamavano allegramente fra le fronde di quelle piante acquatiche, ora fermandosi, ora trascinate via dalla corrente.

Un anfibio lungo mezzo metro sbucò da quella giungla subacquea e scese a guardare Ethan con occhi inespressivi. Aveva una pelle nera e liscia come la plastica, e zampe e coda a strisce rosse. Dopo qualche istante l’anfibio s’allontanò con movimenti serpentini e sparì di nuovo nel verde.

— Il sistema di riciclaggio ossigeno/anidride carbonica della stazione — spiegò a bassa voce la comandante Quinn. — Le alghe sono bio-programmate per la massima produzione d’ossigeno, mentre assorbono anidride carbonica e altri gas. Ma naturalmente crescono. Così, per non dover svuotare ogni tanto l’intera camera e ripulirla dalle alghe, sono stati immessi dei tritoni geneticamente modificati che le mietono. Ma naturalmente ci si trova con un sacco di tritoni in sovrappiù…

Quinn tacque, quando un tecnico in tuta azzurra spense un monitor della consolle a cui sedeva e si girò verso di loro, accigliato. Lei agitò la mano con un sorriso civettuolo. — Salve, Dale. Ti ricordi di me? Elli Quinn. Dom mi ha detto che avrei potuto trovarti qui.

— Oh, Elli! — L’uomo cambiò subito espressione e si alzò. — Sicuro, Dom mi ha detto che ti ha incontrato. Diavolo, è un secolo che non ci vediamo… — Venne verso di lei come se volesse abbracciarla, poi esitò e ripiegò su un’energica stretta di mano.

I due cominciarono a chiacchierare dei fatti loro e di argomenti spiccioli, mentre Ethan, che non era stato presentato, cercò di non agitarsi troppo nervosamente e di non aprir bocca o rischiare di agire come uno straniero. Le prime due cose erano abbastanza semplici, ma quali erano le azioni che rivelavano l’estraneo agli occhi degli abitanti della stazione? Rimase accanto alla barella antigravità e fece il possibile per non compiere movimenti, innocui o meno che fossero.

Quinn concluse quello che a Ethan parve un discorso inutilmente lungo sui Mercenari Dendarii esclamando: — E sai una cosa? Quei soldati non hanno mai assaggiato le zampe di tritone fritte!

Negli occhi del tecnico balenò un divertimento i cui motivi erano del tutto oscuri per Ethan. — Ma non mi dire! Possibile che nel grande cosmo esista un’anima tanto scalognata? Allora bisogna supporre che non conoscano neppure la zuppa di tritone.

— Né i filetti di tritone marinati — rincarò la dose Quinn alzando le mani con divertito orrore, — né la tritonata al formaggio!

— Neppure i tortelli di tritone? — le fece eco il tecnico. — Neppure lo stufato di tritone all’aglio? Neppure il dessert verde? Neppure il goulash di mare? Neppure il sugo al tritone con cipolla e prosciutto?

— Fuori di qui non sanno niente sulle pietanze a base di anfibi — confermò Quinn. — Il caviale di tritone è del tutto sconosciuto.

— E le schiacciatine di tritone al basilico?

— Schiacciatine al basilico? — domandò la comandante Quinn, improvvisamente perplessa.

— Sono venute fuori un paio d’anni fa — spiegò il tecnico. — In realtà è zampa di tritone macinata, mescolata con riso e odori, e poi fritta nel burro.

— Ah — annuì la mercenaria. — Per un momento m’era sembrato che tu parlassi di un altro genere di polpettine di tritone.

I due scoppiarono a ridere per un motivo che conoscevano solo su Stazione Kline. Ethan si schiarì la gola e scrutò il locale, alla ricerca di qualche vasca o loculo in cui scaricare il contenuto del cilindro giallo. Un paio di snelli anfibi neri serpeggiarono fino alla parete e lo guardarono con pigro interesse.

— Comunque — disse infine Quinn, cambiando tono. — ho pensato che se ti occupassi tu della prossima raccolta potresti mettermene da parte qualcuno, da congelare e portare via con me. Se in questo periodo non siete a corto, naturalmente.

— Non siamo mai a corto! — esclamò lui. — A corto di tritoni? Che Dio ci scampi. — Guardò Ethan e il contenitore. — Ti servo subito: portane pure via cento chili. Duecento. Trecento, se hai posto.

