Boghaz, grazie all’infallibile istinto della sua genia ladresca, aveva imparato a conoscere tutti i possibili nascondigli e i più riposti passaggi segreti che esistevano a Khondor. Non era stata vanteria, la sua, quando aveva detto questo a Carse. Per uscire dal palazzo, egli usò una via così abbandonata e disusata che la polvere era alta e intatta ovunque, e la porta del bastione quasi cadeva a pezzi, marcendo abbandonata da molto, moltissimo tempo. E poi, per scannate strette e ripide, dai gradini consumati e sgretolati in più punti, e vicoletti ripidi e strettissimi, tanto da non essere molto più che semplici fessure nella roccia, li guidò in un ampio giro intorno alla città.
Khondor ribolliva e tumultava di agitazione, e del fervore dei preparativi. Il fresco vento notturno portava l’eco di passi frettolosi e di voci concitate, tese e ansiose. L’aria vibrava del battito d’ali dei Celesti, nugoli di creature alate che andavano e venivano, stagliandosi nere contro lo sfondo del cielo palpitante di stelle.
Non c’era panico, in quell’attività febbrile; regnava anzi un certo ordine, che appariva doppiamente bizzarro, in quella situazione disperata. Ma Carse poteva avvertire la collera della città, l’ira sorda che pervadeva ogni gradino e ogni casa e ogni vicolo e ogni piazza, e la fosca, feroce tensione degli uomini che stavano per andare a combattere, in un assalto disperato contro un fato ormai ineluttabile. Dal lontano, antico tempio della città, Carse poteva udire le voci delle donne, un lamentoso, implorante salmodiare di preghiere rivolte agli dei.
Gli uomini frettolosi che incontravano lungo la strada non prestarono alcuna attenzione a loro. Quei due erano soltanto un grasso marinaio che portava un enorme fagotto, e un uomo alto e silenzioso, avvolto in un mantello… due uomini che scendevano verso il porto. Cosa poteva esserci di strano, in questo spettacolo? I Kliond lanciavano brevi occhiate, e passavano oltre.
Cominciarono a discendere la lunga, lunghissima gradinata che portava al porto, e lungo quella discesa vertiginosa incontrarono un numero sempre maggiore di persone, ma nessuno prestò loro un’attenzione particolare, neppure in questa circostanza. Ogni abitante di Khondor era troppo immerso nella propria angoscia, troppo occupato nei preparativi dell’ultimo atto, in quella notte fatale, per prestare attenzione ai suoi vicini.
Malgrado ciò, il cuore di Carse batteva forte, e le sue orecchie erano tese per afferrare il primo segno d’allarme che sarebbe stato sicuramente lanciato, non appena fosse terminato il concilio di guerra dei Re del Mare, e Barbadiferro fosse andato a uccidere il suo prigioniero.
Finalmente, essi raggiunsero i moli. Carse vide apparire l’alto albero maestro della galera, che pareva torreggiare sopra le lunghe navi di Khondor, e rapidamente si avviò da quella parte, seguito da Boghaz, che ansimava alle sue calcagna, sotto il pesante fardello che portava in spalla.
Nel porto le torce ardevano a centinaia, rischiarando la notte di corruschi bagliori sanguigni. In quella luce, guerrieri e rifornimenti salivano a bordo delle navi, come una fiammata inarrestabile. Le pareti rocciose echeggiavano del frastuono e dell’animazione che regnavano intorno. Delle piccole imbarcazioni si muovevano tra le grandi navi, per raggiungere quelle che erano ormeggiate più al largo.
Carse, avvolto nel mantello e con la testa bassa, si aprì un varco tra la folla. L’acqua luminescente della rada era tutto un guizzare e un brulicare di Nuotatori, e sulle banchine c’erano molte donne, dai volti pallidi e tesi, che erano venute là per dire addio ai loro uomini che partivano per quella disperata impresa.
