Capitolo II UN MONDO ALIENO


Carse ebbe l’impressione di precipitare in un abisso notturno, sospinto e sferzato da tutti gli ululanti venti dello spazio. Ed era una caduta senza fine, senza fine, nella quale ogni cosa era sospesa fuori del tempo, pervasa dall’eterno, agghiacciante orrore di un incubo.

Lottò, con tutta la feroce disperazione di un animale prigioniero dell’ignoto. Non si trattava di una lotta fisica, però, poiché in quel nulla cieco e urlante il suo corpo era inutile, inesistente. Si trattava di una lotta mentale, nella quale l’essenza intima del coraggio umano tentava d’imporsi, tentava di porre fine, con uno sforzo supremo di volontà, a quella caduta d’incubo attraverso le tenebre sconfinate.

E poi, mentre continuava a cadere in quel vortice di nulla, fu scosso da una sensazione ancor più orrìbile dell’esperienza che già stava vivendo. Dapprima confusa, poi sempre più forte, in tutto il suo essere si diffuse la sensazione di non essere solo in quel tuffo d’incubo attraverso l’infinito. Gli parve che una presenza oscura, forte e pulsante, si annidasse nelle tenebre, vicinissima a lui, cercando di afferrarlo, protendendo dita ansiose, avide, verso il suo cervello.

Carse fece un ultimo, disperato sforzo mentale, radunò tutta la sua volontà, tutto il suo essere, per tentare la prova suprema contro quell’allucinante nulla che lo inghiottiva avido per abissi senza fine. Gli parve allora che la sensazione di cadere diminuisse, che qualcosa rallentasse il tuffo nel nulla, e poi, finalmente, sentì scivolare sotto le mani e i piedi la solida roccia. Cercò di aggrapparsi, di muoversi, di non perdere quel contatto, di farsi avanti, e questa volta fu uno sforzo completamente fisico.

Poi, d’un tratto, scoprì di essere uscito dalla bolla tenebrosa. Si trovava di nuovo sul pavimento della camera segreta della Tomba.

«Per i Nove Inferni, che cosa…» cominciò a dire, con voce tremante, e poi s’interruppe… perché quella sua imprecazione pareva pallida e banale, squallidamente insufficiente a esprimere quello che lui provava, quello che ricordava della spaventosa esperienza.

La piccola lampada a cripton, sempre agganciata alla sua cintura, irradiava di nuovo il suo alone di luce rossigna, fugando le tenebre per un breve spazio, intorno; la spada di Rhiannon scintillava sempre tra le sue mani.

E la bolla tenebrosa era sempre là, a pochi passi da lui, cupa e minacciosa, percorsa dallo sfavillare veloce di voli e grappoli di scintille.

Carse si rese conto, allora, che quello spaventevole tuffo attraverso lo spazio tenebroso era avvenuto nel momento in cui era rimasto all’interno della bolla, anche se gli era parso che quella caduta per immensità oscure fosse durata per un tempo incalcolabile. E da questa constatazione, nacque una domanda, dentro di lui: quale trucco demoniaco di una scienza antichissima era in realtà quella bolla? Una risposta cominciò a formarsi, nella sua mente… probabilmente doveva trattarsi di un’anomalia nello spazio, di qualche oscuro, bizzarro vortice di energia che i misteriosi Quìru del passato più ancestrale di Marte avevano creato, e avevano reso eterno, capace di sfidare i secoli e i millenni.

Ma perché, dal momento in cui era entrato nella bolla, e ogni luce era scomparsa, intorno a lui… perché gli era sembrato di precipitare per distanze incalcolabili, attraverso un abisso senza fine… perché quelle tenebre erano sembrate così totali, così diverse da qualsiasi tipo di oscurità che egli avesse conosciuto, in tutta la sua vita?

E, soprattutto… che cosa aveva originato la spaventosa sensazione che aveva provato verso la fine della caduta, quando gli era parso che dita forti, adunche, cercassero avidamente di afferrare il suo cervello, di aggrapparsi alla sua mente, come se essa fosse stata un sostegno, un’entità solida in un mondo fatto di nulla?

Deve trattarsi di un’illusione dovuta all’antica scienza dei Quiru, pensò, confusamente, ancora scosso dall’esperienza. E le superstizioni e le paure di Penkawr gli hanno fatto pensare che sarebbe stato possìbile uccidermi, spingendomi dentro la bolla.