— Un centinaio di chili sarebbe l’ideale. È tutto quel che posso permettermi di aggiungere al peso del bagaglio. Vorrei organizzare una dozzina di cene per soli ufficiali… uomini, magari, se mi spiego.

Il tecnico ridacchiò, poi la invitò a seguirlo e la precedette su per una scaletta metallica fino a un portello. Ethan colse al volo il rapido gesto di lei e si affrettò a tener loro dietro, manovrando la barella antigravità col telecomando.

A passi attenti il tecnico s’avviò lungo una sottile passerella metallica sostenuta da cavi. Sotto di loro, nel gorgoglio delle bolle d’ossigeno che emergevano alla superficie, l’acqua sibilava come una creatura vivente; la corrente fredda che saliva dal basso fece venire a Ethan la pelle d’oca e gli schiarì la mente. Alcuni gorghi regolarmente disposti facevano intuire la presenza di pompe d’aspirazione sul fondo verde-argento, fra le alghe. Dietro quella piscina se ne vedeva un’altra, e più lontano ce n’erano altre ancora, a perdita d’occhio.

La passerella li condusse a una piattaforma. Il rumore di bolle lasciò il posto a un forte sciacquio quando il tecnico sollevò il coperchio di una larga gabbia sommersa. Il contenitore di rete oscillava, fittamente ricolmo di forme nere e scarlatte che scivolavano una sopra l’altra.

— Oh, Dio, è già piena — esclamò l’uomo. — Inutile cercare di venderli tutti. Sei sicura di non volerne abbastanza per sfamare il tuo esercito?

— Mi piacerebbe, se potessi — ridacchiò Quinn. — Ti dico quello che farò: lascerò l’eccedenza giù all’Assimilazione, a tuo nome, quando avrò fatto la mia scelta. I ristoranti della Passeggiata del Viaggiatore hanno chiesto qualcosa?

— Nessuna ordinazione, oggi. Serviti pure.

Dale raccolse un telecomando e premette un pulsante; la trappola per tritoni si sollevò lentamente, con l’acqua che ruscellava giù da tutte le parti, e i tritoni restarono compressi in una massa compatta dove zampe e code continuavano a divincolarsi. Un altro pulsante del telecomando, un ronzio, e un lampo azzurro che pervase la gabbia. Ethan poté sentire sulla pelle il riverbero del potente storditore fin da dove stava. Gli anfibi smisero di agitarsi e giacquero immobili, tramortiti dalla scarica.

Il tecnico tolse uno scatolone di robusta plastica verde da una pila di altri identici e lo appoggiò su una bilancia digitale, sotto lo sportello di rete metallica sul fondo della gabbia. Azzerò la cifra sul display e aprì lo sportello. Dozzine di tritoni inerti scivolarono giù nello scatolone. Mentre il peso saliva verso i 100 chili rallentò il flusso, quindi prelevò a mano un ultimo corpo nero e chiuse lo sportello. Fatto ciò applicò un’etichetta, rimosse lo scatolone con un trattore a mano, ne mise al suo posto un’altro vuoto e ripeté l’operazione. Il contenuto della gabbia non bastò a riempire per intero il terzo scatolone. Fatto questo, il tecnico aprì il suo computer tascabile e registrò l’esatto totale della biomassa prelevata dal sistema.

— Vuoi che ti dia una mano a riempire il tuo contenitore? — domandò poi, indicando il cilindro di plastica gialla.

Ethan impallidì, ma la mercenaria disse allegramente: — Naah, torna pure giù ai tuoi monitor. Io sceglierò i miei tritoni uno per uno. Visto quel che costa il trasporto via nave, voglio soltanto i migliori.

Il tecnico sorrise e s’incamminò sulla lunga passerella. — Trovati i più succosi — disse. Quinn lo salutò con un cenno amichevole e attese di vederlo sparire oltre il portello d’ingresso.

— E ora veniamo a noi — disse, voltandosi verso Ethan. — Cerchiamo di far tornare queste cifre. Aiutami a spostare il caro estinto sulla bilancia.

Non fu facile. Okita s’era già irrigidito nel contenitore, e ciò che la mercenaria voleva fare richiedeva che fosse privato di tutti gli indumenti. Glieli tolsero con una certa fatica, insieme a un piccolo arsenale di armi letali, e quindi arrotolarono le sue proprietà terrene in un fagotto compatto.

