Capitolo IX LA GALERA DELLA MORTE

Carse si rialzò, lentamente, e si voltò sulla soglia, girando la schiena alla cosa che aveva ucciso, ma che non aveva visto, e che non desiderava vedere. Era sconvolto, paurosamente sconvolto, ed era pervaso da uno strano stato d’animo, una specie di esaltazione febbrile che confinava con la follia.

Era l’isterismo, pensava, che sopraggiunge quando si è sopportato troppo, quando le pareti si chiudono, non c’è via di scampo, e non resta altro che lottare, prima di affrontare la morte.

La cabina era immersa in un pesante silenzio, un silenzio gravido di attonita sorpresa, di infinito stordimento. Scyld aveva lo sguardo fisso e vitreo di un idiota, e aveva la bocca spalancata. Ywain aveva appoggiato una mano a un angolo del tavolino, ed era strano, immensamente strano scorgere in lei quel piccolo segno di debolezza. Neppure per un istante lei aveva distolto lo sguardo da Carse.

Lei disse, raucamente, sommessamente:

«Sei un uomo o un demone, tu che osi combattere Caer Dhu?»

Carse non rispose. Ormai non era più capace di parlare.

Il volto di Ywain galleggiava davanti ai suoi occhi annebbiati, come una maschera d’argento. Ora lui ricordava il dolore, la sofferenza, l’estenuante fatica e l’umiliazione del remo, le lunghe ore e i minuti interminabili, e le cicatrici che lui portava sul corpo, in ricordo del morso impietoso dello scudiscio. Ricordava bene la voce che aveva detto a Callus: «Dagli una lezione.»

Lui aveva ucciso il Serpente. Dopo questa impresa, uccidere una regina pareva una piccola cosa.

Cominciò a muoversi, per colmare la breve distanza che li separava, e c’era qualcosa di terribile nell’esasperata lentezza con la quale faceva i suoi passi, c’era una cupa determinazione, nel suo incedere, lui che era lo schiavo che ancora portava i cerchi di ferro ai polsi e alle caviglie, quei cerchi che lo avevano tenuto incatenato al banco dei rematori, lui che brandiva alta la grande spada, dalla lama scura di sangue alieno.

Ywain indietreggiò di un passo. La sua mano esitò, posandosi sull’elsa della spada che portava al fianco. La principessa non temeva la morte. Temeva invece la cosa che vedeva in Carse, la luce che ardeva implacabile nei suoi occhi. Il terrore che la paralizzò per un momento non nasceva dal corpo, bensì dall’anima.

Scyld lanciò un grido rauco. Sguainò la spada, e si gettò verso Carse.

Avevano tutti dimenticato il grasso Boghaz, che se ne stava rannicchiato nel suo angolo. E in quel momento, il Valkisiano si alzò in piedi, muovendosi con una prontezza quasi incredibile per la sua enorme mole. Quando Scyld passò impetuosamente davanti a lui, egli alzò entrambe le mani, e poi calò pesantemente i pugni sulla testa di Scyld, con forza tremenda.

Scyld crollò sul pavimento, come un sasso.

E in quella breve pausa, Ywain ritrovò il suo orgoglio. La spada di Rhiannon si levò alta, pronta a vibrare il colpo mortale, e rapidamente, veloce come il lampo, la principessa sguainò la sua corta spada, e parò il colpo, quando la lama calò su di lei.

La forza del fendente le fece cadere di mano l’arma. Ora Carse doveva soltanto calare un altro fendente… ma gli parve che, in quel violento impatto, tutte le forze fossero sfuggite dal suo corpo, insieme alla volontà di uccidere. Vide Ywain aprire la bocca, per lanciare un’invocazione di aiuto, e allora la colpì sul volto usando l’elsa della spada, facendola cadere sul pavimento priva di sensi, con una ferita sulla guancia, là dove il metallo aveva colpito la carne.

E in quel momento Boghaz fu davanti a lui, si frappose tra la spada di Rhiannon e il corpo inerte della donna, dicendo:

«Non ucciderla! Potremo riscattare la nostra vita, in cambio della sua!»