Quando infine si avvicinarono alla galera, Carse lasciò andare avanti Boghaz. Si fermò, celandosi al riparo di un mucchio di barili, fingendo di allacciarsi i sandali, mentre il grasso Valkisiano saliva a bordo, reggendo il suo fardello. Udì la ciurma, una torma di uomini dai visi cupi e nervosi, salutare a gran voce Boghaz, e domandargli notizie.
Rapidamente, Boghaz si liberò di Ywain, lasciando cadere nella cabina il suo fardello, con aria casuale; poi chiamò tutta la ciurma a prua, per tenere una specie di consiglio di guerra privato. Il Valkisiano era sempre stato pronto di spirito e di parola, e in questo caso aveva già imparato a memoria il discorso che avrebbe dovuto rivolgere alla ciurma.
«Chiedete notizie?» lo sentì dire Carse. «Ve le darò io, le notizie! Da quando Rold è stato preso prigioniero, c’è un’atmosfera orribile, in questa città. Ieri ci consideravano fratelli. Oggi siamo di nuovo dei fuorilegge e dei nemici. Li ho uditi parlare nelle tenebre, e vi dico che la nostra vita, qui, vale meno di un soldo bucato!»
Mentre la ciurma commentava, con un mormorio preoccupato, queste parole, Carse scivolò silenziosamente a bordo, da poppa, senza che nessuno lo vedesse. Prima di raggiungere la cabina, sentì la fine del discorso di Boghaz:
«Quando sono venuto qui, si stava già formando una folla decisa a venire a ucciderci! Se vogliamo salvare la pelle, sarà meglio fuggire ora, subito, finché ne abbiamo la possibilità!»
Carse era stato sicuro di conoscere in anticipo la reazione della ciurma alle prove di Boghaz, quando aveva fatto i suoi piani; ed era convinto che, in fondo, il racconto che egli aveva messo sulle labbra del grasso Valkisiano non doveva essere troppo lontano dalla verità. Già troppe volte era stato testimone di mutamenti anche improvvisi nell’umore della folla, e l’equipaggio della galera era formato da ex-prigionieri Sark, Jekkariani, e di altri regni… una ciurma eterogenea, che presto avrebbe potuto trovarsi in una brutta situazione, soprattutto perché in un certo senso l’arrivo della galera era stato causa di sventura, per Khondor; e nella tensione che regnava nella città, qualsiasi cosa avrebbe potuto accadere.
Ora, dopo avere chiuso e sbarrato la porta jdella cabina, egli appoggiò l’orecchio al battente, ascoltando ciò che accadeva fuori. Udì lo scalpiccio di piedi nudi che correvano sul ponte, udì gridare degli ordini aspri, in una rapida successione, e udì il cigolio del sartiame, mentre le vele venivano calate dai loro alberi. Le cime vennero ritirate a bordo. Le ancore uscirono dall’acqua, con un gorgoglio sordo. Libera dagli ormeggi, la galera galleggiava sulle acque della rada.
«Ordini di Barbadiferro!» gridò Boghaz a qualcuno che si trovava a riva. «Una missione, per Khondor.»
La galera parve sussultare, poi si mosse, mentre il ritmico rullare del tamburo echeggiava, acquistando rapidità e vigore. E poi, al di sopra della confusione e dei rumori del porto, al di sopra dei rumori e dei movimenti a bordo della galera, l’orecchio di Carse riuscì a captare il suono che aveva aspettato di udire… il lontano tumulto che veniva dalla sommità della rocca, l’allarme che scendeva con la violenza di un uragano per tutta la città, che scendeva verso il porto, portato di bocca in bocca, da coloro che si trovavano sulla lunghissima scalinata.
Rimase paralizzato, sconvolto dalla paura che tutti gli altri udissero quei suoni, e interpretassero il senso dell’allarme, anche senza essere informati… ma il fragore delle attività del porto coprì quel suono più lontano, e nessuno poteva comprendere il motivo. Così la galera ebbe il tempo di acquistare velocità, e di allontanarsi nell’imboccatura del fiordo, prima che l’allarme scendesse lungo la scalinata, e coloro che si trovavano nel porto fossero avvertiti di ciò che era accaduto.