Ethan aveva scacciato la paralisi dell’incertezza e della confusione per concentrarsi su un lavoro che capiva, almeno in parte. Mise il cadavere sulla bilancia e lo pesò. Qualunque fosse la situazione folle in cui era precipitato, lui aveva scoperto una grave minaccia per il pianeta Athos. L’istintiva prudenza che l’aveva spinto ad evitare la vicinanza della femmina mercenaria stava diventando, mentre la testa gli si schiariva sempre più, un altrettanto istintivo desiderio di non lasciarla sparire nel nulla prima di aver scoperto in qualche modo tutto ciò che lei sapeva sulla faccenda.

— Ottantuno virgola quarantacinque chilogrammi — le riferì nel suo miglior tono scientifico, quello che usava coi VIP in visita ai laboratori di Sevarin. — E ora?

— E ora metti il corpo in uno di quegli scatoloni, quindi aggiungi tritoni fino ai… uh, cento virgola sessantadue chilogrammi esatti — ordinò lei, dopo un’occhiata all’etichetta di uno dei contenitori. Quando Ethan ebbe finito (l’ultima frazione di chilo fu raggiunta accludendo mezzo tritone, grazie al taglio preciso di una vibrolama che lei si tolse di tasca) la mercenaria chiuse lo scatolone e lo sigillò con un nastro adesivo.

— Adesso ottantuno virgola quarantacinque chili di tritoni nel nostro contenitore per merci — disse. Quando anche quell’operazione fu terminata si trovarono con quattro contenitori (i tre scatoloni e il cilindro) il cui peso era lo stesso di prima.

— Vuole essere così gentile da dirmi cosa diavolo stiamo facendo? — la esortò Ethan.

— Trasformiamo un problema piuttosto difficile in uno molto più facilmente risolvibile. Ora. invece di un contenitore per merci spaziali il cui contenuto potrebbe farci incriminare per omicidio, dobbiamo soltanto liberarci di uno uno dentro cui c’è un’ottantina di chili di tritoni storditi.

— Ma non ci siamo ancora liberati del cadavere — obiettò lui, indicando uno degli scatoloni. Guardò le acque colme di bollicine. — Stai pensando di rimettere là dentro una parte dei tritoni? — domandò, incerto. — Potranno riprendere a nuotare, svenuti come sono?

— Ma niente affatto! — esclamò Quinn, stupita dalla sua ignoranza. — Questo sbilancerebbe il sistema. L’entrata-uscita della biomassa è calcolata con estrema precisione. Lo scopo di questa operazione è invece quello di far combaciare le registrazioni dei computer. In quanto al cadavere… fra poco vedrai.


— Tutto fatto? — disse il tecnico quando li vide entrare dal portello nel salone di controllo, seguiti dalla barella fluttuante su cui il contenitore e i tre scatoloni erano fissati con qualche giro di nastro.

— No, non proprio — rispose Quinn. — Quand’ero a metà lavoro mi sono accorta di aver portato con me un contenitore troppo piccolo. Dovrò tornare qui più tardi. Senti, dammi la ricevuta, così mi fermo all’Assimilazione e gli lascio questa roba a tuo nome. Del resto devo passare di là in ogni caso, per vedere Teki.

— Oh, sicuro, benissimo — annuì il tecnico, soddisfatto. — Ti ringrazio. — Inserì i dati nel computer, registrò qualcosa su un dischetto e glielo diede. La comandante Quinn se lo mise in tasca e salutò l’amico.

— Bene — mormorò accigliata quando la porta a pressione si chiuse con un lieve sibilo alle loro spalle. Sul suo volto c’era il primo segno di stanchezza che Ethan avesse visto in lei. — Dell’ultimo, atto di questa faccenda devo occuparmene io personalmente. — Notando l’espressione perplessa di lui, aggiunse: — Avrei potuto lasciare che fosse Dale a mandare il tutto giù al Reparto Vendite, ma avevo l’orribile dubbio che arrivasse un’ordinazione dell’ultimo minuto dalla Passeggiata dei Viaggiatori, e che Dale aprisse una scatola per mandargli un po’ di tritoni…

— I turisti chiedono questo cibo? — domandò Ethan.

Lei gli gettò un’occhiata. — Non esattamente. Di solito i tritoni che vengono serviti agli stranieri appaiono nel menu sotto la voce Zampe di Rana Fresche, importate dalla Terra. Così diventano una pietanza piuttosto cara.

