Bogliaz si riprese, dando una splendida dimostrazione di prontezza di spirito e di sangue freddo. Si inchinò profondamente al capo degli armigeri, un gigante dall’enorme barba nera e il naso a becco, che indossava la stessa armatura nera che Carse aveva visto indosso ai soldati di Sark che avevano fatto irruzione nella piazza.
«Illustre Scyld, mio signore!» disse Boghaz, in tono umile e pomposo a un tempo. «Mi rammarico che la natura mi abbia fornito di un corpo così corpulento, rendendomi perciò lento e tardo nei movimenti, altrimenti per nulla al mondo avrei dato a lor signori il disturbo di abbattere la mia povera porta, soprattutto…» il suo faccione da luna piena era lo specchio della più completa innocenza, «Soprattutto perché già stavo per venire a cercarvi.»
Con un gesto ampolloso, indicò Carse, legato al pavimento.
«L’ho conservato per voi, vedete,» disse. «Sano e salvo.»
Scyld si mise i pugni sui fianchi, alzò la barbaccia appuntita nell’aria, e scoppiò in una cavernosa risata. Alle ’sue spalle, i soldati che erano entrati gli fecero eco, imitati ben presto dalla folla di Jekkara che li aveva seguiti, e che era rimasta fuori della porta. Ben presto, l’aria fu scossa dal ruggito di quella poderosa risata.
«L’ha conservato sano e salvo,» disse Scyld, «Per noi!»
E rise ancora più forte, imitato da tutti gli altri.
Scyld, ricomponendosi, fece due passi avanti, fermandosi proprio davanti a Boghaz.
«Perciò suppongo,» disse, «Che sia stata la tua lealtà a indurti in un primo tempo a strappare ai miei uomini questo cane Khond, facendolo scomparire proprio sotto i loro nasi.»
«Mio signore,» protestò Boghaz. «Questa plebaglia lo avrebbe ucciso.»
«È per questo che i miei uomini sono intervenuti… perché lo volevamo vivo. Un Khond morto non ci serve a nulla. Ma tu dovevi essere servizievole, Boghaz. Per fortuna, sei stato visto.» Allungò la mano, e toccò gli ornamenti rubati, che Boghaz portava intorno al collo. «Sì,» disse Scyld. «È stata una vera fortuna.»
Con un gesto fulmineo, strappò il collare e la cintura dal collo del grasso Valkisiano, ammirò il complesso gioco di luci sui gioielli, e poi infilò il tutto nella sua borsa. Fatto questo, si avvicinò al letto, dove la spada era parzialmente nascosta sotto le .coperte. La tirò fuori, saggiò il peso e l’equilibrio della lama, esaminò con noncuranza l’incisione sull’acciaio, e sorrise.
«Una vera arma,» disse. «Bella come la Signora… e altrettanto mortale.»
Usò la punta della spada per tagliare le corde che tenevano legato al pavimento Carse.
«In piedi, Khond,» disse, e fece seguire alle parole un incoraggiamento, con la punta del suo calzare.
Barcollando, Carse si alzò in piedi, e scosse il capo, per schiarirsi la mente. Poi, prima che i soldati potessero fermarlo, affondò un pugno tremendo nel grasso ventre di Boghaz.
Scyld scoppiò di nuovo a ridere. Aveva una risata grassa, profonda, da marinaio. Continuò a ridacchiare, mentre i suoi soldati allontanavano Carse dal grasso Valkisiano, che gemeva e ansimava, piegato in due per il dolore.
«Ora non c’è bisogno di questo,» gli disse Scyld. «Ne avrete tutto il tempo. Sapete, voi due avrete occasione di vedervi molto spesso, d’ora in poi.»
Carse vide che il volto di luna piena di Boghaz impallidiva, per l’effetto della comprensione di qualcosa di orribile. «Mio signore,» balbettò il Valkisiano, ancora ansimando. «Io sono un uomo leale. Io desidero soltanto servire gli interessi di Sark e di Sua Altezza, la Signora Ywain.» Pronunciando quel nome, s’inchinò profondamente. «Naturalmente,» disse Scyld. «E come potresti servire meglio Sark e la Signora Ywain, allo stesso tempo, che manovrando un remo della galera da guerra di Sua Altezza?» Boghaz stava impallidendo a vista d’occhio. «Ma mio signore…»
«Come?» gridò Scyld, aspramente. «Osi forse protestare? Dov’è finita la tua lealtà, Boghaz?» Brandì alta la spada, facendo un passo avanti. «Tu sai bene qual è la punizione per i traditori!»