Carse rimase immobile, mentre Boghaz legava e imbavagliava la donna, e la disarmava, sfilando dal fodero anche il corto pugnale che portava al fianco insieme alla spada.

In quel momento, il terrestre pensò che loro erano due schiavi che avevano sopraffatto Ywain di Sark, e avevano colpito e ucciso il suo capitano, e che la vita di Matthew Carse e di Boghaz di Valkis avrebbe avuto meno valore di un alito di vento, non appena la loro impresa fosse stata conosciuta.

Per il momento, non correvano pericoli immediati. Non c’era stato molto rumore, e dall’esterno non giungevano suoni di allarme.

Boghaz andò a chiudere la porta della cabina interna, come se avesse voluto nascondere perfino il ricordo di ciò che vi era nascosto. Poi si avvicinò a Scyld, chinandosi su di lui, per accertarsi che fosse morto. I polsi che erano stretti dai cerchi metallici si erano abbattuti sulla testa del capitano, uccidendolo sul colpo. Allora il grasso Valkisiano raccolse la spada di Scyld, e rimase immobile per qualche istante, trattenendo il respiro, rendendosi forse conto dell’enormità di ciò che avevano fatto.

Stava guardando Carse con un’espressione nuova, fatta di rispetto e di ammirazione, e anche di paura. Lanciò un’occhiata alla porta chiusa, e mormorò, come trasognato:

«Non l’avrei mai creduto possibile. Eppure l’ho visto con i miei occhi.» Si rivolse di nuovo a Carse. «Tu hai invocato il nome di Rhiannon, prima di colpire. Perché l’hai fatto?»

Carse, con impazienza, rispose;

«Ti sembra che si possa sapere ciò che si dice, in un momento simile?»

La verità era che neppure lui sapeva per quale motivo avesse invocato il nome del Maledetto. Poteva pensare soltanto che quel nome era stato ripetuto troppe volte, da quando era iniziata quell’incredibile storia, e il sentirne parlare continuamente doveva avere originato, in lui, una specie di ossessione. Lo strumento ipnotico del Dhuviano aveva prodotto certamente degli effetti bizzarri sulla sua mente, facendogli perdere per qualche minuto il controllo sui propri pensieri, e forse perfino la ragione. Riusciva a ricordare soltanto una terribile collera… e gli dei sapevano quante buone ragioni egli aveva per adirarsi, dopo tutto ciò che aveva dovuto subire.

La scienza Dhuviana non era riuscita a soggiogarlo completamente; ma questo non era del tutto inesplicabile. Dopotutto, lui era un terrestre, ed era figlio di un’altra epoca, un’epoca del futuro remoto, completamente diversa. Lui era il frutto di una diversa evoluzione, di un altro mondo e di un altro tempo; non c’era da stupirsi se gli strumenti scientifici di quel mondo, creati per dominare la mente dei suoi abitanti, su di lui non esercitavano l’effetto desiderato. Malgrado ciò, c’era mancato poco… ed era stato orribile. Gli parve ancora, per un istante, di trovarsi sull’orlo dell’abisso dischiuso dallo strumento Dhuviano. Sì, c’era mancato poco. E la sua mente non voleva ricordare. Lui desiderava solo cancellare quello spaventoso ricordo.

«Ormai è passato. Dimentichiamo tutto. Ora, dobbiamo pensare al modo di uscire da questa maledetta situazione.»

Il grasso Boghaz, apparentemente, aveva esaurito ogni riserva di coraggio. Era livido, depresso, e quando rispose, parlò con voce bassa e sorda.

«Se vogliamo uscirne nel modo migliore, uccidiamoci adesso, con le nostre mani, e non pensiamoci più.»

Carse capì che il grasso Valkisiano stava parlando seriamente. Lo guardò, e disse, con una punta di irnoia:

«Se la pensi così, per quale motivo hai colpito Scyld, per salvarmi la vita?»