— E questo è… uh, etico?

Quinn scrollò le spalle. — Devono pur fare il loro guadagno. Le specialità rare di provenienza terrestre hanno sempre successo coi ricchi turisti. E anche se i kliniani li apprezzano, in realtà ormai ne hanno fin sopra i capelli e non è facile vendere a loro i tritoni in sovrappiù. Ma l’ufficio del Bio-controllo rifiuta di sostituire i mangia-alghe con un altro sistema, dato che questo modo di riciclare l’ossigeno è economico e funziona perfettamente. I tritoni sono un sottoprodotto e nient’altro.

I due risalirono a cavalcioni del cilindro e fluttuarono via lungo il corridoio. Ethan guardò il profilo della femmina mercenaria seduta davanti a lui. Doveva cercare di sapere qualcosa…

— Che razza di progetto genetico è? — domandò, all’improvviso. — Questo complotto di Millisor, voglio dire. Lei non ne sa di più?

La mercenaria gli elargì uno sguardo pensoso. — Genetica umana. Ma a dire la verità io non so quasi niente. Conosco qualche nome, qualche parola in codice. Dio solo sa cosa si propongono di ottenere. Dei Mostri, forse. O magari vogliono allevare superuomini. Il governo cetagandano è sempre stato in mano a un branco di militaristi molto aggressivi. Forse vogliono allevare un esercito di super-soldati in vasche di crescita, un po’ come fate voi athosiani, e conquistare l’universo o qualcosa del genere.

— Non è probabile — replicò Ethan. — Non un esercito, comunque.

— Perché no? Una volta ottenuto il tipo genetico desiderato lo si può clonare all’infinito, servendosi di replicatori uterini. È solo questione di avere l’attrezzatura sufficiente.

— Oh, sicuro, lei può produrre una gran quantità di bambini… anche se occorrono risorse economiche non indifferenti, migliaia di tecnici ben addestrati e grandi centri di riproduzione. Ma credo che lei non abbia capito che questo è solo l’inizio della spesa. E non è niente, paragonato a ciò che costa allevare questi bambini. Su Athos la cosa assorbe buona parte del prodotto planetario lordo. Nutrirli, alloggiarli, l’educazione, il vestiario, le cure mediche… a noi occorre un grande sforzo economico solo per mantenere stabile la popolazione, figuriamoci quando si parla di aumentarla. Nessun governo potrebbe tassare i cittadini quanto basta per allevare un esercito inizialmente non specializzato e del tutto improduttivo.

Elli Quinn inarcò un sopracciglio. — Strano, detto così. Sugli altri mondi gli esseri umani nascono a milioni, e questo non impoverisce necessariamente l’economia. Al contrario.

Distratto da quel ragionamento Ethan si stupì. — Dice davvero? Ma io non vedo come possano fare. Voglio dire, le spese di laboratorio per portare un feto dall’ovulo al parto sono molto alte, mi creda. Nel suo calcolo dev’esserci qualcosa di sbagliato.

Nello sguardo di lei si accese una scintilla ironica. — Ah, ma sugli altri mondi le spese di laboratorio non pesano sul governo. I loro laboratori funzionano gratis.

Ethan sbatté le palpebre. — Che assurdo punto di vista retrogrado! Gli athosiani non accetterebbero mai un incarico non pagato. Le femmine gravide non ottengono forse un credito da doveri sociali, come compenso della loro prestazione fisiologica?

— Penso che questo rientri nel cosiddetto lavoro non pagato delle casalinghe, anche quando si tratta di donne che lavorano — rispose lei, in tono seccato. — E la produzione di bambini generalmente supera la domanda. Per quanto riguarda il sesso non ci sono crumiri a mettere in crisi la ditta fornitrice di pargoletti.

Ethan era sempre più stupito. — Ma la maggior parte delle donne non sono militari combattenti, allora, come lei? Ci sono uomini fra i Dendarii?

Lei rise forte, poi abbassò la voce per non attrarre gli sguardi dei passanti. — I quattro quinti dei Dendarii sono uomini. E in quanto alle mie colleghe, tre su quattro svolgono mansioni tecniche, non combattenti. Queste percentuali sono all’incirca le stesse su tutti i pianeti umani, salvo in posti come Barrayar dove le forze armate non hanno donne neppure negli uffici.

