CAPITOLO SESTO

Dopo aver riportato la barella nello scomparto del pronto soccorso del Molo 32, la comandante Elli Quinn condusse Ethan lungo vari corridoi secondari della stazione fino a un albergo dove aveva una camera non molto più spaziosa della sua. L’albergo, credette di capire Ethan, si trovava in una zona interna della Passeggiata dei Viaggiatori, anche se non gli era parso d’aver attraversato il quartiere riservato ai turisti. Durante il percorso Quinn lo aveva fatto restare indietro, o l’aveva parcheggiato senza preavviso in una traversa intanto che lei andava avanti a esplorare, oppure l’aveva preceduto camminando con fare noncurante a braccetto con un’amica da lei incontrata per strada, gesticolando allegramente con la mano libera. Ethan poteva solo augurarsi che la mercenaria sapesse ciò che stava facendo.

Ad ogni modo gli parve che Elli Quinn fosse convinta di averlo portato con successo in una specie di base sicura, perché quando furono in albergo chiuse la porta si rilassò visibilmente, scalciò via le scarpe, si tolse la blusa e andò subito ad accendere la consolle dei servizi in camera.

— Ecco qua. Vera birra — disse, porgendogli un bicchiere colmo di liquido ambrato dove aveva versato un paio di pillole prese dal suo medikit dendarii. — È roba d’importazione.

L’odore accrebbe la salivazione di Ethan, ma invece di portarsi il bicchiere alle labbra lo guardò insospettito. — Le spiace se chiedo cosa ci ha messo dentro?

— Vitamine. Guarda… vedi? — Quinn fece uscire altre due pillole dallo stesso tubetto, se le gettò destramente in bocca e le ingoiò accompagnandole con una lunga sorsata della sua birra. — Qui puoi considerarti al sicuro, per il momento. Mangia, bevi, datti una lavata, fai quello che ti pare.

Lui gettò un’occhiata speranzosa verso il bagno. — Il doppio uso non sarà registrato da qualche computer del riciclaggio? E se qualcuno facesse domande?

Lei alzò gli occhi al cielo. — Al massimo potranno pensare che la comandante Quinn sta intrattenendo un amico nella sua camera. Questi sono affari miei, e nessuno oserà certo ficcare il naso. Rilassati.

Le implicazioni di quell’intimità erano tutt’altro che rilassanti, ma Ethan era arrivato al punto che avrebbe rischiato la vita per una rasatura; il suo mento ispido era pericolosamente vicino a fingere prerogative di padre a cui egli non aveva alcun diritto.

Il bagno, ahimé, non aveva un’altra uscita che desse nel corridoio. Lui cedette e andò a lavarsi, portando con sé la birra. Se Millisor e Rau non avevano trovato il modo di spremergli informazioni utili molto probabilmente non ci sarebbe riuscita neppure la comandante Quinn, qualunque cosa gli avesse messo nella birra.

La faccia stravolta che lo guardò dallo specchio lasciò Ethan stupefatto e inorridito. Rigonfia, molliccia, pelle come carta vetrata, occhi iniettati di sangue e cerchiati di nero. Sembrava un criminale reduce da una nottata di bagordi. Se si fosse presentato sul lavoro in quelle condizioni, nessun cliente avrebbe permesso che un individuo così losco si occupasse del suo bambino. Fortunatamente qualche minuto di lavoro col rasoio a vibrazioni e con un pelle-schiuma gli restituirono un aspetto da persona civile, soltanto stanco, e non depravato. C’era perfino uno scomparto per il lavaggio a secco, che ripulì i suoi indumenti mentre lui si faceva la barba e glieli restituì un po’ umidi ma profumati.

Venti minuti dopo, quando uscì dal bagno, trovò la comandante Quinn semisdraiata sull’unica sedia della stanza e coi piedi nudi poggiati sul ripiano di uno scaffale. La mercenaria aprì gli occhi e gli accennò di sistemarsi sul letto gonfiabile. Ethan si distese nervosamente, spostando il cuscino per stare un po’ sollevato; ma non c’era altro posto in cui sedersi. Sul ripiano che fungeva da comodino accanto al letto lo aspettavano un’altra birra e un vassoio di fast-food, anonime confezioni fornite dai distributori della stazione. Lui cercò di non pensare agli impianti che riciclavano tutto, perfino i cadaveri, e di convincersi che quello era cibo e basta.

— Dunque — disse Elli Quinn, — sembra che ci siano interessi peculiari accentrati su quel carico di materiale biologico che Athos ha ordinato all’estero. Supponiamo che tu cominci da qui.

Ethan inghiottì il boccone che stava masticando e fece appello alla sua risolutezza. — No. Ci scambieremo le informazioni. Supponiamo che lei cominci da qui. — Quella sua pretesa di assumere una posizione di forza produsse nella mercenaria l’ironico sollevarsi di un sopracciglio, e lui aggiunse debolmente: — Se non le spiace.