Nell’oscurità della cabina, Ywain fece udire, sommessamente, la sua voce, che giungeva soffocata attraverso la stoffa che le copriva il volto:
«Signore Rhiannon… mi è concesso di respirare?»
Carse s’inginocchiò, e la liberò delle coperte con cui era stata avvolta; subito Ywain si mise a sedere, ansando.
«Grazie, mio signore. Ebbene, ora siamo usciti dal palazzo e dal porto, ma per conquistare la libertà rimane ancora il fiordo. Ho udito il tumulto che giungeva dall’alto.»
«Sì,» disse Carse. «E i Celesti porteranno l’allarme all’imboccatura del fiordo.» Rise, una risata aspra e sicura. «Vediamo se essi saranno capaci di fermare Rhiannon, lanciando delle pietre dall’alto degli scogli!»
Poi le ordinò di rimanere dov’era, e la lasciò, uscendo rapidamente dalla cabina, per ritrovarsi sul ponte.
Erano già a buon punto, lungo il canale, sospinti da una vogata rapida scandita dal veloce rullare del tamburo. Le vele già cominciavano a gonfiarsi, nel vento che soffiava tra le alte scogliere. Cercò di ricordare dove fossero sistemate le baliste che difendevano il fiordo, contando in cuor suo, sul fatto che esse erano state predisposte per proteggere l’accesso alla rada, non per impedire l’uscita di qualche nave da essa.
La loro arma migliore sarebbe stata la rapidità di movimento. Se fossero riusciti a spingere la galera a una velocità sufficiente, avrebbero avuto la possibilità di fuggire.
Nel debole chiarore di Deimos, nessuno lo vide. Nessuno lo vide, fino a quando Fobos non spuntò dagli aspri contorni rocciosi degli scogli, inondando il paesaggio di luce verdastra. E allora gli uomini lo videro lassù, con il mantello che si gonfiava, svolazzando dietro di lui nel vento, e la lunga spada tra le mani.
Uno strano grido si sollevò dalla ciurma… un grido che per metà era di benvenuto per il Carse che essi ricordavano, colui che li aveva salvati dalla schiavitù, il loro capo, e per metà era di paura, per quello che avevano udito narrare sul suo conto a Khondor.
Carse non diede loro il tempo di pensare, di superare quel primo momento di stupore. Levando alta la spada, gridò, con voce tonante:
«Remate, stupidi, remate con tutte le vostre forze! Altrimenti ci faranno colare a picco!»
Avevano udito molte cose sul conto di Carse, a Kliondor. Ancora non sapevano s’egli fosse un uomo o un demonio. Ma, uomo oppure demonio, sapevano che egli diceva la verità. Così remarono con vigore rinnovato.
Carse balzò sulla piattaforma del timoniere. Boghaz si trovava già lassù. Indietreggiò, con una convincente espressione di timore sul volto, appoggiandosi alla balaustra, quando Carse si avvicinò, ma l’uomo che si trovava al timone si volse a guardarlo con occhi da lupo, occhi nei quali ardeva una luce minacciosa. Era l’uomo dalla guancia marchiata, l’uomo che era stato al remo accanto a Jaxart, nel giorno dell’ammutinamento.
«Ora sono io il capitano di questa nave,» disse a Carse. «Non permetterò che tu rimanga a bordo della mia nave, per maledirla!»
Carse disse, con una voce lenta e terribilmente minacciosa:
«Vedo che ancora non mi conosci. Diglielo, uomo di Valkis!»
Ma Boghaz non ebbe alcun bisogno di parlare. Si udì un battito d’ali, nel vento, e un uomo alato si librò sulla nave, soffuso dal chiarore delle lune.