Gli altri soldati parevano sul punto di scoppiare, tanto era lo sforzo che facevano per reprimere le risa.
«No!» protestò raucamente Boghaz, con voce tremante. «Io sono un suddito leale di Sua Altezza. Nessuno potrà accusarmi di tradimento! Io desidero soltanto servire…» s’interruppe di colpo, rendendosi palesemente conto di essere stato tradito dalla sua stessa lingua.
Scyld vibrò un tremendo colpo, con il piatto della spada, sull’enorme posteriore di Boghaz.
«E allora, va’ a servire Sark e la tua Signora!» Boghaz fece un balzo avanti, ululando di dolore, e i soldati lo afferrarono. Entro pochi secondi, lui e Carse vennero incatenati assieme.
Con aria compiaciuta, Scyld infilò la spada di Rhiannon nel fodero della sua spada, che aveva lanciato a un ’soldato, perché gliela custodisse. Con il petto in fuori e l’aria tronfia, uscì per primo dalla capanna.
Per la seconda volta, Carse si ritrovò a percorrere le strade di Jekkara, ma questa volta di notte, e in catene, e privo dei suoi gioielli e della sua spada.
Prigionieri e soldati si diressero verso i moli del palazzo, e una sensazione fredda, oscura, di irrealtà, sopraffece ancora una volta Carse, facendogli scorrere un lungo, bizzarro brivido in tutto il corpo, alla vista delle alte torri splendenti di luci, e dei vaghi fuochi bianchi del mare, che scintillava di inesplicabile fosforescenza fino ai confini tenebrosi dell’orizzonte.
Tutto il quartiere che circondava il palazzo brulicava di schiavi, di uomini armati che indossavano la nera armatura di Sark, di cortigiani e di donne e di giocolieri e giullari. Quando passarono sotto al palazzo, udirono suoni di musica e di risate.
Boghaz parlò a Carse, tenendo la voce bassa, e in tono affannoso e urgente:
«Questo stupido non ha riconosciuto la spada. Non lasciarti sfuggire una sola parola sul tuo segreto… se non vuoi che ci conducano entrambi a Caer Dhu, per interrogarci, e sai bene cosa significa questo!» Il suo corpo enorme fu scosso da un lungo brivido.
Carse era troppo stordito per rispondere. Come una nera ondata, la reazione alla tremenda fatica, alla stanchezza, e a quel mondo incredibile che ora lo circondava, stava scendendo sul suo corpo. Erano ormai troppe ore che lui non riposava, e troppi eventi erano accaduti, ed era stato troppo grande e sconvolgente il mutamento che aveva sconvolto il corso della sua vita. Ora sentiva soltanto un’immensa stanchezza, che gli permetteva soltanto di camminare, un piede davanti all’altro, un piede davanti all’altro, mentre le catene che lo legavano a Boghaz rimbombavano pesantemente sui ciottoli.
Boghaz proseguì a voce alta, a beneficio dei soldati che li scortavano:
«Tutto questo splendore è in onore della Signora Ywain di Sark! Una principessa nobile e grande come suo padre, Re Garach! Servire nella sua galera sarà un privilegio.»
Scyld fece udire una risata beffarda.
«Ben detto, Valkisiano! E la tua fervida lealtà sarà degnamente premiata. Questo privilegio ti verrà concesso per molto tempo.»
La nera galera da guerra torreggiava cupa davanti a loro… era quella la loro destinazione. Carse vide che era lunga, snella, con la buca dei rematori che divideva il ponte, al centro, e un basso castello di prua.
Molte fiaccole illuminavano il basso ponte di poppa, e dalle finestre delle cabine sottostanti usciva un riverbero di luci rossastre. Là erano riuniti numerosi soldati di Sark, che scherzavano rumorosamente tra loro, tra grida e risate.