Quinn si passò una mano sulla faccia; anche lei era stanca. — E va bene. — Fece una pausa per mangiare un boccone di sandwich. — La vostra ordinazione di materiale biologico fu trasmessa, a quanto mi risulta, alla squadra genetica del laboratorio principale di Casa Bharaputra. La squadra lavorò un paio di mesi buoni su questa fornitura, circondata da strette misure di sicurezza. Questo servì probabilmente a salvare parecchie vite, in seguito. Il materiale fu quindi spedito con una nave mercantile non-stop fino a Stazione Kline. dove dovette sostare due mesi in un magazzino in attesa dell’arrivo della nave del censimento diretta ad Athos. Si trattava di nove grosse scatole da imballaggio refrigerate, di colore bianco. — La mercenaria le descrisse nei particolari, e ricordò perfino alcuni dei numeri di serie. — È questo ciò che avete ricevuto?

Ethan accennò di sì, accigliato.

Lei continuò: — All’incirca nel periodo in cui questa fornitura lasciava Stazione Kline sulla nave diretta ad Athos, Millisor e i suoi uomini arrivarono sul Gruppo Jackson. La loro incursione nei ben protetti laboratori di Casa Bharaputra fu un vero e proprio raid militare, eseguito con notevole abilità professionale. — Le sue labbra si contrassero in una smorfia con cui esprimeva un giudizio personale d’altro genere. — Millisor e la sua squadra travolsero l’opposizione armata dei sorveglianti di Casa Bharaputra e se ne andarono, facendo saltare in aria il laboratorio e tutto il suo contenuto. Nel contenuto era compresa la squadra genetica, alcuni innocenti clienti, e le registrazioni tecniche del lavoro fatto sul vostro materiale. Io presumo che abbiano investito un po’ del tempo di cui disponevano interrogando il personale di Bharaputra, prima di eliminarlo, perché vennero a sapere parecchie cose. Fatto questo, dopo una sosta nelle vicinanze durante la quale uccisero la moglie di un genetista e gli bruciarono la casa. Millisor e compagni scomparvero dal pianeta del Gruppo Jackson. Poco tempo dopo fecero la loro comparsa qui, sotto false identità, mossi dallo scopo di bloccare le nove casse prima che ripartissero per Athos, ma erano in ritardo di tre settimane.

«Nel frattempo io ero arrivata sul Gruppo Jackson, fornita di informazioni molto frammentarie. Senza immaginare i fatti accaduti feci in giro qualche innocente domanda su una richiesta commerciale pervenuta da Athos. Gli agenti di Casa Bharaputra, che stavano ancora cercando di capire come avesse fatto Millisor a sparire così in fretta, piombarono su di me come falchi. Per fortuna alla fine riuscii a convincerli che io non avevo niente a che fare coi cetagandani. In effetti, al momento sono convinti che io stia lavorando per loro.

— Il bharaputrani?

Il suo sorriso si spense in una smorfia. — Già. Mi hanno assoldata per rintracciare e assassinare Millisor e la sua squadra. Questa è stata una fortuna, perché avrebbero potuto lasciarmi andare e mettermi alle calcagna i loro killer, contando che io li portassi fino al bersaglio. Invece mi hanno fatto l’onore di mettermi sul loro libro paga. E stanotte ho fatto una parte del lavoro per cui mi hanno assunta. Saranno molto compiaciuti di me. — Ebbe un sospiro e bevve un sorso di birra. — Tocca a te, dottore. Cosa c’era in quelle scatole, da causare la morte di tanti innocenti?

— Nulla, glielo assicuro! — Ethan scosse il capo, sbalordito. — Materiale biologico costoso, certo, ma non al punto che qualcuno possa voler uccidere per averlo. Il Consiglio della Popolazione di Athos aveva ordinato 450 colture ovariche vive, ovvero il tessuto che produce le cellule uovo fertilizzando le quali…

— So come nascono i bambini, sì — mormorò lei.

— Dovevano essere garantite esenti da difetti genetici, e prelevate da almeno venti diversi esseri umani di sesso femminile appartenenti alla razza bianca. Non erano state richieste altre caratteristiche. Il lavoro di una settimana al massimo, per una squadra di genetisti come quella di cui ha parlato lei. Semplice routine. Invece, ciò che noi abbiamo ricevuto era spazzatura! — Ethan le descrisse il contenuto di quei refrigeratori con fervore sempre più indignato, finché lei lo interruppe.

— E va bene, dottore! Va bene, ti credo. Ma ciò che partì dal Gruppo Jackson non era affatto spazzatura, bensì qualcosa di molto speciale. Qualcuno, di conseguenza, ha intercettato il vostro materiale in qualche punto del tragitto e lo ha sostituito con degli avanzi di macelleria…

— Avanzi piuttosto strani, se ci pensa un momento — cominciò Ethan in tono perplesso, ma lei stava già parlando.

— Chi è questo qualcuno, e dove e quando ha agito? Tu non sei, e io neppure… anche se suppongo che tu debba accontentarti della mia parola. E ovviamente non si tratta di Millisor, a cui sarebbe piaciuto ma non c’è riuscito.

— Millisor sembra pensare che sia stato questo Terrence Cee… chiunque o qualunque cosa sia.