«Non lo so. Penso che sia stato l’istinto.»

«Va bene. Il mio istinto mi dice che è bene cercare di sopravvivere il più a lungo possibile.»

Il più a lungo possibile… ma la situazione pareva indicare che non sarebbe stato per molto. C’era però una ferrea determinazione, in Carse… la determinazione di non accettare in nessun caso il consiglio di Boghaz, e gettarsi sulla punta della spada di Rhiannon, per trovare una morte rapida e pulita. Soppesò la grande spada, con la fronte aggrottata, immerso nei suoi pensieri; poi staccò lo sguardo dalla lama scintillante, ’e fissò Boghaz.

D’un tratto, ruppe il silenzio che si era creato, esclamando:

«Se potessimo liberare i rematori, essi sarebbero pronti a combattere. Sono tutti degli schiavi, dei condannati… non hanno nulla da perdere, perché il loro destino è quello di remare per tutta la vita, in catene, sulla galera di Ywain. Potremmo impadronirci della nave.»

Boghaz spalancò gli occhi, attonito, e un istante dopo li socchiuse, assumendo un’aria calcolatrice, evidentemente ponderando sull’idea di Carse. Dopo un breve intervallo di silenzio, alzò le spalle, e sospirò.

«Suppongo che non possa capitarci nulla di peggio che morire. E vale la pena di tentare. Vale la pena di tentare qualsiasi cosa, quando si è in una situazione disperata come la nostra.»

Provò il filo del pugnale che aveva tolto dalla cintura di Ywain. La lama era forte e sottile. Con l’incredibile perizia di uno scassinatore provetto, infilò la punta nella serratura dei cerchi di ferro che serravano i polsi del terrestre.

«Hai un piano?» domandò.

Carse alzò le spalle, e rispose, cupamente:

«Non sono un mago. Posso soltanto tentare.» Diede un’occhiata alla figura inerte di Ywain. «Tu rimani qui, Boghaz. Barrica la porta, e bada a Ywain. Se le cose volgeranno al peggio, è lei la nostra unica e ultima speranza.»

Ora i cerchi di ferro erano aperti, ai polsi e alle caviglie di Carse. Il meccanismo di chiusura era scattato. Boghaz lavorò per qualche istante sul meccanismo, e quando richiuse gli anelli, essi erano chiusi in modo che chi li portava avrebbe potuto liberarsi facilmente. Riluttante, Carse posò sul tavolino la spada di Rhiannon. Boghaz avrebbe avuto bisogno del pugnale, per liberarsi a sua volta, ma c’era un altro pugnale sul corpo di Scyld. Rapidamente, Carse andò a prenderlo, e lo nascose sotto il corto gonnellino che indossava. Nel fare questo, impartì a Boghaz delle istruzioni brevi e concise, seguendo il piano disperato che aveva cominciato a formarsi nella sua mente.

Un minuto più tardi, Carse aprì la porta della cabina, di quel tanto che gli bastò per uscire sul ponte. Dall’interno, alle sue spalle, giunse un’imitazione perfetta della voce rozza e arrogante di Scyld, che chiamava un soldato. Il soldato accorse subito.

«Riporta questo schiavo al suo banco,» ordinò la voce del grasso Valkisiano, che imitava perfettamente quella di Scyld. «Rimettilo al lavoro, e bada che nessuno venga qui a disturbare la Signora Ywain.»

Il soldato salutò, e trascinò via Carse, che lo seguì apparentemente riluttante, con i polsi e le caviglie di nuovo incatenati. La porta della cabina si chiuse, rumorosamente, e Carse riuscì a udire il rumore della sbarra che veniva sistemata sui suoi supporti.

Sul ponte, e giù per la scaletta. «Conta i soldati, pensa alla maniera di agire!»

No! diceva un’altra voce dentro di lui, Non pensare, altrimenti non troverai mai il coraggio di farlo!