— Ah — disse Ethan. Dopo una pausa, sconcertato, aggiunse: — Lei è un caso atipico, allora. — L’idea che s’era fatta delle Regole di Comportamento Femminile andava modificata, dunque…

— Caso atipico. — Lei ci rifletté un momento, poi sbuffò. — Già, suppongo che tu mi abbia definito bene.


Passarono in una galleria dove c’erano porte tutte etichettate UFFICIO ECOLOGICO — RICICLAGGIO. Mentre proseguivano in altri corridoi Ethan tirò fuori la sua carota e cominciò a mangiarla, non senza aver strappato via le radichette e le foglie che si mise in tasca, dopo un’occhiata alla perfetta pulizia del marciapiede.

Stava masticando l’ultimo boccone quando arrivarono a una porta su cui era scritto: ASSIMILAZIONE — STAZIONE B e sotto: SOLO PERSONALE AUTORIZZATO.

Nel vasto locale vivamente illuminato dove Quinn lo precedette. Ethan vide file di scaffali su cui erano allineate costose quanto incomprensibili attrezzature elettroniche. Al centro, un bancone da laboratorio gli apparve più familiare perché ospitava il necessario per le analisi organiche. Alcune decine di condotti forniti di portelli d’accesso ognuno di un colore-codice diverso costellavano la parete di fondo. Quella di destra era completamente nascosta da un grande macchinario d’aspetto strano, collegato ad altre apparecchiature tramite un intreccio di tubi; Ethan non si provò neppure a ipotizzare le sue funzioni.

Un paio di gambe in pantaloni verde-pino con una striscia azzurro-cielo sporgevano orizzontalmente fra alcune condutture, al livello del suolo. Una voce acuta stava mugolando parole incomprensibili. Dopo qualche altro grugnito selvaggio ci fu un clangore, a cui seguì il gemito di un meccanismo sigillante; le gambe si agitarono e il loro proprietario si alzò in piedi.

Si trattava di una femmina alta e robusta, con guanti di plastica lunghi fino al gomito, e fra le mani stringeva un oggetto metallico non identificabile lungo circa trenta centimetri che gocciolava di liquido scuro dall’odore disgustoso. F. Helda diceva la targhetta sul taschino sinistro della sua tuta Ecologia — Sorveglianza. La sua faccia arrossata, contorta dall’ira, spaventò Ethan mentre sbraitava ancora: — … incredibile stupidità di questi stranieri mangiafango, che non sanno neppure… — Vide i due appena entrati e s’interruppe. I suoi occhi si strinsero, e con espressione ancor più irritata e minacciosa li interpellò: — E voi chi siete? Non dovreste essere qui. Non sapete leggere?

Sul volto di Quinn c’era una smorfia di disappunto. Subito però si riprese e sorrise cordialmente. — Ho portato giù l’ultima raccolta di tritoni del Controllo Atmosferico. Dale Zeeman mi ha chiesto di fargli questo favore, visto che passavo di qui.

— Zeeman dovrebbe fare il suo lavoro con le sue mani — sbottò la femmina della Sorveglianza Biologica. — invece di affidarlo a una straniera ignorante. Gli farò rapporto, per questo…

— Guardi che io sono della stazione, nata e cresciuta qui — la informò la mercenaria con voce secca. — Mi chiamo Quinn, Elli Quinn Sono passata a salutare mio cugino Teki… lo conoscerà, lavora in questo dipartimento. In effetti, credevo di trovarlo qui, a quest’ora.

— Ah — disse la femmina, non troppo placata. — Suo cugino è nella Stazione A, questa mattina. Ma non la consiglio di andare a disturbarlo proprio adesso; stanno ripulendo i filtri. Non credo che avrà tempo da perdere in chiacchiere finché il sistema non sarà rimesso in funzione. Tuttavia l’orario di lavoro non ò il momento più adatto alle visite personali, se mi permette una…

— E quell’affare, cosa diavolo è? — interruppe la sua ramanzina Quinn, accennando col capo all’oggetto grondante liquame.