Lei sospirò. — Chiunque-o-qualunque-cosa-sia ha avuto tutto il tempo per fare quello che voleva fare. Può aver agito prima della partenza del materiale dal Gruppo Jackson, o sul mercantile in viaggio da là per Stazione Kline, o in qualsiasi momento prima che qui arrivasse la nave del censimento per Athos… Santo cielo, hai un’idea di quante astronavi attraccano a Stazione Kline in due mesi? O di quanti trasbordi può aver avuto quel materiale, quello originario, una volta spedito su altre rotte? Non c’è da meravigliarsi se il colonnello Millisor si sta rovinando la digestione con queste ipotesi. Io ho avuto una copia degli arrivi e delle partenze da questa stazione, ma dubito che possa servire a qualcosa. Comunque… — La mercenaria prese un minicomp dallo scaffale e registrò una breve nota.

Ethan approfittò di quella pausa per chiedere: — Cos’è una moglie?

La mercenaria per poco non si strangolò con la sua birra. Per quanto tenesse di continuo il bicchiere in mano, notò lui, il livello del contenuto diminuiva molto lentamente. — Già, dimenticavo che voi athosiani… be’, una moglie è il partner in un matrimonio, la compagna femmina di un uomo. Il partner maschio è chiamato marito. I matrimoni sono di molti generi, ma quello più comune in questa regione dello spazio umano prende la forma di un contratto legale, economico e genetico il cui scopo basilare resta quello di produrre e allevare dei figli. Mi sono fatta capire?

— Credo di sì — disse lentamente lui. — Sembra un po’ come l’unione di due coniugi alternativi designati. — Ethan assaporò il suono di quella parola: — Marito. Su Athos, maritare è un verbo che significa unire le risorse. Come associarsi in affari. — Questo implicava che il marito mantenesse la femmina durante la gestazione? In tal caso questo cosiddetto metodo organico nascondeva costi che facevano apparire economici quelli di un centro di riproduzione, pensò lui soddisfatto.

— Maritare, eh? Comincio a pensare che la vostra lingua non deriva poi molto dall’inglese, dopotutto — borbottò Quinn. — Avete ancora il verbo ammogliarsi?

— No. Cosa significa?

— La stessa cosa ma fatta dal punto di vista mascolino. Prendere moglie. Immagino che dal vostro vocabolario siano sparite parecchie parole.

— L’evoluzione linguistica accompagna l’evoluzione sociale — annuì Ethan. Esitò. — Questo genetista a cui hanno bruciato la casa… lui e sua, uh, moglie, avevano dei figli?

— Un bambino piccolo, che però in quel momento era alla nursery. A scuola, insomma. Una fortuna, dato che senza dubbio Millisor non avrebbe esitato a torchiare anche lui come fece con sua madre prima di ucciderla… la donna era incinta, fra l’altro. — Quinn affondò rabbiosamente i denti in una tavoletta proteica.

Ethan scosse il capo, frustrato. — Ma perché tutto questo? Perché, perché, perché?

Lei ebbe un sorrisetto triste. — Ci sono momenti in cui mi sembri davvero un uomo normale… no, scusa, è una battuta stupida — aggiunse in fretta, quando Ethan la guardò con aria offesa. — Già Perché. Proprio la domanda a cui io devo dare una risposta. Millisor sembra convinto che il materiale prodotto dai laboratori Bharaputra fosse veramente destinato ad Athos, benché il tempo necessario a produrlo e il fatto che sia stato rubato facciano pensare che non fosse affatto la cosa richiesta da voi. Ora, se non altro, nei mesi scorsi io ho imparato che se Millisor è convinto che una cosa sta in un certo modo, molto probabilmente ha ragione. Di conseguenza: perché quel materiale veniva spedito su Athos? Cosa c’è su Athos che nessun altro pianeta ha?

— Niente — disse Ethan, con sicurezza. — Siamo una società piccola, basata sull’agricoltura, senza una produzione che valga la pena d’essere commercializzata all’estero. Trovandoci in fondo a un corridoio di transito non siamo su una rotta di balzo verso altri posti. E non abbiamo mai dato fastidio a nessuno.

— Niente — ripeté lei. — Consideriamo come scenario tattico un pianeta per cui non avere niente sarebbe un pregio… Godete di una certa tranquillità, e nessuno viene a ficcare il naso da quelle parti, suppongo. A parte questo, L’unica altra cosa che vi distingue è la vostra fisima di riprodurvi nel modo più difficile. — Quinn bevve un sorso di birra. -Tu dici che Millisor ha ventilato l’ipotesi di attaccare e distruggere i vostri centri di riproduzione. Parlami un po’ di questi centri.

Ethan non aveva bisogno d’essere molto stimolato per illustrarle con entusiasmo il suo amato lavoro. Le descrisse Sevarin. le attività che vi si svolgevano e la dedizione dei tecnici e dei medici che le portavano avanti. Le spiegò il sistema economico basato sul credito da doveri sociali, dal quale uscivano padri qualificati. Poi cambiò discorso bruscamente quando s’accorse che si stava addentrando nelle difficoltà personali che gli avevano fin’allora impedito di avere un figlio. Quella femmina stava riuscendo a farlo parlare con strana facilità… di nuovo si chiese cosa gli avesse messo nella birra.