Penkawr.

A quel pensiero, Carse balzò in piedi, e la spada di Rhiannon sfavillò sinistramente nella sua mano.

«Maledetta la sua miserabile anima di ladro!»

Ma Penkawr non c’era. Non poteva essere andato lontano, però… non ne avrebbe avuto il tempo. Quando Carse varcò la soglia della misteriosa camera, sulle sue labbra aleggiava un sorriso minaccioso, che non era piacevole a vedersi.

Quando ebbe percorso il breve corridoio, ed ebbe varcato la soglia della seconda camera, però, il sorriso svanì dal suo volto, ed egli si fermò di colpo, come raggelato. Perché c’erano degli oggetti, in quella camera… grossi oggetti strani e scintillanti… che prima egli non aveva visto.

Da dove erano venuti? Era possibile che lui fosse rimasto in quella bolla di oscurità più a lungo di quanto aveva creduto? Forse Penkawr aveva esplorato la Tomba di Rhiannon, e aveva scoperto altre cripte segrete… e in quelle cripte, i misteriosi oggetti luccicanti che ora Carse vedeva, e che il ladro marziano aveva allineato nella camera, in attesa del prossimo viaggio che egli avrebbe fatto per rifornirsi di bottino da vendere per un prezzo favoloso.

Lo stupore di Carse aumentò, mano a mano che egli esaminava gli oggetti che ora parevano torreggiare tra le armature e le altre reliquie che già egli aveva visto intorno.

Quegli oggetti non avevano l’aspetto di semplici reliquie di un’arte antica… parevano piuttosto dei complicati strumenti, creati per chissà quale scopo misterioso; erano di fattura elaborata, e c’era qualcosa, in essi… un’aria di efficienza, di funzionalità, e nello stesso tempo di perfezione… che faceva pensare a uno scopo ben preciso, anche se ora Carse non riusciva certo a immaginarlo.

Il più grande di questi oggetti era una ruota di cristallo, grande come un tavolino, montata orizzontalmente in cima a una sfera di metallo opaco. Il bordo della ruota era tutto uno sfolgorio di preziose gemme tagliate a poliedri, con incomparabile precisione. E c’erano degli altri piccoli congegni formati da raggruppamenti di prismi di cristallo, tubi, e oggetti composti da anelli metallici concentrici, e altri tubi piatti, stranamente contorti, fatti di metallo massiccio.

Era possibile che quegli oggetti scintillanti fossero gli incomprensibili strumenti di una oscura scienza aliena, sepolta nel più remoto passato di Marte? Ma quella supposizione pareva incredibile… era quasi una bestemmia, per la mente di un archeologo. Tutti gli studiosi sapevano che Marte, nel suo lontanissimo passato, era stato un mondo nel quale era esistita una scienza molto rudimentale, un mondo di guerrieri e marinari, le cui galere e i cui regni si erano combattuti sulle acque e sulle coste di oceani prosciugati da centinaia di migliaia d’anni, un mondo barbarico, nel quale si era combattuto all’arma bianca. Un mondo di ricordi e di superstizioni e di leggende, privo di una tecnologia e di una scienza degne di questo nome.

Eppure, forse, in un passato ancor più lontano su Marte era esistita una scienza, della quale perfino il più pallido ricordo era scomparso, le cui tecniche erano ignote e indecifrabili; una scienza più antica ancora del nebuloso, indistinto periodo delle leggende che erano sopravvissute per un milione di anni; una scienza che, forse, era all’origine dei miti e dei personaggi eroici e divini che li popolavano?

Ma dove avrebbe potuto trovare quei misteriosi strumenti, Penkawr, se prima né lui né il terrestre li avevano visti? E sopratutto, per quale motivo si era limitato a esporli là, nella camera, senza portarne neppure uno con sé?

Il ricordo di Penkawr gli riportò alla mente la situazione… e il fatto che il piccolo ladro marziano si stava allontanando dalla Tomba di Rhiannon, ogni minuto di più. Stringendo la spada, e cupo in volto, Carse voltò le spalle a quelle misteriose reliquie di un passato immemorabile, e si affrettò a percorrere il quadrato corridoio di pietra, per ritornare nel mondo esterno.