Ma nella lunga fossa dei rematori, al centro, non c’era il chiarore delle fiaccole, né il suono di voci allegre. Là c’erano soltanto l’oscurità e il silenzio.
Giunto ormai vicino alla galera, Scyld gridò, con voce roboante:
«Ehilà, Callus!»
Un uomo massiccio uscì dall’ombra della fossa, e scese la passerella con una disinvoltura che veniva da una lunga pratica. Nella destra stringeva una fiaschetta di cuoio, e nella sinistra uno scudiscio nero… un oggetto dalle molte sferze, appiattito e consumato dall’uso.
Salutò Scyld agitando la fiaschetta, senza disturbarsi a parlare.
«Porto rifornimenti per i remi,» disse Scyld. «Prendili.» Ridacchiò. «E bada che siano incatenati allo stesso remo!»
Callus guardò Carse e Boghaz, poi sorrise, pigramente, e agitò la fiaschetta.
«Avanti, carogne,» grugnì, e vibrò un colpo di scudiscio.
Carse si fermò per un momento, guardando Callus con gli occhi arrossati per la stanchezza, ma ugualmente fieri e rabbiosi, e mandò un suono sordo, minaccioso. Boghaz si affrettò ad afferrare la spalla del terrestre con dita forti, e a scuoterlo con decisione.
«Vieni, stupido!» disse. «Riceveremo abbastanza scudisciate, senza che tu abbia bisogno di chiederne altre!»
Trascinò Carse con lui, giù, nella fossa dei rematori, e poi lungo la stretta passerella che formava una corsia tra le file dei banchi.
Il terrestre, esausto per le emozioni e la stanchezza fisica, si accorse confusamente, vagamente, dei volti che si giravano a guardarli, del sordo borbottio delle catene e dell’odore di sentina. Vide a malapena le bizzarre teste rotonde delle due creature pelose che dormivano sulla passerella, e che si scostarono per lasciarli passare.
L’ultimo banco di tribordo, proprio di fronte al castello di prua, aveva soltanto un uomo incatenato al remo, un uomo che in quel momento era addormentato, mentre gli altri due posti erano vuoti. I soldati rimasero di guardia, fino a quando Boghaz e Carse non furono saldamente incatenati al remo a loro volta.
Poi, i soldati se ne andarono, guidati da Scyld. Callus fece schioccare lo scudiscio, producendo un suono secco e violento come uno sparo, apparentemente per ammonire tutti i rematori della sua vigilanza, e se ne andò a prua.
Boghaz diede una gomitata a Carse, nelle costole. Poi si curvò su di lui, e cominciò a scuoterlo. Ma il terrestre era in un regno nel quale ciò che Boghaz voleva dirgli non aveva più importanza; si era addormentato di colpo, profondamente, chino sul suo remo.
Carse sognava. Sognava di rivivere quel pauroso tuffo d’incubo, attraverso gli infiniti ululanti della nera bolla scintillante, celata nella stanza più segreta della Tomba di Rhiannon… Come allora, lui stava precipitando da altezze incalcolabili, verso abissi incommensurabili, abissi neri e misteriosi e infiniti come il tempo, come il mondo fatto di nulla che si apriva oltre i confini dell’universo. Cadeva, cadeva…
E di nuovo, ebbe la sensazione di una presenza, una presenza forte e viva, che era vicinissima a lui; in quel tuffo spaventoso, gli parve che qualcosa stesse tentando di ghermire il suo cervello, con un’ansia tenebrosa e orrenda.
«No!» bisbigliò raucamente Carse, nel sogno. «No!»
Bisbigliò ancora il suo rifiuto… il rifiuto di qualcosa che la nera presenza gli stava chiedendo, qualcosa di orribile e misterioso e velato.
Ma la presenza faceva udire di nuovo la sua domanda, ed era una supplica, una invocazione, una preghiera, sempre più urgente, sempre più insistente, e qualunque fosse la natura della sua domanda, della sua supplica, ora pareva infinitamente più forte di quella intuita nella Tomba di Rhiannon. Sgomento, Carse lanciò un grido di terrore.