Elli Quinn si appoggiò allo schienale della sedia e per qualche secondo fischiettò fra i denti. — Al momento, questo dannato furto ancora non lo capisco. In quanto al resto, però, la teoria che mi attira è quella dell’uovo del cuculo. Si accoppierebbe bene a quella di Millisor: la tattica del topo di fogna.

— L’uovo di chi?

— L’uovo del cuculo. Non avete cuculi su Athos?

— No… Sono rettili?

— Il cuculo è un uccello di origine terrestre. Non ha niente di speciale, salvo la biasimevole caratteristica di deporre le uova nei nidi degli altri uccelli lasciando così a loro il tedioso compito di allevare la sua prole. Ora lo si trova nella galassia soltanto sotto forma di riferimento letterario, dato che per qualche miracolo nessuno è mai stato così idiota da esportarlo su altri pianeti. Non è poi un volatile così astuto, dato che tutte le bestie più disgustose della Tena sono riuscite a trovare il modo di seguire l’uomo nello spazio, a dispetto di ogni sforzo. Comunque, tu hai capito cosa voglio dire quando parlo di tattica del cuculo, no?

Ethan corrugò le sopracciglia, annuendo. — Sabotaggio — sussurrò. — Sabotaggio genetico. Quei criminali progettavano di impiantare i loro mostri nella nostra società, senza che ci accorgessimo di… — S’interruppe e scosse il capo. — No, un momento. Non sono stati i cetagandani a mandarci quei contenitori refrigerati. Uh… topi, ha detto? Ma anche se loro avessero voluto subentrare in un progetto dei bharaputrani. noi abbiamo il modo di identificare i geni difettosi e… — Tacque di nuovo, incapace di vedere la fine anche di quel ragionamento.

— Però, nei contenitori spediti dal Gruppo Jackson poteva esserci del materiale rubato da quel progetto di ricerca cetagandano. Questo spiegherebbe l’accanimento con cui Millisor cerca di ritrovarlo, o di distruggerlo.

— Può darsi, ma… perché il Gruppo Jackson vorrebbe farci questo? O agisce così solo perché è nemico di Cetaganda?

— Ah… mmh. Tu cosa sai del Gruppo Jackson?

— Non molto. È un pianeta, hanno laboratori biologici, e due anni fa la Casa Bharaputra ha risposto a una lettera del Consiglio della Popolazione che chiedeva un preventivo per questa fornitura di materiale biologico. Anche una dozzina di altre ditte ha risposto.

— Sì. Be’, la prossima volta fate le ordinazioni a Colonia Beta.

— Colonia Beta ci ha chiesto il prezzo più alto.

Lei si passò le dita sulla mandibola, distrattamente. Ethan pensò alle bruciature di un raggio al plasma. — Può darsi, però otterrete quello per cui avrete pagato… Ma non voglio prenderti in giro. In realtà puoi avere un servizio tecnico altrettanto buono da una Casa del Gruppo Jackson, se la paghi abbastanza. Vuoi un clone della tua persona, fatto crescere in vasca fino alla maturità fisica, giovane e forte, per trasferire il tuo cervello nel suo corpo? Si può fare, col 50% di probabilità che l’operazione uccida te, e il 100% di probabilità che uccida… lui, se un clone appena tirato fuori da una vasca può essere già considerato una persona umana. Nessun genetista betano farebbe un lavoro del genere; là i cloni hanno tutti i diritti civili. Casa Bharaputra è invece nota per questo tipo di servizio.

— Ah — disse Ethan, con una smorfia. — Su Athos, clonare è uno dei Sette Peccati Capitali.

Lei inarcò un sopracciglio. — Ah, sì? Quale peccato?

— La vanità.

— Non sapevo che la vanità fosse un peccato… oh. be’. Il punto è che se qualcuno avesse offerto a Casa Bharaputra abbastanza soldi, loro avrebbero riempito quelle nove scatole di… di tritoni morti. O di super-soldati bio-modificati alti due metri e mezzo, o di qualsiasi cosa gli fosse stata richiesta. — Quinn tacque, e bevve la sua birra.

— Allora, quale sarà la nostra prossima mossa? — domandò baldanzosamente lui.

La mercenaria si mordicchiò un labbro.

— Non lo so. Io non avevo pianificato la morte di Okita, cerca di capirmi. Non ho l’ordine di intervenire attivamente in questo affare… al contrario, le mie istruzioni sono di osservare. Professionalmente parlando, nel salvarti io ho commesso un errore. Avrei dovuto assistere alla tua dipartita, prenderne nota con rammarico, e poi spedire un rapporto cifrato all’ammiraglio Naismith.

— E lui, uh, le farà passare dei guai per questo? — domandò nervosamente Ethan, mentre in lui lampeggiava la visione paranoica di quell’ammiraglio che ordinava severamente a Quinn di restaurare l’equilibrio originario mandandolo a raggiungere Okita.