Le mani della Sorvegliante F. Helda si strinsero su quella torturata forma metallica come se volessero strangolarla. La sua ostilità verso i visitatori non autorizzati lottò contro il desiderio di sfogare l’indignazione per quella sconcezza, e perse. — È l’ultimo regalo che mi ha fatto la Passeggiata dei Viaggiatori. Lei sa fino a che culmine d’ignoranza criminale possono arrivare i turisti, ma perfino gli analfabeti non hanno scuse quando le regole gli vengono spiegate per olovideo! Questa era una bomboletta d’ossigeno di emergenza, finché qualche bastardo imbecille non l’ha gettata in uno scarico riservato ai rifiuti organici. Ma la cosa incredibile è che quel maniaco deve averla appiattita con un martello, per riuscire a farla passare dalla fessura. Grazie a Dio è rimasta incastrata in una curva della tubatura d’acciaio, perché più avanti avrebbe potuto spaccare quella di plastica. La stupidità di certa gente è incredibile!

F. Helda attraversò il locale a passi lunghi e gettò l’oggetto in una cesta, insieme ad altri rifiuti evidentemente non-organici. — Odio i mangiafango — brontolò. — Vengono a portare la loro sporcizia nello spazio, del tutto incuranti di quanto ci costi liberarcene, stupidi come animali… — Si tolse i guanti melmosi, che gettò nella spazzatura, asciugò le gocce rimaste al suolo con un piccolo aspiratore sonico, spruzzò del disinfettante qua e là, e andò a un lavandino per lavarsi le mani con metodica energia.

Quinn le indicò gli scatoloni di plastica verde ancora a bordo della barella. — Posso aiutarla a togliere di mezzo questa roba? — si offrì, con aria amichevole.

— Era assolutamente inutile che Zeeman li mandasse giù in anticipo — disse la sorvegliante ecologica. — Adesso ho una sepoltura, fra cinque minuti, e il degradatore è già programmato per ridurre la salma a semplici molecole organiche e mandare il tutto alla Sezione Idroponica. I tritoni dovranno aspettare. Voi due potete prendere e andarvene, e quando vedete Dale Zeeman ditegli che… — Il rumore della porta che si apriva la interruppe.

Una mezza dozzina di abitanti della stazione vestiti di bianco entrarono con aria lugubre al seguito di un carrello antigravità, su cui stava una bara coperta da una stuoia di fiori sintetici. Quinn accennò a Ethan di spostare accanto a una parete il loro carico e i due si sedettero in disparte, per lasciare spazio alla piccola silenziosa processione. La sorvegliante ecologica F. Helda si aggiustò la tuta e ricompose i suoi lineamenti in un mesto sorriso di partecipazione.

I kliniani si fermarono in semicerchio attorno al feretro, davanti al quale uno di loro pronunciò un breve discorso. Anche se la loro religione era insondabile per Ethan, il saluto ai defunti aveva qualcosa di universale e quelle parole sarebbero andate bene anche a un funerale athosiano. Forse le altre società umane della galassia non erano così diverse dalla sua, pensò lui.

— Desiderate vedere un’ultima volta il caro estinto? — li interrogò F. Helda.

I kliniani scossero il capo. Un uomo di mezz’età borbottò: — Per me è già anche troppo fargli un funerale. — Una donna di mezz’età in piedi accanto a lui lo azzittì con un gesto indignato.

— Desiderate assistere alla sepoltura? — volle sapere F. Helda nello stesso tono doverosamente formale.

— Nossignora, non ci tengo affatto — disse l’uomo di mezz’età. E quando la donna al suo fianco lo fissò con disapprovazione, irritata da quella mancanza di rispetto, le disse con fermezza: — Io ho assistito Nonno durante cinque trapianti. Quand’era vivo ho fatto per lui il servo e l’infermiere. Stare qui a guardarlo mentre va a concimare l’orto non aggiungerà niente al mio karma, dolcezza.

La famiglia uscì senza dir altro, e la sorvegliante ecologica tornò al suo precedente atteggiamento professionale-aggressivo. Aprì la bara, spogliò il cadavere — un uomo molto anziano — e gettò i suoi vestiti nel corridoio, dove presumibilmente sarebbero stati raccolti da un inserviente. Tornata nel laboratorio consultò un file di dati su uno schermo, indossò guanti e grembiule di plastica, storse la bocca in una smorfia di disgusto e attaccò il corpo dell’estinto con un coltello a vibrolama. Ethan osservò con interesse professionale mentre una mezza dozzina di organi artificiali insanguinati venivano gettati in una vaschetta: un cuore di plastica, alcune sezioni di arterie, un osso d’alluminio, un ginocchio di metallo cromato, un rene di fibra rossa. La bacinella fu vuotata in un cassone, e quindi F. Helda portò quel che restava del corpo alla grossa macchina sulla destra della stanza.