Mentre camminava a grandi passi, Carse riuscì finalmente a isolare la discrepanza che i suoi sensi avevano notato già da tempo, e che gli aveva prodotto una confusa sensazione d’inquietudine, mano a mano che egli percorreva il corridoio. C’era qualcosa di insolito. L’aria, nella tomba, si era fatta stranamente umida. Guardandosi intorno, vide che gocce d’acqua scintillavano sulle pareti, chiazze d’umidità sulle quali si rifletteva l’alone rossastro della lampada. Entrando nella Tomba di/Rhiannon, non aveva notato quel fenomeno… così inconsueto su Marte, un mondo arido perfino nel suo cuore più riposto. Il terrestre ne fu singolarmente colpito.

«Probabilmente, l’acqua filtra da qualche sorgente sotterranea, simile a quelle che alimentano i canali,» mormorò tra sé, cercando una spiegazione razionale. «Non è impossibile. Però sono sicuro di non avere notato il fenomeno, prima. Questa umidità non c’era.»

In quel momento, abbassò lo sguardo, e vide il pavimento del corridoio. La polvere formava uno strato spesso, uguale a quello che aveva visto prima, quando era entrato.

Ma ora sul tappeto di polvere non c’erano orme, non c’era nessuna impronta, a eccezione di quelle che egli stava producendo in quel momento.

Carse si sentì stringere, sommergere, da un orribile dubbio, da una sensazione d’irrealtà. L’incubo era ritornato. Quell’umidità così insolita, su Marte; la scomparsa delle impronte… che cosa era accaduto alla Tomba, a tutto ciò che lo aveva circondato, nel momento in cui era stato all’interno di quella spaventevole bolla di oscurità?

Arrivò al termine del quadrato corridoio di pietra. E vide che il corridoio era chiuso. Era bloccato da un enorme monolito di pietra, a forma di lastra.

Carse si fermò, fissando quel lastrone di pietra. Cercò di combattere contro il senso di spettrale irrealtà che andava ingigantendo, dentro di lui, cercò di dare un senso a quanto stava accadendo in un mondo nel quale nulla pareva avere più senso; la sua mente tentò di trovare una spiegazione logica, naturale, per scacciare le tenebre dell’ignoto che sentiva stringersi intorno a lui.

«Certo, deve essere semplice. Probabilmente, il corridoio era chiuso da una porta di pietra. Io non l’ho vista… e Penkawr, andandosene, l’ha chiusa per impedirmi di uscire, se fossi riuscito a liberarmi dalla bolla.»

Cercò di muovere il lastrone. Ma la pietra non si spostò di un millimetro. Carse guardò intorno, passò le mani, speranzoso, sulla sua superficie. Non c’era alcun segno che indicasse l’esistenza di una chiave, di una maniglia, di un cardine o di una guida segreta.

Alla fine, indietreggiò di qualche passo, e puntò la sua pistola protonica contro il massiccio ostacolo. Il getto sibilante di fiamma atomica scaturì dell’arma, colpì il lastrone di pietra, crepitando, scheggiando quell’ostacolo imprevisto, cominciando a formare una cavità nera, in esso.

Il lastrone era massiccio. Carse dovette premere il pulsante della pistola protonica per diversi minuti, senza mai interrompere il getto di fiamma. E poi, con un rumore cupo, tremendo, che si ripercosse vibrante sulle pareti umide e, in fondo al corridoio, nella grande camera interna, i frammenti incandescenti che erano rimasti a ostruire il passaggio caddero sul pavimento del corridoio, davanti al terrestre.

Ma oltre il lastrone di pietra, invece dello stretto pertugio e dell’aria aperta della notte, c’era una massa solida di terra rossa.

«Tutta la Tomba di Rhiannon… è nuovamente sepolta, ora; quel maledetto Penkawr deve avere provocato una frana.»

Lo stesso Carse non credeva a quelle parole. Non credeva affatto alle spiegazioni che aveva trovato, eppure si sforzava di credere, costringere la sua niente ad accettare quelle ipotesi, e le pronunciava a voce alta, da solo, per udire il suono rassicurante della propria voce, perché gli pareva che le parole, sotto forma di suoni, acquistassero realtà e veridicità e fugassero i suoi timori. Voleva credere a quelle spiegazioni, perché cominciava ad avere paura, una paura che cresceva in lui, ingigantiva a ogni istante. E la cosa di cui aveva paura era impossibile.