— Naah. Anche lui si permette degli errori professionali, a volte. Questo è pericoloso; un giorno o l’altro si farà ammazzare. Ma finora è riuscito a far andare dritte le cose, perché sa come farsi baciare dalla Dea Bendata. — Quinn spazzò via l’ultima confezione fast-food dal vassoio, vuotò il bicchiere di birra e si alzò in piedi. — Il dovere mi chiama. È adesso che devo tenere d’occhio Millisor. Se qui su Stazione Kline ha degli agenti di cui non so nulla, mettendosi a cercare te e Okita dovrebbero uscire dall’ombra. Tu puoi dormire qui. Non devi lasciare la stanza.

Di nuovo imprigionato, anche se più comodamente. — Ma i miei abiti, il mio bagaglio, la mia stanza… — La sua Camera Turistica Economica, che continuava a costargli soldi. — Io ho un incarico da svolgere, per conto del mio governo.

— Tu non devi neppure avvicinarti a un chilometro dalla tua stanza d’albergo! — Quinn sbuffò spazientita. — Mancano otto mesi al giorno in cui dovrai imbarcarti per tornare su Athos, giusto? Ti propongo questo: tu mi aiuti nella mia missione, e io ti aiuterò con la tua. Se fai quello che ti dico potresti perfino vivere abbastanza da portarla a termine.

— Sempre presumendo — disse Ethan, di malumore, — che il Ghem-colonnello Millisor non le offra per i suoi servizi più di quanto la stanno pagando Casa Bharaputra e l’ammiraglio Naismith.

Lei infilò le scarpe, poi si gettò sulle spalle la blusa bianca e grigia, un indumento pieno di tasche che sembravano aver contenuto cose troppo pesanti per quella stoffa. — Voglio sprecare il fiato per segnalarti un fatto, athosiano: ci sono cose che il denaro non può comprare.

— Quali, mercenaria?

Sulla porta Quinn si fermò e le sue labbra si curvarono lievemente, malgrado la freddezza dello sguardo.

— Gli errori professionali.


Il primo giorno della sua semi-volontaria detenzione Ethan lo trascorse dormendo, per smaltire la stanchezza, il terrore, e il cocktail biochimico delle 24 ore precedenti. Fece torpidamente ritorno alla coscienza una prima volta mentre la comandante Quinn attraversava la stanza in punta di piedi, ma non gli parve che l’atteggiamento di lei fosse sospetto e richiuse gli occhi.

La seconda volta che si svegliò, molto più tardi, trovò la mercenaria addormentata sul pavimento in pantaloni e camicia, con la blusa arrotolata sotto la testa. Gli occhi della femmina si socchiusero per seguirlo quando lui scese dal letto per andare nel bagno.

Il secondo giorno, tentando la maniglia della porta, scoprì che la comandante Quinn non lo chiudeva dentro a chiave durante le lunghe ore in cui stava assente. Un po’ sorpreso andò avanti e indietro nel corridoio deserto dell’albergo per una ventina di minuti, cercando di spremersi il cervello su qualche progetto razionale che non comprendesse l’eventualità di cadere nelle mani di Millisor, i cui uomini lo stavano senza dubbio cercando per tutta la stazione. Il ronzio di un robot delle pulizie che girava l’angolo lo indusse a rientrare precipitosamente in camera, col cuore in gola. Forse non c’era niente di male nel lasciare che la femmina mercenaria lo proteggesse ancora un po’ di tempo.

Il terzo giorno aveva recuperato abbastanza chiarezza di mente da preoccuparsi di ogni aspetto della pericolosa situazione in cui si trovava, anche se non gli era tornata energia fisica sufficiente per far qualcosa in merito. Di malumore cominciò a leggere un testo di storia galattica sullo schermo della consolle di comunicazione. La biblioteca dell’albergo era ben fornita di libri e film.

Alla fine del giorno successivo si rese dolorosamente conto di quant’era inadeguata la cultura che si stava facendo, e che fino a quel momento consisteva in due libri di storia galattica molto generale e riassuntiva (una storia delle esplorazioni, e una storia del commercio interstellare) un manuale alberghiero per turisti in visita a Cetaganda, che comprendeva anche una storia di quel pianeta, e un film olovideo intitolato Naufragio sul Pianeta dell’Amore, su cui era inciampato per caso in un momento in cui era troppo stordito per spegnerlo e guardare qualcos’altro. Vivere con le donne non generava soltanto strani problemi negli uomini, ma a quanto pareva anche stranissimi comportamenti. Quanto gli restava prima che le irradiazioni telepatiche, o qualunque cosa emanasse la comandante Quinn, cominciassero a far agire in quel modo anche lui? Avrebbe spalancato d’improvviso la camicetta davanti a lui. esibendo la sua ipertrofia mammaria, allo scopo di fissare "l’impronta" nella sua mente, come mamma anatra sui pulcini appena usciti dall’uovo? O gli avrebbe conficcato in corpo la sua vibrolama. se lui avesse avuto (o non avesse avuto) una reazione ormonale causala dalla sua vicinanza?

Ethan scosse il capo, frustrato, e maledisse la timidezza che lo aveva indotto a restare in cabina nei due mesi di viaggio fino a Stazione Kline. Mantenere la purezza di mente e di propositi era positivo, ma restare ignorante significava prendere la scorciatoia per l’inferno; se la sua anima doveva essere sacrificata sull’altare della necessità, per Dio il Padre, il bene di Athos meritava questo ed altro. Coraggiosamente mise da parte il pudore e continuò a leggere.