La sorvegliante ecologica sganciò le flange superiori di un largo portello, lo aprì e usò il telecomando per alzare il carrello antigravità fino a quell’altezza; poi inclinò il pianale, attese che il corpo nella bara biodegradabile che lo conteneva fosse scivolato dentro — ci fu un debole tonfo, all’interno — e richiuse subito il portello. Fatto ciò la femmina premette alcuni pulsanti, causando l’accensione di un display. La macchina ronzò e mormorò e fremette a un ritmo pacato che suggeriva l’idea di un’operazione normale in corso.

Mentre F. Helda era così occupata, dall’altra parte della stanza Ethan azzardò un sussurrò: — Cosa sta succedendo là dentro?

— Il corpo viene sciolto nei suoi componenti e la biomassa finisce nell’ecosistema della stazione — sussurrò Quinn in risposta. — In genere gli organismi animali, come i tritoni in sovrappiù, sono mandati nelle vasche di crescita delle colture proteiche, dove si ottiene la carne (di manzo, di maiale, di pollo, di pesce) per l’alimentazione umana. Ma c’è una specie di pregiudizio sul fatto di usare i cadaveri per lo stesso scopo. Residui di ostilità contro il cannibalismo, suppongo. Così, perché la tua bistecca di maiale non ti ricordi spiacevolmente la faccia della Zia Neddie, i corpi umani vengono sciolti in componenti ancor più piccoli e mandati a nutrire le verdure. Una scelta puramente estetica, visto che tutto finisce in circolazione e ripassa mille volte nel sistema, ma la logica e i sentimenti umani sono due cose diverse.

La carota era diventata piombo nel suo stomaco. — Ma se ora lei vuole liberarsi così anche di Okita…

— Forse il mese prossimo mangerò solo roba d’importazione — sussurrò Quinn. — Ora taci.

F. Helda li interpellò in tono ostile: — Cosa siete rimasti a fare, voi due? — Guardò Ethan. — Lei non deve tornare al suo lavoro?

Quinn batté una mano sugli scatoloni verdi. — Devo riportare questa barella dove l’ho presa.

— Ah — disse la sorvegliante ecologica. Fece un sospiro, borbottò qualcosa fra sé, si fece dare da Quinn il dischetto che le aveva consegnato Dale, e poi batté un nuovo codice di programmazione sul pannello di comando del bio-degradatore. Andò a prendere un trattore a mano, aspettò che Quinn avesse tolto il nastro che fissava il carico sulla barella e prelevò uno dei tre scatoloni verdi. Poi spalancò di nuovo il largo portello della macchina. L’oggetto fu sollevato davanti all’apertura, e F. Helda lo spinse dentro con le sue mani robuste. Dalle viscere del degradatore provenne un lungo cupo ronzio. Al primo scatolone seguì subito il secondo, con rapida efficienza. Quindi la sorvegliante ecologica si occupò del terzo, quello etichettato con 100,62 kg di peso. Ethan trattenne il respiro.

Il contenuto del terzo scatolone arrivò sul fondo della macchina con un tonfo assai più forte dei precedenti.

— Cosa diavolo… — mormorò F. Helda, e tornò verso il portello. La comandante Quinn sbarrò gli occhi, e la sua mano destra si spostò istintivamente verso la fondina dello storditore, vuota.

— Ehi, non è uno scarafaggio quello? — esclamò Ethan, cercando disperatamente di imitare l’accento dell’inglese che si parlava su Stazione Kline.

F. Helda girò su se stessa. — Dove?

Ethan indicò un angolo della stanza, dalla parte opposta rispetto al bio-degradatore. Sia la sorvegliante ecologica che la comandante Quinn andarono a ispezionare. F. Helda si mise in ginocchio e passò un dito lungo la fessura fra il bordo inferiore di un pannello e il pavimento. — È sicuro di averlo visto? — domandò.

— È stato un movimento rapido — mormorò lui. — Sono veloci, quegli insetti…

— Qui dentro non c’è mai stato uno scarafaggio da quando ci lavoro io — disse la femmina, accigliata come se quella novità fosse colpa sua. — Può darsi che lei abbia un bruscolo in un occhio, ecco cosa penso, caro signore.

Ethan si strinse nelle spalle e non osò dir altro.