Pervaso da un impeto di collera cieca, violenta, egli usò il raggio fiammeggiante della pistola per aprire un varco nella solida massa di terriccio che gli ostruiva la strada, dirigendo il raggio verso il basso, seguendo un disegno metodico, preciso. Lavorò a quel modo, tenendo ostinatamente premuto iljpulsante della pistola, avanzando lentamente, faticosamente verso l’esterno, fino a quando la fiamma non diede un guizzo tremulo e si spense, perché la carica dell’arma era esaurita. Allora Carse gettò via, rabbiosamente, la pistola ormai inutile, e attaccò la massa di terriccio fumante e rovente con la spada.

Ansimando, coperto di sudore, con la mente sconvolta da un vortice di pensieri confusi e impossibili, continuò a scavare servendosi della nuda lama, attraverso il terriccio molle e cedevole, fino a quando un foro non si aprì, davanti a lui, e da quel foro entrò la vivida luce del sole.

La luce del sole? Allora lui era rimasto nella bolla tenebrosa molto più a lungo di quanto aveva immaginato.

Il vento filtrava nella cripta, attraverso la piccola apertura, e gli soffiava sul volto. Ed era un vento caldo. Un vento caldo e un vento umido, quale non s’era mai sentito nei deserti aridi di Marte.

Carse, allora, come pervaso da una frenesia, ricominciò a scavare, fino a quando l’apertura non fu sufficientemente larga da lasciarlo passare… e allora strisciò fuori della cripta, e fu all’aria aperta, e si alzò in piedi, nella vivida luce del giorno, guardandosi intorno.

Esistono dei momenti, nella vita, nei quali un essere umano non reagisce, non prova emozioni. Dei momenti nei quali tutti i centri nervosi sono come intorpiditi, annebbiati, e gli occhi vedono e le orecchie sentono, ma nulla di quanto si vede e si sente viene comunicato dai canali sensoriali al cervello… e questa è una grande difesa dell’essere umano, perché in questo modo il cervello è protetto dalla pazzia.

Finalmente, dopo un lungo, lunghissimo silenzio, cercò di ridere di quello che vedeva, anche se vedeva, anche se la sua risata risuonò aspra e spezzata, come un singhiozzo o come un grido di angoscia.

«Un miraggio, certo,» bisbigliò. «Un grande, enorme miraggio. Grande come tutto Marte.»

La brezza tiepida scompigliava i capelli fulvi di Carse, alitando e bisbigliando intorno a lui, avvolgendogli intorno al corpo il mantello nero. Una nuvola passeggera oscurò in quel momento il sole, e, in lontananza, un uccello emise uno stridio roco. E Carse rimase immobile.

Perché stava fissando un oceano.

Si stendeva fino al lontano orizzonte, là dove si fondeva col cielo; era un’enorme, irrequieta distesa di acqua lattea, rischiarata da una pallida fosforescenza, che si vedeva perfino alla luce del giorno.

«Un miraggio,» ripeté a voce più alta, con disperata ostinazione, mentre la sua mente vacillava, e cercava di aggrapparsi a quella misera, frammentaria spiegazione con tutta la forza che solo il terrore può dare alla mente di un uomo. «Deve essere un miraggio. Perché questo è sempre Marte!»

Era sempre Marte, sempre lo stesso pianeta. E lui si trovava tra le colline, le stesse colline tra le quali Penkawr l’aveva guidato, durante la notte.

Ma erano veramente le stesse? Quella notte, il pertugio dal quale era penetrato nella Tomba di Rhiannon era stato poco al di sopra di un breve costone roccioso, incuneato sul ripidissimo dirupo di una montagna. E ora lui si trovava sul pendio erboso di una grande collina.

E laggiù, sotto di lui, dove prima c’era stato soltanto il deserto brullo e arido, si vedevano altre verdi colline digradanti, e cupe foreste. Verdi colline, verdi foreste, e un fiume scintillante sotto il sole, un grande corso d’acqua che scendeva da una stretta gola per gettarsi in quello che era stato l’arido fondo di un mare morto, ma che ora era semplicemente… un mare.

Lo sguardo attonito di Carse seguì la linea lontana della spiaggia, lungo la grande costa. E laggiù, sulla lontana costa illuminata dal sole, egli vide lo scintillio abbagliante di una città bianca, e capì che quella era Jekkara.