Nella sua discesa spirituale, lo stato psichico opposto al nirvana era l’eccitazione euforica, e il sesto giorno l’aveva raggiunta.

— Cosa diavolo sta facendo quel Millisor, là fuori? — domandò alla comandante Quinn durante una delle sue brevi soste nella camera d’albergo.

— Al momento non sta facendo nulla di ciò che avevo sperato — ammise lei. Depose sullo scaffale le forbicine con cui s’era tagliata le unghie dei piedi e si mise un paio di calze rosse. Aveva appena acquistato diversi articoli in un grande magazzino, fra cui qualcosa anche per lui. — Non ha notificato la sparizione di Okita alle autorità della stazione, e non ha contattato il tuo albergo per sapere se ti hanno visto, anche se probabilmente lo sta facendo sorvegliare. Non ha convocato altro personale a me sconosciuto, il che tuttavia non esclude che ce ne sia. dato che i cetagandani hanno un consolato qui. Non ha prenotato posti su navi in partenza, e per ora non sembra intenzionato a lasciare la stazione. La cura che sta mettendo nel tutelare la sua copertura fa anzi pensare che progetti di restare qui per qualche tempo. L’altra settimana ero convinta che avrebbe cercato di penetrare sulla nave del censimento arrivata da Athos, nell’ipotesi che tu fossi venuto qui portando con te quel materiale per restituirlo al mittente. Ma adesso è chiaro che sta aspettando qualcos’altro. E deve trattarsi di una cosa importante, se rinuncia perfino a indagare sulla misteriosa scomparsa di uno dei suoi dipendenti.

Ethan andò nervosamente avanti e indietro; la sua voce si alzò. — Quanto tempo ancora dovrò restare segregato qui dentro?

Lei scrollò le spalle. — Finché non interviene qualche fatto nuovo, suppongo. — Ebbe un sorrisetto aspro. — E qualcosa accadrà, presumo, anche se non dalla nostra parte. Millisor e Rau e Setti hanno perlustrato di persona tutti settori della stazione che potevano raggiungere senza dare nell’occhio, ma continuano ad aggirarsi con molta insistenza soprattutto nei corridoi intorno al Riciclaggio. Dapprima non riuscivo a capire perché. Gli indumenti di Okita, che io avevo esaminato con uno scanner, risultavano privi di microspie. Ma non poteva essere questo. Comunque li ho spediti all’ammiraglio Naismith, per farli analizzare. Alla fine mi sono ricordata che vicino al Riciclaggio ci sono le vasche per la crescita delle sostanze proteiche. Credo che Okita avesse una microtrasmittente di qualche genere impiantata nel corpo; alcuni governi hanno questa procedura standard con chi passa attraverso le prigioni, per poter localizzare un individuo in ogni momento. Qualcuno rischierà di spaccarsi un dente sul suo petto di pollo, nei prossimi giorni. Spero che non sia un turista, altrimenti l’oggetto verrà consegnato al gestore del ristorante ed esaminato… con tanti saluti al nostro delitto perfetto. — Si alzò e aprì l’armadio. — Millisor non ha ancora tratto le deduzioni giuste, comunque; lui e gli altri due sono dei grandi divoratori di bistecche.

Ethan cominciava ad averne fin sopra i capelli della verdura e dei sandwich al formaggio vegetale. E di quella stanza, e della tensione, dell’indecisione e del senso d’impotenza. E soprattutto della comandante Quinn, e della sfacciataggine con cui gli dava ordini, come se lui fosse un povero sciocco incapace di agire…

— Io ho soltanto la sua parola sul fatto che le autorità della stazione non possono aiutarmi — sbottò all’improvviso. — Non sono stato io a sparare a Okita. Non ho fatto niente, io! Lo stesso Millisor non ha niente di personale contro di me… è lei che ha una sua guerra privata contro quella gente. Millisor non avrebbe mai pensato che io sono un agente di qualcuno, se Rau non avesse trovato la microspia che lei aveva messo in quel proiettore. È stata lei a trascinarmi in questa situazione sempre più profondamente, per usarmi nei suoi giochi di spionaggio.

— Guarda che Millisor ti sarebbe piombato addosso in ogni caso — gli fece notare Quinn.

— Sì, ma mi sarebbe bastato convincerlo che Athos non ha il materiale che lui sta cercando. Un semplice interrogatorio col penta rapido gli sarebbe bastato, se lei non si fosse intromessa destando i suoi sospetti. All’inferno, sarei disposto ad andare da lui per invitarlo a perquisire i nostri centri di riproduzione se è questo che vuole, e così si persuaderebbe che Athos non ha niente a che fare con le manovre dei suoi avversari e ci lascerebbe in pace.

Lei inarcò un sopracciglio, vezzo che Ethan trovava sempre più irritante. — Credi davvero che potresti arrivare a un accordo con lui? Personalmente, preferirei far visitare casa mia da un branco di cani affamati.

— Se non altro lui è un uomo — sbottò Ethan.