Il tamburino, che era anch’egli uno schiavo. I due Nuotatori. Il sorvegliante, che era in piedi, all’inizio della corsia, e stava frustando un rematore. File e file di spalle, curve sui remi, che si muovevano ritmicamente, seguendo il battito del tamburo. File di volti, sopra quelle spalle. Volti di topi, di sciacalli, di lupi. Lo scricchiolio e il gemito degli scalini, l’odore penetrante di sudore e di acqua marina, il battito incessante, monotono, cupo del tamburo.

Il soldato consegnò Carse a Callus, e si allontanò. Callus era all’altra estremità della corsia, rispetto al sorvegliante. Jaxart era di nuovo al remo, insieme a un magro prigioniero Sark, che portava un marchio sul volto. I due schiavi sollevarono lo sguardo per un momento, fissando Carse, e poi lo riabbassarono.

Ruvidamente, Callus spinse Carse al suo posto, sul banco, e il terrestre si curvò sul remo, remissivo. Callus si chinò, per fissare la catena del banco a quella che Carse portava alle caviglie, e a quella che portava ai polsi, brontolando tra sé:

«Spero che Ywain ti lasci a me, quando avrà finito, carogna! Fino a quando resisterai, potrò divertirmi a piacimento, allora!…»

Callus s’interruppe, allora, bruscamente, e non disse più nulla, né allora né mai. Carse gli aveva trafitto il cuore con il pugnale, con una rapidità e una perfezione tali che neppure Callus si accorse del colpo, fino a quando non cessò di respirare.

«Non perdere la battuta!» ringhiò Carse a Jaxart, sottovoce. Il grande Khond obbedì. Una nuova luce cominciò a risplendergli negli occhi. L’uomo che portava il marchio sul volto rise, una breve risata silenziosa, avida e terribile.

Carse tagliò, con un rapido colpo di pugnale, la cinghia alla quale era appesa la chiave che apriva le serrature delle catene principali, quelle fissate ai banchi, e lasciò che il cadavere rotolasse lentamente sulle assi, per finire nella sentina.

L’uomo incatenato al remo sinistro, il più vicino, sull’altro lato della corsia, aveva visto la scena, come pure il tamburino.

«Non perdete la battuta!» ripete Carse, più forte, e Jaxart lanciò un’occhiata minacciosa da quella parte, e la battuta fu mantenuta. Ma il tamburo rallentò il ritmo, perse un colpo, due, e infine tacque.

Carse si liberò completamente delle catene che gli stringevano i polsi e le caviglie. Fissò intensamente il tamburino, e il ritmo ricominciò, ma il sorvegliante stava già accorrendo, gridando, facendo schioccare minacciosamente la frusta.

«Cosa succede qui, maiale?»

«Ho le braccia stanche,» gemette l’uomo, con voce tremante.

«Stanche, eh? Ti farò stancare anche la schiena, se succederà un’altra volta!»

L’uomo che si trovava alla sinistra di Carse, un Khond, disse, chiaramente e deliberatamente, per attirare su di sé l’attenzione del sorvegliante:

«Molte cose stanno per accadere, lurido Sark.» E tolse le mani dal remo.

Il sorvegliante avanzò verso di lui.

«Davvero? Ma guarda! Il maiale è diventato un profeta!»

Il suo scudiscio si sollevò, e calò sulla schiena del Khond, un volta sola, e poi Carse fu su di lui. Una mano chiuse la bocca dell’uomo, mentre l’altra gli conficcò il pugnale nella schiena. Rapidamente, e silenziosamente, un secondo cadavere rotolò nella sentina.

Un grido gutturale, un sordo grido animale, si levò dalle file dei rematori. Con un gesto imperioso del braccio sollevato, Carse lo fece cessare, indicando con il capo il ponte superiore. Ma lassù nessuno si era ancora accorto di nulla. Tutto si era svolto troppo rapidamente, e troppo silenziosamente, per attirare l’attenzione dei soldati.