«Tornate indietro! Tornate indietro!» gridò. «Voi portate a bordo della vostra nave… Rhiannon!»
«Sì!» gridò di rimando Carse. «La collera di Rhiannon, e la potenza di Rhiannon!»
Levò alta la spada, tenendola per la lama, in modo che l’enorme, cupa gemma che ornava l’elsa sfavillasse di luce sinistra nella fiamma livida di Fobos.
«Tu vuoi opporti a me? Osi farlo?»
Il Celeste batté disperatamente le ali, e si levò alto nel vento, lanciando grida di paura e di orrore. Carse si rivolse al timoniere.
«E tu,» disse, «Che cosa dici, ora?»
Vide che gli occhi di lupo del timoniere fissavano prima la gemma ardente della spada, e poi il suo volto, e poi di nuovo la spada. Lo sguardo di terrore, che egli già cominciava a conoscere fin troppo bene, apparve in quegli occhi, e l’uomo abbassò il capo.
«Io non oso oppormi a Rhiannon,» disse l’uomo, raucamente.
«Dammi il timone,» disse Carse, e l’altro si spostò, obbediente; il marchio spiccava, bianco e livido, sulla sua guancia grinzosa.
«Più presto, canaglie!» ordinò Carse. «Presto, se vi è cara la vita!»
E guadagnarono ancora velocità, remarono con tutte le loro forze, aiutati dal vento che gonfiava le vele… andarono così veloci, che la galera sfrecciò tra le impervie scogliere, come un’oscura nave fantasma sospesa tra il fiammeggiare bianco del fiordo e il freddo, verde chiarore lunare che illividiva l’aria e il cielo. Carse vide davanti a loro il mare aperto, e si preparò al momento decisivo, pregando in cuor suo.
Un ringhio prolungato, sordo, venne dall’alto della rupe, seguito da un sibilo, quando la prima delle grandi baliste lanciò il suo proiettile. Un guizzo fiammeggiante d’acqua bianca si sollevò, oltre la prua della nave, e la galera sussultò per un momento, e proseguì la sua rapida fuga.
Curvo sopra il timone, con il mantello al vento, e il volto strano e intenso nel verde, spettrale chiarore, Carse condusse la galera nella gola del fiordo.
Dall’alto delle rupi, le baliste tuonavano e sibilavano. Nell’acqua cadde una pioggia di enormi pietre, così fitta che essi navigavano in un’ardente nube di nebbia e spruzzi. Ma tutto andò come Carse aveva sperato. Le difese di Khondor, certamente invincibili nel caso di un attacco frontale, erano deboli, se l’attacco veniva dalla parte opposta. Le pareti del canale impedivano un tiro efficace, ed era quasi impossibile mirare con esattezza, quando il bersaglio era mobile e velocissimo come la galera in fuga. Chi avrebbe pensato, tra gli abitanti di Khondor, che un giorno sarebbe stato necessario impedire l’uscita dal fiordo? Fu questo, insieme alla velocità della nave, a salvarli.
E infine, uscirono, lasciando alle loro spalle la strettoia del fiordo, e si ritrovarono in mare aperto. Certo, ben presto le navi di Khondor si sarebbero lanciate all’inseguimento… questo Carse lo sapeva benissimo. Ma per il momento erano salvi.
Fu in quel momento che Carse capì quanto era difficile essere un dio. Avrebbe voluto mettersi a sedere sul ponte, e bere un boccale di vino, per riaversi dalla terribile tensione dei momenti passati, per dominare il tremore che avvertiva in tutto il corpo. E invece fu costretto a ridere, una risata squillante, come se lo avesse divertito lo spettacolo offerto da quei mortali dalla mente di fanciulli, nel loro sforzo di prevalere contro l’invincibile.
«Ecco… tu che dici di essere capitano! Prendi il timone… e dirigi la rotta verso Sark!»
«Sark!» Il poveretto impallidì spaventosamente. Quella notte stavano accadendo troppe cose, per lui. «Rhiannon, mio signore, abbi pietà! A Sark noi siamo considerati dei proscritti, degli schiavi!»