Lei scoppiò a ridere. I sentimenti accesi di Ethan arrivarono al punto di ebollizione. — Per quanto tempo pretende di tenermi isolato qui dentro, si può sapere? — le domandò ancora.

La mercenaria lo fissò per qualche istante. Il suo sorriso si dileguò. Strinse le palpebre. — La porta di questa stanza non è chiusa a chiave — gli disse con voce calma. — Puoi andartene quando vuoi. A tuo rischio, naturalmente. Se farai una brutta fine mi dispiacerà, tuttavia io potrò cavarmela anche senza di te.

Lui rallentò il suo frenetico andirivieni. — Lei sta bluffando. Non ha nessuna intenzione di lasciarmi andare. Ormai io so troppe cose.

Quinn rimise nell’armadio la camicia che stava tirando fuori e si passò una mano sulla mandibola. Nello sguardo con cui lo esaminò non c’era alcuna espressione, come se stesse calcolando a occhio il suo peso e le conseguenze che ci sarebbero state immettendo una biomassa extra nei sistemi di riciclaggio della stazione. Quando parlò, la sua voce era fredda e ostile come quella di F. Helda. — Io direi invece che tu non sai niente, egregio. Neppure di te stesso.

— Lei non vuole che io parli di Okita alle autorità della stazione, è così? Questo metterebbe a repentaglio il suo prezioso collo, anche se ad accusarla di omicidio sarebbe la sua stessa gente…

— Non credo che il mio collo sia in pericolo. Ovviamente la polizia non potrà ignorare ciò che ho fatto con quel cadavere… sempre che tu possa dimostrargli che sono stata io a uccidere Okita e che tu esca senza conseguenze da un processo per omicidio, cosa che dubito, dal momento che ci sono testimoni pronti a giurare che sei stato mio complice nell’eliminazione del cadavere.

— E allora? Cosa potrebbero fare, scacciarmi da Stazione Kline? Questa non sarebbe una punizione, sarebbe un premio!

Nelle pupille di lei, fra le palpebre strette, ci fu una luce sprezzante. — Se uscirai da questa stanza, athosiano, non aspettarti di avere da me altro aiuto e comprensione. Io non ho tempo per i chiacchieroni che non hanno il fegato di fare le cose fino in fondo.

Ethan capì che per lei questo era un insulto rovente. Decise di prenderlo come tale. — E io non ho tempo da perdere con una presuntuosa, intrigante, insopportabile… femmina! — esclamò.

Lei gli mostrò la porta con un gesto di sfida, stringendo le labbra. Ethan capì di aver avuto lui l’ultima parola. Aveva in tasca la sua carta di credito, le scarpe ai piedi, i vestiti addosso. Con una smorfia irosa raggiunse la porta, a testa alta. Nella schiena gli corse un brivido d’attesa per il raggio di uno storditore o qualcosa di peggio. Non ci fu niente.

C’era un gran silenzio nei corridoi, dopo che la porta si fu chiusa alle sue spalle con un sussurro d’aria compressa. Avere l’ultima parola, si chiese, era proprio ciò che voleva? E tuttavia… sì, preferiva affrontare Millisor, Rau, e lo spettro di Okita insieme a loro piuttosto che tornare a testa bassa nella sua prigione e chiedere scusa a Quinn.

Determinazione. Decisione. Azione. Questo era l’unico modo per risolvere i problemi. Non voltar loro le spalle e nascondersi. La cosa giusta era uscire da lì e affrontare Millisor faccia a faccia. A passi lunghi si avviò verso le scale.

Quando attraversò l’atrio del piccolo albergo e uscì in strada, dopo un cenno di saluto all’impiegata al banco, stava camminando con andatura normale ed aveva già revisionato la sua precedente linea di condotta a favore di una più prudenziale: avrebbe chiamato Millisor da un video telefono pubblico, per sondare la possibilità di un accordo e studiare le sue intenzioni prima di esporsi personalmente. Gli sarebbe convenuto essere astuto. Ad esempio, non era necessario tornare al suo albergo. Poteva benissimo abbandonare il suo piccolo bagaglio, acquistare un biglietto su una nave in partenza — per Colonia Beta? — ma solo all’ultimo momento, in modo da salire a bordo senza preavviso, e così si sarebbe lasciato alle spalle quella pericolosa banda di agenti segreti e di assassini. Prima che lui facesse ritorno a Stazione Kline, da lì a qualche mese, loro sarebbero andati a darsi la caccia a vicenda all’altro capo della galassia.

Scese di un paio di livelli rispetto all’albergo di Quinn ed entrò in una cabina di comunicazione pubblica. La sua carta di credito fu accettata senza difficoltà.

Pronunci il numero a voce, prego, lo invitò la scritta olografica in lettere verdi che apparve a schermo.

— Vorrei mettermi in contatto con un turista, attualmente ospite di un albergo: il Ghem-colonnello Luyst Millisor — disse al computer. Ripeté il nome lettera per lettera. La sua voce, notò soddisfatto, non tremava minimamente.

La persona da lei richiesta non è nel registro delle presenze di Stazione Kline fu la risposta olografica, in lettere rosse.