Jekkara, luminosa e forte fra le fertili, lussureggianti colline e l’oceano possente, quell’oceano che era scomparso dalla faccia di Marte da quasi un milione di anni, quell’oceano che da quasi un milione di anni nessun occhio umano aveva potuto vedere in tutta la sua immensità maestosa, in tutta la sua bellezza.

E allora Matthew Carse capì che non si trattava di un miraggio. Lentamente, curvò le spalle, e scivolò a sedere sull’erba, e si nascose il volto tra le mani. Il suo corpo era percorso da brividi profondi, le spalle erano scosse da muti singhiozzi, ed egli affondò le unghie nella carne, finché il sangue non gli sporcò le guance.

Ora sapeva ciò che gli era accaduto, all’interno di quel misterioso vortice di tenebre, e gli pareva di sentire una voce gelida ripetere le enigmatiche parole di un’iscrizione ammonitrice che lui aveva letto poco tempo prima, una voce simile al lontano rimbombo del tuono.

«I Quiru sono signori dello spazio e del tempo… del tempo… DEL TEMPO!»

Carse, fissando attonito le verdi colline e l’oceano di latte, fece uno sforzo tremendo per afferrare l’incredibile, per convincersi che era realtà, per ritrovare una traccia di ragione in un universo impazzito, anche se quella traccia di ragione era in se stessa la più sfrenata delle follie.

Io sono entrato nel passato di Marte. Per tutta la vita ho studiato quel passato, e l’ho sognato con gli occhi della fantasia. E ora sono qui, l’ho raggiunto, ed esso mi circonda. Sono qui, io, Matthew Carse, archeologo, rinnegato, violatore e saccheggiatore di tombe. I Quiru, per i loro oscuri, imperscrutabili motivi, hanno creato una strada che conduce al passato, e io l’ho percorsa. Per noi, il tempo è la dimensione sconosciuta, ma i Quiru la conoscevano, e ne avevano penetrato il segreto!

Carse era un uomo di scienza; per diventare un archeologo planetario occorreva studiare gli elementi di almeno mezza dozzina di discipline scientifiche. Così, in quel momento di immenso stupore e di attonita rivelazione, egli cercò freneticamente tra i suoi ricordi, per trovare gli elementi che potevano aiutarlo a dare una spiegazione scientifica, razionale, dell’evento apparentemente impossibile che era capitato.

Aveva avuto ragione, quando per la prima volta aveva sospettato la vera’natura della bolla tenebrosa? Si trattava realmente di un buco, di una breccia nel continuum dell’universo la porta di un sentiero che usciva dallo spazio-tempo, e si avventurava per dimensioni ignote, nel reame dell’ignoto, là dove i concetti di spazio normale e di tempo normale non esistevano?

Se aveva visto giusto, allora poteva comprendere, sia pure confusamente, sia pure fievolmente, ciò che gli era accaduto.

Perché il continuum dello spazio-tempo, nell’universo, era finito, limitato. Erano stati Einstein e Riemann a dimostrare questa verità scientifica, tanto, tanto tempo prima. E cadendo nella bolla, spinto da Penkawr, lui era caduto ’fuori’ del normale continuum spazio-temporale nel quale era nato, e nel quale aveva vissuto fino a quel giorno, ritrovandosi per un momento sbalzato al di fuori dei conosciuti confini… per ritrovarsi poi nello stesso continuum, ma in un momento temporale diverso. Per lui, non era cambiata la dimensione spaziale, ma quella del tempo.

Che cosa aveva scritto un tempo Kaufman? «Il Passato è il Presente che esiste in distanza.» E lui era ritornato indietro, era ritornato in quell’altro, lontanissimo Presente, e questo era tutto. Non c’era alcun motivo per avere paura.

E invece lui aveva paura. L’orrore di quel passaggio da incubo per raggiungere questo Marte verde e sorridente del più lontano passato, gli strappò un gemito di paura, un suono rauco e Impaurito, come quello di un animale spaventato.

Ciecamente, continuando a stringere l’elsa della spada ingioiellata, balzò in piedi, e si voltò, per rientrare nella sepolta Tomba di Rhiannon.

«Posso tornare indietro,» disse, e le sue parole furono come una sfida lanciata al mondo impossibile che lo circondava ammiccando, con i mille furtivi riverberi suscitati dal sole. «Posso ripercorrere la stessa strada, e ritornare nel mio tempo. Posso entrare di nuovo in quella breccia nel continuum, e di là raggiungere l’epoca dalla quale sono venuto.»