«Rhiannon vi proteggerà,» disse Boghaz.
«Silenzio!» esclamò Carse, altezzosamente. «Chi sei, tu, per parlare in nome di Rhiannon?» Boghaz cominciò a tremare, inchinandosi servilmente, e Carse disse. «Conduci alla mia presenza la Signora Ywain… ma prima di fare questo, liberala dalle sue catene!»
Discese la scaletta, e si fermò sul ponte, in attesa. Dalla piattaforma, udì che il timoniere gemeva, e borbottava cupamente:
«Ywain! Dei sempiterni, i Khond ci avrebbero dato almeno una morte migliore!»
Carse rimase immobile, e gli uomini lo guardarono, troppo impauriti per parlare; nei loro occhi Carse leggeva il desiderio di ucciderlo, e la paura che li tratteneva dal farlo. La paura dell’ignoto, l’antico, oscuro terrore della potenza del Maledetto, colui che avrebbe potuto ucciderli tutti in un momento, se solo avesse voluto farlo.
Ywain lo raggiunse, libera dalle catene, e s’inchinò. Allora Carse si volse, e parlò alla ciurma:
«Vi siete ribellati a lei una volta, seguendo il barbaro. Ora il barbaro non è più come lo avevate conosciuto. E voi servirete di nuovo Ywain. Servitela bene, ed ella dimenticherà il vostro delitto.»
Vide che gli occhi della donna fiammeggiavano, a queste parole. Lei fece per protestare, ma Carse le lanciò un’occhiata che le fece fermare le parole in gola.
«Devi giurare loro salva la vita, e di dimenticare la colpa della quale si sono macchiati,» ordinò. «Giuralo sull’onore di Sark.»
Lei obbedì. Ma, anche in questa circostanza, Carse ebbe la sensazione che lei non fosse del tutto convinta che egli era Rhiannon.
Ywain lo seguì fino alla cabina, e gli chiese il permesso di entrare. Carse acconsentì, e mandò Boghaz a cercare del vino, e poi, per qualche tempo, ci fu silenzio. Carse sedeva, accigliato e pensieroso, sulla sedia che era stata di Ywain, cercando di quietare il battito impetuoso del suo cuore, mentre lei lo fissava di tra le ciglia socchiuse.
Il vino arrivò. Boghaz esitò, visibilmente, e poi fu costretto a lasciarli soli.
«Siedi,» disse Carse a Ywain. «E bevi.»
Ywain prese uno sgabello basso, e sedette, piegando le lunghe gambe, snella come un giovane guerriero, nella sua nera armatura. Accettò il vino, bevve, e non disse niente.
D’un tratto, Carse disse:
«Tu dubiti ancora di me.»
Lei trasalì.
«No, mio signore.»
Carse scoppiò in un’aspra risata.
«Non penserai forse di potermi mentire! Tu sei una sgualdrina altezzosa, arrogante, e dal collo duro, Ywain, e sei anche intelligente. Sei un eccellente principe, per Sark, malgrado il tuo sesso.»
Le sue labbra si piegarono, in una curva amara.
«È stato mio padre Garach a farmi come sono. Un debole, senza un erede maschio… qualcuno doveva portare la spada, mentre lui giocava con lo scettro!»
«Io credo,» disse Carse. «Che l’esperienza non sia stata troppo odiosa per te, in fondo.»
Lei sorrise.
«È vero. Non ero nata per i cuscini di seta.» Poi continuò, d’un tratto. «Ma non pensare mai più che io dubiti di te, Signore Rhiannon. Ti ho già riconosciuto in passato… una volta in questa cabina, quando affrontasti S’San, e di nuovo nella caverna dei Sapienti. E ti riconosco ora.»
«Non è poi molto importante che tu dubiti o no, Ywain. È bastato il barbaro a domarti, e come potrebbe incontrare degli ostacoli Rhiannon?»