— Ma cosa… è partito, allora? — Millisor se n’era andato, e la comandante Quinn l’aveva tenuto chiuso in camera per tutto quel tempo nascondendogli questa informazione. — Posso sapere se è salito su una nave in partenza, e per quale destinazione? Millisor, Luyst. Ethan sillabò di nuovo il nome.

La persona da lei richiesta non è nel registro dei viaggiatori partiti da Stazione Kline negli ultimi 12 mesi lo informò il computer.

— Mmh, uh… vorrei mettermi in contatto col capitano Rau. Erre-a-u. Non conosco il nome di battesimo.

La persona da lei richiesta non è nel registro…

— Allora Setti, anche lui un turista. Esse-e-ti-ti-i.

La persona da lei richiesta non è nel registro…

Per un momento Ethan ebbe l’impulso assurdo di chiedere se almeno Okita era conosciuto. Ritirò la carta e si alzò, senza saper cosa fare. Poi finalmente capì: Luyst Millisor non era il nome che il cetagandano aveva dato al suo arrivo. E tuttavia lì su Stazione Kline doveva pure usarne uno, se voleva che la sua carta di credito funzionasse. Sfortunatamente lui non aveva il minimo indizio di quale poteva essere. Vicolo cieco.

Cercando di radunare le idee uscì, e si avviò sul marciapiede del largo corridoio. Avrebbe potuto tornare al suo albergo, supponeva, e lasciare che fosse Millisor a trovare lui. Ma se poi avesse avuto una possibilità di accordarsi, o comunque di scambiare due parole da persone civili, senza che i compagni di Okita volessero vendicare la sua morte, questo era tutto da vedere.

La vista dei passanti, fra cui numerosi turisti dall’eleganza spesso bizzarra, non lo distraeva molto dalla sua concentrazione. Ma due facce che stavano venendo verso di lui ci riuscirono. Si trattava di una coppia di uomini di corporatura robusta, vestiti di grigio, il cui volto era ricoperto di disegni scintillanti che celavano ogni millimetro di pelle. Quello di sinistra era basato sul rosso, con un complicato arabesco di sottili striature arancione, nere e verdi, nelle quali c’era evidentemente un significato. L’altro era di prevalenza azzurro, con ghirigori bianchi e neri che delineavano gli occhi, il naso e la bocca. I due erano profondamente assorti in conversazione e non guardavano nessuno. Ethan si spostò sull’interno del marciapiede e li osservò, affascinato e divertito.

Fu solo quando i due furono praticamente alla sua altezza, sul punto di passare oltre, che lo sguardo di Ethan riuscì a distinguere i loro lineamenti sotto quei disegni colorati. D’un tratto ricordò che sapeva, dalle sue recenti letture, cosa significava quel complicato makeup. Erano maschere di rango usate dai ghem-lord cetagandani.

Nello stesso momento il capitano Rau si girò, e i suoi occhi incontrarono quelli di Ethan. La bocca dell’uomo, nella sua maschera azzurra, si aprì in un’imprecazione stupefatta, e subito la sua mano destra scattò ad afferrare qualcosa nell’interno della giacca, sotto l’ascella. Ethan, dopo un momento di confusione e di paralisi, corse via più svelto che poté.

Dietro di lui crepitò una scarica d’energia. Il lampo dell’arma — per Dio il Padre, un distruttore neuronico! — fiammeggiò sopra la sua testa. Ethan si girò a guardare, sbandando. Rau aveva sbagliato la mira soltanto perché Millisor gli aveva fatto alzare quell’arma micidiale colpendogli un braccio. I due persero qualche secondo gridandosi qualcosa a vicenda, ma subito dopo cominciarono a inseguirlo. Ora Ethan ricordava più chiaramente quanto spietati e amorali sapevano essere quei cetagandani.

Senza esitare si tuffò a testa in avanti dentro il tubo di un ascensore antigravità, e mentre il languido campo d’energia lo sollevava lui accelerò la salita nuotando freneticamente come un salmone in una cascata, aiutato in questo dai pioli della scaletta d’emergenza. I passeggeri che urtò in quella sua energica ascesa protestarono e lo insultarono, indignati.

Balzò fuori al piano di sopra, corse a destra e a sinistra, si gettò in un secondo pozzo antigravità, e poi in un terzo e in altri ancora, continuando a guardarsi indietro in preda al terrore. Fuggì attraverso l’interno di un grande magazzino pieno di clienti, poi in una zona di lavori in corso del tutto deserta — VIETATO L’INGRESSO AI NON ADDETTI AI LAVORI — svoltò, salì, scese e cambiò ancora direzione. D’un tratto si rese conto d’essere lontano dalla Passeggiata dei Viaggiatori, perché le porte a cui passava davanti, che nel ghetto dei turisti avevano scritte e proibizioni in più lingue, lì erano quasi tutte anonime.

Alla fine barcollò dentro una specie di stanza di sgombero piena di utensili da lavoro, si gettò a sedere al suolo e giacque lì senza fiato. Gli sembrava di aver perso i suoi inseguitori. In quanto a lui, che si fosse perso era sicuro.

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