Si fermò, bruscamente, e il suo corpo fu scosso da un fremito convulso. Non poteva affrontare di nuovo quella orrenda sfera di oscurità pulsante, con le scintille vorticose che la percorrevano, con il suo infinito, innominabile abisso senza luce e senza suono. Il suo corpo si ribellava, al pensiero di trovarsi nuovamente sbalzato nell’infinito che si stendeva tra le dimensioni dello spazio e del tempo, al di fuori dell’universo. Sentiva di non poter fare una cosa simile.

Perché non ne aveva il coraggio. Lui non possedeva la sapienza dei Quiru. In quel pericoloso tuffo attraverso le tenebre luminose della bolla, e poi attraverso l’abisso oscuro, incredibilmente, totalmente oscuro che separava i presenti come isole nel gran mare del tempo, era stato il caso a condurlo in quell’altro presente, in quell’epoca remotissima del passato di Marte. Il caso e una fortuna incredibile lo avevano aiutato a trovare la strada. Avrebbe potuto precipitare nell’abisso del tempo per eoni incalcolabili, venire scagliato in un nuovo universo, giungere alla fine del viaggio in un’epoca nella quale la Terra doveva ancora formarsi nel vuoto sideralè, e Marte era un globo di magma incandescente, e morire orribilmente; o uscire in un’epoca ancora precedente, quando neppure Marte era uscito dal caos primigenio, e ritrovarsi nello spazio, nudo e inerme, per morire nel giro di un istante. No, solo un’incredibile, incalcolabile fortuna gli aveva permesso di sopravvivere, e di ritrovarsi in quel mondo antichissimo e giovane a un tempo, per lui. Non poteva sperare che si verificasse l’incredibile concatenazione di eventi fortunati che avrebbe potuto riportarlo nell’epoca dalla quale era venuto. Le possibilità erano così remote, così esigue, da riuscire del tutto impossibili.

«Sono qui, nel passato,» disse allora, tra sé. «Sono qui, nel remotissimo passato di Marte, in un’epoca che neppure le leggende ricordano, forse… e devo restare. Per me, la strada del ritorno è chiusa.»

Voltò di nuovo la schiena alla massa di terriccio smosso, e alla stretta apertura che dava sulla Tomba sepolta, e i suoi occhi indugiarono di nuovo sull’incredibile panorama. Rimase a rimirare quello scenario fiabesco per molto tempo, immobile, come affascinato. Gli uccelli marini vennero e si accostarono a lui e lo guardarono curiosi, e poi volarono via rapidi, liberi, muovendosi le bianche ali puntute. Le ombre cominciarono ad allungarsi, e a colmare le piccole valli tra le colline ondulate.

I suoi occhi si posarono allora sulle bianche torri di Jekkara, che riposava splendida laggiù, in lontananza, ancora immersa nella luce del sole, e di là dominava come una regina il suo golfo e il porto. Non era la vecchia Jekkara che lui conosceva bene, la città dei ladri dei Canali Inferiori, quella città logorata dal tempo, ove la polvere era caduta e aveva vinto una lunga, antica battaglia; non era più la città morente, circondata dalle rovine di evi più antichi, dominata dal ricordo di un passato immemorabile. Ma era pur sempre un legame con il mondo familiare, con il mondo che lui conosceva, e, disperatamente, Carse si aggrappò a quella sensazione, perché la sua mente scossa aveva bisogno di un legame con il mondo dal quale era venuto… qualsiasi legame, anche il più tenue, per vincere l’emozione e l’orrore del passaggio.

E in quel momento, fissando la città regale, altera, che si stendeva laggiù, lontana, egli prese una decisione. Una decisione impulsiva, e nello stesso tempo logica, nata dal turbine di pensieri che si agitavano nella sua mente, nata dalla consapevolezza della fragilità della sua mente, di fronte all’immenso abisso nel quale era precipitato.

Lui sarebbe andato a Jekkara. E avrebbe cercato di non pensare, di non pensare a niente. Doveva escludere ogni pensiero, ogni immaginazione, ogni ipotesi, ogni idea… altrimenti sapeva per certo che la sua mente avrebbe ceduto, che lui sarebbe stato travolto dal gorgo inesorabile della follia.

Carse strinse l’elsa della spada scintillante di gemme preziose, e cominciò a discendere il dolce pendio erboso della collina.

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