Inevitabilmente, il ritmo della remata si era interrotto, ma non si trattava di una cosa inconsueta, e, in ogni caso, spettava a Callus e al sorvegliante metterci rimedio. Fino a quando la remata non fosse completamente cessata, nessuno sarebbe intervenuto, nessuno sarebbe sceso a controllare, a meno che Ywain non fosse venuta a investigare sul ponte… e Carse sapeva che questo era impossibile. E la battuta, seppure irregolare e scomposta, continuava. Se continuava anche la fortuna che li aveva assistiti fino a quel momento…

Il tamburino ebbe il buonsenso di continuare a battere il ritmo sullo strumento, o forse fu soltanto una reazione dettata dalla forza dell’abitudine. Carse passò parola… «Continuate a remare, fino a quando non saremo tutti liberi!»… e di bocca in bocca, di banco in banco, l’ordine si diffuse per tutta la fossa dei rematori. Il ritmo della vogata riprese, normalmente, anche se con una certa lentezza. Rannicchiandosi sulle assi, Carse infilò la chiave nella serratura delle catene comuni, strisciando sulla corsia, passando da un banco all’altro, con rapidità ed efficienza. Una volta liberi dalla catena principale, gli schiavi non ebbero bisogno di ordini, per cominciare a liberarsi delle catene che serravano loro i polsi e le caviglie, aiutandosi a vicenda.

Malgrado ciò, meno della metà dei rematori era già libera dai ceppi, quando un soldato, che evidentemente non aveva nulla di meglio da fare a bordo, scelse quel momento per sporgersi dal parapetto del ponte, e guardare in basso, nella fossa dei rematori.

In quel momento, Carse aveva appena finito di liberare i Nuotatori. Si voltò, e vide l’espressione del soldato cambiare improvvisamente, da stanca e annoiata a vigile, attenta e incredula. Istintivamente, il terrestre s’impadronì della frusta che era sfuggita al sorvegliante ucciso, ed era rimasta sulla corsia, facendola sibilare in alto, verso il soldato. L’uomo lanciò un grido di allarme, mentre il lungo staffile s’attorcigliava intorno al suo collo, e si tendeva, trascinandolo irresistibilmente nella fossa, dove cadde e giacque immobile.

Subito Carse balzò sulla scaletta.

«Avanti, canaglie, schiavi di Sark!» urlò. «Questa è la vostra occasione!»

E tutti lo seguirono come un solo uomo, urlando il loro grido bestiale, il grido feroce di creature che hanno fame di vendetta e di sangue, e che per troppo tempo hanno aspettato il loro momento. Salirono come una marea impetuosa, inarrestabile, su per la scaletta, agitando le loro catene, e quelli che erano ancora legati al banco lavoravano come folli, per liberarsi e raggiungere gli altri.

Poterono approfittare del breve vantaggio della sorpresa, perché l’attacco era seguito così immediatamente al grido di allarme del soldato, che le spade erano ancora per metà nei foderi, gli archi non erano ancora pronti a lanciare le frecce. Ma questo vantaggio non sarebbe durato a lungo. Carse sapeva bene quanto sarebbe stato breve quel momento di sorpresa.

«Colpite! Colpite con tutte le vostre forze finché potete farlo!» gridò a gran voce.

Gli schiavi si riversarono gridando sui soldati, armati di pezzi di tavolato, delle loro catene, e dei loro pugni, e i soldati si prepararono a sostenere il loro attacco. Carse, con la sua frusta e il suo pugnale, Jaxart, che urlava la parola ’Khondor!’ come un grido di battaglia, corpi seminudi contro le armature di maglia di ferro, la forza della disperazione contro la forza della disciplina. I Nuotatori scivolavano come ombre brune nella mischia, e lo schiavo dalle ali mozzate brandiva una spada, trovata chissà come. I marinai vennero a dare man forte ai soldati, ma dalla scaletta orde di lupi famelici continuavano a riversarsi sul ponte.