«No, Rhiannon!»
E improvvisamente scoprì di essere sveglio, e di fissare confusamente, con occhi fissi e offuscati, il banco e il remo illuminati dal soffuso, contrastante chiarore delle lune.
Callus e il sorvegliante stavano avanzando lungo la passerella, distribuendo grandi colpi di frusta tra gli schiavi, per svegliarli. Boghaz stava fissando Carse, con una strana espressione sul volto di luna piena.
«Tu hai invocato il nome del Maledetto!» disse.
Anche l’altro schiavo incatenato al loro banco lo fissava, e così pure gli occhi luminosi delle due creature pelose incatenate alla passerella. Quegli occhi erano fissi su di lui, e c’era, in essi, qualcosa di bizzarro, una domanda inespressa, o forse un’oscura apprensione.
«È stato soltanto un brutto sogno,» borbottò Carse. «Nulla di più.»
Fu interrotto da un sibilo, seguito da uno schiocco e da un dolore bruciante, lancinante, alla schiena.
«Bada al tuo remo, carogna!» ruggì la voce di Callus, dall’alto della passerella.
Carse emise un grido strozzato, rabbioso come quello di una tigre, ma Boghaz fu lesto a chiudergli la bocca con una delle sue mani enormi e gonfie.
«Calma!» lo avvertì. «Calma!»
Carse riuscì a dominarsi, ma non fece in tempo a evitare una seconda, bruciante sferzata. Callus era sulla passerella, in piedi, e lo dominava dall’alto della sua statura, e lo guardava sogghignando.
«Bisognerà avere cura di te,» disse. «Molta cura… e bisognerà anche ricordarti spesso che c’è qualcuno che ti sorveglia!»
Poi sollevò il capo, e gridò a gran voce, rivolgendosi a tutti i rematori.
«Va bene, feccia del mare, carogne! Ora siete svegli! Salperete con la marea, per Sark, e scorticherò vivo il primo che perderà la battuta!»
In alto, sul ponte, i marinai sciamavano tra le sartie. Le grandi vele cadevano dagli alberi, oscure nel chiarore delle lune.
Su tutta la nave cadde allora un silenzio cupo, gravido d’attesa, nel quale tutti parvero trattenere il fiato e prepararsi. Su una piattaforma, in fondo alla corsia, uno schiavo si teneva pronto a battere su un grande tamburo di pelle.
Poi, nel silenzio, si udì una voce stentorea che impartiva un ordine. Il pugno del tamburino si chiuse, e calò sullo strumento.
Lungo tutta la fila dei rematori, le grandi pale si alzarono, s’immersero nelle acque fosforescenti, risalirono, e s’immersero di nuovo, prendendo un ritmo costante, monotono, sempre uguale, scandito dal battito cupo e monotono del tamburo, e dagli schiocchi crudeli, continui dello scudiscio. In qualche modo, Carse e Boghaz trovarono ben presto il ritmo, e riuscirono a fare ciò che dovevano fare.
La fossa dei rematori era troppo profonda, perché coloro che si trovavano all’interno potessero vedere cosa accadeva fuori, se non per le fuggevoli immagini che si riuscivano a scorgere dai portelli dei remi. Ma Carse udì le grida festanti della folla radunata sui moli, che salutava, mentre la galera da guerra di Ywain di Sark salpava l’ancora, dirigendosi verso il mare aperto.
La brezza notturna era leggera, e le vele non riuscivano a gonfiarsi, completamente. Il tamburo scandiva il ritmo, sempre più veloce, sempre più veloce, facendo sollevare e abbassare i lunghi remi, e facendo incurvare le schiene sudate e coperte di cicatrici degli schiavi, piegati nella loro terribile, monotona fatica.
Carse sentì sollevarsi lo scafo, al contatto delle prime onde del mare aperto, fuori della protezione della rada. Attraverso il suo portello del remo, egli riuscì a scorgere una fugace immagine di un oceano gonfio e inquieto, una grande distesa di fuoco latteo.
Curvo sul remo della galera reale, egli era diretto a Sark, attraverso il Mare Bianco di Marte.