— Comunque, meglio chiamare la Disinfestazione — brontolò F. Helda, rialzandosi. Tornando indietro premette, di passaggio, il pulsante di avvio del bio-degradatore. Poi andò ad accendere un videotelefono e compose un numero. — Adesso potete andarvene, voi e la vostra barella. Cosa c’è in quel contenitore giallo?

Quinn aprì il coperchio. — Tritoni anche qui. Roba scelta, però. Ne vuole un paio?

— Naah, mia madre me li faceva a pranzo e a cena. Li detesto.

Dieci secondi dopo erano in corridoio. Mentre fluttuavano verso la periferia della stazione a cavalcioni del contenitore, la comandante Quinn disse: — Mio Dio, dottore, la tua è stata un’ispirazione geniale… oppure avevi visto davvero uno scarafaggio?

— No, è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. E quella femmina sembrava il tipo di persona che odia gli insetti.

— Puoi scommetterci. — Gli occhi di lei scintillarono divertiti quando annuì.

— Hanno dei problemi con gli scarafaggi, qui? — domandò Ethan.

— Non più che in tutti gli altri posti colonizzati dall’uomo. Ma certi tipi di scarafaggi mutanti, sopravvissuti a ogni insetticida, mangiano perfino il rivestimento dei cavi elettrici e causano corti circuiti. Pensa al pericolo d’incendio su una stazione spaziale e capirai perché F. Helda si è messa in agitazione a quel modo.

Quinn controllò il suo orologio. — Mio Dio, dobbiamo riportare questa barella e il contenitore al Molo 32. — Ridacchiò fra sé. — Tritoni freschi, tritoni di prima scelta, chi vuol comprare i miei tritoni?… Ma perché liberarsene? Dopotutto sono ottimi.

La mercenaria fece compiere al loro mezzo di trasporto una brusca svolta a destra in una traversa, facendo quasi cadere Ethan, e accelerò. Dopo un centinaio di metri fermò la barella davanti a una porta la cui targa diceva: MAGAZZINI REFRIGERATI — INGRESSO 297-C.

Nell’interno, dietro un bancone, una giovane impiegata grassoccia sedeva a guardare un olovisore, mangiucchiando scaglie di proteine fritte che tirava fuori da una confezione.

— Vorrei affittare una cella frigorifera — disse la mercenaria.

— Questo impianto è solo per i cittadini della stazione, signora — rispose la giovane femmina, dopo uno sguardo invidioso alla linea snella e al volto attraente di Elli Quinn. — Se lei si rivolge al suo albergo, sulla Passeggiata dei Viaggiatori troverà un…

Quinn estrasse di tasca una carta d’identità e la sbatté sul bancone. — Una di quelle piccole da due metri cubi potrà bastare. E vorrei anche uno scatolone di plastica. Pulito, mi raccomando.

La giovane impiegata guardò la carta d’identità. — Ah, oh. — Sparì nel retro del magazzino e tornò qualche minuto dopo con un carrello fluttuante su cui c’era uno scatolone di plastica.

La mercenaria firmò con l’impronta del pollice sullo schermo di un computer, poi tornò accanto a Ethan.

— Vediamo di stenderli con ordine, eh? Voglio che il cuoco resti favorevolmente impressionato quando li tirerà fuori.

Distesero i tritoni bene in fila, uno strato sopra l’altro. La giovane impiegata guardò per qualche secondo, storse il naso e ritornò alla sua trasmissione olovisiva, apparentemente un film girato sulla superficie di un pianeta molto simile alla Terra.

Avevano fatto giusto in tempo, vide Ethan: alcune delle loro vittime anfibie si stavano già risvegliando. Si sentiva quasi più dispiaciuto per loro di quanto lo era stato per Okita. L’impiegata venne a prelevare lo scatolone e lo portò via.

— Non soffriranno a lungo, vero? — chiese Ethan mentre uscivano, gettando uno sguardo dietro di sé.

La comandante Quinn sbuffò. — Io ci farei la firma, per una morte così rapida. Andranno nel più grande frigorifero dell’universo… lo spazio esterno. Credo proprio che li porterò all’ammiraglio Naismith, più tardi, quando le cose si saranno risolte.

— Le cose — le fece eco Ethan. — Già. Penso che lei ed io dovremo fare due chiacchiere su queste cose. — E le sue labbra si strinsero testardamente.

Quelle di lei si piegarono in un sorriso. — Faccia a faccia, cuore a cuore — assentì cordialmente.

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