Dal castello di prua e dalla piattaforma del timoniere, gli arcieri cominciavano a prendere la mira, ma dopo avere scagliato poche frecce furono costretti a fermarsi, perché la mischia si era fatta così confusa e serrata che esisteva il pericolo a ogni colpo, di uccidere uno dei propri uomini. L’odore dolciastro del sangue si levò nell’aria, venne preso dal vento e portato intorno, come un’impalpabile nube che ammorbava l’aria. I ponti cominciarono ad arrossarsi, ed erano viscidi, là dove le mischie infuriavano, e il sangue scorreva intorno copioso. E poi, gradualmente, la forza superiore, e la superiore disciplina, dei soldati di Ywain, cominciarono a prevalere. Carse vide che i soldati avevano formato dei nuclei di difesa, e che iniziavano il contrattacco, respingendo lentamente i prigionieri ribelli; e tra le file degli schiavi, il numero dei caduti aumentava spaventosamente.

Allora, in un impeto furibondo, il terrestre corse verso la cabina. Certamente i Sark dovevano avere trovato strano il fatto che la loro principessa e il loro capitano non fossero apparsi sul ponte, a guidarli, ma l’attacco era stato troppo improvviso, e la mischia troppo furibonda, perché i soldati avessero potuto riflettere su altri problemi, all’infuori di quello di sopravvivere e vincere il nemico. Carse cominciò a picchiare furiosamente sulla porta della cabina, gridando il nome di Boghaz.

Il Valkisiano sollevò la sbarra, e Carse entrò nella cabina.

«Porta quella sgualdrina sulla piattaforma del timoniere,» ansimò. «Ti aprirò io la strada.»

Prese dal tavolino la spada di Rhiannon, la impugnò, e uscì di nuovo dalla cabina, seguito da Boghaz, che portava tra le braccia Ywain prigioniera.

La scaletta era a meno di due passi dalla porta. Gli arcieri erano discesi, per unirsi ai loro compagni impegnati in una furibonda serie di corpo a corpo, e sulla piattaforma non c’era nessuno, all’infuori del terrorizzato marinaio Sark che si aggrappava alla ruota del timone come se fosse stata un’ancora di salvezza. Carse, mulinando la grande spada, si aprì un varco, e presidiò la scaletta, mentre Boghaz saliva, con un’agilità insospettabile in un uomo così grasso, e, una volta giunto sulla piattaforma, metteva diritta Ywain, in modo che fosse visibile da tutti coloro che si trovavano in basso.

«Guardate!» gridò allora Carse, ai piedi della scaletta. «Ywain è in nostra mano!»

Ma in realtà, non c’era bisogno che egli lo dicesse. La vista della principessa, legata e imbavagliata, nelle mani di uno schiavo, fu come un terribile colpo inferto ai soldati, e come una pozione magica per i ribelli. Un gemito di disperazione e un urlo possente di esultanza si mescolarono, dai ponti insanguinati, e salirono al cielo.

Qualcuno trovò il cadavere di Scyld, e lo trascinò sul ponte. Vedendo che il loro capitano era morto, ed era tenuto alto dai ribelli, in modo che tutti potessero vedere, i soldati e i marinai di Sark, privi dei loro capi, persero ogni coraggio. Le sorti della battaglia si capovolsero repentinamente, allora, e gli schiavi non esitarono ad approfittare del loro vantaggio.

Era la spada di Rhiannon a guidarli, fendendo gli stendardi che portavano il drago di Sari:, e facendoli cadere come stracci dall’albero maestro. E sotto la scintillante lama caddero molti nemici, e infine cadde anche l’ultimo soldato di Sari:.

D’un tratto, ogni movimento cessò, e ci fu una pausa di silenzio, uno strano, profondo silenzio che incombeva solenne sulla nave conquistata. La nera galera galleggiava, sospinta dalla brezza, rollando e beccheggiando dolcemente sul bianco mare increspato. Il sole era già basso sull’orizzonte. Esausto, Carse salì fino alla piattaforma del timoniere.

Ywain, sempre stretta tra le braccia di Boghaz, seguiva ogni suo movimento, con occhi fiammeggianti di collera infernale.