Lei arrossì, per la collera, un violento rossore che si diffuse sulle sue guance e in tutto il viso. Ora il dubbio che ancora provava si rivelava chiaramente… era la collera che provava nei suoi confronti a tradirla.
«Il barbaro non mi domò affatto! Mi ha baciata, e io gli lasciai godere quel bacio, in modo da poter lasciare il mio marchio sul suo viso per sempre.»
Carse annuì, ironico.
«E per un momento, anche tu hai avuto piacere. Tu sei una donna, Ywain, malgrado la corta tunica che indossi, e la tua armatura. E una donna riconosce sempre l’uomo che può diventare il suo padrone.»
«Lo pensi davvero?» mormorò lei.
Ora si era avvicinata a lui, e le sue labbra rosse erano socchiuse, come quell’altra volta… tentatrici, deliberatamente provocanti.
«Lo so,» le disse.
«Se tu fossi soltanto il barbaro, e niente altro,» mormorò lei, «Potrei saperlo anch’io.»
Ora la trappola era addirittura palese. Carse attese, lasciando che il silenzio si addensasse tra loro, carico di attesa e di tensione. Poi le disse, freddamente:
«Sono certo che lo capiresti. Comunque, ora io non sono il barbaro, ma il tuo signore Rhiannon! Ed è tempo di dormire.»
La osservò, provando un cupo divertimento, mentre lei si ritraeva, sconcertata, e forse per la prima volta in vita sua, completamente incapace di affrontare una situazione. Sapeva di avere dissipato il dubbio che lei aveva provato nei suoi confronti… almeno per il momento.
Le disse:
«Puoi ritirarti nella cabina interna.»
«Sì, Signore,» rispose lei, e questa volta non c’era ombra d’ironia nella sua voce.
Si voltò, e attraversò lentamente la cabina. Aprì la porta della cabina interna, e si fermò bruscamente sulla soglia, con la mano appoggiata al battente, ed egli vide apparire sul suo volto un’espressione di disgusto e di odio e di infinito disprezzo.
«Perché esiti?» le chiese.
«Nella cabina è rimasto l’odioso fetore del Serpente,» disse lei. «Preferisco dormire sul ponte.»
«Queste sono parole strane, Ywain. S’San era il tuo consigliere, il tuo amico. Io sono stato costretto a ucciderlo, per salvare la vita al barbaro… ma certamente Ywain di Sark non può detestare i suoi alleati!»
«Non i miei… quelli di Garach!» Si voltò, e si mise di fronte a lui, e vide che la collera provocata dalla sua sconfitta le aveva fatto dimenticare ogni traccia di prudenza.
«Rhiannon o non Rhiannon,» gridò, «Dirò quello che penso da anni. Io odio i tuoi striscianti allievi di Caer Dhu! Li disprezzo e li detesto, con tutto il mio cuore… e ora puoi uccidermi, se vuoi!»
E uscì fuori, sul ponte, sbattendo la porta dietro di sé.
Carse rimase seduto, immobile, dietro il tavolo. Stava tremando, un tremito convulso, inarrestabile, nato dalla tremenda tensione nervosa, e sapeva che tra poco si sarebbe versato del vino, e che quel vino lo avrebbe aiutato a dominare il suo corpo. Ma in quel momento era sbalordito, nello scoprire quanta felicità gli aveva dato il sapere che anche Ywain odiava Caer Dhu.
Verso mezzanotte il vento cadde, e per ore e ore la galera avanzò con la sola spinta dei remi, muovendosi molto più lentamente del normale, perché nella fossa dei rematori la ciurma era diminuita, avendo perduto tutti gli ex-schiavi Khond che ne avevano completato il numero, e che erano rimasti a Khondor.
All’alba, la vedetta avvistò quattro minuscoli punti all’orizzonte, punti che erano gli scafi di quattro imbarcazioni, navi da guerra che venivano da Khondor.