Carse raggiunse l’estremità della piattaforma, e si fermò, appoggiandosi alla spada. Gli schiavi, esausti per la violenza della battaglia, e inebriati dai fumi deliziosi della vittoria, si erano radunati sul ponte inferiore, come un anello di lupi ansanti dopo una caccia felice.

Jaxart, che era andato a ispezionare le cabine, uscì dall’ultima di esse. Avanzò sul ponte, agitando la spada rossa di sangue verso Ywain, e gridando:

«Un degno amante teneva nascosto nella sua cabina! Il figlio di Caer Dhu, il fetido Serpente!»

La reazione degli schiavi a quelle parole fu immediata. D’un tratto essi parvero dimenticare la gioia della vittoria, la stanchezza della battaglia. D’un tratto essi parvero pervasi da un nuovo terrore, da un’angoscia tremenda, e si fecero più vicini gli uni agli altri, spauriti, malgrado il loro grande numero, anche solo nell’udire quel nome terribile e odiato. Carse riuscì a fatica a farsi udire.

«Non abbiate paura. Il Serpente è morto! Jaxart… vuoi ripulire la nave?»

Prima di obbedire, Jaxart si fermò, e lanciò uno sguardo bizzarro a Carse.

«Come hai fatto a sapere che è morto?» domandò.

«Sono stato io a ucciderlo,» rispose Carse.

Tutti gli uomini lo guardarono, allora, con espressioni nuove e attonite, e nei loro occhi c’era un grande timore, come se egli fosse stato un essere sovrumano, e non un loro compagno. Tra le file dei ribelli si diffuse un mormorio, una voce che crebbe tutt’intorno, soffocata dall’eco lontano di ima oscura paura.

«Egli ha ucciso il Serpente!…»

Accompagnato da un altro uomo, Jaxart entrò di nuovo nella cabina, e portò fuori il cadavere. Un pesante silenzio cadde allora sul ponte. Nessuno parlò, e molti trattennero il respiro. La piccola folla si aprì, facendo ala al passaggio, scostandosi fino a creare un ampio corridoio, attraverso il quale i due portatori del cadavere passarono lentamente, avvicinandosi al parapetto della nave. Anche nella morte, il nero corpo informe, avvolto dal pesante mantello, il corpo senza volto, celato dal cappuccio nero come il mantello, era il simbolo del male, di un orrore antico e senza nome.

Carse dovette lottare nuovamente contro quella paura gelida e repellente, e contro quell’impeto di collera strana. Con uno sforzo di volontà, si costrinse a guardare.

Nell’immobilità del crepuscolo, il tonfo che il cadavere fece, cadendo, risuonò sorprendentemente alto e sinistro. Nel mare di fiamma bianca, ondulati cerchi concentrici di fiammelle guizzanti si formarono, e si spensero lontano, confondendosi con la bianca distesa.

Allora gli uomini ricominciarono a parlare. E cominciarono a gridare frasi oscene e offensive all’indirizzo di Ywain, minacciandola e schernendola in ogni maniera. Qualcuno chiese a gran voce il sangue della principessa, e molti si sarebbero avventati su per la scaletta, decisi a torturarla orribilmente e a ucciderla, se Carse non li avesse minacciati, con la grande spada sguainata, ergendosi come un difensore davanti alla scaletta.

«No! È il nostro ostaggio, e vale tanto oro quanto pesa!» gridò.

Non spiegò in qual modo avrebbe potuto usare la principessa, né entrò in particolari, ma sapeva che quelle argomentazioni sarebbero state sufficienti a soddisfarli, almeno per il momento. E per quanto egli potesse odiare Ywain, detestava l’idea di vederla torturare e fare a pezzi da quel branco di belve feroci, che poco o nulla avevano di umano.

Cercò di spostare su un altro argomento l’attenzione dei ribelli.

«Ora che abbiamo vinto e la nave è nostra, dobbiamo eleggere un capo. Chi scegliete?»

C’era una sola risposta possibile, a questa domanda. Il nome di Carse salì al cielo, urlato dai ribelli, ripetuto fino ad assordarlo, e Carse, nell’udire il suo nome scandito come un grido di battaglia, fu pervaso da un senso di esultanza, da una gioia selvaggia che per qualche istante lo inebriò completamente. Dopo quei giorni di umiliazione e di tormento, era meraviglioso sapere di essere di nuovo un uomo libero, un uomo vero, perfino in un mondo alieno e minaccioso.

Gridò, per dominare il tumulto, e quando riuscì a farsi udire, disse:

«Va bene! Adesso, ascoltatemi! I Sark ci uccideranno lentamente, tra le più atroci torture, per quello che abbiamo fatto… se ci prenderanno. Così, ascoltate bene il mio piano! Noi ci uniremo ai liberi naviganti, ai Re del Mare che regnano a Khondor!»

Tutti accettarono fino all’ultimo uomo, senza un attimo di esitazione, e il nome di Khondor risuonò alto nel cielo del crepuscolo.

I Khond che si trovavano tra gli schiavi parevano impazziti, in preda a una selvaggia esultanza. Uno di loro strappò una lunga striscia di stoffa gialla dalla tunica di un soldato morto che giaceva scompostamente sul ponte, e ne fece una bandiera, che issò sul pennone dove fino a poco prima aveva sventolato lo stendardo col drago di Sark.

Obbedendo all’ordine di Carse, subito Jaxart assunse il comando della nuova ciurma della galera, e Boghaz riportò in cabina Ywain, e ve la rinchiuse, Gli uomini si dispersero per tutta la galera, ansiosi di liberarsi dei cerchi di ferro che ancora stringevano i loro polsi, o delle catene che ancora appesantivano i loro movimenti, ansiosi di depredare i cadaveri dei soldati, prendendo i loro abiti e le loro armi, e ancor più ansiosi di tuffarsi negli otri di vino. Solo Naram e Sballali rimasero, con i grandi occhi fissi su Carse, negli ultimi chiarori del tramonto.

«Voi non siete d’accordo?» domandò Carse.

Negli occhi di Shallah ardeva quella stessa luce strana, soprannaturale, che il terrestre già vi aveva visto una volta.

«Tu sei uno straniero,» disse lei, con voce sommessa e dolce, «Straniero per noi, e straniero per il nostro mondo. E ripeto che posso avvertire in te un’ombra oscura, un’ombra che mi fa paura, perché tu la porterai con te ovunque tu vada.»

Poi gli voltò le spalle, e Naram disse:

«Ora noi ritorniamo a casa.»

I due Nuotatori rimasero fermi, immoti, per un breve momento, sul basso parapetto. Ora essi erano liberi, liberi delle loro catene, e i loro corpi erano pervasi da una gioia intensa, una gioia così grande che quasi faceva male. Si inarcarono per un momento, tesi, sicuri, gioiosi, e svanirono al di là del parapetto.

Dopo un momento, Carse li rivide. Saltavano e s’immergevano gioiosi, come delfini, s’inseguivano e si superavano scherzosamente, si chiamavano con quelle loro voci limpide e dolci, sollevando dalle onde spruzzi di pura fiamma, traendo riverberi colorati dalla grande distesa bianca che giungeva al lontano, cupo orizzonte.

Deimos era già alto nel cielo della sera; gli ultimi chiarori del crepuscolo erano già svaniti, e Fobos apparve a oriente, come una nuova, luminosa scintilla, e cominciò la sua veloce scalata della grande, tenebrosa cupola del cielo notturno. Il mare si trasformò in una distesa di liquido argento. I Nuotatori si allontanarono veloci e sicuri, verso occidente, seguiti da due lunghe scie di fuoco, una traccia di argenteo scintillare che si fondeva in luce liquida e impallidiva poco a poco.

La galera nera faceva rotta per Khondor, con tutte le vele spiegate e turgide, giganti oscuri nello sfondo liquido del cielo notturno. E Carse rimase dov’era, ritto sulla piattaforma, con la spada di Rhiannon stretta tra le mani.

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